Tutta l’attività artistica rinascimentale si svolse con l’appoggio delle corti dove i principi fecero a gara nell’accogliere e nel favorire letterati e filosofi, artisti e scienziati. Essi praticavano il "mecenatismo", fenomeno che prende il nome da Gaio Mecenate, consigliere dell’imperatore Augusto, che a Roma era diventato celebre come protettore di letterati.
I principi mecenati si preoccupano di dare ai propri figli un’educazione perfetta, di creare pubbliche biblioteche, di istituire corsi di lingua e letteratura greca e latina affidati a professori fatti venire dalle più celebri università, ma soprattutto di abbellire le loro città e i loro palazzi con i massimi capolavori contemporanei.
Firenze dei Medici, Milano dei Visconti, Venezia, Roma dei papi e Napoli degli Aragonesi divennero famose come centri di cultura e di rinnovamento, ma anche città più piccole come Urbino dei Montefeltro, Mantova dei Gonzaga o Ferrara degli Estensi furono sede di corti, dove trovarono ospitalità gli uomini più grandi del tempo.
A determinare tanta generosità nei principi fu soprattutto la certezza che le opere d’arte potevano diventare per loro un prezioso e insostituibile strumento di propaganda: l’ambizione di circondarsi di artisti e di letterati e di ospitarli e proteggerli perché potessero tranquillamente lavorare per la loro fama e la loro gloria fu vivissima in tutti i grandi signori italiani. D’altra parte non va dimenticato che numerosi letterati e artisti, uomini d’arme e diplomatici italiani furono splendidamente ospitati presso le corti dei sovrani e dei principi europei, ove portarono le nuove idee e i nuovi modi di vita nati in Italia: ecco perché il mecenatismo letterario e artistico, verificatosi nelle signorie italiane, finì per diffondersi sia pure in modi e forme diverse negli altri paesi europei.
La funzione simbolica della reggia
"Erano dunque tutte l’ore del giorno divise in onorevoli e piacevoli esercizi così del corpo come dell’animo". Il palazzo del principe è un orologio che scandisce solo istanti pregiati, mai momenti mediocri. Così lo sogna Baldassar Castiglione, l’autore del Cortegiano (1528), sottolineando che non deve ospitare alcuna cosa che non sia "rarissima ed eccellente".
La dimora del signore deve rispondere alla triplice funzione d’assicurare il governo dello stato, trasmettere un’immagine di grandezza e magnificenza e procurare ad una nuova élite ingegnose e piacevoli giornate, al riparo da rozzezza, noia e ignoranza.
Il palazzo è il cuore della civiltà del Rinascimento: per assolvere le proprie funzioni si arricchisce di nuovi ambienti come la biblioteca, i giardini e il serraglio con animali esotici, la sala delle collezioni, con prodigi di natura accanto a tesori d’arte, e lo studiolo, prezioso come quello di Federigo di Montefeltro, intimo e dotto come quello mantovano d’Isabella d’Este.
Non sono solo i signori profani a volere dimore principesche, ma anche i papi, a cominciare da Niccolò V, che si vale dell’Alberti nel ristrutturare i palazzi pontifici e fonda la biblioteca vaticana, sino all’ambizioso progetto di Giulio II. Il palazzo rinascimentale italiano è concettualmente all’origine delle regge che sorgono in tutta Europa, culminando in Versailles
La dinastia dei Montefeltro, così chiamati dal nome del loro feudo stretto tra Toscana, Romagna e Marca Anconetana, fa risalire il proprio titolo comitale al Barbarossa, ma inizia a far parlare di sé nel 1234 con Buonconte, divenuto signore di Urbino. Ghibellini, partigiani dell’impero, i Montefeltro sono accesi nemici del pontefice.
Nel 1322 Giovanni XXII lancia una crociata contro Federigo di Montefeltro, reo di aver appoggiato la discesa in Italia d’Enrico VII nella sua qualità di vicario imperiale; la rivolta di Urbino si conclude col suo linciaggio. Dopo molte traversie, la signoria dei Montefeltro è riconosciuta anche dalla Santa Sede; nel 1404 Guidantonio, nominato vicario della chiesa, combatte a fianco del papa contro i vicini e tradizionali rivali, i Malatesta.
Egli sfrutta la rivalità fra i sommi poteri medievali, in grave crisi, per ritagliarsi un proprio spazio, ottenendo il riconoscimento della signoria su Urbino, per quarant’anni capitale intellettuale d’Italia.
Il più grande dei Montefeltro è Federigo III (1422-1482), figlio naturale di Guidantonio e successore di Oddantonio (primo erede in quanto figlio legittimo); nominato duca di Urbino nel 1444 da Sisto IV, politico illuminato e mecenate sinceramente imbevuto di ideali umanistici, è uno dei migliori condottieri italiani. Serve sotto Francesco Sforza (1444-1447), Firenze (1447-1451), il re di Napoli e soprattutto papa Pio II.
Al servizio del pontefice conquista il grosso dei domini del vicino e rivale Sigismondo Pandolfo Malatesta (1462-1463), e ne ottiene la signoria, triplicando l’estensione del proprio stato. Dopo la morte di Sigismondo Pandolfo, però, protegge la signoria di Roberto Malatesta contro le mire di Paolo II.
Capo della Lega Italica contro Venezia, batte Bartolomeo Colleoni, altro grande condottiero del tempo, a Molinella nel 1467.
Cinque anni dopo Firenze lo incarica di domare la rivolta di Volterra, e lui se ne impadronisce dopo breve assedio, ma non partecipa, a suo dire, al cruento saccheggio perpetrato dei vincitori.
Grande mecenate, allievo di Vittorino da Feltre, attorniato da umanisti e artisti del calibro di Piero della Francesca e Leon Battista Alberti, possiede la più fornita biblioteca occidentale.
Il suo palazzo ducale, costruito da Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini, è ornato da arazzi fiamminghi, da capolavori di pittura e dallo studiolo dalle tarsie finissime realizzate su disegno del Botticelli.
La sua corte è talmente elegante e ricca di vita intellettuale che Baldassar Castiglione la elegge a paradigma delle corti rinascimentali, ambientandovi il suo Cortegiano e chiamando Federigo "luce d’Italia".
Nel 1482 gli succede il figlio Guidubaldo, che nel 1502 vede il ducato temporaneamente invaso dalle truppe del Valentino. Nel 1508, morto Guidubaldo senza eredi diretti, il ducato passa al nipote Francesco Maria della Rovere, che trasferisce la sede ducale a Pesaro.
Nel 1516 Lorenzo de’ Medici, figlio di Piero il Fatuo e nipote del Magnifico, forte dell’assenso dello zio Leone X, entra impugnando il gonfalone della Chiesa nelle terre del ducato, e le occupa togliendo stato e titolo a Francesco Maria.
Questi, indomito, riconquista palmo a palmo il territorio combattendo contro Prospero Colonna, avvicendatosi a Lorenzo nel comando delle truppe pontificie, sino ad essere reintegrato nel ducato da Adriano VI. Dopo il governo di Guidubaldo II (1538-1574), morto senza eredi, nel 1631, il figlio Francesco Maria II, ha luogo la devoluzione del ducato al papa e la sua integrazione nello Stato della Chiesa.
Baldassar Castiglione e il palazzo d'Urbino
Per afferrare quale sia il significato del palazzo principesco del Quattrocento, più che riferirci a concreti esempi architettonici (spesso alterati da interventi e rimaneggiamenti), dobbiamo idealmente far tappa a Urbino, dove Federigo da Montefeltro costruisce la propria dimora e la correda di tutto ciò che compete alla residenza della Ragione, della Bellezza e della Cortesia - perché questi, oltre al Potere, sono gli inquilini della casa del principe.
Ecco come, nelle prime pagine del suo Libro del Cortegiano, scritto fra il 1507 e il 1508, perfezionato fra il 1513 e il 1516, pubblicato a stampa nel 1528 a Venezia, Baldassar Castiglione ci parla del palazzo ducale, dopo aver lodato "la piccola città di Urbino; la quale, benché tra monti sia, e non così ameni come forse alcun’altri che veggiamo in molti lochi, pur di tanto avuto ha il cielo favorevole, che intorno il paese è fertilissimo e pien di frutti; di modo che, oltre alla salubrità dell’aere, si trova abundantissima d’ogni cosa che fa mestieri [ossia che serve] per lo vivere umano.
Ma tra le maggior felicità che se le possono attribuire, questa credo sia la principale, che da gran tempo in qua sempre è stata dominata da ottimi Signori". Su tutti, Federigo, "il quale a’ dì suoi fu lume d’Italia": "Questo tra l’altre cose sue lodevoli, nell’aspero sito d’Urbino edificò un palazzo, secondo l’opinione di molti, il più bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni opportuna cosa sì ben lo forni, che non un palazzo, ma una città in forma di palazzo esser pareva; e, non solamente di quello che ordinariamente si usa, come vasi d’argento, apparamenti di camere di ricchissimi drappi d’oro, di seta e d’altre cose simili, ma per ornamento v’aggiunse una infinità di statue antiche di marmo e di bronzo, pitture singularissime, instrumenti musici d’ogni sorte; né quivi cosa alcuna volse, se non rarissima ed eccellente.
Appresso con grandissima spesa adunò un gran numero di eccellentissimi e rarissimi libri greci, latini ed ebraici, quali tutti ornò d’oro e d’argento, estimando che questa fusse la suprema eccellenza del suo magno palazzo".
Lo studiolo urbinate
L’ambiente medievale della wunderkammer (camera delle meraviglie), casuale e disordinato nella sua struttura e nell’ordinamento, nel Rinascimento lascia il passo alla perfetta organizzazione razionale dello "studiolo", dove il nuovo signore si dedicava allo studio delle humanae litterae, alla meditazione e alla contemplazione dei suoi tesori più preziosi.
Dei numerosi studioli che furono realizzati durante il Rinascimento, due in particolare emergevano per ricchezza e preziosità delle decorazioni o degli oggetti che vi erano contenuti: lo studiolo di Federico da Montefeltro a Urbino e quello, purtroppo perduto, di Isabella d’Este a Mantova.
Le pareti dello studiolo di Federico sono rivestite di pannelli lignei a tarsie, che fingono con spettacolare effetto illusionistico armadi e scaffalature con libri, strumenti musicali e scientifici, oggetti e nicchie con le Virtù teologali e con lo stesso principe raffigurato con una toga di foggia antica.
Sopra le tarsie erano disposti su due registri vari ritratti di Uomini Illustri eseguiti da Giusto di Gand (notizie tra il 1460 e il 1475) e da Pedro Berruguete (1450 ca.-1504 ca.). Le tarsie vennero realizzate nella bottega fiorentina di Baccio Pontelli (1450-1495), su disegni di vari artisti tra cui il Botticelli e forse Francesco di Giorgio Martini (1439-1502).
Luoghi particolarmente propizi alla ricerca di sé furono anche i piccoli giardini che si aprivano nei siti più protetti e riparati dei palazzi signorili. Delimitati da bassi steccati di legno, da muretti con alberi da frutto addossati, racchiudevano aiuole di fiori o erba fiorita, sedili di pietra, fontane e vasche, sentieri stretti e pergolati di rose o di vigna. Ecco il giardino chiuso, luogo magico e solitario, riservato alla meditazione, alla lettura, a un incontro d’amore o di cortesia
L’orizzonte della cultura umanistica italiana non si limita all’amore per le lettere, alle traduzioni dei classici, a collazioni e commenti di testi antichi. Con Piero della Francesca, figura d’irripetibile fascino, e con il suo allievo Luca Pacioli, l’Umanesimo maturo, fuori di Firenze, incontra la matematica, confermando anche nel campo delle arti visive la propria ambizione di cogliere neoplatonisticamente la sostanza razionale del reale, e di nobilitare l’uomo esaltando la natura divina che traluce nelle sue facoltà superiori.
La culla di questa cruciale operazione culturale è la corte ducale di Urbino, uno degli ambienti umanistici più avanzati, centro dell’arte "intellettuale" d’ispirazione matematica e razionale. Il palazzo dei Montefeltro è teatro di ardite sperimentazioni prospettiche (di segno totalmente diverso rispetto alla concezione propria degli artisti fiorentini) ispirate al culto per l’armonia delle proporzioni e per la bellezza ideale delle figure geometriche.
Nella pittura di Piero, governata da una poetica rigorosa basata sull’equilibrio, uomo e natura appaiono ricreati in assoluto e reciproco accordo proporzionale, secondo leggi razionali che riflettono l’originaria armonia del creato. La sua sintesi di forma, colore e luce rivela la perfezione della realtà naturale, la divina bellezza dell’universo, concepito come continuum armonico nel quale la figura umana si inserisce naturalmente come elemento dominante.
L’opera dell’artista di Sansepolcro, anticipando quella di Leonardo da Vinci, aspira a cogliere il momento unificante di scienza, natura e arte, perseguendo un ideale universalistico di identificazione dell’arte con la totalità del sapere.
Grazie all’armonia delle composizioni, alle geometrie rigorose e alla nitida luminosità che filtra la lezione fiamminga, Piero va oltre il realismo e il plasticismo del primo Rinascimento. L’immagine dipinta non dev’essere per lui rappresentazione drammatica dei sentimenti, ma espressione del dominio razionale dell’artista sugli elementi figurativi.
Nei suoi lavori, l’aspetto unificante è dato dalla luce, che raggruppa in una unità superiore i piani dell’azione enumerati dalla prospettiva, e dal ritmo architettonico, che lega tra di loro le parti e l’insieme come nei progetti di Leon Battista Alberti. La concezione dello spazio prospettico di Piero avrà notevole influsso, oltre che sulla scuola pittorica veneziana, anche sulle architetture del Laurana e di Bramante e sull’arte di Raffaello.
Da Sansepolcro ad Arezzo
Piero della Francesca nasce fra il 1415 e il 1420 a Sansepolcro (allora Borgo San Sepolcro), nell’alta Valtiberina. Niente sappiamo del suo apprendistato e dei rapporti che intrattiene con Domenico di Bartolo, le cui opere ha forse modo di ammirare a Siena.
Lo ritroviamo a fianco di Domenico Veneziano e Alessio Baldovinetti a Firenze, dove con tutta probabilità ha modo di misurarsi con l’indagine prospettica di Masaccio, Brunelleschi e Paolo Uccello, e di studiare, inoltre, il Trattato della pittura scritto nel 1436 da Leon Battista Alberti.
La prima traccia concreta della sua attività è un documento del 7 settembre 1439 relativo al pagamento a Domenico Veneziano e a Piero, verosimilmente suo collaboratore, degli scomparsi affreschi di Sant’Egidio in Firenze. Tornato a Sansepolcro, dov’è consigliere del popolo nel 1442, l’11 gennaio 1445 riceve la commessa del Polittico della Misericordia (oggi nel locale museo), nel quale è palese la meditazione sugli esempi di Masaccio.
In esso, come rileva l’Argan, "i rapporti di grandezza tra gli scomparti sono modulari. Ogni figura occupa e misura esattamente la cubatura spaziale compresa tra il piano frontale e piano di fondo; questo prisma di spazio è riempito dalla luce che investe le figure ed è riflessa dal fondo dorato; l’illuminazione, dunque, costituisce il volume".
Senza aver completato il Polittico — ciò avverrà circa quindici anni dopo, con l’esecuzione della tavola centrale, la Madonna della Misericordia — sul quale si registrano interventi d’altra mano nei piccoli santi laterali e nella predella, oltre a pesanti manipolazioni e amputazioni, Piero parte nel 1450 per Ferrara. Entro questo anno ha realizzato anche il Battesimo di Cristo della National Gallery, nel quale alcuni critici vedono uno schema trinario variamente applicato.
L’emblematico dipinto, perfettamente bilanciato nel rigore geometrico della composizione che la fissità della luce sottolinea, mette a frutto gli elementi più raffinati dell’Umanesimo pittorico e le formulazioni più avanzate della cultura rinascimentale, modulando un ritmo solenne ispirato alla razionale maestà dell’arte antica.
Dopo Ferrara, dove orna il castello estense con affreschi oggi perduti, incontrandovi nel 1449 l’arte del fiammingo Rogier van der Weyden, è a Venezia e quindi a Rimini.
Qui nel 1451 realizza, nel Tempio Malatestiano, l’affresco cerimoniale con Sigismondo Pandolfo Malatesta davanti a san Sigismondo. Il soggiorno riminese mette Piero a contatto con l’opera dell’Alberti, stimolando il suo interesse per l’architettura. Risalgono senza dubbio a queste peregrinazioni i primi contatti con la corte urbinate.
Dopo la morte di Bicci di Lorenzo (1452), Piero ottiene l’incarico di completare il ciclo di affreschi in San Francesco d’Arezzo: qui nasce il suo immortale capolavoro, recentemente restaurato, le Storie della Vera Croce, finite d’affrescare il 20 dicembre 1466 (non senza che l’artista assuma nel frattempo altre commesse che lo costringono a temporanee assenze).
Il ciclo della Vera Croce, basato in gran parte sulla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, è emblematico della tendenza di Piero a sintetizzare le immagini nei loro volumi essenziali, isolandole in uno spazio omogeneo, in un’esaltazione eroica della loro imperturbabile grandezza fisica e morale. Come sottolinea Lionello Venturi, il progressivo diradarsi delle figure dal basso verso l’alto, nelle tre fasce della composizione, "in modo da dare all’occhio una sensazione di leggerezza", dimostra "l’intento di Piero di dare alle sue figurazioni una funzione architettonica".
Da Urbino a Sansepolcro
L’11 ottobre 1454, a Sansepolcro, mentre sta attendendo al ciclo pittorico aretino, Piero riceve la commessa del Polittico di Sant’Agostino (giuntoci smembrato e incompleto), quindi dipinge il Polittico di Sant’Antonio oggi a Perugia. Il 12 aprile 1459, a Roma, riceve il pagamento dei dipinti eseguiti nella camera di Pio II in Vaticano (coperti in seguito dagli affreschi raffaelleschi da cui la camera trae il nome attuale di "stanza d’Eliodoro").
Attorno a questa data si situano capolavori come la Flagellazione (vedi sotto). Mentre è ancora impegnato ad Arezzo, dove esegue anche una Maddalena, dipinge a Monterchi la Madonna del Parto (verso il 1460 ca.), e a Sansepolcro la celeberrima Resurrezione (verso il 1463?). Nella ricordata data del 20 dicembre 1466, ad Arezzo, Piero riceve la commessa dello stendardo della Confraternita dell’Annunziata, terminato nel 1468. Nel 1469 è a Urbino dove è incaricato di dipingere l’Eucaristia di Federigo, della quale Paolo Uccello realizza la predella, un’opera che però non eseguirà (sarà Giusto di Gand a realizzarla). Il suo rapporto con la corte urbinate si protrae nel tempo: ne nascono altri capolavori, quali i ritratti "fiamminghi" di Federigo da Montefeltro e della moglie Battista Sforza.
L’effigie della gentildonna è dipinta a distanza di tempo da quella del marito, alla morte della duchessa: in tale occasione Piero dipingerà anche la cosiddetta Pala di Brera (1472-74). Come nota l’Argan, anche in questi ritratti Piero mostra "di poter ridurre a geometria e misura, e mettere in proporzione perfino con il lontanissimo e luminoso paese, anche le irregolarità del profilo, i ricciolini uncinati dei capelli, le verruche del volto, le fini rughe delle palpebre".
La pala con Madonna, santi e Federigo da Montefeltro in preghiera, meglio nota come Pala di Brera, è considerata il manifesto dell’Umanesimo matematico trionfante alla corte urbinate. L’architettura dipinta, totalmente centrata su se stessa, è protagonista dell’immagine insieme alle figure cui è legata da un complesso gioco compositivo e simbolico (la sensazione di profondità dell’opera sarebbe ancora più potente se essa non fosse stata scorciata e appiattita). L’uovo che campeggia sopra la testa della Vergine, carico di significati simbolici, è l’emblema e la dimostrazione della proporzione universale, cui niente sfugge, nemmeno un oggetto tanto piccolo.
Il termine medio tra il "minimo" dell’uovo e il "massimo" dell’abside, come nota l’Argan, è la forma della testa umana della Madonna. Emblematicamente, la stessa forma si presenta, in grandezze diverse, in un oggetto della natura, l’uovo, nella persona umana, e infine, rovesciata, nella concavità dell’architettura.
Il pensiero che domina la Pala di Brera è lo stesso di Platone nel Timeo, di Archimede e di Euclide: l’artista dà alle forme la perfezione matematica dei solidi regolari, mentre la prospettiva governa i rapporti tra lo spazio, il colore e la luce. La ricerca artistica e intellettuale della pala si rispecchia anche nella Madonna col Bambino e due angeli o Madonna di Senigallia, conservata a Urbino, anch’essa meditazione sulla proporzione che domina sia i valori massimi (la figura della Madonna) che minimi (i monili, i capelli degli angeli, gli oggetti sulle scansie) della composizione.
Nel 1473 Piero è nel borgo natio per dipingere i perduti affreschi della Badia, che gli vengono pagati nel 1474. È di nuovo a Sansepolcro nel 1478, quando riceve la commessa di una Vergine per la Confraternita della Misericordia, e fra il 1480 e il 1482, quando è a capo della Confraternita di San Bartolomeo. Il 22 aprile dello stesso anno affitta una casa a Rimini: il 5 aprile 1487 fa testamento. Afflitto da cecità, muore a Sansepolcro il 12 ottobre 1492, mentre Colombo calca il suolo di un nuovo mondo.
Il mistero della ''Flagellazione''
Qual è la cronologia esatta del capolavoro di Piero della Francesca conservato alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino? Non è dato saperlo con precisione. Probabilmente la realizzazione del dipinto è da collocarsi durante o subito dopo il viaggio a Roma compiuto nel 1459, durante l’esecuzione del ciclo aretino della Vera Croce.
Qual è il suo significato? Come mai l’episodio della Passione che dà il titolo al dipinto è relegato in secondo piano, e dinanzi a noi, all’aperto, inquadrati in una quinta architettonica, vediamo tre personaggi assorti in conversazione e apparentemente disinteressati al tragico evento che ha luogo alle loro spalle?
Per il critico Kenneth Clark il capolavoro urbinate rappresenta allegoricamente le avversità della Chiesa, acuite dalla caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi Ottomani: le tre figure sulla destra sarebbero alcuni dei partecipanti al concilio di Mantova del 1459.
Per Marilyn Aronberg Lavin, al contrario, esso raffigura il trionfo della gloria cristiana. Dagli scritti di alcuni cronisti locali risulterebbe invece che il quadro istituisse un parallelo tra il martirio di Cristo e la tragica fine di Oddantonio di Montefeltro, fratellastro del duca Federigo, assassinato nel 1444 in una congiura; il defunto, rappresentato a piedi nudi, starebbe fra i due cattivi consiglieri ritenuti responsabili della sua uccisione, Manfredo del Pio e Tommaso dell’Agnello.
Una lettura rifiutata da molti critici, dal Gombrich al Gilbert. L’interpretazione di Carlo Ginzburg, invece, sintetizza le precedenti, confermando il nesso con il concilio di Mantova; il dipinto rappresenterebbe una sorta di appello rivolto al duca Federigo perché appoggi la crociata promossa da Pio II contro i turchi (poi vanificata dalla morte del pontefice nel 1462). I tre personaggi in primo piano sarebbero, da destra, Giovanni Bacci, finanziatore del dipinto, Buonconte di Montefeltro, figlio naturale di Federigo e allievo del Bessarione, morto di peste nel 1458, e il Bessarione stesso, dignitario della Chiesa d’Oriente, acceso sostenitore della crociata.
Il quadro, qualunque ne sia il significato, scaturisce da un’attenta meditazione finalizzata alla ricerca di una perfezione assoluta. Il suo linguaggio espressivo si fonda su una nuova maniera di interpretare i sentimenti, spogliandoli di ogni emozione; nei personaggi, raffigurati in un atteggiamento di dignità impassibile e severa, si realizza un accordo perfetto con le forme architettoniche. La composizione è dominata da una logica matematica indefettibile che assegna a ogni più piccolo particolare una precisa collocazione nella costruzione prospettica.
I trattati di Piero e Luca Pacioli
Negli ultimi decenni della propria attività, Piero della Francesca, stimolato dalla cultura urbinate e dai rapporti con Luca Pacioli, approfondisce i propri interessi teorici, e scrive i trattati De prospectiva pingendi e De quinque corporibus regularibus, intesi a ricondurre all’essenziale e misurabile regolarità delle forme geometriche l’infinita varietà degli oggetti naturali.
Alla base dell’attività teorica e pittorica di Piero vi è la certezza di un nesso armonico delle forme fra di loro e con lo spazio. La consonanza dell’universo si rivela nel microcosmo del dipinto grazie alla "divina" proporzione dei rapporti matematici. In particolare, nel De prospectiva Piero sviluppa una concezione della prospettiva alternativa rispetto a quella fiorentina, dimostrando — come nota l’Argan — che essa non è una premessa teorica all’operazione pittorica, ma la pittura stessa: non è la legge o il principio della visione, ma la visione stessa nella sua totalità.
Luca Pacioli, nato a Borgo San Sepolcro intorno alla metà del Quattrocento, allievo e collaboratore di Piero della Francesca, è noto quale matematico e primo teorico della scrittura contabile in partita doppia. Scarse le notizie sulla sua vita. Preso l’abito francescano, insegna matematica a Perugia, Roma, Napoli, Pisa e Venezia. È insieme a Leonardo da Vinci alla corte milanese di Ludovico il Moro, da dove fugge all’arrivo dei francesi. Passa gli ultimi anni della vita tra Firenze e Venezia.
Muore verosimilmente subito dopo il 1509 (secondo altri la sua scomparsa avviene a Roma nel 1517). In Luca Pacioli si evidenzia l’influsso della concezione neoplatonica della matematica, propria dell’Umanesimo. Nella sua opera principale, la Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità (Venezia 1494), scritta in un miscuglio di volgare, latino e greco, egli accoglie contributi provenienti dalle più svariate fonti speculative, da Euclide sino a Leonardo Fibonacci, conservandoci così alcuni preziosi frammenti di alcune delle opere perdute del grande matematico pisano del XIII secolo, autore d’una teoria dei numeri.
Il trattato del Pacioli, che ha il grande merito di diffondere in vasti strati di pubblico l’interesse per la matematica e in particolare per l’algebra, si occupa anche dell’applicazione di quest’ultima alla geometria, sviluppando una teoria della probabilità.
Il trattato De divina proportione, in cui è palese l’influenza di Leonardo da Vinci (che secondo alcuni avrebbe contributo in maniera sostanziale alla stesura dell’opera e che è l’autore delle illustrazioni che ne corredano la prima parte), uscito a Venezia nel 1509, è dedicato allo studio della sezione aurea e delle sue applicazioni in campo architettonico. L’opera — che qualcuno ritiene il rimaneggiamento di uno scritto di Piero della Francesca — aspira a cogliere il momento unificante di scienza, natura e arte. Tra i contenuti più interessanti figurano i teoremi sull’iscrizione dei poliedri in altri poliedri e l’uso delle lettere a indicare quantità numeriche. Pacioli pubblica anche, nel 1509, l’opera geometrica di Euclide
Ferrara lega le proprie fortune all’astro degli Estensi, assurti alla signoria nel Duecento e abilissimi nel guadagnarsi un doppio titolo ducale, d’investitura papale e imperiale. La città, florido crocevia commerciale, è un’isola felice: capitale d’un piccolo stato padano, stretto fra Venezia, Milano e i domini della Chiesa, diviene, grazie ai duchi Lionello e Borso, il polo d’una cultura letteraria e artistica di primo piano. La sua celebre università è una delle prime a recepire i principi dell’Umanesimo, grazie anche alla presenza di Guarino Veronese.
Al pari d’Urbino e Mantova, Ferrara, che nel lineare impianto dell’ "addizione urbanistica" d’Ercole I testimonia una nuova concezione del potere e dello spazio, deve la propria fama imperitura ai capolavori di grandi pittori. Gli influssi della bottega padovana dello Squarcione, il classicismo del Mantegna, il dinamismo di Donatello e le geometrie di Piero della Francesca convivono originalmente nell’estrosa fantasia di Cosmè Tura.
L’elegante energia di Francesco del Cossa e l’espressionistica monumentalità di Ercole de’ Roberti dialogano nel gioiello di palazzo Schifanoia, il celebre ciclo della sala dei Mesi, uno dei più affascinanti esempi di decorazione profana del Rinascimento, vivida evocazione della cultura raffinata e stravagante d’una corte rinascimentale che in un intreccio d’allegorie, emblemi astrologici e quadri di prosperità e buon governo celebra la gloria della dinastia, portatrice d’una nuova età dell’oro.
Anche per gli Estensi, come per altri signori del Rinascimento, l’età dell’oro non è durevole: dal Cinquecento la dinastia conosce una decadenza che la costringe a cedere al papa Ferrara, gemma della sua corona, spostando il proprio centro di gravità su Modena.
L'Addizione erculea
Ferrara, capitale degli Estensi, condivide con Pienza, in terra di Siena, il vanto di essere il luogo in cui il sogno rinascimentale della città ideale convive e si integra con la città reale. Rispetto al circoscritto intervento che caratterizza la cittadina toscana, anzi, è ben più estesa e importante l’operazione urbanistica che interessa Ferrara, capitale popolosa, vitale e attiva che sul finire del Quattrocento si arricchisce dell’Addizione erculea; essa, così detta dal duca Ercole I, si aggiunge a quella già attuata dal fratello di Ercole, Borso, nel 1451. L’Addizione erculea, che raddoppia la superficie della città, costituisce un intervento urbanistico senza precedenti in Italia, dovuto all’architetto Biagio Rossetti.
La costruzione di un nuovo tratto di mura (1492-94), oltre a rafforzare le difese cittadine inglobando il castello di Belforte, la Certosa e Santa Maria degli Angeli, crea lo spazio per far fronte all’impetuosa crescita demografica della capitale estense, crescita che si arrestò nel Cinquecento, rendendo in parte inutile l’Addizione. Il duca, primo speculatore edilizio del Rinascimento, ha acquistato i terreni agricoli racchiusi nel nuovo perimetro per rivenderli con profitto ai privati una volta urbanizzati.
Rispetto all’irregolare formicaio della città medievale, l’Addizione propone una maglia rigorosamente ortogonale, regolare e spaziosa di strade larghe e rettilinee, impostate attorno agli assi principali che replicano il cardo (in direzione nord-sud, dal castello di Belforte al castello estense, in corrispondenza dell’odierno corso Ercole I) e il decumano (in direzione est-ovest) delle città romane.
Diversamente da quanto prevede la tipologia urbana antica, all’incrocio degli assi principali non si trova il foro (identificabile con la piazza Nova, attuale piazza Ariostea), ma i palazzi più importanti dell’Addizione, ossia il palazzo dei Diamanti (1494-1503), così detto per la forma del bugnato, palazzo Turchi di Bagno e palazzo Sacrati
Bellezze di Ferrara: tra Belfiore e Schifanoia
Al pari degli altri principi italiani, gli Estensi arricchiscono la propria capitale di tesori d’arte. I signori di Ferrara, e in particolare Borso ed Ercole I, sono consapevoli del ruolo insostituibile della bellezza nel celebrare e tramandare la gloria di mecenati e committenti. Nel 1447 hanno inizio i lavori di decorazione dello studiolo del castello di Belfiore; i dipinti, oggi dispersi in vari musei, seguono un programma iconografico dettato da Guarino Veronese.
Fra gli artisti che li realizzano è Cosmè Tura (1430 ca.-1495), pittore di corte fra il 1465 e il 1480, incaricato, oltre che di dipingere immagini sacre e profane, di fornire cartoni per arazzi e insegne araldiche, mobili e suppellettili, monture e bardature.
Nello studiolo Cosmè dipinge due Muse; nella tavola con Erato (detta anche Primavera, 1460 ca.), l’esuberante fantasia decorativa, tratto distintivo dell’artista, si coniuga a una solenne monumentalità, mutuata forse dalla raffinata cultura della corte estense.
L’estro stravagante del Tura si esprime anche nelle forme esagitate del San Giorgio dipinto nel 1469 per le ante dell’organo della cattedrale, e nella coeva Annunciazione, facendosi cromatismo sovraccarico e surreale nella tavola centrale della monumentale Pala Roverella (smembrata e in parte perduta), la Madonna in trono con angeli musicanti (1474).
Cosmè Tura ha un ruolo rilevante anche nella concezione del ciclo dei Mesi di palazzo Schifanoia, commissionato nel 1470 da Borso d’Este, la cui esecuzione, segnata da liti e interruzioni, richiederà molti anni. Ma i protagonisti principali della decorazione sono Francesco del Cossa (1436 ca.-1478), attivo tra Ferrara e Bologna, dove lascia lo smembrato Polittico Griffoni (1473 ca.), ed Ercole de’ Roberti (1450 ca.-1496), suo seguace e collaboratore in entrambe le città, e a lui unito da un legame di reciproca sollecitazione assai più complesso di una semplice rapporto maestro-allievo.
Fra le opere più celebri di Ercole citiamo, oltre il completamento del Polittico Griffoni, la pala con la Madonna in trono col Bambino e santi per Santa Maria in Porto a Ravenna (1481), oggi a Brera. La sua produzione non è cospicua, dato che, subentrato a Cosmè Tura nell’incarico di pittore della corte estense dal 1486, è costretto a sacrificare la pittura alle mille incombenze assegnategli; di questo periodo ci resta la pacata Natività della National Gallery.
Anche se due delle quattro pareti sulle quali si estende sono completamente rovinate, il ciclo dei mesi di palazzo Schifanoia rivaleggia con la Camera degli Sposi del Mantegna a Mantova, rappresentando con essa il più importante affresco commissionato in Italia settentrionale nel tardo Quattrocento. La sua concezione risente con tutta evidenza dell’interesse umanistico per le scienze occulte e l’astrologia. Le pareti, suddivise in 12 settori, sono ripartite in tre fasce sovrapposte.
La fascia inferiore documenta le attività corrispondenti a ogni mese dell’anno, inquadrate entro le mura ferraresi; la fascia mediana reca i segni zodiacali e figure mitologiche; mentre quella superiore raffigura le divinità pagane che sovrintendono a ogni mese, e che paiono voler legittimare gli atti compiuti dal duca Borso e dai suoi per il bene dello stato estense.
A Francesco del Cossa sono riconosciuti i mesi di marzo e aprile, dall’atmosfera serena e pacata, mentre Ercole de’ Roberti, autore del mese di Settembre, vi esibisce un estro lunatico che ricorda Cosmè Tura
Mantova, invenzione dei Gonzaga, è l’ago d’una bilancia in equilibrio fra Milano e Venezia, che, a seconda delle circostanze, inclina verso il biscione visconteo o il leone di San Marco.
Al potere dal Trecento, i Gonzaga, guerrieri e mercanti, perseguono lucidamente lo scopo d’estendere e rafforzare il proprio dominio: autentici professionisti del potere, sanno che la solidità della dinastia non dipende solo dalla forza, ma dall’educazione dei propri membri al mestiere di principi, dalla formazione d’una élite di funzionari capaci quanto fedeli e dalla celebrazione della propria gloria mediante la bellezza, la cultura e la cortesia.
Colui che contribuisce maggiormente al lustro della casata è il marchese Lodovico, che unisce la decisione e l’astuzia dell’uomo d’azione alla sensibilità dello studioso: alacre in guerra, abile diplomatico, accanto ai commerci della lana e della seta fa fiorire la cultura, chiamando presso di sé intellettuali ed eruditi quali Pico della Mirandola, il Platina, il Poliziano, Vittorino da Feltre e Francesco Filelfo.
Vuole che Mantova abbia l’aspetto che compete ad una capitale: perciò affida a Leon Battista Alberti l’incarico d’abbellirla di splendidi edifici, mentre convince il trentenne Andrea Mantegna a trasferirvisi come pittore di corte e curatore delle raccolte d'arte.
Il figlio di Lodovico, Federigo, si rivela abile condottiero, astuto diplomatico e generoso mecenate, ma è con Francesco II, vincitore di Carlo VIII a Fornovo, marito della coltissima e raffinata Isabella d’Este, che lo splendore della corte dei Gonzaga tocca il culmine. Fra alterne vicende, lo stato mantovano si perpetua sino ai primi del Settecento, allorché passa all’Austria.
Lo studiolo d'Isabella
A rivaleggiare in raffinatezza con lo studiolo di Federigo di Montefeltro nel palazzo d’Urbino, celebre per le stupende tarsie, vi è la Grotta di Isabella del palazzo ducale di Mantova, ossia lo studio dove la donna più celebre e colta del Rinascimento coltiva il proprio spirito, celebrando se stessa e il proprio ruolo di collezionista e di patrona delle arti o, come diremmo oggi, di animatrice culturale.
Isabella d’Este, nata nel 1474, figlia di Ercole I d’Este, sposa di Francesco II Gonzaga nel 1490, resterà a Mantova sino alla morte, avvenuta nel 1539, in tempi cioè assai meno felici di quelli delle nozze, dato che nel frattempo invasioni e guerre hanno deturpato l’Italia.
Entrando oggi nello studiolo di Isabella attraverso il marmoreo portale cinquecentesco con intarsi policromi e medaglioni a rilievo, possiamo ammirarne le tarsie, separate da piccole lesene, opera squisita dei fratelli Mola (1506). Delle sei originali, quattro rappresentano paesaggi urbani dell’epoca, le altre due strumenti musicali, simili forse a quelli suonati dalle abili mani della marchesa che, oltre a conoscere le lettere latine e a comporre versi in volgare, canta, suona la cetra, il liuto, la lira da braccio e vari strumenti a tastiera.
Alziamo lo sguardo.
Sul soffitto ligneo a carena di nave spiccano gli ornamenti dorati e gli intarsi su sfondo azzurro eseguiti da maestro Sebastiano, grande intagliatore veneziano; al centro notiamo lo stemma estense, attorniato da vari emblemi simbolici.
Ma è ciò che non vediamo a riempirci di suggestione. Al tempo di Isabella, la Grotta è ornata di eccelsi dipinti, oggi perlopiù al Louvre, che seguono un programma iconografico ispirato alla filosofia platonica. Il programma è dettato da lei stessa e dai suoi amici umanisti, ed è inteso a illustrare allegoricamente la vittoria della virtù sul vizio, dell’amore celeste su quello terreno e il trionfo finale dell’armonia.
A eseguirli, i migliori pittori del tempo, tra cui la gloria di casa, il Mantegna, che attorno al 1497 dipinge il Parnaso. Dopo il rifiuto di Giovanni Bellini di adeguarsi a un programma iconografico predeterminato, nel 1502 è di nuovo Andrea a dipingere i Vizi scacciati dal giardino della Virtù (1502 ca), in cui i vizi, deformi e orrendi, fuggono dinanzi a Pallade-Isabella. Mantegna inizia anche un terzo quadro, che raffigura il regno di Como, dio delle feste, finito da Lorenzo Costa.
All’ornamentazione dello studiolo concorrono anche il Perugino, cui è commissionata una Vittoria di Castità contro Lascivia, e Lorenzo Costa, che nel 1506 dipinge Isabella d’Este nel regno di Armonia, acme dell’esaltazione della leggendaria dama delle arti e modello celebrativo per l’aristocrazia italiana lungo tutto il Cinquecento. Isabella, sensibile alla cultura moderna, commissiona nel 1528-30 al Correggio le tele col Trionfo della verità e i Tormenti dei vizi, il cui stile mosso e sensuale contrasta fortemente con quello delle tele quattrocentesche.
Oltre alle stupende pitture, dalla stanza è oggi interamente scomparso, disperso per tutta Europa, il ricchissimo corredo di oggetti antichi e d’arte; immaginiamo con nostalgia lo sguardo di Isabella indugiare sulle nicchie soprastanti le tarsie, che rigurgitavano di bronzetti, statuette, cammei, pietre preziose e medaglie, orologi artistici e reperti archeologici.
Scomparsi anche gli amorini dormienti che incorniciavano la finestra, dei quali uno era attribuito - con qualche azzardo - nientemeno che a Prassitele, mentre l’altro era copia da un modello antico di mano di Michelangelo
Andrea Mantegna: la giovinezza
Lo splendore della Mantova quattrocentesca, nobilitata dalla cultura umanistica che domina la corte dei Gonzaga, si deve in buona parte all’opera sovrana di Andrea Mantegna, una delle figure di artista e di intellettuale di maggior spicco del Rinascimento, che seppe trasformare la reverenza per l’antichità in modernissima concezione dell’arte.
Nato a Isola di Carturo, presso Mantova, attorno al 1431, e morto a Mantova nel 1506, è allievo dello Squarcione a Padova fra il 1441 e il 1448, nutrendosi anche della lezione dei toscani presenti in Veneto, da Donatello ad Andrea del Castagno, dal Lippi a Paolo Uccello, dai quali deriva l’inclinazione a privilegiare il disegno sul colore; inoltre ha modo di ammirare a Ferrara i capolavori di Piero della Francesca e Rogier van der Weyden.
Negli affreschi della cappella Ovetari degli Eremitani a Padova, eseguiti intorno al 1448 (l’opera è andata perduta in seguito a un bombardamento ma ci è nota attraverso le fotografie), il rigore prospettico e la minuzia archeologica nel ricostruire il mondo antico si coniugano in una visione originalissima che sarà uno dei principali modelli per la cultura artistica del settentrione d’Italia.
Nella rivoluzionaria Pala di San Zeno (1457-59), che esporta a Verona la cultura umanistica padovana, la tipologia del polittico medievale diviso in riquadri è subordinata a uno spazio unitario che inserisce gli elementi divisori della cornice nell’architettura dipinta, ricca di colti riferimenti archeologici,che fa da sfondo alla sacra conversazione centrale, mentre le membra dei personaggi sembrano fuoriuscire dalla tela.
Il pittore dei Gonzaga
Sposatosi nel 1453 con Nicolosia, sorella di Giovanni Bellini, Andrea si trasferisce presso la corte dei Gonzaga, presumibilmente durante la seconda metà del 1459, rimanendovi sino alla morte, quale pittore di corte. Ai signori di Mantova lo lega un rapporto fecondo, anche se non sempre facile, durato oltre quarantacinque anni, al servizio prima di Lodovico, imbevuto dalla cultura umanistica di Vittorino da Feltre e patrono dell’Alberti, poi di Federico I, collezionista d’antichità classiche, e di Francesco II, marito della coltissima Isabella d’Este.
Come d’uso, per la corte dei Gonzaga Mantegna realizza non solo ritratti e dipinti, ma anche cartoni per arazzi, disegni di vasi, insegne, uniformi e sepolture, oltre a fungere da consulente e curatore delle raccolte d'arte. Il suo peculiare gusto umanistico per l’erudizione, che lo porta sovente a tradurre nei dipinti antichi testi letterari, si rivela già nel suo capolavoro, la celeberrima Camera degli Sposi.
Ogni lavoro è per Andrea il laboratorio nel quale affrontare una nuova questione, nella convinzione che la meditazione della cultura degli antichi può portare l’artista moderno a superarne addirittura la lezione.
Se nel Cristo morto di Brera (1480 ca.) prevale un approccio realistico, contraddistinto dall’arditissimo scorcio del Cristo disteso drammaticamente, trasfigurato dal tendere del corpo al monocromo, lo studio della figura umana e del suo dinamismo contraddistingue la serie di nove monumentali tele dei Trionfi di Cesare (1489-1501 ca.), oggi a Hampton Court, basata su descrizioni dei trionfi romani tratte da autori antichi, apogeo del classicismo del Mantegna.
Negli ultimi anni partecipa alla decorazione dello studiolo, o grotta, di Isabella d’Este, emblematico specchio della cultura di una corte italiana fra XV e XVI secolo. Per Isabella Andrea dipinge il Parnaso (1497 ca.) e i Vizi scacciati dal giardino della Virtù (1502 ca), entrambi al Louvre; il primo celebra l’armonia, il secondo la vittoria della virtus, impersonata da Pallade, sui vizi deformi e orribili.
Forse proprio queste figurazioni mitologiche rappresentano l’estremo tentativo del Mantegna ormai anziano di misurarsi coi perduti capolavori di Apelle e degli altri grandi maestri dell’antichità, noti solo attraverso le descrizioni dei classici.
La ''Camera degli Sposi''
La celeberrima Camera degli Sposi, sita nel torrione settentrionale del castello di San Giorgio inglobato nel palazzo ducale di Mantova, è l’unico tra i monumentali cicli ad affresco eseguiti dal Mantegna nella città dei Gonzaga ad esserci pervenuto.
Si tratta di un affresco rilevato a tempera con applicazioni d’oro, iniziato verosimilmente nel 1465 e terminato nel 1474. Il nome della sala è moderno; non si trattava infatti di una camera nuziale, ma di una sala di rappresentanza, come confermano i chiari intenti celebrativi dei dipinti che l’adornano, a partire dalla complessa simbologia del soffitto.
L’effetto illusionistico che domina la sala culmina nell’ocello dipinto nel soffitto con una balaustra alla quale s’affacciano figure umane, dei putti e un pavone sullo sfondo di un cielo turchino. Si tratta del più ardito esperimento prospettico del Quattrocento italiano, che apre la strada all’illusionismo cinquecentesco. Su due pareti della sala, scandite da pilastri dipinti, sono rappresentate scene di vita di corte.
Sulla parete settentrionale il marchese Lodovico Gonzaga, seduto accanto alla moglie Barbara del Brandeburgo, riceve un messaggio dal suo segretario particolare, Marsilio Andreasi, in un andare e venire di cortigiani.
Dal faldisterio del marchese spunta il cane Rubino; a lato di Barbara si notano, oltre alla nana prediletta, la figlia Paola e i figli Gianfrancesco, Ludovichino e Rodolfo, mentre il primogenito Federico I è raffigurato sulla destra, con una berretta bianca, in un gruppo isolato del quale, secondo una suggestiva ipotesi, farebbero parte l’imperatore Federico III d’Asburgo e re Cristiano I di Danimarca, cognato di Lodovico in quanto consorte di Dorotea di Brandeburgo, sorella di Barbara (altri personaggi attendono ancora di essere identificati).
Sulla parete occidentale, divisa in tre scomparti, un affaccendarsi di famigli che recano splendidi cavalli, molossi e levrieri spicca su magnifici sfondi paesaggistici che rievocano idealizzate architetture di Roma, Tuscolo, Tivoli e Palestrina.
Qual è il vero significato delle pitture? La remota fonte letteraria del concetto della Camera, secondo una recente ipotesi, starebbe nel Péri toû òikou (letteralmente: "di una sala") di Luciano di Samosata, esercitazione retorica che tratteggia la sala perfetta.
La scena dipinta rappresenterebbe invece due episodi accaduti entrambi il 1° gennaio 1462, data avallata dal quasi scomparso corteo dei Magi della parete occidentale; la concessione della porpora cardinalizia da parte di Pio II al diciassettenne Francesco, secondogenito dei marchesi, e l’invito epistolare rivolto al marchese Ludovico da Bianca Maria Visconti perché accorra a Milano per l’aggravarsi delle condizioni di salute del duca Francesco Sforza.
La Camera così, più che un ritratto di famiglia, diventa autentico atto celebrativo dell’autorevolezza dei Gonzaga e manifesto della loro volontà di affermarsi quale dinastia di rango europeo, decisiva per le sorti d’Italia. Il grande significato pittorico della Camera consiste nel consapevole e riuscito tentativo di unificare e trasfigurare lo spazio architettonico di una sala col solo mezzo della decorazione pittorica.
Mentre Venezia scruta ansiosa l’Oriente, il mondo si volge ad Occidente: a minacciare i commerci, oltre al dilagare delle armate turche in Europa dopo la caduta di Costantinopoli, si aggiunge, nel Cinquecento, lo spostamento del baricentro dei traffici marittimi verso l’Atlantico, a causa della scoperta dell’America. Nessuna speranza d’espandersi ulteriormente nell’entroterra padano, causa l’ostilità degli Sforza prima, di Giulio II poi, sino all’occupazione spagnola della Lombardia.
Nonostante i segni di decadenza, la solida e vitale cultura dei mercanti veneziani esige d’essere alimentata, come dimostra il pullulare delle stamperie, sulle quali domina l’impresa di Manuzio. Ciò che più colpisce nel raffinato, interminabile tramonto di Venezia è la scuola pittorica che vi si origina con straordinari esiti artistici. Contrapponendosi alla cultura fiorentina del primato del disegno, la pittura veneziana è l’impero della luce: la forma plastica è un tutt’uno con un colore caldo, palpitante, corporeo.
Accanto a Gentile Bellini, che inaugura il felice linguaggio del vedutismo veneziano, spicca incontrastato il genio del fratello Giovanni, cognato d’Andrea Mantegna, che, reinterpretando la lezione di Piero della Francesca e d’Antonello da Messina, attivo nella città lagunare, si palesa grandioso architetto della luce, sereno poeta della natura e sperimentatore indefesso.
Alla sua arte si ispirano il classicismo di Cima da Conegliano e l’incanto di Vittore Carpaccio, che al senso belliniano della luce e del colore unisce, nelle proprie monumentali scenografie, la meditazione di modelli ferraresi e urbinati. Nel Cinquecento la tradizione veneziana s’arricchirà dell’enigmatica personalità di Giorgione e dell’inquietante bellezza dell’arte di Tiziano, rinnovandosi inoltre grazie alla visionaria tavolozza del Tintoretto e al pennello illusionistico e fastoso del Veronese.
Antonello da Messina
Antonello da Messina (1430 ca.-1479), il maggior ritrattista del Rinascimento, un maestro d’importanza fondamentale nel cammino dell’arte, segna l’incontro pittorico tra meridione e settentrione d’Italia. La sua arte concilia il naturalismo fiammingo, dai colori palpitanti e luminosi, con l’interesse italiano per la figura umana e l’armonia della composizione.
Scarse sono le notizie sulla sua formazione, avvenuta forse a Napoli. Mentre la Madonna Salting (1460 ca.) e l’Incoronazione della Vergine (1453) rivelano la conoscenza delle opere del provenzale Enguerrand Quarton, la celebre Crocifissione (1455 ca.) rivela la conoscenza dei pittori fiamminghi, a cominciare da van Eyck.
I ritratti di Antonello, autentici capolavori per cui l’artista è universalmente celebre, inaugurando un genere che avrà grande fortuna nei secoli successivi sposano la fedeltà fisiognomica alla penetrazione psicologica, come mostra il celeberrimo Ritratto Trivulzio (1433).
Lo studio della figura umana e la definizione dello spazio, abbinati alla grande maestria nell’uso della prospettiva, dominano le grandi opere della maturità, come il San Gerolamo nello studio (1474 ca.), il poetico San Sebastiano (1476 ca.), dagli audaci scorci architettonici, e la Pietà del Prado (1476 ca.) che segna il suo ritorno in Sicilia.
Nella pala di San Cassiano (1475-76), eseguita durante il soggiorno veneziano, si legge lo scambio fecondo di Antonello con Giovanni Bellini, percepibile nella calda luminosità degli incarnati e nelle innovazioni iconografiche che caratterizzano l’opera.
La pala, oggi a Vienna, resterà per molto tempo un esempio per i pittori veneti, a cominciare dallo stesso Bellini e poi per Alvise Vivarini (1445 ca.-1505) e Cima da Conegliano (1445/60-1517 ca.).
Giovanni Bellini: vita e opere
Il classicismo veneziano trova la sua massima espressione in Giovanni Bellini (1432 ca.-1510), il più grande paesaggista del Quattrocento, figlio di Jacopo (1396?-1472?) e fratello di Gentile (1429-1507), anch’essi pittori come il cognato Andrea Mantegna, marito della sorella Nicolosia, che gli trasmetterà i propri ideali umanistici.
L’interesse per la natura, unito a un ineguagliato senso del colore, ispira a Giovanni un nuovo modo di dipingere, avviando una rivoluzione formale e iconografica che influenzerà la pittura veneta sino al Settecento. Se l’esempio di Mantegna si avverte nella Trasfigurazione di Cristo (1455 ca.), la celeberrima Pietà, nota anche come Cristo sorretto dalla Madonna e da san Giovanni (1460 ca.) manifesta già il distacco dai modi del cognato, privilegiando una luce palpitante che ricorda quella dei fiamminghi.
La luce è elemento unificante e vivificante anche nel Polittico di san Vincenzo Ferrer (1464-68 ca.), e soprattutto nella magnifica pala di Pesaro con l’Incoronazione della Vergine (1470-73 ca.), che segna l’abbandono della tempera per il colore a olio successivamente all’incontro urbinate di Giovanni con l’arte di Piero della Francesca.
Con Antonello da Messina, residente a Venezia fra il 1475 e il 1476, Bellini condivide l’interesse per un naturalismo nobilitato dalla ricerca formale tipica del Rinascimento. Il manifesto del classicismo veneziano è la Pala di San Giobbe (1487 ca.), in cui Giovanni ripropone l’approccio della celebre Pala di Brera di Piero inscrivendo la sacra conversazione in una solenne architettura e sposandola a un colore morbido e ambrato che crea e modella le forme invece di riempirle.
Sperimentatore inesauribile, anche negli ultimi anni Giovanni si mostra capace di rinnovare il proprio linguaggio, come dimostrano il Trittico dei Frari (1488), la Madonna tra le sante Caterina e Maddalena (1490 ca.), il ritratto del doge Leonardo Loredan (1501), la stupenda Sacra conversazione di San Zaccaria (1505) e il Festino degli dèi (1515), che, illustrando un tema tratto dai Fasti di Ovidio, anticipa i capolavori cinquecenteschi, grazie anche agli sfondi paesaggistici dipinti da uno degli allievi prediletti di Giovanni, Tiziano Vecellio.
Vittore Carpaccio: vita e opere
Di Vittore Carpaccio (1460 ca.-1525 ca.), protagonista della scena pittorica veneziana a cavallo fra XV e XVI secolo, è poco nota la formazione. Le sue mirabili cronache dipinte gli meritano un posto di spicco nella pittura rinascimentale accanto al Bellini. Ritenuto a lungo un piacevole illustratore di scene cittadine, interni e paesaggi, un creatore di incantevoli scenografie prive di tensione spirituale ed espressiva, Carpaccio rivela invece un approccio razionale e meditato alle proprie opere.
Il celeberrimo ciclo delle nove tele con Storie di sant’Orsola, presso le gallerie veneziane dell’Accademia, dipinto fra il 1490 e il 1495 circa, dimostra come si possa, anticipando i fasti del vedutismo, trasformare un tema devoto in una scenografia laica, ricca di interessantissimi spunti per la conoscenza della cultura anche materiale della Venezia del tempo, coi suoi ambienti pubblici e privati.
Fra le tele dipinte per San Giorgio degli Schiavoni, oltre al fiabesco San Giorgio e il drago, spicca la celebre Visione di sant’Agostino (1502), la cui atmosfera sospesa pare evocare certi interni fiamminghi. Nelle fattezze del santo qualcuno vorrebbe riconoscere quelle del cardinal Bessarione, raffigurato nelle vesti di erudito umanista seduto nel proprio studio.
Nel prosieguo della carriera il Carpaccio, legato al proprio personalissimo linguaggio non passibile di ulteriori sviluppi, si colloca al di fuori del filone del colorismo belliniano, trasmessosi piuttosto al Giorgione. L’artista, quindi, malgrado si valga di numerosi collaboratori, non avrà seguaci nel Cinquecento, e si dedicherà ad opere, altalenanti per qualità, realizzate soprattutto nella provincia.