Nietzsche era solito vantare nobili origini polacche. Le minuziose genealogie della sua famiglia non hanno tuttavia trovato traccia di queste origini.
Egli nasce il 15 ottobre 1844 a Roecken, non lontano da Lipsia, figlio del pastore Karl Ludwig e di Franziska Oehler, anch'essa figlia di un pastore.
Nel 1846 nasce la sorella Elisabeth; due anni dopo nasce il fratello Joseph che morirà a soli due anni, pochi mesi dopo la morte del padre, scomparso in seguito al progressivo aggravamento di una serie di disturbi al sistema nervoso e al cervello.
Dopo la morte del padre, per il quale provava una profonda venerazione, Nietzsche cresce affidato alle cure della madre, donna di solide qualità morali ma di cultura limitata.
Trasferitosi nel 1850 nella città di Naumburg, Nietzsche riceve i primi insegnamenti di religione, latino e greco e impara a suonare il pianoforte.
Nel 1858 entra, con una borsa di studio, nella prestigiosa scuola di Pforta, la cui dura disciplina lo educa allo sforzo intellettuale e alla capacità di concentrazione.
Al buon livello dei corsi umanistici della scuola egli dovrà la sua abilità letteraria; superficiali sono invece gli studi scientifici.
In questi anni, il giovane Friedrich dimostra scarsi interessi per le arti figurative; assai vivo, al contrario, è il suo senso musicale: fin dai primi anni Sessanta prende contatto con la musica di Wagner.
Nel 1861 viene "confermato" secondo il rito luterano: già in questo periodo il suo legame con il cristianesimo è tuttavia assai debole.
Nel 1864, insieme con l'amico Paul Deussen, si iscrive all'Università di Bonn, dove aderisce all'associazione studentesca "Franconia".
La frequentazione delle lezioni di filologia classica del professor Ritschl lo spinge ad abbandonare la teologia e a dedicarsi alla filologia.
La rottura con il cristianesimo, che così si annuncia, dà luogo a profondi contrasti con la madre la quale, delusa nelle sue speranze di vedere il figlio abbracciare la carriera ecclesiastica, chiede a Nietzsche il silenzio assoluto sull'argomento religioso.
Nel 1865 si trasferisce a Lipsia per studiare filologia classica. In questo anno avviene il suo incontro con l'opera di Schopenhauer.
Soffre, in questo periodo, di dolori di testa e di nausea; viene curato, per qualche tempo, probabilmente per sifilide.
A Lipsia stringe un'intensa amicizia con il futuro filologo Erwin Rohde.
Studia Teognide, Eschilo, Diogene Laerzio; tiene le prime conferenze per le quali ottiene ampi riconoscimenti. I suoi interessi volgono tuttavia sempre più alla filosofia: studia i presocratici e la filosofia kantiana.
Un'opera che gli lascia una profonda impressione è la Storia del materialismo di Friedrich Lange. Nel marzo del 1868 interrompe il servizio militare, che aveva avviato in un reggimento di artiglieria, per una caduta da cavallo in cui si ferisce gravemente al petto.
La sera dell'8 novembre 1868 incontra per la prima volta Richard Wagner: la grande impressione che ricava dell'incontro rafforza la sua passione musicale e filosofica, indebolendo vieppiù i suoi interessi filologici.
Nel 1869, grazie all'appoggio di Ritschl, ottiene la cattedra di lingua e letteratura greca presso l'Università di Basilea.
La nomina, oltre al prestigio che comporta, significa per Nietzsche la sicurezza di una vita stabile.
Mentre la famiglia esulta, egli manifesta però profondi dubbi circa la sua vocazione accademica. In ossequio alla legge svizzera, rinuncia alla cittadinanza prussiana, senza tuttavia chiedere quella svizzera.
Morirà così apolide.
A Basilea entra in un rapporto di grande rispetto con Jacob Burckhardt.
Si reca spesso a Tribschen, dove vivono Richard e Cosima Wagner, per la quale prova una vera e propria venerazione.
Accolto cordialmente dai colleghi e dalla borghesia di Basilea, Nietzsche si stanca tuttavia ben presto della vita mondana, a cui preferisce l'intensa amicizia con lo storico della chiesa Franz Overbeck.
Durante la guerra franco-prussiana del 1870 chiede un congedo per arruolarsi come infermiere volontario; colpito però dalla difterite, ritorna a Basilea, gravemente indebolito.
L'uscita della Nascita della tragedia danneggia irreparabilmente la carriera di Nietzsche: Ritschl lo condanna, l'accademia lo attacca; solo Rohde e Wagner prendono le sue difese.
Nietzsche vorrebbe lasciare l'insegnamento per dedicarsi unicamente alla propaganda wagneriana: inaspettatamente, tuttavia, non si reca a Bayreuth - dove i Wagner si erano trasferiti - per le vacanze natalizie del 1872.
A partire dall'anno seguente il suo stato di salute peggiora: a trent'anni Nietzsche è già un uomo seriamente malato, con una situazione affettiva precaria.
Indebolitesi le amicizie giovanili, egli stringe ora nuove relazioni: con Malwida von Meysenburg, con Paul Rée, con il musicista Peter Gast.
Il desiderio di un'esistenza più stabile lo spinge perfino a coltivare fantasiosi progetti matrimoniali.
Nel 1876 ottiene un anno di congedo per motivi di salute, periodo che trascorre in Italia, a Sorrento, insieme con Rée.
All'estate del 1878 risale la rottura, ormai definitiva, con Wagner.
Nel maggio dell'anno seguente Nietzsche presenta le dimissioni per ragioni di salute all'università, che gli concede una pensione annua di 30.000 franchi.
Nietzsche ha ora davanti a sé una vita errabonda, segnata dalla solitudine e dagli attacchi del suo male, un'infezione progressiva di probabile origine luetica (sifilitica). Vive prima a St. Moritz, in Engadina, poi a Venezia, con Peter Gast, e a Marienbad; infine a Genova.
Nell'estate del 1881, dopo aver progettato un viaggio mai realizzato in Tunisia, raggiunge per la prima volta Sils-Maria, in Engadina, dove trascorrerà, di qui in poi, tutte le estati.
Deluso dalla musica wagneriana, si entusiasma a Genova, nell'autunno dello stesso anno, per la Carmen di Bizet. Sempre a Genova, dove trascorre l'inverno 1881-82, riceve da Paul Rée una macchina da scrivere.
Di ritorno da un breve soggiorno a Messina - dove compone alcuni idilli - si ferma a Roma, ospite di Malwida von Meysenburg.
Qui, nella primavera del 1882, conosce una giovane russa, Lou von Salomé, che vorrebbe sposare.
I complicati rapporti sentimentali che si vengono a creare tra Nietzsche e Lou e tra Lou e Rée danno luogo a una vicenda confusa, aggravata dall'ostilità che la sorella Elisabeth prova per la giovane russa.
Alla fine Lou e Rée rompono il sodalizio amicale a tre che Nietzsche intendeva creare e il filosofo precipita in una sofferta solitudine.
Guastati i rapporti con la famiglia, egli vede ora peggiorare sempre di più il suo stato di salute.
Ai difficili e umilianti rapporti con gli editori si uniscono il fallimento di un tentativo di rientrare nel mondo accademico, a Lipsia, e la preoccupazione per il matrimonio della sorella con l'agitatore antisemita Bernhard Foerster, che è intenzionato a fondare in Paraguay una colonia tedesca sulla base di princìpi razziali.
Apprende a Rapallo nell'inverno del 1883 della morte di Wagner.
Gli anni fino al 1888 sono occupati da una intensa attività di scrittura e da peregrinazioni sempre più sofferte. Nel 1887 la notizia del fidanzamento di Lou con il dottor Andreas gli provoca una grande depressione.
Poco dopo rompe l'amicizia con Rohde, che incautamente si era espresso in modo poco rispettoso nei confronti dello storico Taine, con cui Nietzsche aveva avuto l'anno prima un intenso scambio epistolare.
Nell'aprile del 1888, da Nizza raggiunge Torino, di cui riporta un'impressione molto positiva. Qui attende alle sue ultime opere.
In questa città, il 3 gennaio del 1889 Nietzsche dà gravi segni di squilibrio; nei giorni seguenti scrive lettere esaltate agli amici e mette per iscritto sconnesse osservazioni a sfondo politico.
Il destinatario di una delle sue lettere, Burckhardt, allarmato, avverte Overbeck il quale, recatosi a Torino, scopre l'amico nella più completa follia.
Ricoverato prima a Basilea e poi a lena, in una clinica per malattie nervose, Nietzsche sopravvivrà per undici anni, prigioniero della pazzia.
Nel 1897, dopo la morte della madre, che lo aveva curato per lungo tempo, viene portato a Weimar dalla sorella, che già nel 1890 era rientrata dal Paraguay dopo un fallimento finanziario che si era concluso con il suicidio del marito.
Nel 1894 essa aveva fondato a Weimar il Nietzsche-Archiv destinato a occuparsi dell'edizione completa delle opere del filosofo.
In questi anni le condizioni di Nietzsche peggiorano rapidamente: nel 1892 già non è più in grado di riconoscere gli amici, che spesso riceve in preda all'ira; a partire dal 1894, smette di parlare e alterna a momenti di serenità urla sconnesse.
Muore il 25 agosto del 1900.
L'opera letteraria di Nietzsche è caratterizzata da una grande produttività: in meno di vent'anni, tra il 1871 e il 1888, il filosofo tedesco dà alla luce una voluminosa e composita messe di scritti, alcuni dei quali appariranno postumi. Lo schema oggi largamente accettato è quello che divide le opere di Nietzsche in tre periodi:
a) le opere giovanili del periodo di Basilea, la cui pubblicazione è curata dallo stesso autore: la Nascita della tragedia (1871); le quattro Considerazioni inattuali (1873-76); a questa fase appartengono anche gli abbozzi postumi del Libro del filosofo;
b) gli scritti della "fase illuminista": Umano troppo umano (1878), Aurora (1881), Gaia scienza (1882);
c) la filosofia dell'eterno ritorno, contenuta in Così parlò Zarathustra (1883-85) e negli scritti successivi fino alla follia: Al di là del bene e del male (1886), Genealogia della morale (1887), Il caso Wagner (1888), Crepuscolo degli idoli (1888), L'anticristo, Ecce homo, Nietzsche contra Wagner (postumi).
Due mutazioni critiche segnano i tre periodi: da discepolo adorante di Wagner e Schopenhauer a spirito libero, da spirito libero a maestro che insegna la dottrina dell'eterno ritorno.
La massa dei frammenti postumi non è superflua: essi svolgono temi di grande ricchezza e forniscono spesso la chiave per comprendere le opere pubblicate in vita.
Di fatto costituiscono i materiali originari da cui hanno avuto origine, attraverso revisioni e aggiunte, i capitoli delle opere pubblicate.
Minori adesioni raccolgono due periodizzazioni alternative: la prima che considera in modo sostanzialmente unitario tutti gli scritti della maturità, da Umano troppo umano in poi; la seconda che rileva un'ulteriore distinzione tra lo Zarathustra e le opere più tarde governate dal progetto, alla fine abbandonato, di una grande opera sistematica, il cui titolo doveva essere La volontà di potenza.
Che Umano troppo umano e lo Zarathustra segnino le due cesure fondamentali nella biografia intellettuale di Nietzsche è convinzione accolta in maniera quasi unanime.
Tale conclusione trova conferma nella ricostruzione autobiografica delle proprie opere che Nietzsche stesso compie in Ecce homo.
Parimenti, per quanto riguarda la Volontà di potenza, che l'opera edita con questo titolo nel 1901 e poi nel 1906, a cura di Peter Gast e della sorella di Nietzsche Elisabeth Foerster, raccolga gli aforismi relativi solo a uno dei tanti progetti di sistemazione e di titolazione pensati dall'autore negli ultimi anni, è stato dimostrato conclusivamente da G. Colli e M. Montinari, i quali hanno chiarito come nell'estate del 1888 Nietzsche avesse abbandonato definitivamente il progetto sopra citato e avesse, di conseguenza, rifuso parte del materiale scritto all'uopo nell'Anticristo e nel Crepuscolo degli idoli.
Quando Friedrich Nietzsche muore il 25 agosto del 1900, ha alle spalle dodici anni di silenzio.
In qualche momento tra gli ultimi giorni di dicembre del 1888 e i primi di gennaio dell'anno seguente la sua personalità era scivolata nel buio della follia, una follia da lungo tempo ormai presentita e temuta.
La riflessione nietzscheana aveva avuto inizio nei primi anni Settanta, con la pubblicazione della sua prima grande opera: la Nascita della tragedia dallo spirito della musica, del dicembre del 1871.
Frutto degli studi classici esercitati in qualità di docente di filologia presso l'università svizzera di Basilea, l'opera manifesta già un interesse spiccatamente filosofico, interesse segnato soprattutto dall'influenza del pensiero di Arthur Schopenhauer.
Fin dalla prolusione universitaria del 1869 su Omero e la filologia classica Nietzsche è spinto a rifiutare la "filologia accademica", disciplina per la quale sente di non avere una vera e propria vocazione.
Incapace di guardare al passato in modo creativo e vivo, essa gli appare come un tradimento dello spirito più autentico della classicità, ridotta a mero repertorio ossificato di oggetti di studio.
Nietzsche contesta, in particolare, l'immagine della grecità di impronta classicista, secondo la quale i greci crearono opere armoniose, misurate, serene perché il loro stesso spirito era armonioso, misurato, sereno.
Questa immagine è sbagliata sia perché privilegia una certa epoca della storia greca - il V secolo - e un certo genere di arte - la scultura e l'architettura -, sia soprattutto perché fissa l'antichità nel momento della sua decadenza, quando lo spirito greco ha ormai smarrito pressoché del tutto le "radici vitali" che ne contraddistinguevano le origini; radici di cui rimane invece traccia, a parere di Nietzsche, soprattutto nella musica e nella religione popolare greche.
Al tema della vita, che è il tema-chiave delle opere giovanili nietzscheane, il giovane filologo è guidato dalla filosofia di Schopenhauer, sotto il cui segno può essere iscritta l'intera riflessione della Nascita della tragedia. Nietzsche ha letto Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer fin dal 1865, quando lo scopre da universitario nella bottega di un vecchio libraio.
«Ogni sua riga - scrive in una lettera di quell'anno - proclamava la rinuncia, la negazione, la rassegnazione; vi scorgevo uno specchio in cui apparivano spaventosamente ingranditi il mondo, la vita, l'animo mio ... Vi scorgevo malattia e guarigione, esilio e asilo, inferno e paradiso».
Da Schopenhauer Nietzsche raccoglie dunque l'immagine di un mondo governato dal principio irrazionale del dolore, rispetto a cui l'esistenza umana, priva di un senso trascendente che sappia darne una spiegazione, non è che un istante transeunte destinato alla morte.
Alla noluntas e all'ascesi schopenhaueriane, Nietzsche si sente tuttavia di opporre da subito un principio diverso, che accoglie piuttosto la coraggiosa accettazione del dolore quale viene testimoniata dagli eroi della tragedia greca.
Egli riprende dunque la concezione schopenhaueriana per cui nel tragico viene in luce il "lato terrificante" dell'esistenza, ma la conduce a esiti diversi dalla disperazione e dalla rassegnazione.
La rinuncia a ogni soluzione consolatoria, di ordine metafisico o religioso, non può ai suoi occhi che comportare l'accettazione dell'irrazionalità dell'esistenza, l'amore «per le cose problematiche e terribili» di cui è fatta la vita, l'amore, in definitiva, per la vita stessa.
La lettura che Nietzsche compie della tragedia greca risulta così incrociata con i grandi temi del vitalismo romantico: attraverso una nuova e ardita interpretazione della tragedia, egli supera il pessimismo schopenhaueriano; sulla base della concezione romantica della vita contesta alla radice la visione della grecità di stampo neoclassico winckelmanniano.
A conferma di questa impostazione sta l'appassionata lettura delle pagine goetheane, dal cui naturalismo Nietzsche raccoglie in ispecie gli accenti paganeggianti e anticristiani.
Di Goethe Nietzsche sottolinea il motivo della celebrazione positiva della vita e la concezione dell'uomo come polo e misura di tutte le cose, che apre il proprio spazio interiore al massimo di sofferenza e al massimo di felicità.
La vita, dunque, è volontà, e la volontà è forza espansiva infinita.
Che la vita distrugga poi ciò che produce e significhi per l'uomo dolore e crudeltà, non deve spingere a rinunciare alla vita, a volere il nulla: di fronte alla crudeltà della vita bisogna essere più crudeli, occorre rispondere con "più vita".
Al tema della vita Nietzsche perviene grazie anche all'influenza della concezione musicale di Richard Wagner.
Convertitosi alla metafisica schopenhaueriana, dopo un inizio di segno feuerbachiano, Wagner vede nella musica l'arte dell'interiorità per eccellenza.
Essa è la lingua dell'inesprimibile, dell'immediato. Specchio della vita elementare dei sensi, la musica è nella sua essenza la forma d'arte più lontana dal concetto.
Il concetto blocca la vita nella rappresentazione; la musica supera e spezza i vincoli della ragione e restituisce all'uomo l'esistenza nella sua originaria dimensione produttiva, creativa.
Solo nell'arte musicale, di conseguenza, e in quella forma specifica di esercizio della volontà che è l'esistenza artisticamente vissuta può darsi per l'uomo la possibilità del riscatto e della salvezza.
L'adesione entusiasta alle tesi estetiche wagneriane spinge il giovane Nietzsche a vedere nel musicista tedesco il modello di "artista tragico" destinato a rinnovare la cultura del secolo.
Con Wagner, a partire dal 1868, Nietzsche stabilisce un intenso quanto contraddittorio sodalizio che si concluderà dieci anni dopo con una rottura drammatica
La filosofia nietzscheana viene dunque formulata per la prima volta attraverso categorie estetiche: l'arte è in grado di spiegare l'essenza del mondo e della vita; a essa deve dunque affidarsi la comprensione filosofica. Secondo un movimento tipicamente romantico, l'arte viene posta al centro: con l'occhio dell'arte il pensatore riesce a vedere il mondo dietro il velo delle apparenze.
La filosofia risulta così interpretata con l'ottica dell'artista e l'arte con l'ottica della vita: concezione artistica, filosofia della vita e interpretazione dello spirito greco si saldano in un tutto, in cui la categoria del tragico viene a costituirsi come la dimensione caratteristica della realtà.
Interpretando tragicamente l'essenza del mondo, Nietzsche scopre nella tragedia, in quanto opera d'arte, la chiave che apre alla vera comprensione dell'essere: attraverso il tragico si tratta dunque di interrogare il mondo sui suoi enigmi.
Per esprimere la propria concezione estetica Nietzsche ricorre alle figure del mito greco. I greci, scrive, hanno reso comprensibile la propria concezione dell'arte «non in concetti, ma nelle figure energiche e chiare del mondo dei loro dei».
La tesi fondamentale di Nietzsche è la seguente: la tragedia è la massima espressione artistica e culturale della civiltà ellenica perché in essa si incontrano le due grandi forze che animano lo spirito greco, l'apollineo e il dionisiaco.
Lo sviluppo dell'arte greca è legato al dualismo di questi due elementi come la procreazione alla duplicità dei sessi.
In essi acquista visibilità il contrasto primigenio degli opposti (caos e ordine, nascita e morte, ascesa e decadenza, generazione e corruzione) che è il fondamento ontologico della vita.
La duplicità dell'istinto artistico greco si mostra attraverso le maschere di Apollo e Dioniso.
Apollo è il dio della luce e della chiarezza, della misura e della forma: l'apollineo simboleggia l'inclinazione plastica, esprime la tensione alla forma perfetta, quale trova espressione nella scultura e nell'architettura greche.
Dioniso è il dio della notte e dell'ebbrezza, del caotico e dello smisurato: il dionisiaco simboleggia l'energia istintuale, l'eccesso, il furore.
Esso è dunque impulso di liberazione e di abbandono; la sua forma espressiva è la musica, non già tuttavia la musica "rigorosa e frenata" - dominio del plastico Apollo - ma la musica che genera la passione.
Nella tragedia, che per questo esprime il culmine della cultura ellenica, apollineo e dionisiaco si fondono nella perfetta sintesi costituita dal canto e dalla danza del coro e dall'azione drammatica.
All'immagine della grecità dipinta dal classicismo, fondata sull'esaltazione dell'armonia e della compostezza, Nietzsche ne contrappone dunque una radicalmente diversa, in cui questi elementi "apollinei" sono in profonda tensione con la dimensione caotica e irrazionale del dionisiaco.
È proprio il dionisiaco che, nell'interpretazione nietzscheana, viene ad assumere un ruolo prevalente.
Su un piano più strettamente filologico, infatti, Nietzsche sostiene una tesi sull'origine della tragedia tutta nel segno di Dioniso: la tragedia si forma dal coro dei seguaci mascherati del dio; l'eroe tragico non è che una maschera del dio, del quale ripete le sofferenze; nella morte dell'eroe è Dioniso stesso che muore, per poi nuovamente rinascere.
L'importanza di questa interpretazione - discutibile e assai discussa sul piano filologico - è di carattere soprattutto filosofico.
L'opposizione che lo scritto nietzscheano incontrò da parte dei filologi classici - celebre la stroncatura di Wilamowitz- Moellendorf, più giovane di Nietzsche di quattro anni e all'epoca solo agli inizi della sua luminosa carriera di filologo accademico - poggia sul malinteso, provocato e condiviso da Nietzsche stesso, che la Nascita della tragedia fosse un vero e proprio libro di filologia, mentre era invece il primo e ancora non compiuto tentativo di esporre una concezione filosofica del mondo.
La sensibilità greca, per Nietzsche, avverte con profondità mai più raggiunta la tragicità della vita e della condizione umana: la limitatezza e la finitudine dell'esistenza individuale, il suo essere momento di un ciclo di vita e di morte sul quale l'uomo non ha alcun potere.
Il gioco dialettico di apollineo e dionisiaco, dunque, esprime innanzi tutto il sistema di forze e di impulsi che agisce all'interno di ogni singolo uomo.
L'apollineo è l'illusione, il sogno che rende accettabile la vita racchiudendola in forme stabili e armoniche.
Nel dionisiaco, invece, si rivela all'uomo tutto l'abisso della sua condizione: la vita erompe qual è, gioco crudele di nascita e di morte.
Il dionisiaco è l'esperienza del caos, il perdersi di ogni forma stabile e definita nel flusso ambiguo della vita. In esso vi è dunque il dolore: la tragedia è infatti dolore.
Eppure, nello stesso tempo, è anche gioia, perché Dioniso è forza generatrice, vita che si afferma continuamente al di là della morte.
Nel dionisiaco, l'uomo infrange i divieti e le barriere imposti dalla cultura e, secondo un motivo fondamentale di tutta la filosofia nietzscheana, "dice sì alla vita": si libera cioè dalle illusioni e si accorda con la sua natura, che è forza, vitalità.
Ciò è possibile, in particolare, nell'esperienza artistica, durante la quale lo spettatore non vive, come voleva Aristotele, una catarsi, una "purificazione" delle passioni, ma si immerge e si abbandona al flusso di dolore e di gioia che la tragedia fa vivere sulla scena.
Nietzsche interpreta come decadenza l'intera storia dell'Occidente, a partire dalla vittoria dello spirito scientifico-socratico sullo spirito musicale-dionisiaco della tragedia greca.
La tragedia muore infatti per Nietzsche nel momento in cui il pensiero greco, con Socrate, pretende di racchiudere in concetti l'esistenza, imponendo così alla vita il primato della ragione.
«La tragedia muore suicida» per mano di Euripide, "maschera" che non rivela più né Apollo né Dioniso, ma un nuovo demone, Socrate.
Euripide infatti «porta lo spettatore sulla scena» e trasforma l'azione drammatica in dibattito teorico, riproduce nell'arte la mediocrità del quotidiano abbandonando la profondità religiosa del mito.
Con Euripide la tragedia sopravvive così nella sua "forma degenerata", nella quale il mito tragico decade a mera narrazione realistica di vicende razionalmente concatenate.
Il realismo euripideo è tuttavia solo una conseguenza dell'ottimismo razionalistico socratico: ciò che risulta messo in scena non è più la "tensione epica", l"'eccitante incertezza", ma la struttura razionale della realtà. Rovesciando la tesi storiografica tradizionale, che vedeva nei presocratici una sorta di "preparazione" al sorgere della grande filosofia socratico-platonica, Nietzsche interpreta dunque l'età di Euripide e di Socrate come un'età di decadenza, in cui la cultura ellenica, che aveva espresso con Eraclito ed Eschilo una straordinaria capacità di cogliere la tragicità dell'essere, perde il suo nesso vitale con il mondo del mito e con la comunità della polis.
Si chiude con Socrate l'epoca di Dioniso e il dionisiaco stesso viene espulso dall'orizzonte della cultura occidentale.
All'uomo tragico si sostituisce l'uomo teoretico, che con la potenza della ragione e della scienza si dedica a costruire un imponente mondo di apparenze per affermare il suo dominio tecnico sulla vita.
Sospinto da un bisogno di rassicurazione, dall'esigenza di rendere tollerante il disordine della vita, egli aderisce alla mentalità socratica per cui «al giusto non può accadere niente di male».
Se la tragedia greca è morta con Euripide, il tragico rimane tuttavia la dimensione ineliminabile della vita. Il conflitto fra concezione tragica e concezione teoretica del mondo resiste e sopravvive, secondo Nietzsche, al tentativo, compiuto dal pensiero occidentale da Platone e dal cristianesimo in poi, di costruire filosofie "antitragiche", cioè finalizzate a occultare il tragico che è nelle cose tramite l'ottimistica pretesa di imporre al mondo un ordine razionale oppure mediante l'ipostatizzazione di essenze e strutture metafisiche.
Il fallimento di questa pretesa, di cui Nietzsche scorge i primi sintomi nella cultura del suo tempo, può aprire la via a un ritorno della tragedia: una possibilità che il filosofo tedesco, in questa prima fase del suo pensiero, vede rappresentata dal dramma musicale di Wagner.
L'opera totale wagneriana, in quanto riunisce gesto, parola e musica, è l'opera d'arte completa, all'altezza della tragedia antica.
Nell'arte, e in ispecie nella musica, la tragicità dell'esistenza non solo può trovare espressione adeguata, ma può anche venire trasformata in esperienza vitale, ossia nella riappropriazione della gioia e del dolore che sono connessi all'insuperabile contraddittorietà della vita.
«Solo come esperienza estetica - afferma Nietzsche- l'esistenza e il mondo appaiono giustificati».
Il primo periodo della riflessione nietzscheana è determinato in modo essenziale dal rapporto con la filosofia greca.
A causa della sua professione di filologo, Nietzsche si occupa ripetutamente del pensiero antico, in particolare dei presocratici, di Platone, di Diogene Laerzio.
Tra il 1872 e il 1875 egli tenta diversi abbozzi di un Libro del filosofo, tra i quali il più notevole è un saggio del 1873, pubblicato postumo, La filosofia nell'età tragica dei Greci.
In continuità con le tesi della Nascita della tragedia, in questo scritto Nietzsche postula una frattura sostanziale tra i presocratici e Socrate e Platone.
Nel pensiero dei primi vibra a suo parere la comprensione tragica del mondo.
Come dunque la tragedia morì nel "socratismo" di Euripide, così la "filosofia tragica" delle origini si spense nella dialettica socratico-platonica: al pessimismo eroico del pensiero tragico si sostituì l'ottimismo morale della ragione, all'intuizione visionaria e artistica il meccanismo sterile della dialettica delle idee.
Nietzsche vede nei primi filosofi i "grandi uomini", le personalità di stampo eccezionale, capaci di rendere manifesto l'ideale di una vita filosofica perfino nei gesti e nel modo di vestire.
Nelle loro dottrine egli scorge il modello dell'atto creativo del sapiente che applica il suo sommo diritto a dare le leggi di ogni cosa.
Essi sono i guaritori e i purificatori della cultura greca.
In Eraclito, soprattutto, Nietzsche crede di individuare la radice del suo stesso pensiero: il primato del divenire sull'essere, il flusso del tempo come dimensione veritiera della realtà, l'unità degli opposti sono i motivi eraclitei nei quali egli vede anticipata la propria concezione dell'unità conflittuale di apollineo e dionisiaco.
Nel frammento del pensatore greco che dice «Il tempo è un fanciullo che gioca a dadi col mondo» egli ritrova la sua stessa intuizione dell'innocenza del divenire» e vede confermata la propria concezione estetica della vita e del mondo.
Dell'estate del 1873 è lo scritto, anch'esso postumo, Su verità e menzogna in senso extramorale, nel quale Nietzsche sviluppa una critica al concetto scientifico e positivistico di verità che anticipa con grande originalità alcuni temi della critica novecentesca.
Nietzsche afferma che il linguaggio è una convenzione la cui essenza non è quella di rappresentare la natura delle cose.
Esso è un sistema di metafore, liberamente prodotto come altri sistemi di metafore, e pertanto non va inteso come l'unico modo corretto e valido di descrivere il mondo.
Nietzsche si muove qui sul terreno indicato dagli antichi sofisti: da Protagora - secondo il quale l'uomo è misura di tutte le cose - e da Gorgia - per cui il reale stesso non è altro che il proliferare di immagini che il linguaggio produce a scopo persuasivo.
Ciò che chiamiamo "verità", di conseguenza, è solo un «gioco di dadi» concettuale che si determina nelle infinite interpretazioni del mondo prodotte dall'intelletto umano.
Essa è solo il provvisorio configurarsi di determinate opinioni e concezioni, risultato del prevalere a livello individuale e collettivo di determinati criteri, interessi, rapporti di forza.
Come già nella Nascita della tragedia, all'uomo "teoretico", il quale crede che i concetti siano l'essenza stessa delle cose, Nietzsche contrappone anche qui l'artista creatore e forgiatore di immagini, che non è guidato «dai concetti, ma dalle intuizioni».
Attraverso questo ordine di considerazioni emerge in nuce uno dei temi decisivi del pensiero nietzscheano, il tema del prospettivismo. Si tratta di una concezione che riceverà una trattazione più matura soprattutto nelle opere nietzscheane dell'ultimo periodo; è tuttavia utile anticipare già qui alcuni dei suoi caratteri, poiché esso costituisce uno dei motivi conduttori di tutta la riflessione del filosofo di Roecken.
Contro il mito positivistico della scienza obiettiva in quanto scienza di fatti, il prospettivismo afferma che «non ci sono fatti, bensì solo interpretazioni».
Non esistono né verità, né falsità, ma solo prospettive differenti sulla realtà. Il conoscere, di conseguenza, è un conoscere prospettico «al di là del vero e del falso», in cui tutte le "verità" prodotte si equivalgono, giacché nessun criterio oggettivo può essere invocato per preferirne una o un'altra.
Il mondo, nella sua qualità polimorfa, incerta e mutevole, è solo il risultato dei giochi prospettici che vi operano; la vita stessa non è altro che gioco e scontro di forze e di prospettive (quelle che il Nietzsche maturo chiamerà le "volontà di potenza").
Non esiste dunque conoscenza al di fuori della pluralità dei punti di vista che gli uomini aprono sul mondo: conoscere significa sempre valutare, ossia organizzare la realtà secondo il prospettivismo dei valori attraverso i quali ciascun uomo esprime la singolarità della propria esistenza.
Sono i valori a stabilire ciò che «viene tenuto per vero»; e dal momento che il principio del valore è "l'utilità per la vita", il concetto di verità ha alla fine un fondamento che è vitalistico e pragmatico insieme.
Nietzsche giunge così a mettere radicalmente in questione i tradizionali concetti di soggetto e di coscienza.
Interno al gioco delle interpretazioni, il soggetto è esso stesso semplicemente una posizione prospettica tra le altre, un "effetto di superficie" privo di quei caratteri di unità e di ultimità che la filosofia ci ha trasmesso, da Cartesio a Kant.
Riprendendo un tema già spinoziano e leibniziano, Nietzsche sottolinea che ogni rappresentazione del soggetto deriva da un conatus o appetitus di quest'ultimo nei confronti dell'oggetto; poiché tuttavia questo tendere si radica in ultima analisi nella stessa biologia del soggetto, la rappresentazione non è necessariamente accompagnata dalla coscienza, la quale è anzi un suo accidens, una concomitanza non necessaria.
Il soggetto, di conseguenza, non è un io autocosciente e trasparente, come vuole la tradizione razionalistica e idealistica, ma un complesso conflittuale di "centri di forza" senzienti e attivi secondo una loro propria istintualità.
L'io autocosciente è una "piccola ragione" di fronte alla "grande ragione" del corpo, che è una multiforme attività di rappresentazione e appetizione di cui la coscienza non percepisce che una minima parte.
l temi che abbiamo visto emergere in maniera così prepotente nella Nascita della tragedia si arricchiscono di nuove suggestioni, tra il 1873 e il 1876, con la pubblicazione delle quattro Considerazioni inattuali.
La direzione in cui muove il pensiero di Nietzsche è ora quella della critica della cultura.
Il progetto di una rinascita della cultura tragica, di cui sono auspicio i suoi scritti giovanili, spinge la riflessione nietzscheana verso la critica della civiltà occidentale.
L'obiettivo del filosofo tedesco non è tuttavia quello della fondazione di una cultura "diversa", di cui egli non vede né l'attualità, né la necessità.
Egli non delinea affatto un progetto di civiltà alternativo alla società decadente della sua epoca, né intende auspicare per il futuro un rinnovato e più integrato rapporto fra l'uomo di cultura e il suo tempo.
La prospettiva nietzscheana è piuttosto quella di fare appello alle forze sane e creative della cultura, le quali, dentro la civiltà, sappiano interpretare un momento potentemente "critico".
L’artista wagneriano e il filosofo schopenhaueriano sono per Nietzsche - come sappiamo - i protagonisti della rinascita della cultura tragica nel mondo attuale.
Nella Nascita della tragedia, Nietzsche aveva enunciato la sua concezione del mondo, rappresentando la grecità dell'''età tragica" nel suo fondamento mitico, nella sua energia creativa, nella totalità del suo stile artistico quale risulta rappresentata nell'opera d'arte tragica.
Ora questa concezione diventa l'unità di misura per una diagnosi radicale della cultura del suo tempo.
La prima Inattuale, David Strauss, l'uomo di fede e lo scrittore, ha il carattere di un'aspra invettiva contro un uomo che pure aveva incarnato uno dei suoi miti giovanili e il cui pensiero viene invece ora liquidato come uno «svergognato ottimismo da filisteo».
La Vita di Gesù di Strauss - l'opera che nel 1835 aveva aperto la strada alla cosiddetta "teologia liberale" - era stata una delle letture preferite da Nietzsche negli anni dell'università: in essa egli aveva visto l'esercizio di uno spirito libero dalla superstizione e dall'oscurantismo religioso.
Possiamo comprendere il mutamento di giudizio da parte di Nietzsche solo riferendoci all'occasione che motiva lo scritto.
L'opera viene composta nella primavera del 1873 - su incarico di Wagner, il quale aveva un vecchio conto da regolare con il teologo liberale - per stroncare il nuovo libro di Strauss dal titolo L'antica e la nuova fede, in cui l'autore avvicinava la propria prospettiva alle vedute ateistiche del positivismo evoluzionistico.
A Nietzsche questa operazione appare un tradimento della libertà di pensiero; di qui il suo violento attacco. Sarebbe tuttavia errato ridurre la prima Inattuale a un mero scritto su commissione.
In Ecce homo, Nietzsche dirà retrospettivamente della sua opera giovanile: «Non attacco mai persone, mi servo della persona come di una forte lente di ingrandimento, con cui si può rendere visibile una crisi generale». Dietro all'attacco al teologo "filisteo" sta dunque il violento disprezzo per la nuova cultura tedesca, figlia della fondazione del Reich e succube della ragione e del progresso, cultura che gli appare «senza senso, senza sostanza, senza scopo».
Più intensa e meditata è la riflessione che Nietzsche esercita nella seconda Inattuale, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, del 1874, dove la critica si concentra sulla storia: «Inattuale è questa considerazione - scrive il filosofo tedesco - perché cerco di intendere qui come danno, colpa e difetto dell'epoca qualcosa di cui l'epoca va a buon diritto fiera, la sua formazione storica».
Di qui l'enunciazione della tesi dell'opera: «Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire la storia: ma c'è un modo di coltivare la storia e una valutazione di essa, in cui la vita intristisce e degenera».
Dopo aver criticato, nelle pagine della Nascita della tragedia, l'ottimismo scientistico, ora Nietzsche prende a bersaglio un altro dei tratti dominanti della cultura ottocentesca, lo storicismo, non solo e non tanto nella sua forma hegeliana, quanto come espressione di quella mentalità storicistica che, a suo parere, è tipica dell'educazione del tempo. L'intero Ottocento soffre di una «malattia storica», i cui sintomi sono l'eccessivo legame con il passato e l'atrofizzazione di ciò che in ogni cultura è l'elemento creativo e attivo.
L'eccesso di senso storico diventa così il segno della decadenza: gli uomini si riducono a vivere solo nel passato, senza più stimoli a creare "nuova storia", spettatori rassegnati del corso inarrestabile degli eventi.
Quando un uomo, un popolo o una civiltà intera sono dominati dalla mentalità storiografica insorge in essi la convinzione che niente di nuovo possa mai esserci sotto il sole e che tutto sia già stato deciso: viene meno la convinzione che abbia senso impegnarsi a costruire ciò che in un futuro prossimo si pensa sia destinato a scomparire nel fluire inarrestabile delle cose.
Come un semplice punto su una linea, costituito interamente dalla sua relazione con il passato e con il futuro, l'uomo cessa in questo modo di essere protagonista del presente.
Questa "saturazione di storia" è in particolare pericolosa per la vita.
La personalità dell'uomo ne risulta infatti indebolita. L'enorme sviluppo di conoscenze storiche che si è realizzato nel secolo XIX ha dato all'individuo più cultura di quanta egli riesca a digerire; trasformati in «enciclopedie ambulanti» riempite di «epoche, costumi, arti, filosofie, religioni», noi uomini moderni «non caviamo niente da noi stessi», perdiamo il contatto con la nostra interiorità, indossiamo l'abito logoro delle convenzioni e dell'imitazione, abbracciamo una cultura ormai solo riproduttiva.
In questa «mancanza di stile» sta la decadenza dell'uomo occidentale, ridotto dal suo eccesso di coscienza storica a passivo spettatore degli eventi.
L'uomo moderno - scrive Nietzsche, lucido premonitore della società di massa del XX secolo - «si fa preparare dai suoi artisti della storia la festa di un'esposizione universale ... Ancora non è finita la guerra, e già essa è convertita in carta stampata in centomila copie, già viene presentata come nuovissimo stimolante al palato estenuato dei bramosi di storia».
Per combattere la «malattia storica», Nietzsche reclama la possibilità di vivere e di agire in modo «non storico». La vita ha bisogno di «oblio»; l'uomo deve imparare «l'arte del dimenticare», così da poter agire secondo quel certo grado di incoscienza, senza il quale non c'è felicità, non c'è grandezza ma solo paura.
Il motivo qui è pienamente romantico: «chi non sa fissarsi sulla soglia dell'attimo dimenticando tutto il passato - scrive - non saprà mai che cosa sia la felicità».
E ancora una volta, Nietzsche fa appello all'arte come a quella potenza sovrastorica che è in grado di guarire la civiltà dalla decadenza orientandola verso l'eterno.
Ciò non significa tuttavia che la conoscenza del passato non abbia alcuna utilità per la vita e che non sia possibile instaurare un rapporto vitale e produttivo con il proprio passato.
Anzi, «ciò che non è storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo e di una civiltà», purché la storia sia al servizio della vita e non si erga al contrario come "scienza pura", avida solo di sapere.
Nietzsche distingue tre modi fondamentali di porsi in un rapporto non dannoso con la storia, i quali a loro volta danno luogo a tre forme positive di storiografia: la storiografia monumentale, quella antiquaria e quella critica.
Ognuna di queste forme presenta dei limiti e dei rischi, i quali tuttavia vengono compensati dalle due forme rimanenti.
La storiografia monumentale corrisponde all'atteggiamento di chi è attivo e ha aspirazioni e, come tale, si proietta nel futuro. Essa occorre all'individuo potente che combatte grandi battaglie, che ha bisogno di modelli e di maestri e che non può trovarli nel presente.
La meta di costui è la felicità propria e dell'umanità intera, per la quale non lo attende nessuna ricompensa se non la gloria.
A quest'uomo la storia serve come mezzo contro la rassegnazione: dai grandi momenti della storia passata egli deduce che «la grandezza fu comunque una volta possibile e perciò anche sarà possibile un'altra volta».
Il rischio al quale soggiace la storiografia monumentale è tuttavia quello di falsare il passato, di mitizzarlo per renderlo degno di imitazione.
Essa, in questo caso, inganna e seduce, eccitando il coraggioso alla temerarietà e l'entusiasta al fanatismo.
Se l'uomo vuol creare cose grandi si impossessa del passato per mezzo della storiografia monumentale, chi invece ama perseverare nella tradizione coltiva il passato come uno storico antiquario.
La storiografia antiquaria appartiene a una specie umana conservatrice e veneratrice, la quale ha cura delle proprie origini e assume la tutela della tradizione come compito.
Vita è per gli uomini di questo tipo essenzialmente memoria e fedeltà.
Carichi di questa pietà essi pagano il debito di riconoscenza per la propria esistenza. Guardando oltre la propria caduca esistenza individuale, essi ritrovano se stessi nella città e nella stirpe a cui appartengono. Il loro scopo è servire la vita, preservando le condizioni in cui sono nati per coloro che verranno dopo di loro. Il limite di questo atteggiamento è quello di servire la storia passata fino al punto di mummificare la vita.
La storiografia antiquaria degenera nel momento in cui inaridisce il presente e si mostra incapace di generare il nuovo.
Chi al contrario «soffre e ha bisogno di liberazione» è indotto, per poter vivere, a gettar via da sé il passato che avverte come peso.
Molto spesso dunque l'uomo ha bisogno anche di un terzo modo di considerare il passato, quello critico.
La storiografia critica esprime un atteggiamento aperto al presente, in grado di assumerlo come unità di misura per giudicare il passato, trascinando per così dire la storia passata dinanzi al tribunale del presente.
E tuttavia - osserva Nietzsche - noi siamo sempre i figli del nostro passato, anche dei suoi errori e dei suoi traviamenti: staccarsi dal passato è dunque sempre un processo pericoloso, pericoloso per la vita stessa. «Uomini o tempi che servono la vita a questo modo, giudicando e annientando un passato, sono sempre uomini e tempi pericolosi».
Solo se la vita sa porsi grandi compiti, conclude Nietzsche, ha ancora un senso guardare nel passato.
Solo chi esprime una potente volontà di futuro sa scoprire il futuro che vive nel passato stesso.
Se il progetto per il futuro viene a crollare, allora tutto il sapere storico diventa un peso morto, anzi un pericolo per la vita: l'uomo imparerà dalla storia solo la rassegnazione e la vita stessa, svuotata da impulsi creativi, si rifugerà nel passato ossia nell'illusoria pienezza di una vita già vissuta.
La terza e la quarta Inattuale, Schopenhauer come educatore (1874) e Richard Wagner e Bayreuth (1875), rappresentano l'ultimo compiuto omaggio agli uomini che Nietzsche ha fin qui venerato appassionatamente. Schopenhauer è la figura esemplare di maestro ed educatore, che ha perseguito un ideale di filosofia come denuncia del conformismo e come ricerca della libertà. Wagner incarna la figura del "redentore", colui che sa indicare all'uomo la via della sola verità possibile, quella che rinasce dalle ceneri della catastrofe, come indica la grandiosa parabola epico-musicale wagneriana dell'Anello del Nibelungo.
Nello scritto su Schopenhauer, in particolare, sviluppando una concezione già presente nella Nascita della tragedia, Nietzsche vagheggia un progetto di rinascita della cultura che ha per protagonista la figura ascetico-eroica del "filosofo".
Mentre «l'uomo di Goethe» è ancora l'uomo contemplativo che, viaggiatore del mondo, «raccoglie per il suo nutrimento tutto ciò che di grande e memorabile» la vita produce, l'uomo di Schopenhauer è il devoto ricercatore della verità: egli possiede l'intuizione del tutto e la sua saggezza assume la forma di una «grande illuminazione sull'esistenza».
Come l'uomo goetheano, egli si sforza di "conoscere tutto", ma per un doloroso amore per il vero che lo costringe anche a sacrificare se stesso.
Nietzsche disegna così l'idea del Genio come strumento essenziale di una cultura non ancora presente - giacché il Genio si comporta sempre in modo "inattuale" - ma futura; idea che egli ora vede incarnata nei due "eroi" della sua giovinezza.
E chiaro che questa esaltazione del genio acquista maggiore consistenza se collegata alla concezione tragica del mondo che ne costituisce tuttora lo sfondo.
La filosofia di Nietzsche è ancora governata dall'impostazione della Nascita della tragedia e dalla concezione "grecizzante" dell'uomo che vi aveva trovato espressione: l'uomo, in quanto sapiente, artista che inventa e produce cultura, è investito di una missione cosmica che ne determina il destino.
Consacrato alla verità, ossia all'intuizione dell'essenza tragica della vita, il Genio è strumento di una finalità sovrumana, è esso stesso la manifestazione del destino.
In questa sorta di divinizzazione del Genio e nell'elogio del "grande uomo" che ne segue troviamo il primo abbozzo della concezione nietzscheana del "superuomo" (Uebermensch).
Con ciò abbiamo toccato dunque uno dei motivi fondamentali della filosofia nietzscheana.
A questo proposito, Eugen Fink - uno dei più acuti interpreti di Nietzsche - ha tuttavia osservato come l'idea nietzscheana di uomo sia già segnata qui da una radicale ambiguità: «Nietzsche oscilla - scrive Fink - tra una concezione che rimane nel puramente umano, in cui distingue gli estremi del genio e dell'uomo-gregge, e una più profonda interpretazione dell'umanità, che va al di là di ogni umanesimo, e concepisce l'uomo secondo la sua missione cosmica, che è quella di essere il depositario della verità».
Nel maggio del 1879, il manifestarsi in forme sempre più acute della malattia che lo porterà alla follia costringe Nietzsche a lasciare definitivamente l'insegnamento di filologia classica a Basilea.
Vivendo di una modesta pensione, il filosofo dà ora inizio a quelle incessanti e sempre più sofferte peregrinazioni attraverso l'Italia, la riviera francese e le valli svizzere che segneranno la sua esistenza, di qui in avanti, fino allo spegnersi della sua mente nelle drammatiche giornate torinesi del Natale del 1888.
Già nel 1876-77, l'insegnamento di Nietzsche si era tuttavia sostanzialmente interrotto e il filosofo tedesco aveva soggiornato a lungo a Sorrento ospite dell'amica Malwida von Meysenburg.
Sono di questi anni gli abbozzi di una nuova opera che uscirà nel 1878 con il titolo di Umano troppo umano, sottotitolo Un libro per spiriti liberi.
A partire da quest'opera Nietzsche muta il corso della propria riflessione, cambia l'orizzonte dei propri interessi.
Significativamente, si trasforma anche il linguaggio attraverso cui egli dà corso alle proprie riflessioni: alle forme del saggio, della dissertazione, subentra la scrittura franta e a lampi della composizione aforistica.
Lo stile si fa più aggressivo e polemico; il tono è ora spesso quello dell'invettiva, ironica e tagliente.
A lungo gli studiosi si sono interrogati se si sia davanti a un cambiamento radicale, a un "secondo periodo" del filosofo, oppure se si tratti piuttosto di una sostanziale evoluzione di motivi e di interessi, ancorché segnata da brusche novità.
Non c'è dubbio che, da un punto di vista biografico, il periodo che si inaugura con Umano troppo umano è segnato dalla rottura insanabile con gli "eroi" della propria giovinezza, dal distacco interiore da Wagner e da Schopenhauer.
Esso avviene di colpo: sembra che il filosofo rinneghi improvvisamente ciò che aveva amato e bruci quegli idoli nel nome dei quali aveva fin qui pensato e scritto.
Come scrive Fink, Nietzsche si sveglia dal sogno romantico «e una più fresca, più fredda aria lo avvolge»: si libera dalla metafisica schopenhaueriana e dalla divinizzazione wagneriana dell'arte e cerca una nuova e più propria espressione.
In realtà - come si è detto - già nella Nascita della tragedia Nietzsche non aveva condiviso il pessimismo di Schopenhauer.
L'esperienza non del tutto riuscita del Feltspielhaus di Bayreuth, che Wagner realizza nel 1876, come centro di diffusione della propria opera, convince poi Nietzsche dell'irrealizzabilità di un progetto di rinascita della cultura tragica fondata sul dramma musicale wagneriano.
L'anno seguente, quando Nietzsche viene a conoscenza del progetto wagneriano del Parsifal - l'opera ispirata alla leggenda del santo Graal, il calice dell'ultima cena, in cui l'epopea romantica dell'Anello del Nibelungo si salda con la prospettiva cristiana della redenzione - l'incontro dell'artista che aveva fin qui esaltato con il cristianesimo gli appare come un tradimento, un segno di debolezza.
Scriverà più tardi, in Nietzsche contra Wagner: «all'improvviso Richard Wagner, apparentemente il più ricco di vittorie, in verità un disperato décadent putrefatto, si prosternò, derelitto e a brandelli, dinanzi alla croce cristiana».
Sulla rottura con Wagner Umano troppo umano svolge una funzione decisiva nella stessa autobiografia interiore di Nietzsche: in Ecce homo, egli chiamerà il libro «il monumento di una crisi», intendendo che con esso il processo sotterraneo di allontanamento da Wagner si trasforma in una crisi acuta.
Quando Nietzsche spedisce l'opera a Wagner, gli giunge «per un miracolo del caso» una copia del Parsifal con la dedica: «Al suo fedele amico Friedrich Nietzsche, Richard Wagner, consigliere».
«Questo incrociarsi dei due libri - scriverà più tardi Nietzsche - mi sembrò che avesse un suono di presagio. Non suonava come se si fossero incrociate due spade? In ogni modo così lo sentimmo noi: perché entrambi tacemmo».
Il distacco da Wagner non si consuma tuttavia solo su un piano biografico e psicologico.
Da un punto di vista filosofico, Nietzsche ha smesso di pensare che il rinnovamento della cultura possa avvenire attraverso una sorta di riscatto estetico dell'esistenza.
Decisive, nel determinare i nuovi orientamenti, sono le amicizie che Nietzsche stringe nell'ultimo periodo di Basilea e nei primi mesi delle sue peregrinazioni: il sodalizio con il teologo e storico Franz Overbeck, che rimarrà l'amico più fedele fino ai giorni della follia torinese; il dialogo con Jacob Burckhardt, che aveva già influito sulle tesi della seconda Inattuale; l'incontro con il giovane medico e pensatore Paul Rée, che lo avvicina agli studi di morale e di psicologia.
Nuove e più intense sono anche le letture cui Nietzsche si dedica, spinto dal desiderio di formarsi una cultura scientifica (che tuttavia non riuscirà mai ad avere in modo compiuto): trattati di fisica, di antropologia, di paleontologia lamarckiana, storie della chimica, le opere di Boscovich; ma anche i grandi moralisti francesi: Montaigne, La Rochefoucauld, Fontenelle, Pascal.
La massa di stimoli e di riflessioni suscitata da queste e da altre letture sfocerà nella mole enorme di frammenti e di aforismi raccolti nelle opere di questi anni: Umano troppo umano (1878) e poi Aurora (1881), Gaia scienza (1882).
Al venir meno dell'ideale di una rinascita della cultura tragica, nelle pagine di queste opere si accompagna la fine di quella concezione "metafisica" dell'arte e del Genio artistico che avevamo visto dominare la Nascita della tragedia.
All'arte e alla religione, subentra ora, come via di accesso alla comprensione del mondo, la scienza.
Sono l'arte e la religione stesse, anzi, a essere chiamate in giudizio e a non valere più come i modi fondamentali della verità, ma al contrario come quelle illusioni che la critica scientifica deve smascherare.
L'arte, in particolare, non viene più vista come la forza che può fare uscire la civiltà moderna dalla sua decadenza: ciò che la rende una forma "superata" dell'educazione dell'umanità (e qui Nietzsche pensa ormai anche all'arte wagneriana) è il fatto che, al contrario dello scienziato, l'artista esprime "una moralità più debole" nei riguardi della conoscenza e della verità.
Egli agisce sugli animi solo in forza di un richiamo alle emozioni più mutevoli, riferendosi per di più artificialmente al mondo del passato, ossia a un mondo che non è più il nostro.
La sua dunque è una concezione dell'esistenza puramente mitica. A fronte della quale sta la spiritualità più matura espressa dalla cultura scientifica.
Per scienza, tuttavia, Nietzsche non intende né le scienze positive, ossia l'insieme delle conoscenze e delle verità particolari sul mondo offerte dalle discipline specialistiche del suo tempo, né tanto meno la sottile analisi dei concetti e delle procedure della ragione quale emerge dalla tradizione del pensiero occidentale da Socrate a Hegel.
Influenzato da Burckhardt, Nietzsche continua a annoverare questa scienza, calcolistica e oggettivistica, insieme con la cattiva filosofia, tra i "nemici della cultura".
Scienza è invece, per il filosofo di Hocken, essenzialmente analisi critica, esercizio del dubbio, diffidenza metodica.
Da essa, dunque, Nietzsche non si aspetta tanto un'immagine del mondo più vera di quella offerta dall'arte, quanto un modello di pensiero più spregiudicato e più libero.
La scienza può aiutarci a rischiarare il mondo delle nostre rappresentazioni, nonostante tutti gli errori di cui la sua storia, come anche la storia intera degli uomini, è costellata.
La lucida consapevolezza dell'ineliminabilità degli errori cui soggiace la scienza marca la distanza tra la concezione nietzschiana della scienza e quella positivistica e fa di Nietzsche un lucido anticipatore della tematica epistemologica novecentesca.
Ciò che rende l'arte diversa dalla scienza non è dunque la maggiore oggettività di quest'ultima.
Sotto un certo rispetto, anzi, come ha osservato Gianni Vattimo, arte e scienza sono intesi, nelle opere di questo periodo, come «complementari nel definire un atteggiamento maturo dell'uomo nei confronti del mondo».
Delle figure che fino alle Considerazioni inattuali Nietzsche indicava come i "redentori" rimane ora in primo piano solo quella del buon filosofo, il cui metodo - in analogia con quello dello scienziato - è critico e storico. Critico perché egli assume il sospetto a criterio di analisi anche delle verità apparentemente più certe; storico nel senso che egli non crede a "realtà eterne" e "verità assolute", ma concepisce l'uomo e i suoi valori come un risultato delle circostanze storiche e del gioco delle forze che operano al suo interno.
Nietzsche diventa così "illuminista": dedica perfino a Voltaire - «uno dei più grandi liberatori dello spirito» - la prima edizione di Umano troppo umano.
Della filosofia settecentesca egli apprezza l'elemento del disincanto e la riduzione delle forme di vita alle loro basi sensistiche, più di tutte al piacere (tratto che ritrova in uno dei suoi poeti preferiti, Leopardi); rifiuta invece l'enciclopedismo, che anticipa l'aborrito sistema positivistico del suo tempo.
Si fa ora avanti in Nietzsche l'interesse per l'antropologia: tutti gli interrogativi circa il mondo e l'essere si concentrano sull'uomo.
Muta, di conseguenza, anche la concezione della vita: non più la vita universale del cosmo, ma la vita dell'uomo, evento biologico di questo mondo.
Di qui il violento attacco che Nietzsche rivolge al concetto di "trascendenza": cattiva filosofia è quella che "duplica" il mondo, immaginando idealisticamente una realtà in sé, dietro ai fenomeni.
Tutto si risolve al contrario nell'apparenza e nulla, neanche la scienza, può condurci alla cosa in sé, di cui sognava Schopenhauer, che «è degna di un'omerica risata».
Il cosiddetto "sovrumano" è in realtà solo un'illusione "troppo umana"; la credenza in una cosa in sé, al di là della realtà fenomenica, è solo un errore della ragione, che non può avere pretese di verità.
Le ipotesi metafisiche, così come quelle religiose, sono il frutto di un inganno cui l'uomo volontariamente soggiace.
Bugia cui l'uomo si appella per tollerare la propria caducità e la propria debolezza, per vagheggiare un significato infinito della propria esistenza, la metafisica «tratta degli errori fondamentali dell'uomo come se fossero verità fondamentali».
Giustificabile forse nello stato d'animo romantico tipico dell'età giovanile, che allevia lo scontento di sé riconoscendosi nel "mistero del mondo", essa ha un valore puramente consolatorio.
L'esito di questa svolta metodologica è l'analisi spietata della cultura dell'età moderna, di cui Nietzsche annuncia lo stato di malattia. I grandi modelli culturali ottocenteschi, da questo punto di vista, non sono altro che «raffinati imbrogli»: il Romanticismo, perché espressione di uno spirito pessimista, estetizzante e decadente; l'Idealismo, perché pretende assurdamente di realizzare una comprensione totalizzante e definitiva della realtà; il Positivismo, infine, in quanto ingenuo ottimismo che riduce la scienza a sistema.
Il campo nel quale Nietzsche mette alla prova la propria "filosofia critica" è ora quello della morale, la quale assoggetta la vita a valori pretesi trascendenti, che hanno invece la loro radice nella vita stessa.
Mentre la vita è esplosione di forme, i valori morali bloccano l'esistenza, iscrivendola nella cifra della trascendenza; quindi negano la vita.
Ciò di cui vi è bisogno, a suo parere, è una nuova «chimica delle idee e dei sentimenti», come suona il titolo del primo aforisma di Umano troppo umano.
Occorre ricondurre la filosofia «alla stessa forma interrogativa di duemila anni fa», quando i filosofi greci delle origini, prima dell'avvento della metafisica, chiedendosi come può nascere una cosa dal suo contrario, cercavano gli elementi semplici delle cose, e di queste ultime scoprivano la natura analizzandone la composizione.
La metafisica, affermatasi nella tradizione occidentale, ha negato che le cose derivassero dal loro opposto e ha affermato che le idee e i valori del mondo non potevano che avere un'origine "superiore", ossia provenire "dall'alto", da Dio o da una misteriosa cosa in sé.
Nietzsche, al contrario, disseziona i grandi sentimenti dell'umanità, li smaschera come illusioni, ne riafferma la radice non alta e trascendente ma "umana", «bassa e perfino spregevole».
Scriverà in Ecce homo: «Dove voi vedete le cose ideali, io vedo cose umane, ahi troppo umane».
Dietro a ogni ideale viene così scoperto il suo opposto: l'altruismo maschera l'egoismo, la verità l'impulso alla falsificazione, la santità la bramosia di vendetta.
L'uomo agisce in quanto spinto dall'istinto di conservazione e dall'intenzione di procurarsi il piacere e di evitare il dolore. Anche la volontà di sapere che lo anima, lungi dall'essere pura e disinteressata, ha dietro di sé la vita stessa, che è per essenza scontro di forze, lotta per la sopravvivenza.
A partire da questi princìpi semplici è possibile per Nietzsche ricostruire i molteplici processi che hanno portato alla nascita del mondo morale, con tutti i suoi pregiudizi, tutte le sue astuzie, le sue finzioni.
Se nel suo periodo giovanile il sentimento esistenziale più alto era stato il sentimento tragico, ora Nietzsche vagheggia un ideale di umanità libera dalle illusioni, in cui l'uomo abbia la forza di riconoscersi in modo autentico. Protagonista di questa riforma morale non è più il Genio artistico, bensì lo "spirito libero" (Freigeist).
Lo spirito libero è superiore al libero pensatore del Settecento, perché non crede ciecamente alla ragione, ma diffida e pone interrogativi.
Egli è il grande scettico: non ha soggezione né rispetto verso tutto ciò che gli "spiriti vincolati" accettano e venerano; ha la gaiezza e l'audacia temeraria di chi non indietreggia davanti a nulla; è alla caccia della verità, ma senza illusioni; ha la gelida freddezza del pensiero radicale che «penetra nelle carni della vita». Il suo è un mondo organizzato sul principio della "gaia scienza", libero dall'ignoranza e dalla paura.
La sua è l'etica del coraggio e della responsabilità, che appartiene agli uomini artefici del proprio destino, i quali, come Cristoforo Colombo, sanno dire addio al vecchio continente e farsi largo nel nuovo mare. Spiriti liberi sono stati i grandi retori dell'età sofistica, gli uomini forti dell'Umanesimo e del Rinascimento, i "costruttori di storia" come Napoleone; i loro avversari sono gli inventori delle grandi ipocrisie moralistiche: Socrate, Rousseau, e gli uomini asserviti alle società massificate moderne, come Bismarck.
Liberato dai miti wagneriani e schopenhaueriani, attraverso la figura dello spirito libero, Nietzsche mette a fuoco uno dei temi caratterizzanti l'intera sua produzione, la grandezza dell'esistenza: la vita dell'uomo ha valore per i grandi progetti che è capace di esprimere.
Tuttavia il Freigeist è solo una figura di passaggio, un viandante verso una meta non ancora chiarita. Lo stesso stato d'animo di Nietzsche è quasi in inquieta e curiosa attesa degli sviluppi di un pensiero ancora in movimento.
Leggiamo in Aurora: «E dove dunque vogliamo arrivare? Al di là del mare? Dove ci trascina questa possente avidità, che è più forte di qualsiasi altro desiderio? Perché proprio in quella direzione, laggiù dove sono fino a oggi tramontati tutti i soli dell'umanità? Un giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere un'India, ma che fu il nostro destino naufragare nell'infinito».
Viandante e spirito libero egli stesso, Nietzsche si trova all'«alba di un mondo disincantato non più coperto da nebbie mistiche e nuvole metafisiche» (Fink), alla ricerca di una nuova filosofia del mattino.
Con l'immagine della "filosofia del mattino" - che non può non ricordare, per contrasto, quella hegeliana della filosofia come "nottola di Minerva" - Nietzsche abbozza una nuova concezione della condizione umana che successivamente caratterizzerà più nitidamente attraverso le nozioni di "morte di Dio" e di amor fati.
Non abbiamo qui a che fare con una vera e propria dottrina, segnata da contenuti teorici positivi.
Nelle opere del periodo "illuministico", più ancora che nelle successive, la scrittura aforistica nietzscheana accumula in maniera disordinata materiali e spunti che non si lasciano coordinare in un insieme sistematico.
La stessa definizione di spirito libero non è tale da conferire un contenuto dottrinario preciso alla "filosofia del mattino", la quale esprime soprattutto una temperie spirituale e uno stato d'animo rinnovati da cui è segnato, in primo luogo, Nietzsche stesso, il quale attraversa nei mesi invernali del 1882, in cui compone la Gaia scienza, forse per l'ultima volta, un momento di straordinaria serenità interiore.
L'umanità a venire che egli ora vagheggia è caratterizzata dal "buon temperamento", da quello stato di convalescenza interiore che è proprio di uno spirito che ha resistito con pazienza all'oppressione e ora giunge all'esultanza dell'energia che ritorna, della fede nuovamente ridesta, del presentire l'avvenire, con nuove avventure, nuovi mari aperti. Sottratto al dominio della religione, della morale, della metafisica, lo spirito libero può ora intendere la vita come esperimento.
Se l'uomo occidentale si è perduto - perché ha posto la sua vita al servizio dei precetti della morale, di un "dietromondo" metafisico, della volontà di Dio - lo spirito libero giunge invece a conquistare la propria esistenza e a riconoscere se stesso come colui che crea e impone i propri valori.
Non più in ginocchio e sottomessa sotto "enormi pesi", la sua vita diventa libera: l'infinito a cui essa anela e tende non è più Dio o la legge morale, ma l'umanità stessa.
Se in Umano troppo umano la filosofia nietzscheana esprime ancora solo una scettica liberazione dalle illusioni, in Aurora e più ancora nella Gaia scienza essa si trasforma in una nuova e più lieta annunciazione.
La figura dello spirito libero si allontana da quella del freddo e spietato critico e trasmuta sempre più nel tipo d'uomo che rischia e fa esperimenti con la vita, che inventa con coraggio la propria condotta, che gioca con l'incertezza.
La sua scienza è "gaia" perché non ha la solenne serietà del concetto; e il suo stato d'animo, come quello di un uomo consapevole all'improvviso della propria libertà, si abbandona all'ebbrezza, alla danza dionisiaca, al gioco.
Diffidando delle concezioni generali del mondo, lo spirito libero vive piuttosto alla "superficie" del mondo, volontariamente orfano di ogni metafisica.
L'uomo dell'avvenire non smarrisce, tuttavia, il «senso storico».
Al contrario, nella sua spiritualità egli non esprime altro che l'intera storia passata dell'umanità assunta «come la propria storia».
Avere la forza di portare con sé il passato, sentendosi erede delle conquiste e delle vittorie così come delle perdite e delle sconfitte, del dolore dell'umanità così come della sua gioia: questa è la "felicità" che l'uomo finora non ha mai conosciuto, «la felicità di un dio colmo di potenza e di amore, di lacrime e di riso».
Con Aurora e con Gaia scienza - gli scritti del vomere - è così seminato il terreno su cui germoglieranno, di lì a poco, i pensieri fondamentali della filosofia di Nietzsche: la morte di Dio, il superuomo, l'eterno ritorno dell'uguale, la volontà di potenza.
La separazione tra forze vitali e attività razionale, corpo e anima, conoscenza tragica e conoscenza intellettuale inaugurata da Socrate, sviluppata da tutta la filosofia successiva e infine assunta a fondamento della scienza moderna, costituisce anche, agli occhi di Nietzsche, l'atto d'origine della morale intesa come conoscenza del bene e del male, alla quale la vita degli uomini è stata assoggettata per millenni.
L’esigenza di interrogare l'origine della morale e della tavola dei valori cui la civiltà occidentale si è rifatta, emersa già negli anni di Basilea come condizione per comprendere il mondo moderno, diventa stringente negli scritti degli anni Ottanta.
Da Aurora (1881) sino alla Genealogia della morale (1887) Nietzsche svolge dunque un percorso nel quale viene progressivamente delineandosi una vera e propria storia genetica della morale, nella quale vengono indagate le condizioni grazie alle quali essa ha potuto sorgere e gli effetti della sua coatta applicazione.
La morale, anzitutto, non è espressione dell'indole umana, ma è lo strumento di potere adottato dagli uomini più deboli, rinunciatari di fronte all'esuberanza del principio vitale, al fine di domare questo principio in coloro che sarebbero stati pronti ad accoglierlo.
La morale, in altri termini, è lo strumento di dominio di alcuni uomini su altri uomini e il sentimento cui essa si appella, la cosiddetta "voce della coscienza", non è che l'interiorizzazione di quel principio di autorità del quale il potere si alimenta.
La coscienza morale stessa, del resto, è un prodotto sociale di negazione dell'individuo e della sua autenticità, prodotto che risale al socratico "conosci te stesso" come invito a rinunciare alla vita per rifugiarsi in una supposta interiorità, al di là della quale starebbe l'insensatezza dell'esistenza terrena con i suoi errori e con le sue ingiustizie.
Se la morale è sempre manifestazione di un gioco di potere, per il quale l'individuo viene piegato alla volontà del gruppo (del "gregge", secondo l'espressione nicciana), essa ha però storicamente conosciuto un rivolgimento epocale nel trasformarsi da morale aristocratica in morale degli schiavi, trasformazione che si è storicamente intrecciata con la diffusione del cristianesimo.
La morale aristocratica è espressione della gioiosa affermazione di sé che caratterizza l'esperienza tragica e vitale della forza, della lotta, dell'attraversamento e dell'accettazione del dolore; la morale degli schiavi è invece quella di coloro i quali, non avendo la forza di vivere gioiosamente in questo mondo, lo calunniano e lo trascendono in un mondo ideale, in un al di là immaginario e consolatorio che legittima la rinuncia alla fatica di vivere pienamente su questa terra.
L’ascetismo e la scienza, con la loro esaltazione dello spirito contro il corpo, della contemplazione contro l'azione, della castità contro la sensualità, non sono che prodotti di questa morale di schiavi e dei suoi valori di rinuncia, sottomissione, umiltà e sacrificio.
Questa tavola di valori, formulata dai più deboli per "risentimento" nei confronti dei più forti, ha trionfato in nome del duplice modello di Socrate e di Cristo, i quali hanno dato voce alle tendenze antivitali dell'uomo, stringendo quell'alleanza tra metafisica, religione e scienza che è il segreto più profondo della civiltà occidentale.
Ma questa alleanza nella rinuncia, che ha imposto l'omologazione ai falsi valori del "gregge" e ha sinora fagocitato gli "spiriti liberi" piegandone la volontà o annientandone la vitalità, conduce ora, per intima necessità, alla morte di Dio e al tramonto di tutti i valori trascendenti.
La stessa cultura moderna, il razionalismo al quale essa è improntata si rivelano infine la più potente arma di autodistruzione della morale cristiana e di ogni concezione metafisica del mondo, annunciando, come leggeremo nel brano che segue, l'imminente dissoluzione di quella volontà di verità che ha costituito il nesso profondo tra scienza e ascetismo cristiano.
È pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza - anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall'incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è la verità e la verità è divina ...
Ma come è possibile, se proprio questo diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino salvo l'errore, la cecità, la menzogna, se Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna?
A questo punto è necessario fare una pausa e riflettere a lungo. La scienza stessa esige ormai una giustificazione (con ciò non si è ancora detto che ne esista una per lei).
Si considerino, in ordine a questo problema, le più antiche e le più recenti filosofie: in tutte queste manca una coscienza di quanto la stessa volontà di verità abbia prima bisogno di una giustificazione, ecco una lacuna in ogni filosofia - donde deriva ciò?
Dal fatto che l'ideale ascetico è stato fino a oggi padrone di ogni filosofia, dal fatto che la verità è stata posta come essere, come Dio, come la stessa istanza suprema, dal fatto che non era in alcun modo lecito alla verità essere problema.
Si intende questo "era lecito"?
A partire dall'istante in cui la fede nel Dio dell'ideale ascetico è negata, esiste anche un nuovo problema: quello del valore della verità.
La volontà di verità ha bisogno di una critica - con ciò noi determiniamo il nostro proprio compito -, in via sperimentale deve porsi una volta in questione il valore della verità. ...
L'incondizionato, onesto ateismo ( e unicamente la sua aria respiriamo noi, noi uomini maggiormente spirituali di quest'epoca!) non sta, conformemente a ciò, in contrasto con quell'ideale, come ne ha l'apparenza; è piuttosto soltanto una delle sue ultime fasi di sviluppo, una delle sue forme conclusive e delle sue intime consequenzialità - è la catastrofe, imponente rispetto, di una bimillenaria costrizione educativa alla verità, che finisce per proibirsi la menzogna della fede in Dio. [...]
Che cosa, domandiamocelo col massimo rigore, ha veramente trionfato sul Dio cristiano?
La risposta sta nella mia Gaia scienza: «La stessa moralità cristiana, il concetto di veracità preso con sempre maggiore rigore, la sottigliezza da padri confessionali della coscienza cristiana, tradotta e sublimata nella coscienza scientifica, nella pulizia intellettuale a qualsiasi prezzo.
Riguardare la natura come se essa fosse una dimostrazione della bontà e della protezione di un dio; interpretare la storia in onore di una ragione divina come costante testimonianza di un ordinamento etico del mondo e di finali intenzioni etiche; spiegare le proprie esperienze di vita come le hanno abbastanza a lungo spiegate uomini religiosi, come se tutto fosse una disposizione, tutto fosse un cenno, tutto fosse concepito e preordinato per amore e per la salute dell'anima: questo ha ormai fatto il suo tempo, ha la coscienza contro di sé, è per tutte le coscienze sensibili qualcosa di sconveniente, di disonesto, una menzogna, roba da donnicciole, debolezza, viltà; grazie a questo rigore, se non altro, noi siamo appunto buoni Europei ed eredi del più lungo e più valoroso autosuperamento dell'Europa». ...
In tal modo il cristianesimo come dogma è crollato per la sua stessa morale; in tal modo anche il cristianesimo come morale deve ancora crollare noi siamo alla soglia di questo avvenimento.
Avendo la veracità cristiana tratto una conclusione dopo l'altra, trae infine la sua più drastica conclusione, la sua conclusione contro se stessa; ma questo avviene, quand'essa pone la questione "che cosa significa ogni volontà di verità?" ... E a questo punto tocco ancora una volta il mio problema, cari amici sconosciuti (giacché ancora non so di alcun amico): che senso avrebbe tutto il nostro essere, se non quello espresso dal fatto che in noi codesta volontà di verità sarebbe diventata cosciente a se stessa come problema?
... Per questa progressiva autocoscienza della volontà di verità, a partire da questo momento - non v'è alcun dubbio - va crollando la morale: un grande spettacolo in cento atti, che viene riservato ai prossimi due secoli europei, il più tremendo, il più problematico, e forse anche il più ricco di speranza tra tutti gli spettacoli ...
L'assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione che fino a oggi è dilagata su tutta l'umanità - e l'ideale ascetico offrì a essa un senso! È stato fino a oggi l'unico senso; un qualsiasi senso è meglio che nessun senso; l'ideale ascetico è stato sotto ogni aspetto il "faute de mieux" par excellence [il niente di meglio per eccellenza] che sia mai esistito sino ad ora. ...
Non ci si può assolutamente nascondere che cosa propriamente esprime tutto quel volere, che sulla base dell'ideale ascetico ha preso il suo indirizzo: questo odio contro l'umano, più ancora contro il ferino, più ancora contro il corporeo, questa ripugnanza ai sensi, alla ragione stessa, il timore della felicità e della bellezza, questo desiderio di evadere da tutto ciò che è apparenza, trasmutamento, divenire, morte, desiderio, dal desiderare stesso - tutto ciò significa, si osi rendercene conto, una volontà del nulla, un'avversione alla vita, una rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita, e tuttavia è e resta una volontà!. ..
E per ripetere in conclusione quel che già dissi all'inizio: l'uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere ...
(da F. Nietzsche, Genealogia della morale, a cura di F. Masini, Adelphi, Milano 1972, pp. 356-57, 364-67).
La comune radice di metafisica, scienza e cristianesimo è l'impossibilità di tollerare l'insensatezza del dolore, la mancanza, per la vita dell'uomo, di cause prime e fondamenti ultimi; a tale assurdità (che solo il sapere dionisiaco era stato in grado di tollerare) l'ideale ascetico pose fine, fornendo una risposta, benché menzognera, a ciò che risposta non poteva avere.
È dunque il medesimo ascetismo che caratterizza sia la costruzione metafisica socratico-platonica sia la morale cristiana ("cristianesimo" che infatti Nietzsche attribuisce già a Platone), sia la moderna fede nella scienza, ultima manifestazione della metafisica stessa.
L’ascetismo però, mentre si manifesta come volontà del nulla (avendo rinnegato tutti «i presupposti fondamentalissimi della vita: la corporeità, il desiderio, l'incessante trasmutare della vita nella morte e viceversa»), altro non è se non volontà di verità, volontà di rispondere all'angosciosa domanda: «a che scopo?».
Proprio la fede metafisica nella possibilità (e dunque nella necessità) di rispondere a tale domanda ha alimentato il rigore della ricerca, la capacità critica che costituisce il tratto più nobile della cultura europea: essere «buoni Europei», scrive Nietzsche, significa condurre con onestà intellettuale l'esercizio critico, spingendo la domanda sul senso e sullo scopo fino al suo limite estremo.
Tale limite però è oggi costituito dal senso della verità stessa e implica, in un clamoroso capovolgimento, la necessità di una critica della medesima volontà di verità su cui tutta la cultura europea si è edificata; lo stesso ateismo, la negazione dell'esistenza di Dio e di una verità da lui garantita, altro non è se non l'ultima fase di sviluppo della volontà di verità, che giunge così alla propria catastrofe.
Dio infatti si rivela come «la nostra più lunga menzogna» e menzognera ogni interpretazione del mondo come un tutto ordinato, armoniosamente retto da un supremo principio di giustizia e bontà: l'onestà intellettuale del «buon Europeo» non può ormai che constatare l'avvenuta «morte di Dio», affrontando lo smarrimento e il dolore di fronte al trionfo del caos, dell'insensato, della nullità di ogni valore costituito.
Lo sgomento e l'incredulità che assalgono l'uomo moderno proprio nel momento in cui si libera della propria antica menzogna sono efficacemente descritti da Nietzsche in una celebre pagina della Gaia scienza (1882), nella quale l'annuncio della morte di Dio è metaforicamente affidato al grido di un "uomo folle" - ma la follia, si ricordi, era anche la caratteristica degli iniziati alla conoscenza dionisiaca:
Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!».
E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. «È forse perduto?» disse uno.
«Si è perduto come un bambino?» fece un altro.
«Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?» - gridavano e ridevano in una gran confusione.
Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: «Dove se n'è andato Dio? - gridò - ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini!
Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia?
Chi ci dette la spugna per strusciar via l'intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora?
Dov'è che ci muoviamo noi? Vìa da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, davanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?
Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venir notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione?
Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!
Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini?
Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue?
Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione?
Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!».
A questo punto il folle uomo tacque e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch'essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. «Vengo troppo presto - proseguì - non è ancora il mio tempo.
Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate.
Quest'azione è ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l'hanno compiuta!». Si racconta ancora che l'uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Dea.
Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: «Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?».
(da F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125, trad. it. di F. Masini, in Opere di F. Nietzsche, Adelphi, Milano 1972, vol. V, tomo 2, pp. 129-130).
Il sapere della morte di Dio è a un tempo il sapere della catastrofe di un intero sistema di valori e della concezione del mondo cui essi si attagliavano.
La volontà di verità giunge così alla sua ultima e più profonda acquisizione, cui corrisponde lo smascheramento delle sue menzogne e della sua stessa natura originaria; volontà di verità è infatti niente altro che volontà di nulla e proprio l'angoscia del nulla è quella che assale l'uomo folle della pagina che abbiamo appena letto.
La volontà di nulla, su cui si è fondata la colossale rinuncia della cultura occidentale, trionfa nel mondo moderno nella forma del più grave nichilismo, concetto questo che assume nella filosofia nicciana un ruolo fondamentale. Se infatti nichilista è la natura più profonda della volontà di verità e di ogni atteggiamento di fuga di fronte alla vita, nel mondo moderno il nichilismo trionfante nella devastazione di ogni residua metafisica costituisce un momento necessario per il suo stesso superamento.
Non si tratta però di un superamento dialettico sulla base del modello hegeliano: il superamento del nichilismo ha infatti carattere eminentemente tragico; esso non consiste in un'elevazione conservativa in nome di una razionalità superiore, ma in una trasmutazione devastante che tolleri l'impossibilità della redenzione.
L’attraversamento del nichilismo, dello scetticismo qualunquista, del disinteresse e del cinismo che caratterizzano la moderna società borghese è, secondo Nietzsche, la condizione necessaria perché l'uomo possa finalmente aderire con rinnovata forza creativa all'imperscrutabile vitalità dell'esistenza, non più solo tollerandone il caotico divenire e la crudele casualità, ma amando quella stessa insensatezza come il vero «senso della terra».
"Insensata", del resto, la vita appare solo rispetto a quel supposto senso ultimo e onnicomprensivo sul quale si è fondata la millenaria menzogna di Dio; allo stesso modo, il nichilista può affermare che "niente dura" e "niente vale la pena" solo in relazione a quelle verità che ritiene di avere perduto, ma di cui non riesce ancora a comprendere l'originaria inconsistenza.
Ma quando questa comprensione venga attinta, allora l'antica volontà di verità cede il posto a una ,'volontà di nuovo genere: quella volontà di potenza che, al di là della schopenhaueriana volontà di vivere, è per Nietzsche la vera legge della natura: accettazione attiva della vita e superamento dello "spirito di vendetta" che il nichilismo nutre di fronte all'ineluttabile legge del tempo che tutto vanifica e distrugge.
Il concetto di volontà di potenza come superamento del nichilismo riveste senza dubbio un ruolo fondamentale nella riflessione di Nietzsche, ma il suo senso più profondo (rimasto a lungo inattinto a seguito di falsificazioni e fraintendimenti, dei quali avremo modo di trattare più avanti) può essere colto solo in relazione ad altre due idee portanti della filosofia nicciana - quella di oltreuomo e quella di eterno ritorno - che vengono sviluppate negli scritti degli anni Ottanta.
In questo periodo Nietzsche vive in un precario vagabondare, mantenendosi con la modesta pensione ottenuta dopo il congedo dall'Università di Basilea.
Dopo la pubblicazione di Aurora e della Gaia scienza, egli inizia a lavorare a quello che sarà in seguito riconosciuto come il suo capolavoro, Così parlò Zarathustra, che verrà però conosciuto solo nel 1891 quando ormai Nietzsche giacerà avvolto dalle tenebre della follia.
In questo scritto, con stile personalissimo e tono profetico, servendosi di un ampio sistema metaforico e dando maggior respiro letterario alla forma aforistica già adottata in precedenza, Nietzsche fornisce un quadro complessivo dei risultati attinti nei dieci anni trascorsi dalla pubblicazione della Nascita della tragedia.
Il progetto dello Zarathustra nasce nel 1883 a Rapallo, allora povero borgo di pescatori, dove Nietzsche soleva quotidianamente percorrere in lunghe passeggiate la strada che va da Santa Margherita a Portofino. Zarathustra, l'antico profeta persiano conosciuto anche con il nome di Zoroastro, è il personaggio simbolico nel quale si incarna lo stesso Nietzsche, maestro di una sapienza lampeggiante, spesso oscura e paradossale.
Alle tre parti del Così parlò Zarathustra composte tra l'83 e l'84 se ne aggiunge una quarta composta nel 1885.
Nel 1886 esce anche Al di là del bene e del male, ma entrambi i libri restano quasi completamente ignorati dal pubblico.
Lo stesso destino toccherà anche a Genealogia della morale, opera del 1887, della quale abbiamo letto alcuni brani nel paragrafo precedente.
Nel 1888 Nietzsche si stabilisce a Torino, dove gli sembra di avere finalmente trovato la sua dimora ideale. Qui compone vari scritti polemici: Il caso Wagner (1888), Il crepuscolo degli idoli (1888), l’Anticristo, Ecce homo (ricostruzione autobiografica della sua formazione filosofica e della sua “inattualità”), Nietzsche contra Wagner e infine i Ditirambi di Dioniso (pubblicati postumi).
Le condizioni di salute di Nietzsche erano però sempre più precarie e solo un anno più tardi, proprio a Torino, egli verrà colto dal primo accesso di follia.
Se il nichilismo è presentato da Nietzsche come la necessaria fase di transizione per il superamento della volontà di verità, verso cosa tende tale transizione?
Quale umanità potrà tollerare la caduta di tutti i valori, ma anche essere in grado di istituirne di nuovi?
La risposta a queste domande rappresenta la parte costruttiva della filosofia nicciana e risiede anzitutto in quella nuova idea di umanità che è presupposta dal concetto di oltreuomo (o superuomo).
La morte di Dio pone infatti le condizioni per il superamento della nozione di umanità che si è edificata sulla rinuncia a vivere.
Il nichilismo che è derivato da tale rinuncia è la negazione di tutti valori della tradizione, ma, nello stesso tempo, è anche la condizione per la creazione di una «nuova tavola di valori» fondata sul «senso della terra», cioè su quel sapere dionisiaco della vita che è in grado di trasformare l'insensatezza dell'esistenza in senso rinnovato, senza fuggirne gli aspetti più inquietanti.
Zarathustra, come leggeremo nel brano che segue, è colui che annuncia l'avvento di questa nuova sapienza, dalla quale potrà sorgere appunto l'oltreuomo, un uomo cioè che avrà finalmente oltrepassato la menzognera frattura tra bene e male, tra verità ed errore, tra salute e malattia, tra vita e morte, e che avrà perciò imparato a vivere acconsentendo all'incessante divenire di tutte le cose.
Ma, come accadeva all'uomo folle che annunciava le conseguenze della morte di Dio, anche Zarathustra non viene compreso dai suoi uditori, i quali non sono ancora in grado di attraversare fino in fondo il nichilismo di cui sono portatori.
Giunto nella città vicina, sita presso le foreste, Zarathustra vi trovò radunata sul mercato una gran massa di popolo: era stata promessa infatti l'esibizione di un funambolo. E Zarathustra parlò così alla folla:
lo vi insegno il superuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l'uomo? [...]
Ecco, io vi insegno il superuomo!
Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra!
Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire! [...]
Ma anche voi, fratelli, ditemi: che cosa manifesta il vostro corpo dell'anima vostra?
Non è forse la vostra anima indigenza e feccia e miserabile benessere?
Davvero, un fiume immondo è l'uomo.
Bisogna essere un mare per accogliere un fiume immondo, senza diventare impuri.
Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare, nel quale si può inabissare il vostro grande disprezzo.
Qual è la massima esperienza che possiate vivere?
L'ora del grande disprezzo.
L'ora in cui vi prenda lo schifo anche per la vostra felicità e così pure per la vostra ragione e la vostra virtù.
L'ora in cui diciate: «Che importa la mia felicità! Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere. Ma la mia felicità dovrebbe giustificare persino l'esistenza!».
L'ora in cui diciate: «Che importa la mia ragione! Forse che essa anela al sapere come il leone al suo cibo? Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere!».
L'ora in cui diciate: «Che importa la mia virtù! Finora non mi ha mai reso furioso. Come sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è indigenza e feccia e benessere miserabile!».
L'ora in cui diciate: «Che importa la mia giustizia! Non mi vedo trasformato in brace ardente! Ma il giusto è brace ardente!».
L'ora in cui diciate: «Che importa la mia compassione! Non è forse la compassione la croce cui viene inchiodato chi ama gli uomini? Ma la mia compassione non è crocefissione».
Avete già parlato così? Avete mai gridato così? Ah, vi avessi già udito gridare così! [...]
Zarathustra aveva detto queste parole, quando uno della folla gridò: «Abbiamo sentito parlare anche troppo di questo funambolo; è ora che ce lo facciate vedere!».
E la folla rise di Zarathustra. Ma il funambolo, credendo che ciò fosse detto per lui, si mise all'opera. Zarathustra invece guardò meravigliato la folla. Poi parlò così:
L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, - un cavo al di sopra di un abisso.
Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi.
La grandezza dell'uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell'uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto.
lo amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione.
lo amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono anche gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano a un'altra riva.
Io amo coloro che non aspettano di trovare una ragione dietro le stelle per tramontare e offrirsi in sacrificio: bensì si sacrificano alla terra, perché un giorno la terra sia del superuomo.
lo amo colui che vive per la conoscenza e vuole conoscere, affinché un giorno viva il superuomo. E così egli vuole il proprio tramonto. [...]
lo amo colui l'anima del quale si dissipa e non vuole essere ringraziato, né dà qualcosa in cambio: giacché egli dona sempre e non vuole conservare se stesso.
lo amo colui che si vergogna quando il lancio dei dadi riesce in suo favore e si domanda: son forse un baro? - egli infatti vuole perire.
lo amo colui che getta avanti alle proprie azioni parole auree e mantiene più di quanto prometta: egli infatti vuole il proprio tramonto.
lo amo colui che giustifica gli uomini dell'avvenire e redime quelli del passato: a causa degli uomini del presente egli infatti vuole perire. [...]
lo amo tutti coloro che sono come gocce grevi, cadenti una a una dall'oscura nube incombente sugli uomini: essi preannunciano il fulmine e come messaggeri periscono.
Ecco, io sono un messaggero del fulmine e una goccia greve cadente dalla nube: ma il fulmine si chiama superuomo.
(da F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1993, pp. 5-10).
L'oltreuomo potrà sorgere solo quando sarà stata attinta la conoscenza più profonda cui il nichilismo medesimo può condurre: la conoscenza che l'uomo è essenzialmente "ponte", "transizione" e "tramonto".
Ma per attingere tale conoscenza è necessario accettare il proprio stesso tramonto: ecco perché Zarathustra dice che l'uomo più grande, più degno di amore è quello che acconsente a trapassare, colui che non vuole conservarsi ma che, con esuberanza, si consuma e si dissipa insieme a tutto quanto di più grande riteneva di possedere e di essere: la sua felicità, la sua ragione, la sua virtù, la sua giustizia e, infine, il suo stesso sussistere come individuo e come scopo.
È questa una conoscenza attiva, un sapere della vita e della morte che mette in gioco, in ultima analisi, la tradizionale nozione di soggetto.
Se infatti l'uomo è «un periglioso essere in cammino», un ininterrotto transitare privo di garanzie, egli non può più in alcun modo concepirsi come permanenza individuata, come sostrato o come sostanza.
Questa concezione, direttamente connessa a quella positivistica della realtà come "fatto", nella prospettiva nicciana cede il passo a una nuova etica dell'impermanenza che fa di ogni realtà un enigma e un esercizio, cui l'uomo corrisponde interpretandone di volta in volta il senso, senza tuttavia poter mai risalire a verità ultime e stabili.
L'uomo nuovo però è colui che non solo non può risalire a verità ultime, ma che neppure vuole cercarne. All'oltreuomo infatti compete quella volontà di nuovo genere che ora si specifica come volontà di aderire in modo inaudito al ciclo cosmico del tempo.
Dice infatti Zarathustra: «lo amo colui che giustifica gli uomini dell'avvenire e redime quelli del passato»; l'uomo nuovo, in altri termini, potrà sorgere solo quando verrà oltrepassata la concezione lineare del tempo inteso come meccanica successione di istanti determinati.
In tale concezione, contrapposta a quella ciclica greco-pagana, è implicito il principio di una progressiva perfettibilità (che trova compimento nella dottrina cristiana di una perfezione oltremondana) che impedisce di cogliere la pienezza dionisiaca, tragicamente perfetta, di ogni istante in cui la vita si manifesta.
Lo "spirito di vendetta", che caratterizza il nichilismo come risentimento nei confronti di ciò che è stato, rifiuto di ciò che è e attesa incerta del suo superamento in ciò che sarà, trova qui la sua antitesi più radicale: l'oltreuomo è infatti colui che sa assumere nel presente tutta la responsabilità del passato da cui proviene e quella del futuro verso cui è slanciato, senza rifiutarne nulla, ma trasformando il peso di tale responsabilità nella gioia innocente della vita che eternamente afferma se stessa:
Ma come può l'oltreuomo farsi responsabile anche del passato?
Come può assumere su di sé il peso di tutto ciò che è già accaduto e che, secondo la nozione lineare di tempo, precederebbe il presente, essendone eventualmente la causa e mai l'effetto?
Come può, in altri termini, la volontà "volere a ritroso"?
Benché a tale proposito le parole di Nietzsche rimangano spesso oscure e ambigue, tuttavia egli è molto chiaro nell'affermare che proprio tale capacità è quella che caratterizzerà precipuamente la sapienza dell'oltreuomo.
Uno che vede e vuole e crea, egli stesso un futuro e un ponte verso il futuro - e ahimè, ancora quasi uno storpio sul ponte: tutto ciò è Zarathustra. ...
Io passo in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti dell'avvenire: di quell'avvenire che io contemplo.
E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità.
E come potrei sopportare di essere uomo, se l'uomo non fosse anche poeta e redentore della casualità!
Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni "così fu" in un "così volli che fosse!" - solo questo può essere per me redenzione! Volontà - è il nome di ciò che libera e procura la gioia: così io vi ho insegnato, amici miei! Ma adesso imparate ancora questo: la volontà, di per sé, è ancora come imprigionata.
Volere libera: ma come si chiama ciò che getta in catene anche il liberatore? "Così fu" - così si chiama il digrignar di denti della volontà e la sua mestizia più solitaria. Impotente contro ciò che è già fatto, la volontà sa male assistere allo spettacolo del passato.
La volontà non riesce a volere a ritroso: non potere infrangere il tempo e la voracità del tempo, - questa è per la volontà la sua mestizia più solitaria. ...
Che il tempo non possa camminare a ritroso, questo è il suo rovello; "ciò che fu" - così si chiama il macigno che la volontà non può smuovere.
E così fa rotolare sassi piena di malumore e di rovello, e si vendica contro tutto quanto non provi il suo stesso rovello e malumore.
Così la volontà, invece di liberare, infligge sofferenza: e oggetto della sua vendetta, per non poter volere a ritroso, è tutto quanto sia capace di soffrire.
Ma questo, soltanto questo, è la vendetta stessa: l'avversione della volontà contro il tempo e il suo "così fu". ...
Ogni "così fu" è un frammento, un enigma, una casualità orrida - fin quando la volontà che crea non dica anche: "ma così volli che fosse!".
Finché la volontà che crea non dica anche: "ma io così voglio! Così vorrò!".
Ma ha già detto questa parola?
E quando avviene tutto ciò? Si è già liberata la volontà dalle pastoie della propria follia?
È già diventata una volontà che liberi, e procuri gioia a se stessa?
Ha disimparato lo spirito di vendetta e ogni digrignar di denti?
E chi ha insegnato alla volontà la conciliazione col tempo, e ciò che sta al di sopra di ogni conciliazione?
Bisogna che la volontà - in quanto volontà di potenza - voglia qualcosa al di sopra di ogni conciliazione: ma come può accadere ciò alla volontà?
Chi le ha insegnato il volere a ritroso?
(da F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, op. cit., pp. 161-164).
La conciliazione con il tempo è dunque il vero enigma incarnato dall'oltreuomo, il quale non è solo colui che ha imparato la gioia della volontà di potenza come forza che riafferma la vita, ma è anche colui che ha saputo trasvalutare la volontà di potenza medesima.
Essa infatti non sorge originariamente come capacità di volere a ritroso, ma come quel principio di autoaccrescimento della vita che si nutre dello stesso dolore, della stessa casualità che produce.
In altri termini, la volontà di potenza, in quanto legge universale della vita, è anzitutto quel campo di forze all'interno del quale, di volta in volta, una forza sopraffà le altre, una volontà sottomette le altre; ma la trasmutazione che la volontà dell'oltreuomo, proprio in quanto volontà di potenza, deve attraversare implica che essa impari a nutrirsi anche di ciò che non può sopraffare, ossia che impari a volere ciò che non può dominare: il passato, appunto, e il suo "così fu" che sembra inevitabilmente sfuggire alla volontà presente.
Ma - questo è senza dubbio il punto più complesso da intendere - per poter volere ciò che è già stato, bisogna porre che ciò che fu sia anche ciò che sarà: bisogna porre cioè che il passato possa ritornare e che, infine, esso coincida con il futuro.
Si delinea così il problema che Nietzsche cercherà di affrontare con la dottrina dell' eterno ritorno dell'identico, dottrina che egli considererà il punto culminante di tutta la sua ricerca.
Ha scritto Nietzsche che il pensiero dell'eterno ritorno gli si rivelò all'improvviso nell'estate del 1881, mentre camminava lungo il lago di Silvaplana a Sils-Maria, in Alta Engadina, nei pressi di un macigno in forma di piramide.
La prima esposizione dell'immane scoperta che egli ritenne di avere fatto si trova in un aforisma della Gaia scienza, intitolato Il peso più grande.
Che accadrebbe se un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l'hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso.
L'eterna clessidra dell'esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!»?
Non ti rovesceresti a terra digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure forse hai vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina»?
Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?»
graverebbe sul tuo agire come il peso più grande!
Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun'altra cosa che quest'ultima eterna sanzione, questo suggello?
(da F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 341, op. cit., pp. 236-237).
Dopo questa prima formulazione, Nietzsche ha fornito diverse versioni della dottrina dell'eterno ritorno, la cui intuizione di partenza (che richiama, come è stato osservato, antichissime dottrine cosmologiche) potrebbe essere così sintetizzata: se il tempo è eterno, allora ogni combinazione di eventi, e perciò ogni evento, dovrà eternamente ripetersi.
È chiaro però che Nietzsche ravvisa nell'eterno ritorno qualcosa di più profondo e originale, alla cui rivelazione egli affida la trasformazione dell'uomo in oltreuomo.
Come però ciò vada inteso resta un enigma sul quale gli interpreti si sono variamente affaticati e tuttora si affaticano.
Nietzsche per primo non ha sciolto l'enigma e ha anzi fornito indicazioni contraddittorie. La rivelazione restò a lui stesso oscura, sicché non fu possibile tradurla in concetti?
Oppure il suo contenuto e la sua natura erano tali da non potersi tradurre in concetti?
La lettura che noi abbiamo dato dell'eterno ritorno dell'identico come condizione per la trasvalutazione della stessa volontà di potenza è, evidentemente, solo una delle possibili, ma ci sembra fornire almeno una chiave di accesso all'arduo concetto di oltreuomo.
Il 3 gennaio del 1889 Nietzsche è colto da un accesso di demenza: in stato di semicoscienza si getta al collo di un cavallo maltrattato dal padrone di fronte alla sua casa torinese.
Viene ricoverato in una casa di cura a Jena, ma le sue condizioni non danno alcun segno di miglioramento.
Sarà dunque affidato all' assistenza della madre e, alla morte di essa, alle cure della sorella Elisabeth.
Nietzsche resterà per undici anni chiuso in una follia senza rimedio e morirà a Weimar nel 1900, ignaro del suo tragico destino come del successo che le sue opere avevano frattanto riscosso in tutta Europa.
I libri che egli aveva faticosamente pubblicato a sue spese negli intensi e solitari anni di attività e che erano stati a suo tempo accolti dall'indifferenza generale, venivano ora osannati come opere geniali e profetiche.
Fautrice del rilancio dell' opera di Nietzsche fu però la sorella Elisabeth, la quale, curandone la revisione e la pubblicazione, si rese colpevole di varie censure e falsificazioni (oggi ampiamente documentate) che favorirono l’interpretazione del pensiero del fratello come precursore del nazismo e dei suoi miti razzisti e superomistici.
Alla morte di Nietzsche, la frenetica attività di controllo dei suoi scritti da parte della sorella non si esaurì: essa diresse ancora per molti anni l’Archivio fondato dopo la scomparsa del filosofo e, negli anni successivi, fu un’attiva sostenitrice del neonato partito nazionalsocialista.
Nel 1906 Elisabeth pubblicò la Volontà di potenza, opera che, sebbene nata dalla manipolazione e dall'arbitrario accorpamento di frammenti non preparati da Nietzsche per la stampa, verrà diffusa come il testo al quale egli avrebbe affidato la formulazione più compiuta della sua filosofia.
Tutta la cultura reazionaria che si diffonderà in Europa nel primo Novecento farà esplicito riferimento a Nietzsche (Hitler stesso ne fu un estimatore), interpretandolo come il teorico della supremazia del più forte, della superiorità del popolo tedesco, del trionfo della crudeltà come principio vitale contrapposto alle degenerazioni della civiltà borghese e della cultura illuministica.
Solo il paziente lavoro filologico e critico compiuto dalla storiografia filosofica negli ultimi cinquantanni ha potuto fare giustizia dei falsi diffusi da Elisabeth Forster Nietzsche, riaprendo sul "caso Nietzsche" una discussione critica che ancora oggi non smette di alimentarsi.
La complessa vicenda ermeneutica della quale il pensiero di Nietzsche è stato oggetto nel corso del Novecento, se certamente è derivata da manipolazioni e forzature rese possibili dalla tragica conclusione dell'esistenza del filosofo e dall'atmosfera culturale e politica nella quale i suoi scritti hanno avuto la prima diffusione, lascia tuttavia non pochi problemi aperti anche per il lettore contemporaneo.
Non solo infatti lo stile espositivo spesso arduo quando non addirittura contraddittorio, ma anche l’indiscutibile ambiguità che accompagna i nodi centrali della riflessione nicciana sembrano favorire la possibilità di letture tra loro antitetiche, ma filologicamente non infondate.
Così, per esempio, il complesso tema della volontà di potenza rimane senza dubbio aperto a interpretazioni differenti da quella che ne abbiamo dato nei paragrafi precedenti, soprattutto in relazione al suo intreccio con la volontà di verità e con il concetto di oltreuomo; ma anche la dottrina dell’eterno ritorno, come abbiamo già segnalato, non può, alla luce delle formulazioni nicciane, avere un’interpretazione univoca ed esaustiva.
Questi temi sono dunque da accogliere come occasioni di rinnovato esercizio della domanda filosofica, piuttosto che come luoghi nei: quali essa possa trovare risposta univoca e ultimativa.
Per gli scopi che qui ci proponiamo, basti sottolineare in primo luogo come volontà di verità e volontà di potenza, contrapposte nell'essere l'una rinuncia e l'altra affermazione della vita, coincidano però nel loro comune tendere a dominare e a fagocitare tutto ciò che non può essere risolto in funzione del loro autoaccrescimento; si potrebbe dunque leggere la volontà di verità come la forza dominante nella dinamica della volontà di potenza occidentale.
In secondo luogo, cogliendo l'aspetto violento e onnivoro della volontà di potenza come autoaffermazione, si può notare come al fondo di tale nozione traspaia quella teoria della selezione naturale e dell'evoluzione delle specie su cui si fondava l'ottimismo positivistico tante volte attaccato da Nietzsche.
Anche il concetto di oltreuomo, del resto, si presta a un'interpretazione di tipo evoluzionistico e, addirittura, potrebbe essere ricondotto a una retriva matrice di darwinismo sociale, soprattutto in relazione all'esaltata apologia dello spirito "aristocratico" contro la "morale del gregge", che ricorre in molti scritti nicciani.