Quando Carlo III di Borbone nel 1752 fece iniziare i lavori per la costruzione della reggia di Caserta, il suo scopo era quello di farne la Versailles del Regno di Napoli.
L’obiettivo che il sovrano si era prefissato, affidando la realizzazione dell’impresa all’architetto Luigi Vanvitelli, fu perfettamente raggiunto. L’edificio comprende una enorme struttura lineare, che ingloba al suo interno quattro cortili uguali.
Al regolare impianto architettonico, con lunghe facciate incorniciate agli angoli da corpi lievemente sporgenti, corrisponde una rigorosa distribuzione degli ambienti interni, articolati secondo precise esigenze di funzionalità e di rappresentanza.
Dal momento della posa della prima pietra, il 20 gennaio 1752, giorno del trentaseiesimo compleanno del re, occorrerà giungere fino al 1774 perché la costruzione sia completata.
La morte del sovrano spagnolo, Ferdinando IV, ed il ritorno a Madrid di Carlo III, per subentrargli sul trono, non interruppero i lavori alla reggia, completata, dopo la scomparsa di Luigi Vanvitelli, dal figlio Carlo.
Dal portale centrale, che si apre sulla facciata, in travertino e laterizi, sopra un basamento a bugnato, si accede ad una galleria a triplice navata, collegata a tre vestiboli. Dal vestibolo principale si diparte lo scalone monumentale che sale alla Cappella Palatina e agli Appartamenti Reali, decorati e arredati, tra la fine del Settecento e la prima metà del secolo successivo, da artisti e artigiani locali.
Attorno alla reggia fu progettato un parco, esemplato anch’esso sul celebre giardino francese del Re Sole, la cui ornamentazione, insieme agli arredi, fu ideata dallo stesso Vanvitelli.
Il rifornimento idrico era garantito dall’acquedotto Acqua Carolina, realizzato anch’esso dall’architetto.
I giardini della reggia
Attorno alla reggia di Caserta, costruita a partire dal 1752 per volontà del re Carlo III di Borbone, fu progettato un parco, esemplato anch’esso sul celebre giardino francese, la cui ornamentazione e gli arredi furono ideati dallo stesso Vanvitelli.
Il rifornimento idrico era garantito dall’acquedotto Acqua Carolina, progettato anch’esso dall’architetto. Un lungo corso d’acqua scende sotto forma di cascata dalla collina di Briano e definisce l’asse principale attorno al quale si struttura il parco, con una successione di fontane ornate da gruppi scultorei, raffiguranti allegorie della religione, del matrimonio, della giustizia e dell’ingegno umano, che si susseguono secondo un complesso programma iconografico.
Per la realizzazione delle statue, il Vanvitelli non chiamò gli artisti napoletani più famosi dell’epoca, ma preferì avvalersi di esecutori meno noti che seguissero puntualmente i suoi progetti.
I temi furono scelti con cura dal repertorio classico e mitologico assieme al figlio Carlo, subentratogli nell’impegno, il quale lasciò poi maggiore iniziativa agli scultori impegnati nel laborioso compito.
Dopo il 1768, durante il regno di Ferdinando IV, una zona del parco fu trasformata in giardino all’inglese, con ampie zone in cui la natura venne lasciata all’apparente stato di libertà; in realtà, dietro questa casualità si celava un attento artificio.
La vendetta di Diana
Il lungo corso d’acqua che scende sotto forma di cascata dalla collina di Briano definisce l’asse principale, attorno al quale si struttura il parco della reggia di Caserta, con una successione di fontane ornate da gruppi scultorei, raffiguranti allegorie della religione, del matrimonio, della giustizia, dell’ingegno umano, che si susseguono secondo un complesso programma iconografico.
Davanti all’edificio campeggia la grandiosa fontana di Diana e Atteone. Le sue sculture narrano la sfortunata storia di Atteone, il giovane principe che durante la caccia vide per caso Diana assieme alle ninfe, intenta a bagnarsi in un laghetto.
Per punirlo di avere visto la sua nudità, la dea lo trasformò in un cervo, che i suoi stessi cani inseguirono e sbranarono. Per la realizzazione delle statue il Vanvitelli non chiamò gli artisti napoletani più famosi dell’epoca, ma preferì avvalersi di esecutori meno noti che seguissero puntualmente i suoi progetti.
I temi furono scelti con cura dal repertorio classico e mitologico assieme al figlio Carlo, subentratogli nell’impegno, il quale lasciò poi maggiore iniziativa agli scultori impegnati nel laborioso compito.
A poca distanza da Torino, in località Stupinigi, sorgeva una grande foresta che era riserva di caccia reale. Nel 1729 il re Vittorio Amedeo II decise la costruzione di un edificio che potesse ospitare la corte e i suoi ospiti durante le battute di caccia e ne affidò l’incarico all’architetto messinese Filippo Juvarra (1678-1736). Nel 1730 iniziarono i lavori di edificazione dell’originale struttura architettonica, che sviluppa il tema della pianta centrale da cui si dipartono diversi corpi di fabbrica a formare una croce di Sant’Andrea.
All’incrocio dei bracci, un vasto ambiente ovale accoglie il salone, mentre due ali si allungano anteriormente a racchiudere un vasto cortile ottagonale.
In seguito all’abdicazione di Vittorio Amedeo II, era salito al trono Carlo Emanuele III, il quale fece portare avanti i lavori, intenzionato a trasformare il casino di caccia in una grandiosa residenza reale. Nel 1731 una battuta venatoria inaugurava la palazzina, non ancora completata.
Nel 1735 lo Juvarra partì per Madrid su invito dei Borbone di Spagna e al cantiere di Stupingi si avvicendarono il suo fedele allievo Giovanni Tommaso Prunotto, Ignazio Birago ed infine Benedetto Alfieri (1700-1767), che ingrandirono il complesso tramite l’estensione delle sue ali, seguendo un progetto già previsto probabilmente dallo Juvarra.
La cupola rappresenta l’intervento conclusivo, a lungo dibattuto; sulla sua sommità fu posta una scultura in bronzo raffigurante un cervo, opera di Francesco Ladatte (1706-1787). Alla decorazione degli interni, all’inizio diretta dallo stesso Juvarra, collaborò una schiera di artisti provenienti da ogni parte d’Europa.
Gli scenografi Giuseppe e Domenico Valeriani realizzarono la grandiosa decorazione del salone centrale, con soggetti dedicati al mito di Diana, dea della caccia, mentre Giovanni Battista Crosato, Charles-André van Loo, Cristiano Wherlin e Francesco Imperiali dipinsero gli altri lussuosi ambienti residenziali.
L’impresa decorativa proseguì fino alla fine del Settecento, impreziosendosi di boiseries, stucchi e arredi appositamente disegnati e ancora tutti conservati all’interno dell’edificio. La palazzina di caccia di Stupinigi aveva ormai assunto le dimensioni e lo splendore di una reggia suburbana.
Superga, il Pantheon sabaudo
La basilica di Superga, monumento celebrativo della dinastia sabauda, fu iniziata nel 1717 dal celebre architetto Filippo Juvarra, il cui talento si era già fatto apprezzare dalla casa regnante piemontese, che lo aveva nominato nel 1714 "Architetto Regio", e terminata nel 1731.
Per essa, l’autore nutrì sempre una speciale devozione, che lo spinse a curarne ogni fase della realizzazione. Nel suo testamento, lo Juvarra chiese infatti di esservi seppellito nel caso fosse morto a Torino, ma il destino non gli concesse di esaudire la sua volontà, poiché la morte lo colse a Madrid, nel gennaio del 1736, e le sue spoglie furono inumate nella parrocchiale di San Martín.
Superga rappresenta uno dei massimi capolavori di Juvarra, nonché l’espressione più compiuta del potere assoluto della dinastia regnante all’inizio del XVIII sec. L’imponente massa architettonica della chiesa, dalle accurate proporzioni, si ispira all’antichità classica e al barocco seicentesco romano.
La cupola del Pantheon a Roma gli fornì l’idea della pianta ottagonale, coronata da un tamburo circolare e da una cupola enorme, che subito si impose come punto focale dell’insieme.
Ancora al Pantheon - e pure alla facciata di San Pietro in Vaticano - si ispirò per la facciata, al centro della quale si imposta un portico a pianta quadrata preceduto da una gradinata che introduce nella chiesa.
Qui al rigore compositivo geometrico esterno si contrappone un estremo virtuosismo tecnico e decorativo, che culmina nell’alta cupola sferica.
Le ville delle provincia veneta sono oltre duemila e ad esse si devono aggiungere le numerose altre che si trovano nell’attuale regione del Friuli, all’epoca dominio della Serenissima.
Fin dal XV sec., l’espandersi in terraferma della repubblica di Venezia, avviata verso il culmine della propria potenza, aveva dato inizio alla costruzione di nobili case di campagna, inizialmente sorte come punto di appoggio per i lavori di bonifica del territorio, poi divenute centro delle attività agricole nelle quali si investivano i capitali derivanti dai lucrosi traffici con l’Oriente.
Già dall’età rinascimentale, le ville del Veneto avevano raggiunto una tipologia stilistica propria, grazie all’introduzione di motivi caratteristici della decorazione veneziana.
L’irrompere sulla scena architettonica di Andrea Palladio (1508-1580), progettista di almeno venticinque ville del territorio, molte delle quali perdute o rimaste incomplete, contribuì ancor più a definire le caratteristiche di queste splendide dimore di campagna.
Il classicismo palladiano, proseguito dall’allievo Vincenzo Scamozzi (1552-1616), si andò affievolendo nel corso del Seicento, per lasciare spazio ad una maggiore eleganza e vivacità di forme, che si accentuò nel corso del secolo successivo.
Durante il Settecento, fra i patrizi veneziani si creò una sorta di competizione tra chi avesse la villa più bella, più grande e più affrescata. I migliori pittori del tempo furono convocati senza badare a spese, perché celebrassero sulle pareti la gloria dei committenti.
Giovanni Battista Tiepolo, col suo estro decorativo e la sua fantasia vividissima, divenne il privilegiato interprete delle ambizioni trionfalistiche dell’aristocrazia, affiancata ora dalla borghesia, consapevole di essere la nuova classe dirigente e presa anch’essa dalle "smanie per la villeggiatura" immortalate da Carlo Goldoni. Accanto alle ville nobiliari, si affollarono sempre più le modeste ville dei borghesi veneziani, coloro ai quali il Goldoni non si stancava di raccomandare di non superare i limiti della propria condizione e di non rovinarsi mettendosi in gara con "tutto quello che fanno i marchesi".
La passione per la residenza di campagna si spense nel 1797 con la caduta della Repubblica di Venezia, con la quale finì anche la civiltà delle ville venete.
Per ironia della sorte, la fine dello stato fu decretata proprio all’interno della più imponente e spettacolare delle dimore venete, la Villa Manin di Passariano, dove Napoleone Bonaparte soggiornò nel 1797 e stilò il trattato di Campoformio, con cui Venezia perdeva la propria secolare autonomia per passare sotto il dominio dell’Austria.
Villa Pisani a Stra
La Villa Pisani a Stra, detta "La Nazionale", fu costruita a partire dal terzo decennio del Settecento su commissione di Alvise Pisani, eletto nel 1735 doge di Venezia, per celebrare la nuova posizione sociale raggiunta dalla famiglia.
L’area prescelta fu quella alle porte di Stra, una trentina di chilometri distante da Venezia, su un terreno di dieci ettari affacciato su un’ansa del fiume Brenta. L’architetto Gerolamo Frigimelica avviò i lavori di edificazione, durati quasi vent’anni.
Alla sua morte, nel 1732, l’incarico passò a Francesco Maria Preti, che modificò il progetto iniziale realizzando una struttura a pianta rettangolare con una lunga facciata, ornata, nella parte centrale, da colonne corinzie, che sorreggono un timpano, e, ai lati, da lesene ioniche.
Statue ornano il tetto e le terrazze che concludono la fabbrica. La grandiosità della villa si evidenzia nel numero delle stanze, ben 114, parte delle quali decorate dai maggiori talenti artistici del tempo.
Tra il 1760 ed il 1762, Giovanni Battista Tiepolo affrescò il soffitto del salone centrale, raffigurandovi l’Apoteosi della famiglia Pisani, ultimo capolavoro in terra italiana prima del suo trasferimento a Madrid.
Nel grandioso dipinto, il maestro rappresentò i figli di Alvise e di Marina Pisani Sagredo nella gloria dei cieli, accanto alla personificazione allegorica di Venezia, con l’intento di tramandarne la fama e di augurare alla casata un illustre futuro.
Le Arti, le Scienze, i Geni della Pace e la Fama affiancano i Pisani, osservati benevolmente dall’alto dalla Madonna. Giovanni Battista Crosato, Jacopo Guarana, il paesaggista Francesco Zuccarelli e numerosi altri pittori intervennero poi alla decorazione della villa.
La splendida costruzione, degna di un sovrano, è attorniata da un parco disseminato di statue. Celebre è il labirinto in siepi di bosso, ricordato nel romanzo Il Fuoco di Gabriele D’Annunzio.
Nel 1807 Villa Pisani fu acquistata da Napoleone Bonaparte per il viceré d’Italia, Eugenio Beauharnais.
Nel 1814 passò agli Asburgo e infine ai Savoia, che la cedettero nel 1886 al demanio.
Villa Manin a Passariano
La maestosità e l’imponenza della villa, la più bella tra quelle friulane, testimonia l’importanza sociale raggiunta dalla famiglia Manin, ascritta nel 1651 al Libro d’Oro del patriziato veneziano.
Costruito tra la fine del Seicento e la metà del secolo successivo con l’intervento di numerosi artisti, il grandioso complesso architettonico presenta una facciata articolata e coronata da un terrazzo che corre lungo tutto il fronte, ornato sulla sommità da statue.
Due ali perpendicolari, un tempo adibite a rimesse e a scuderie, serrano la facciata alle estremità, lasciando spazio ad un vasto prato che accoglie i visitatori.
Decorazioni ad affresco, opera del francese Louis Dorigny, rivestono le pareti del vasto salone della villa, definita da Napoleone Bonaparte "troppo grande per un privato, perfino per un Doge".
Tale era infatti la carica rivestita dal proprietario Ludovico Manin, l’ultimo doge di Venezia, prima che la Serenissima fosse ceduta al dominio austriaco.
Per la sua collezione di sculture antiche, Alessandro Albani fece costruire dall’architetto Carlo Marchionni (1702-1786) una villa sulla via Salaria.
L’edificio richiese lunghi anni di lavoro e ingenti spese da parte del cardinale, il quale non lesinò su decorazioni ed arredamento, sia della villa che del circostante parco, disseminato di palazzine di svago e di fontane.
Nel 1763, dopo diciassette anni, il cantiere fu terminato e nella villa cominciarono a ritrovarsi studiosi, eruditi ed artisti di ogni nazionalità, allietati, nelle pause dalle loro dotte disquisizioni storiche, da concerti, danze e commedie.
Nelle sale, così come nei giardini, le sculture erano collocate nel modo più favorevole per essere ammirate; i pezzi antichi erano sparsi ovunque, ordinati secondo il gusto ed i consigli di Johann Joachim Winckelmann, che godé della protezione dell’Albani.
Tra i più alti esempi del gusto antiquario, diffusosi a partire dalla metà del XVIII sec., la villa, di proprietà dei Torlonia dal 1866, si struttura su due piani, animati in basso da un porticato e sormontati da una balaustra che corre continua lungo la facciata; su di essa si innalzano delle statue.
Sotto il loggiato, furono sistemate alcune sculture di età imperiale, mentre all’ombra delle due ali porticate, che fiancheggiano il corpo centrale della fabbrica, vennero allestite gallerie con statue e busti di illustri personaggi dell’antichità.
Gli interni rispecchiano la passione archeologica del cardinale, che nel loro arredamento tenne conto dei pezzi che vi dovevano essere accolti.
Il più celebre degli ambienti della villa, il Salone del Parnaso, prende il nome dal tema dell’affresco realizzato sulla volta da Anton Raphael Mengs, tra il 1760 ed il 1761, un’opera che costituisce uno dei primi esempi in Italia della pittura neoclassica.
Il cardinale Albani, mecenate delle arti
Nel 1721, alla morte di papa Clemente XI Albani, i suoi due nipoti cardinali, Annibale e Alessandro, ereditarono l’immensa fortuna dello zio, comprensiva di una scelta biblioteca e di una ricchissima collezione d’arte, ospitate a Roma nel palazzo di famiglia alle Quattro Fontane.
La passione collezionistica dello zio pontefice fu ereditata soprattutto da Alessandro Albani (1692-1779), creato cardinale nel 1721 a ventinove anni, il quale raccolse nella sua nuova villa sulla via Salaria una delle più belle raccolte archeologiche del Settecento.
Ancora giovane, aveva fondato un’Accademia antiquaria, affidandone la direzione a Francesco Bianchini, del quale era stato allievo.
Fine erudito, esponente del bel mondo culturale e mondano, il cardinale amò circondarsi di personaggi colti e di amanti delle arti, che crearono un vero e proprio cenacolo, frequentato da collezionisti, studiosi e viaggiatori.
I diari di viaggio di numerosi stranieri in Italia per il Grand Tour narrano della eminente posizione culturale ricoperta dall’Albani nella Roma del secondo Settecento, soffermandosi spesso nella descrizione della sua splendida collezione.
Non solo raccoglitore di scultura antica, egli fu anche un attivo mercante d’arte, impegnato talvolta in modo poco ortodosso nel far uscire dallo Stato Pontificio materiale archeologico, vincolato dalle leggi di tutela promulgate dallo zio e confermate poi da Clemente XII.
La smania di possedere sempre più opere e la necessità di procurarsi denaro contante costrinsero più volte il cardinale a vendere altre opere di famiglia, soprattutto disegni, stampe, monete e medaglie, che non incontravano il suo particolare interesse.
Tra i tanti albums di disegni posseduti dagli Albani vi erano le celebri raccolte dell'erudito romano Cassiano del Pozzo (1588-1657) e del pittore Carlo Maratta, oggi disperse nei musei e nelle biblioteche di mezzo mondo. Trenta sculture, tra le più pregevoli della sua collezione, furono vendute nel 1728 al re di Polonia, mentre alcuni busti romani vennero acquistati nel 1734 da Clemente XII per evitarne la dispersione; il pontefice ne fece poi dono al Museo Capitolino, da poco istituito.
Mecenate di artisti quali il Winckelmann, che fu suo ospite negli ultimi dieci anni di vita in cui portò a compimento l’edizione dei Monumenti antichi inediti (Roma, 1767), Alessandro Albani morì a Roma l’11 dicembre 1779 e fu sepolto nella chiesa di San Sebastiano fuori le mura.