La Spagna dominava Napoli e la Sicilia, territori considerati dal governo di Madrid aree da cui attingere risorse militari e finanziarie attraverso una vessatoria fiscale. Ognuno dei due regni era governato da un viceré, circondato da una corte che, per lusso e sprechi, uguagliava quella madrilena. La nobiltà locale cercava di uniformarsi a questo stile di vita ozioso e fastoso, mentre il popolo stremato dalle tasse, dalle carestie e dalle epidemie, si dava al brigantaggio o esplodeva in improvvise rivolte, la più importante delle quali era stata quella capeggiata da Masaniello nel luglio del 1647. Un altro conflitto esplose nel luglio 1674 in Sicilia, con la città di Messina, che si ribellò al dominio spagnolo e all’egemonia di Palermo. Messina riconobbe la sovranità francese, ma la rivoluzione non riuscì ad estendersi nel resto dell’isola a causa della rivalità tra le due città, Messina capitale della nobiltà imprenditoriale e Palermo capitale del patriziato feudale.
Gli spagnoli poterono così riprendere il controllo, legittimato nel 1678 dalla pace di Nimega tra Francia e Spagna. Soltanto nel Settecento, dopo tanti viceré e governatori, il Mezzogiorno ebbe infine un sovrano nella persona di Carlo di Borbone, giunto a Napoli il 10 maggio 1734 e incoronato solennemente re di Napoli e di Sicilia, nel luglio 1735, nella cattedrale di Palermo.
Appena insediato sul trono di Napoli assieme alla moglie Maria Amalia di Sassonia, figlia del re di Polonia Augusto III, Carlo III di Borbone istituì nella capitale partenopea un Ministero per gli affari siciliani, presieduto da un membro della nobiltà isolana e, nel 1741, firmò col papa Benedetto XIV un concordato nel quale era abolita l’immunità personale del clero per i reati gravi e regolamentato il diritto di "asilo" per i delinquenti nei luoghi sacri. Fu ridefinita inoltre l’esenzione fiscale dei beni ecclesiastici e anche il clero fu tenuto al pagamento delle imposte.
Nell’agosto 1759, tuttavia, alla morte del re di Spagna Ferdinando VI, il fratellastro Carlo rinunciò al regno di Napoli e di Sicilia per assumere la corona spagnola col nome di Carlo III.
Al momento del suo arrivo a Napoli, nel 1734, Carlo di Borbone trovò una città attiva, avviata all’espansione economica e demografica e pervasa da un clima di rinnovamento culturale e artistico di respiro internazionale. Le Manifatture reali europee erano nate sulla scia delle esperienze maturate nella Francia del primo ministro Colbert, gestite con i fondi e il personale intervento del re. Le vicende della Reale Fabbrica di Porcellane si legano strettamente a queste esperienze. Fondata nel 1743, a questa data, l’organismo manifatturiero era già delineato con chiarezza e dalla fase sperimentale si poté passare a quella produttiva in un edificio nei pressi del bosco di Capodimonte.
Ognuno dei diciotto artigiani ebbe il proprio compito, distribuito su sei ambiti di lavorazione: la composizione della pasta, il modellato, l’intaglio, la pittura, la cottura e la verniciatura. Un economo sovrintendeva il lavoro, regolato rigidamente, mentre una scuola di modellatura forniva mano d’opera specializzata. I sedici anni di attività della Manifattura, aperta dal 1743 al 1759, costituiscono il breve arco di tempo nel quale si esaurì una delle più importanti fabbriche italiane di porcellane, prodotto divenuto in Europa sempre più costoso a causa del monopolio delle importazioni dall’Oriente da parte dell’Olanda.
Il presepe napoletano del Settecento costituisce un’esperienza unica e non può essere ricondotto ad alcuna esperienza precedente o contemporanea di raffigurazione liturgica natalizia. Profondamente caratterizzato da un aspetto mondano, esso nacque non soltanto su committenza ecclesiastica, ma anche nobiliare e borghese. Spesso gli stessi membri delle famiglie lo allestivano personalmente, in una sorta di gara a chi lo rendeva più bello, più aggiornato alla cultura e ai costumi contemporanei. Lo stesso re Carlo III di Borbone sovrintendeva personalmente alle monumentali composizioni che adornavano una sala del palazzo reale. Ogni anno le composizioni si arricchivano così di nuovi pezzi scenografici, mentre le figurine, realizzate con parti in terracotta poste su manichini in filo di ferro e di stoppa, potevano cambiare abito secondo le mode.
Ai personaggi del gruppo sacro della Natività di Cristo, si affiancavano figure riprese dalle strade di Napoli, come mendicanti e belle popolane, circondate da oggetti di vita quotidiana. Particolare attenzione era data al gruppo dei re magi, dove il gusto per l’esotico, tanto in voga al tempo, si poteva sbizzarrire in abiti sgargianti e copricapi all’orientale. La diffusione del pensiero illuminista portò ad un accrescersi dell’interesse etnografico, tanto che spesso, dietro ogni figura, veniva indicato con una scritta il luogo di origine di un determinato costume popolare. Quella del modellatore di figurine da presepe divenne una vera e propria professione che impegnava per tutto l’anno. L’allestimento del presepe, infatti, richiedeva molto tempo ed iniziava ben prima delle festività natalizie. Le fonti di ispirazione di questi geniali artigiani erano le stampe popolari, i dipinti della scuola napoletana e, naturalmente, la stessa città di Napoli. Importanti artisti, quali Giuseppe Sanmartino (1720-1793), la personalità di maggior prestigio nel panorama della scultura napoletana del Settecento, si dedicarono alla realizzazione delle statuine, mentre architetti e scenografi teatrali provvedevano all’allestimento. L’arte del presepe conobbe, nel XVIII sec., il momento di massimo splendore, per poi decadere lentamente nella prima metà dell’Ottocento.