Nella vita di Søren Kierkegaard c'è un grande scarto tra la esiguità degli avvenimenti esteriori e la complessità di un'esperienza interiore che rimane in più punti indecifrabile, nonostante le migliaia di pagine del Diario e i numerosissimi spunti autobiografici presenti nelle opere.
Il filosofo stesso ha voluto che così fosse: «dopo la mia morte, nessuno troverà fra le mie carte (e questa è la mia consolazione) una sola spiegazione di ciò che propriamente ha riempito la mia vita».
Non si può quindi utilizzare meccanicamente la biografia di Kierkegaard per spiegarne il pensiero; tuttavia, quest'ultimo si può accostare solo come pensiero di «quel Singolo» che Kierkegaard avrebbe desiderato come epigrafe sulla sua tomba: l'idea di Kierkegaard è «l'Idea che ho espresso esistendo».
Il padre di Kierkegaard, Michael, era un commerciante giunto al benessere dopo una fanciullezza dura e solitaria trascorsa nei pascoli gelidi dello Jutland.
Uomo profondamente religioso, severo, «l'uomo più malinconico che io abbia mai conosciuto».
Dopo la morte della prima moglie aveva sposato la cameriera, avendone sette figli.
L'ultimo, Søren, nacque il 5 maggio 1813, quando il padre aveva cinquantasei anni e la madre quarantacinque.
Kierkegaard descrive la sua infanzia come un'età infelice: si manifesta subito quel «non essere come gli altri» che costituisce la cifra della sua intera esistenza. Un ragazzo fragile fisicamente e acuto spiritualmente, lacerato da una «sproporzione fra l'anima e il corpo» che sarà sempre il suo «pungolo nella carne», «fin dai primissimi anni inchiodato a una forma di sofferenza confinante con la pazzia».
Una sofferenza abilmente mascherata di fronte al mondo e al padre, l'uomo più amato, che lo ha reso infelice «per amore», sottoponendolo a «un'educazione cristiana, umanamente parlando direi pazza», che scambiava «un bambino per un vecchio».
Che meraviglia allora - commenta Kierkegaard - «se alle volte il cristianesimo mi appariva come una crudeltà disumana? Ma non ho mai rotto col cristianesimo, né mai lo ho abbandonato; anzi avevo deciso di impiegare tutto per difenderlo ed in ogni caso per esporlo nella sua vera figura».
Nel 1830 Kierkegaard si iscrive alla facoltà di teologia dell'università di Copenaghen: impiegherà dieci anni per concludere gli studi. In questo decennio, all'esistenza tipica di un giovane, brillante intellettuale in una capitale di provincia fa da contrappunto il rovello, rivelato dal Diario, di uno spirito malinconico e travagliato.
Il peso emotivo del padre e dell'ambiente famigliare grava sul giovane Kierkegaard in modo decisivo. Le sciagure che si abbattono sulla famiglia a partire dal 1832, con la morte della madre e di tre fratelli nel giro di due anni, sono interpretate dal padre, e di riflesso da Søren, come punizione divina per una colpa commessa.
Non è certo di quale colpa si tratti: forse della bestemmia pronunciata dal padre, quando era pastore, in un momento di solitudine e di disperazione; forse della relazione avviata con la cameriera, poi seconda moglie di Michael, mentre la prima moglie era ancora in vita.
Ma certamente, la parziale rivelazione di questa colpa provoca in Kierkegaard il «grande terremoto» del 1835, cui seguono l'allontanamento dal padre e una crisi di sfiducia religiosa. Kierkegaard, in questo tempo, deve in qualche modo fare l'esperienza di quella che poi chiamerà la vita estetica, con le sue componenti di sensualità, di dubbio e di disperazione.
E un "fallo" in cui lo stesso Kierkegaard deve essere incorso (forse con una prostituta) assume per il suo spirito la portata di una colpa inconfessabile, al punto da fargli ritenere preclusa una vita «normale»: il matrimonio, la carriera di pastore.
Dal Diario - sterminata raccolta di aforismi, appunti, riflessioni e sfoghi personali, progetti di scrittura che Kierkegaard incominciò a compilare nel 1833 - ricaviamo alcune informazioni sulle sue letture, i suoi interessi, la sua formazione intellettuale.
«Ciò che in fondo mi manca - annota nel 1835 - è di veder chiaro in me stesso, di sapere ciò ch'io devo fare, e non ciò che devo conoscere. [ ... ] Si tratta di comprendere il mio destino, di vedere ciò che in fondo Dio vuole ch'io faccia, di trovare una verità che sia una verità per me, di trovare l'idea per la quale io voglio vivere o morire».
Questo testo, emblematico non solo della fase di formazione di Kierkegaard ma dell'intero suo pensiero, ci dice con quale intenzione egli avvicini i testi e gli autori della sua biblioteca. Più che il «colosso enorme» della teologia e i «gustosi frutti» dell'albero della scienza lo interessa «scandagliare e risolvere gli enigmi» della vita interiore.
La letteratura romantica (in particolare Goethe, con il Faust e il Wilhelm Meister, paradigma del Bildungsroman, il romanzo di formazione), l'ermeneutica biblica, i grandi mistici, i testi pietisti, la filosofia dell'idealismo tedesco sono al centro dei suoi studi.
Legge Hamann, Lessing, Iacobi, Fichte e Schelling, conosce Hegel (ma lo approfondisce, probabilmente, solo verso la fine di questo decennio); studia Trendelenburg (del quale apprezza la critica alla logica hegeliana), Aristotele, Platone. Ritorna però costantemente a Socrate, al suo "conosci te stesso", al modo ironico e maieutico del suo filosofare.
La sua diffidenza nei confronti della filosofia, «è la balia asciutta - afferma - della vita: veglia sui nostri passi, ma non per allattarci», matura assai presto, come pure la sua avversione per la "teologia speculativa". Formatosi in ambiente hegeliano, con maestri orientati ad accordare filosofia e religione, ragione e fede, già nel 1835 si dice convinto che «la filosofia e il cristianesimo non si lasciano mai conciliare».
Nell'agosto 1838, alla morte del padre, Kierkegaard prende con se stesso l'impegno di completare gli studi universitari: nel luglio 1840 si licenzia in teologia, entra nel Seminario pastorale; nel settembre 1841 ottiene il grado di magister artium della facoltà di filosofia con la tesi Sul concetto di ironia con riferimento costante a Socrate. Giusto un anno prima si era fidanzato con una giovane di famiglia borghese, Regina Olsen. Si recò quindi a Berlino, dove rimase tra il 1841 e il 1842 ed ascoltò le lezioni di Schelling e di Trendelenburg (fu poi a Berlino anche nel 1846).
Questi eventi configurano una prospettiva nuova per la vita di Kierkegaard: la laurea, il matrimonio, la carriera ecclesiastica significano una sorta di "riconciliazione con l'universale", ovvero con le regole di una ordinata moralità sociale, e l'abbandono della propria radicale "diversità". Ma è Kierkegaard stesso a distruggere tale prospettiva, rompendo, con scandalo di tutti, la promessa fatta a Regina (che nel 1847 si sposerà); né darà mai seguito ai reiterati propositi di ritirarsi in una parrocchia di campagna.
Il tema di Regina, profondamente amata eppure abbandonata, ritorna quasi ossessivamente in tutta l'opera di Kierkegaard, senza che tuttavia si possa avere certezza circa i motivi dell'abbandono.
La consapevolezza, o il timore, della propria inadeguatezza ai compiti della vita matrimoniale; l'oppressione della colpa del padre e sua; il senso di avere un "destino" diverso e assolutamente singolare, forse una sorta di "missione" da compiere nella certezza di essere frainteso: tutti questi elementi confluirono probabilmente nella decisione.
Al fondo, c'è la complessità dell'uomo Kierkegaard, che confessa: «Credo di avere il coraggio di dubitare di tutto e di lottare contro tutto, ma non di riconoscere, di avere, di possedere cosa alcuna».
Certo è che la rottura del fidanzamento segna una svolta nell'itinerario di Kierkegaard: grazie alla cospicua rendita ereditata dal padre avvia un'esistenza dedita esclusivamente alla scrittura (e non priva di agiatezze), pubblicando in rapida successione, dal 1843 al 1850, tutte le sue grandi opere pubblicate con vari pseudonimi, a cominciare da Aut-aut (Enten-Eller), e altre, di carattere costruttivo, pubblicate col suo nome.
Con lo pseudonimo di «Victor Eremita» Kierkegaard scrisse Aut-Aut (1843), con quello di «Johannes de Silentio» scrisse Timore e tremore (1843), con quello di «Constantin Constantius» scrisse La ripresa (1843)e con quello di «Hilarius Bogbinder» scrisse Stadi nel cammino della vita (1845). In tutti questi scritti, di carattere tra il filosofico e il letterario, egli illustra i diversi «stadi» della vita: estetico, etico e religioso. Contemporaneamente Kierkegaard scrisse alcune opere di carattere più decisamente filosofico: con lo pseudonimo di «Vigilius Haufniensis» Il concetto dell'angoscia (1844), con quello di «Johannes Climacus» Briciole di filosofia (1844) e Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia (1846).
In seguito scrisse altre opere critiche di carattere più spiccatamente religioso, cioè con lo pseudonimo di «Anticlimacus» La malattia mortale (1849) e L'esercizio del cristianesimo (1850). Le opere costruttive, pubblicate da Kierkegaard col suo nome, sono i Discorsi edificanti, tra cui Vangelo delle sofferenze (1847), Per l'esame di se stessi - raccomandato ai contemporanei (1851), L'immutabilità di Dio (1855) e, fuori dalla serie dei discorsi edificanti, Gli atti dell'amore (1847).
Infine, dal 1834 al 1855, anno della sua morte, Kierkegaard tenne un Diario, che è stato pubblicato postumo e costituisce una delle fonti principali per la conoscenza del suo pensiero.
Kierkegaard intende la sua opera come un servizio di testimonianza reso all'Idea, al cristianesimo. Oltre all'attività "privata" della scrittura, ciò lo impegna anche in battaglie pubbliche che segnano a fondo la sua vita e il suo già difficile equilibrio.
A partire dal 1846, si trova esposto agli attacchi del Corsaro, un giornale che ne mette alla berlina con articoli e vignette il pensiero, il temperamento, l'infelice aspetto fisico. Al fondo della polemica, che amareggia profondamente Kierkegaard, c'è il contrasto politico tra l'orientamento radicale del giornale e il conservatorismo del pensatore danese.
Nelle sue uscite politiche, Kierkegaard si professa difensore della monarchia e dell'ordine costituito, attacca quello che giudica la confusa demagogia dei liberali, l'esaltazione del suffragio universale e della volontà popolare, il rivoluzionarismo quarantottesco.
Il suo orientamento politico è soprattutto di manifesta sfiducia nella politica stessa; questa gli sembra incapace di cogliere il problema vero dell'uomo, che è di natura etico-religiosa. Le masse e il loro consenso, Kierkegaard parla con esecrazione di "folla", sono anzi per lui gli elementi pericolosissimi della perdita di centralità dell'individuo e del suo valore, della sua assoluta irriducibilità al collettivo.
Ma la più violenta battaglia polemica è condotta da Kierkegaard contro la Chiesa luterana danese, ed è la battaglia estrema della sua vita.
All'inizio del 1854 muore il venerato vescovo Mynster e il suo successore, Martensen, ne tesse l'elogio funebre come di un «testimone della verità». In un articolo, Kierkegaard attacca violentemente Martensen: Mynster non era un testimone della verità, perché la sua vita di prelato non era stata una vera imitazione di Cristo.
La polemica divampa: Kierkegaard, pressoché isolato, la alimenta e la inasprisce. Fonda e redige integralmente una rivista, Il momento, in cui si lancia in modo sempre più violento e radicale contro la burocratizzazione e la mondanizzazione della Chiesa ufficiale, che tradisce, a suo giudizio, l'autentico spirito cristiano.
Il cristianesimo da benpensanti che la Chiesa professa non è quello autentico, che è «lotta aperta con il mondo», via «aspra» e «stretta», percorribile da pochi, è sofferenza segnata da un amore di Dio che è «nemico mortale» della naturalità immediata dell'uomo. Il 2 ottobre 1855 Kierkegaard è colpito da paralisi e muore il successivo 18 novembre.
Il primo sguardo che occorre rivolgere a Kierkegaard deve mettere a fuoco il "come" della sua filosofia, prima del "che cosa". Le scelte di scrittura, il rapporto con la scrittura, implicano profondamente il pensiero e la vita di Kierkegaard.
La sua opera è di mole enorme; di più, se si eccettuano la prima fase del Diario (iniziato nel 1833) e la dissertazione di laurea, essa si concentra in un tempo assai breve, dal 1843 al 1855. Vivere e scrivere, in Kierkegaard, coincidono.
Ma il suo rapporto con la scrittura non è immediato: al contrario, esso è il frutto di una riflessione continua e sofferta, che si rivela, oltre che nelle pagine e nei testi espressamente dedicati a questo tema, nell'estrema varietà e ricercatezza delle forme.
Come se Kierkegaard cercasse faticosamente, in odio ai "paragrafi" dei trattati in cui gli pare condensarsi il pensiero astratto e morto della filosofia accademica, una scrittura filosofica capace di riprodurre la mobilità, la concretezza, la vicinanza alla vita del dialogare socratico.
E discutibile che vi sia riuscito: tra le contraddizioni e le ambiguità della sua opera vi è anche quella di aver cercato di "imitare" i suoi grandi maestri senza scrittura, Socrate e Cristo, in un'epoca - la modernità - che lo costringeva a combattere essenzialmente attraverso la parola scritta.
Ma la tematica della comunicazione, del rapporto tra pensiero e comunicazione, è una chiave fondamentale della sua filosofia.
Kierkegaard stesso divide la sua opera in rapporto alla modalità comunicativa: alla comunicazione diretta appartengono gli scritti di carattere direttamente religioso, pubblicati a sua firma (dalla serie dei Discorsi edificanti agli interventi polemici del Momento).
Alla comunicazione indiretta appartengono tutte le grandi opere pseudonime, e cioè: Aut aut (Enten- Eller, 1843) edito da Victor Eremita; Timore e tremore, di Johannes de Silentio; La ripresa di Constantin Constantius (1843); Briciole di filosofia, di Johannes Climacus, e Il concetto dell'angoscia, di Vigilius Haufniensis (1844); Stadi sul cammino della vita (1845), editore Hilarius Bogbinder; Postilla conclusiva non scientifica (1846) di Climacus; La malattia mortale (1849) e Esercizio del cristianesimo (1850) di Anti-Climacus.
Bisogna poi aggiungere la grande massa delle carte non destinate alla pubblicazione, la cui parte più importante è costituita dal Diario. Kierkegaard lavora costantemente su questi tre piani.
La pseudonimia, in Kierkegaard, è in realtà una "polionimia" e ha, come ci dice egli stesso, un rapporto «non casuale» con l'intera sua produzione. L'artificio letterario tipicamente romantico dello pseudonimo diviene in Kierkegaard un vero e proprio "teatro delle maschere" che il filosofo mette in scena e guida con regia puntigliosa.
Sceglie per gli pseudonimi nomi bizzarri e al tempo stesso allusivi, vere e proprie cifre di interpretazione dell'opera di cui figurano autori; fa dialogare le sue maschere fra loro da un'opera all'altra, le incastra una nell'altra come in un gioco di scatole cinesi.
Scopo fondamentale di questa complessa macchina è realizzare quella comunicazione indiretta che Kierkegaard ritiene l'unica in grado di parlare della verità: non si tratta, per lui, di trasmettere una dottrina compiuta ma di realizzare una comunicazione d'esistenza, che ha di mira l'attivazione, nell'interlocutore, di un poter fare.
Il cristianesimo stesso, che è la più alta verità, non è dottrina, ma comunicazione d'esistenza, comunicazione che trasforma.
La pseudonimia e l'ironia sono gli strumenti fondamentali di questa scelta comunicativa. Ciascun pseudonimo esprime esistendo - sia pure solo letterariamente - un'idea: «nello stesso tempo che il libro sviluppa un'idea - annota Kierkegaard nel Diario - si viene delineando anche l'individualità corrispondente».
Lo schermo degli pseudonimi non serve a Kierkegaard per proteggersi dal giudizio esterno ma per distanziare sé, il suo proprio punto di vista, da quelli espressi dalle sue maschere.
In questo modo, ciascun pseudonimo acquista l'autonomia necessaria per rappresentare una possibilità d'esistenza.
Tutte queste possibilità sono presenti in Kierkegaard, ma egli non si identifica pienamente con nessuna di esse. E l'universo degli pseudonimi finisce per delineare una sorta di mappa o di geografia dell'esistenza tracciata dall'interno di figure e individualità determinate.
L'obiettivo è, in primo luogo, polemico nei confronti di una situazione comunicativa che Kierkegaard giudica radicalmente falsa.
La falsità non dipende dalla maggiore o minore verità dei contenuti dei messaggi, ma dal rapporto tra "emittente" e "ricevente" che si istituisce nella comunicazione sociale.
La situazione comunicativa è essa stessa comunicazione; come e chi comunica è in primo luogo importante, non che cosa.
Nella «modernità» regna l'anonimato, anche quando la firma compare in testa al frontespizio o in calce all'articolo, poiché il filosofo, il pastore, il giornalista non sono mai «in carattere», cioè non «reduplicano» il loro messaggio nell'esistenza: «reduplicare è essere ciò che si dice».
Così, il filosofo (Hegel) costruisce il grandioso palazzo del suo sistema, ma, quanto a lui, «abita nel fienile».
I grandi maestri di comunicazione sono invece Socrate e Cristo: «il merito infinito di Socrate è precisamente di essere stato un pensatore esistente, non uno speculante che dimentica ciò che è l'esistere», mentre in Cristo troviamo la Verità stessa che si fa esistenza, mostrando quel paradosso che costituisce l'essenza del cristianesimo.
All'anonimato del mittente corrisponde quello del ricevente, che lo sviluppo della stampa ha trasformato nell'Io impersonale che si chiama Pubblico: «il pubblico è un astratto che non esiste».
Nella realtà, esso corrisponde a quell'essere «come gli altri» in cui ogni individualità è persa in cambio della rassicurazione, poiché «la maggior parte degli uomini non ha paura di avere un'opinione errata, bensì di averne una da soli».
L'estensione della comunicazione non genera maggiore chiarezza e consapevolezza, «perché più cresce la comunicazione, più tremenda diventa la confusione, più disumano e sovrumano è il compito che si pone per il singolo».
Dunque, per attuare una comunicazione d'esistenza in un tempo che adora il feticcio dell'«oggettività», che ha dimenticato «che cos'è esistere e che cosa significa l'interiorità», non si può usare la forma diretta, propria di quel sapere «oggettivo» che è il principale responsabile di tale dimenticanza: occorre servirsi della forma indiretta.
«È alla personalità che occorre arrivare» e questo si può fare «portando degli lo in mezzo alla vita. Perché il nostro tempo manca completamente di uno che dice: lo. Tali lo [degli pseudonimi] sono ora bensì degli lo poetici, ma questi sono comunque sempre qualcosa».
Occorre ridurre l'estensione a favore dell'intensità della comunicazione: «lo scrivere è e dev'essere un'azione e perciò un esistere personale» che si rivolge non a un Pubblico, ma al Singolo, come da esistente a esistente: «In questo pensiero ("Il Singolo" opposto al "Pubblico") è concentrata un'intera concezione della vita e del mondo».
Si tratta di «costringere gli uomini a diventare attenti» alla verità. La verità infatti non è approssimazione a un oggetto, ma «l'autoattività dell'appropriazione». Ecco perché Kierkegaard non fissa mai un risultato, non scrive mai il "paragrafo" che conclude il "sistema". Egli vuole aprire, non chiudere: «tutta la mia attività di scrittore è una domanda ai contemporanei».
«Quel Singolo» al quale Kierkegaard si rivolge come al suo lettore, dovrà potersi guardare nelle sue opere, nelle possibilità di esistenza in esse rappresentate, «come in uno specchio», riconoscersi o distanziarsi, vivere l'esperienza di uno sconcerto, di uno scarto, di una «respinta», purché la sua attenzione sia risvegliata.
Solo la comunicazione autentica «rende libero l'altro». La Cristianità ha bisogno di un «Socrate» che comunichi in questo modo. La Cristianità è «un'enorme illusione», poiché tutti sono cristiani, ma poi «conducono la loro vita, in stragrande maggioranza, in tutt'altre categorie». Per lo «scrittore religioso» che Kierkegaard dichiara di essere «dal principio alla fine», il compito è dunque di lavorare per rompere questa illusione, «colpendo alle spalle» chi si trova in essa. «Tutta la mia feconda attività di scrittore - dice Kierkegaard - si riduce a quest'unico pensiero: colpire alle spalle».
La tesi di laurea di Kierkegaard, Il concetto di ironia, contiene già le prime indicazioni di quello che sarà il suo pensiero e in particolare dà inizio al suo distacco da Hegel. L'ironia socratica era già stata oggetto dell'attenzione dei romantici (F. Schlegel, J.L. Tieck), che l’avevano interpretata come relativizzazione del finito e quindi apertura all'infinito, cioè come una specie di punto di vista divino.
Tale interpretazione era stata poi criticata da Hegel, per il quale l'ironia socratica non possiede affatto questo significato, ma è l'espressione di una dialettica puramente soggettiva, cioè svolgentesi soltanto tra persone, che dissolve dall'interno il dato immediato, senza fornire alcuna ulteriore indicazione positiva. L'ironia dei romantici invece, secondo Hegel, esprime un atteggiamento di tipo fichtiano, cioè il punto di vista di una soggettività assoluta che si fa gioco di ogni cosa, riducendo tutto ad apparenza, ovvero dissolvendo tutto nel nulla.
Kierkegaard condivide la critica di Hegel all'ironia romantica, riconosce con lui che l'ironia socratica è un atteggiamento essenzialmente negativo, espressione del «sapere di non sapere», ma ne afferma anche il valore come critica della realtà finita e come esigenza di una realtà ideale.
L'ironia socratica - afferma Kierkegaard - è la «negatività infinita», ma come tale «implica in sé una compossibilità totale, quella dell'infinitezza intera della soggettività».
Essa è negatività infinita perché nega tutto, ma al tempo stesso nega in virtù di qualcosa di superiore, che tuttavia essa non conosce. L'ironia è una determinazione della soggettività, anzi è la prima e la più astratta determinazione della soggettività, perché in essa il soggetto è libero dallo stato di costrizione in cui lo tiene la realtà, anche se è libero soltanto in negativo, perché non c'è nulla che lo tenga.
Ma nell'ironia - afferma ancora Kierkegaard – il «principio nuovo», in virtù del quale si nega la realtà data, è presente come possibilità.
Questo principio nuovo, come abbiamo visto sopra, è una soggettività infinita, di cui la soggettività finita esprime appunto, per mezzo dell'ironia, la possibilità. In questo discorso sono contenute alcune categorie fondamentali del pensiero kierkegaardiano.
Anzitutto la categoria della soggettività, cioè del soggetto finito, vale a dire l'uomo, l'individuo umano, colui che in seguito sarà detto il «singolo».
Questi nega la realtà data, cioè ne rivela la finitezza, l'inadeguatezza rispetto all'idea, ovvero all'Assoluto. Ma in tale negazione è contenuta la possibilità di una soggettività infinita, cioè di un Assoluto inteso anch'egli come singolo, vale a dire Dio, il Dio personale del cristianesimo.
Il rapporto tra l'uomo e Dio è tuttavia concepito in termini di pura libertà, di semplice possibilità, che sono altrettante categorie fondamentali del pensiero di Kierkegaard. Ciò significa che l'uomo non si rapporta a Dio necessariamente, ma liberamente, cioè può farlo e anche non farlo, perché questa è per lui una semplice possibilità. In quest'ultima dottrina è già racchiusa la critica a Hegel.
A questi, infatti, allude Kierkegaard nella conclusione dell'opera, dove dichiara: «la scienza è entrata oggi in possesso di un risultato troppo colossale per essere in regola; la competenza nei misteri non solo del genere umano, ma persino della divinità viene offerta a così buon mercato da risultare completamente sospetta».
Ciò significa che la filosofia di Hegel pretende di spiegare tutto, di razionalizzare gli stessi misteri della fede, il che è impossibile all'uomo. Contro tale pretesa bisogna, dunque, far valere l'ironia, cioè la critica, anche se questa non offre una spiegazione alternativa, ma solo una possibilità. La possibilità a cui Kierkegaard allude è quella della fede, che non è una spiegazione razionale, cioè tale da mostrare la necessità del suo oggetto, ma non è nemmeno l'impossibile, cioè l'irrazionale, l'assurdo.
La prima importante opera di Kierkegaard è Aut-Aut, che già nel titolo indica la sua opposizione a Hegel. Mentre, infatti, la filosofia hegeliana - come Kierkegaard dice già alla fine del Concetto di ironia - «media tutte le opposizioni», ci sono nella vita delle opposizioni che non possono essere mediate, cioè risolte, in una sintesi, ma rimangono tali e impongono una scelta, o a favore di una possibilità, oppure a favore di quella opposta.
Di questo tipo è l'opposizione tra «vita estetica» e «vita etica», che viene appunto illustrata in Aut-Aut. Aut-aut (così viene tradizionalmente tradotto in Italia il danese Enten-Eller, "o ... o") fu scritto da Kierkegaard tra la primavera del 1841 e l'autunno del 1842, in parte a Berlino (dove si era recato per ascoltare le lezioni del vecchio Schelling) e in parte dopo il ritorno a Copenaghen, nel marzo 1842. L'opera fu pubblicata nel febbraio 1843. Siamo dunque nella fase cruciale della rottura del rapporto con Regina Olsen, rottura maturata fra l'estate e l'autunno 1842.
È significativo che la seconda parte, quella che contiene l'esaltazione della vita etica e del matrimonio, sia stata composta per prima. L'opera ha una struttura estremamente complessa, per non dire "barocca" (Cortesi), che esaspera alcuni artifici tipici del gusto letterario romantico volgendoli al tempo stesso a una funzione nuova. Kierkegaard non compare né come autore né come editore.
"Curatore" dell'opera è lo pseudonimo Victor Eremita, che Kierkegaard, in seguito, spiegherà così: «personalmente ero ben lungi dal definire l'esistenza riportando a una posizione tranquilla, al matrimonio, io che religiosamente ero già in convento, pensiero celato nello pseudonimo Victor Eremita». Si finge che Victor Eremita abbia trovato casualmente un voluminoso incartamento in un vecchio mobile comprato da un rigattiere.
Un insieme di carte diverse e di provenienza sconosciuta, che egli si decide infine a pubblicare dopo averle distinte in due parti: le "carte di A" e le "carte di B". Le "carte di A" contengono una «serie di studi di carattere estetico» e precisamente: - i Diapsalmata, gruppo di aforismi (i diapsalmata erano i canti che intervallavano la lettura dei salmi), posti dal curatore in testa all'opera, - il saggio Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale-erotico, sul Don Giovanni di Mozart, - il saggio Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, - le Silhouettes, "schizzi" di figure femminili oggetto di seduzione (l'Elvira di Don Giovanni e la Margherita di Faust), - il più infelice, sul personaggio di Ahasvérus, l’''Ebreo errante" condannato a non morire mai, figura della disperazione, - Il primo amore, recensione di un'opera del commediografo e librettista francese E. Scribe, - il saggio La rotazione delle colture, considerazioni su come la vita estetica combatta la noia escludendo qualsiasi impegno di ordine effettivo e sociale, - il Diario di un seduttore, dello pseudonimo Johannes.
Le "carte di B" (il giudice Wilhelm) sono indirizzate ad A e comprendono:
- la lettera Sulla validità estetica del matrimonio,
- la lettera L'equilibrio tra l'estetico e l'etico nell'elaborazione della personalità,
- l'Ultimatum, predica di un ignoto pastore dello Jutland che il giudice Wilhelm invia al suo giovane amico esteta. Il rapporto tra scelte formali e significato dell'opera «Aut-Aut, il cui titolo è già indicativo - scrive Kierkegaard -lascia che il rapporto di esistenza fra il momento etico e quello estetico si realizzi in una individualità esistente».
Proprio in quanto il significato dell'opera consiste in un rapporto, esso deve emergere dal reciproco illuminarsi delle diverse parti, quindi dalla struttura, a partire dall'elemento più macroscopico, la dualità proposta dal titolo che si esprime nella bipartizione dell'insieme. Perciò Kierkegaard protesta contro una lettura che isoli e autonomizzi singoli pezzi e afferma che Aut-Aut costituisce «un tutto unico». Conformemente alla sua idea della «comunicazione indiretta» suggerisce che
«capire la struttura del libro è un compito di attività personale. [...] Ogni uomo sperimenta nella sua vita un Aut-aut. [...] Il suo titolo perciò non ha di mira l'esterno ma l'interno dell'opera.Il fatto che l'autore dica: il titolo dell'opera è Aut-aut, in fondo non dice nulla. Colui che invece dice: l'opera è un aut-aut, realizza lo stesso titolo».
Per dare un'idea del rapporto tra struttura e contenuto dell'opera, fra modo della comunicazione e messaggio, possiamo sottolineare brevemente alcuni elementi:
1) i Diapsalmata conferiscono alla prima parte dell'opera, cioè all'estetico, la sua tonalità fondamentale, che varia nel registro del dolore, della malinconia, della disperazione, e aprono numerosi squarci autobiografici (non a caso portano in epigrafe ad te ipsum e molti aforismi sono ritrascritti dal Diario).
Le parole che aprono l'opera, «che cos'è un poeta? Un uomo infelice che nasconde profonde sofferenze nel cuore, ma le cui labbra sono fatte in modo che se il sospiro, se il grido sopra vi scorre, suonano come una bella musica», si collocano in piena atmosfera romantica, ma nello stesso tempo offrono la chiave d'accesso alla dimensione estetica e in particolare all'esperienza poetica, che ne rappresenta per Kierkegaard il momento più alto.
2) Anche solo a scorrere l'indice dell'opera, si nota che la struttura della prima parte è molto più frastagliata di quella della seconda.
Nella prima compaiono molteplici generi di scrittura e molteplici figure, "reali" (come lo stesso A e Johannes) e mitiche o poetiche (Faust, Don Giovanni, Antigone, l'Ebreo errante). Questa molteplicità rappresenta il carattere proteiforme della vita estetica, il suo darsi in modi e possibilità infinite, il suo carattere essenzialmente poetico.
Al contrario, basta una figura, quella del giudice Wilhelm, per rappresentare l'unicità della vita etica, il valore di generalità del suo modello (la stessa figura ritorna per difendere il matrimonio in quella imitazione del Simposio che è In vino veritas, prima parte degli Stadi sul cammino della vita). Non a caso, il giudice si esprime in una forma epistolare che ha l'andamento argomentativo tipico della lettera d'esortazione ellenistico-romana, di un Cicerone o di un Seneca.
3) L'Ultimatum che chiude l'opera vi introduce inopinatamente l'«edificante», tipico della comunicazione religiosa. Lo scarto stilistico che così si determina ha il compito di attirare l'attenzione del lettore sul fatto che l'intera trattazione dell'estetico-etico si colloca in realtà già sotto il segno del religioso.
È un «cenno» a quel passaggio allo stadio religioso che si avvia con Timore e tremore. Per Kierkegaard le affermazioni fondamentali della predica dell'ignoto pastore sono due.
La prima, «di fronte a Dio abbiamo sempre torto», significa la necessità di un riconoscimento pieno della propria finitezza e quindi della necessità per la salvezza dell'amore trascendente di Dio.
La seconda, «solo la verità che edifica è verità per te», oltre che polemica verso Hegel (che aveva negato risolutamente il valore "edificante" della filosofia) è significativamente l'ultima parola dell'opera: solo la verità che trasforma, la verità del Cristo, può dare risposta al tormento del poeta con cui si era aperto Aut-aut.
Gli stadi della vita: estetismo ed eticità
Tre sono, per Kierkegaard, i fondamentali «stadi sul cammino della vita», le "sfere di esistenza" che marcano un itinerario individuale: l'estetico, l'etico e il religioso. Aut-aut esprime, già nel titolo e nella struttura bipartita, l'alternativa fra le prime due possibilità. L'esteta vive immediatamente il rapporto con la vita come godimento e come rappresentazione del godimento. La sua sfera è il gioco, l'immaginazione, e la sua vita è come un teatro.
La differenza fra vita estetica e vita etica è definita nel modo più chiaro dal "giudice Wilhelm", che incarna in Aut-aut il paradigma dell'etico: «l'estetico che è nell'uomo è ciò per cui egli è immediatamente ciò che è; l'etico è ciò per cui egli diventa ciò che diventa».
Kierkegaard rappresenta l'estetico in figure, in modelli "puri": sono i due miti letterari di Don Giovanni e di Faust e il personaggio del seduttore Johannes, che il filosofo crea fondendovi elementi della propria esperienza autobiografica.
Don Giovanni rappresenta il potere e il piacere della seduzione immediata, che allinea le proprie conquiste l'una accanto all'altra come un'indefinita successione di istanti; è la pura forza dell'eros, il cui medio espressivo ideale è la musica di Mozart.
Faust, nell'interpretazione di Kierkegaard, incarna invece il gioco della conoscenza, il potere dissolutore del dubbio radicale; il patto demoniaco stretto con Mefistofele costringe Faust alla ricerca inesausta della conoscenza assoluta, e quindi a dubitare di tutto, a non potersi mai arrestare ad alcunché. Anche Faust è seduttore, ma di una donna sola, Margherita, poiché nel potere assoluto sopra una donna, che egli conquista grazie alla sua superiorità intellettuale, egli trova «un momento di presente», un «istante di riposo» di fronte al nulla che lo minaccia e che il suo scetticismo continuamente gli ripropone.
Johannes, infine, si colloca, nell'arco della seduzione estetica, al polo opposto rispetto a Don Giovanni: il suo diario - il Diario del seduttore che rese celebre Kierkegaard - racconta la trama sottile in cui egli avvolge la giovane Cordelia per conquistarla e poi abbandonarla.
La seduzione diviene qui scrittura, forma letteraria. Johannes non gode del possesso, ma della rappresentazione della conquista; anzi, evita il possesso, perché la riuscita della seduzione mette fine al piacere, implica in qualche modo l'impegnarsi con la realtà,mentre ciò che interessa è l'idea, l'immaginazione.
La categoria estetica in cui Johannes vive è quella dell'interessante: è una categoria della riflessione, perché in essa il soggetto non guarda ai contenuti, ma ai modi, non vive e non gode delle cose, ma della loro anticipazione e del loro ricordo.
Johannes trasforma il suo desiderio e la sua seduzione in un'opera d'arte: «Introdursi in immagine nell'intimo di una fanciulla è un'arte, uscirne fuori in immagine è un capolavoro». Non appagandosi che in idea, non traducendosi mai in realtà, il suo desiderio può rimanere indefinitamente aperto.
Johannes rappresenta la vita estetica nel suo grado più raffinato e più alto. L'esteta è privo di un contenuto reale della propria soggettività: è qualcosa solo nell'immaginazione, perché non ha mai scelto se stesso nella realtà.
Egli vive nell'orizzonte della possibilità infinita, senza mai compiere il movimento della realizzazione. La sua personalità è dispersa perciò nella molteplicità, l'unità del suo lo è illusoria ed evanescente.
Non si rivela mai al mondo, non getta mai la maschera: si rappresenta e si mostra come un enigma, del quale rimane egli stesso costantemente prigioniero.
La sua vita è priva di durata, perché si esaurisce nella fissità di istanti successivamente dileguanti. Egli rimane dunque sempre ciò che già è, senza poter divenire.
Così è l'esteta visto dal giudice Wilhelm, cioè nell'ottica della vita etica. Ma da questo punto di vista, appare anche un'altra categoria costitutiva dell'estetico, quella della disperazione: «ogni concezione estetica della vita è disperazione, e ciascuno che vive esteticamente è disperato, che lo sappia o no» - sentenzia il giudice Wilhelm.
La disperazione nasce appunto dal fatto che l'esteta rimane costantemente nel vertice delle infinite possibilità, può essere tutto e in realtà non è niente, porta una personalità frantumata e disarmonica, costantemente affacciata sull'abisso del nulla.
La disperazione è in una sfera totalmente diversa da quella del dubbio filosofico, anche del dubbio radicale: questo coinvolge il pensiero ma lascia intatta l'esistenza, mentre la disperazione è un movimento che coinvolge l'intera personalità.
La disperazione può essere combattuta reiterando il gioco della distrazione, e allora l'anima si perde; ma può essere anche assunta, cioè scelta nella sua radicale pienezza, e allora ci si trova già nell'ambito dell'etica.
Perché ciò che caratterizza l'etica è appunto la scelta. L'atto della scelta è il movimento che istituisce la personalità morale, poiché in essa non viene scelto un oggetto, buono o cattivo, ma la persona stessa nel suo valore assoluto.
Nell'atto della scelta l'io diventa Sé, la personalità immediata si trasforma in personalità riflessa; dal piano della possibilità si passa a quello della realtà, dal non-essere all'essere.
La scelta caratterizza l'etico al punto che non è possibile parlare di "scelta estetica", poiché l'estetico consiste appunto nel non scegliere.
La non-scelta presuppone l'insussistenza del principio di contraddizione, è l'indifferenza che annulla le distinzioni: l'etica, in quanto si fonda sulla scelta, assume invece la disgiunzione, l'aut-aut, come quell'atto che fonda la personalità e che deve essere continuamente rinnovato: «la scelta originaria è presente senza tregua in ciascuna seguente scelta».
L'illusione di libertà che caratterizza l'estetico rivela allora la sua inconsistenza, perché mentre l'individuo rifiuta o rimanda la scelta, «altri hanno scelto per lui, perché lui ha perduto se stesso».
Nella scelta, invece, e solo in essa, è possibile l'esperienza della libertà.
Ugualmente, al fittizio controllo di sé che l'esteta pretende di avere attraverso il pensiero, subentra, con la scelta, la trasparenza a se stessi. Chi si è scelto è ciò che è divenuto, e quindi si conosce nella concretezza dell'azione, non nell'astrattezza della contemplazione: «l'astratto è il non chiaro, l'annebbiato». La scelta è un rivelarsi a sé e al mondo, uscendo dall'ermetismo della maschera.
Ciò che infine caratterizza l'etico rispetto all'estetico è un diverso rapporto con il tempo: la vita etica ha consistenza temporale, ha durata, ha sviluppo.
Solo nell'etica vi è storia, perché la scelta ha istituito la personalità e ha fissato il punto che dà senso al passato, al presente, al futuro. L'esteta invece non ha memoria, perché non ha storia, e ripete se stesso in istanti sempre uguali, senza mai potersi riprendere nella profondità del proprio Sé.
Lo si vede a proposito del matrimonio, il cui valore il giudice Wilhelm difende appassionatamente dalle critiche romantiche dell'esteta. Quest'ultimo cerca disperatamente ogni volta il «primo amore» senza accorgersi della vanità di questo tentativo, perché il «primo», in cui ciò che ha valore per la prima volta compare, non può essere ripetuto.
L'esteta ne gode ogni volta in un pallido riflesso, mentre chi ha compiuto la scelta del matrimonio rinverdisce il primo amore nella continuità. Il matrimonio sostituisce al mistero l'intesa, alla conquista il possesso: «il veramente grande non è il conquistare, ma il possedere» perché nella conquista si è fuori di sé, nel possesso presso di sé.
Il matrimonio presuppone l'amore, e poi dà a questo la continuità di una storia interiore attraverso la rassegnazione, «dove non si fa conto di ciò che si perderà, ma di ciò che si guadagnerà perseverando». Perciò il matrimonio è sintesi dell'immediatezza sensuale del primo amore e della riflessione, della speranza e del ricordo: esso rappresenta la serietà della vita, che non annulla l'estetico, ma lo ricomprende in una superiore bellezza, in cui «l'individuo ha in se stesso il suo fine».
Attraverso il giudice Wilhelm, marito e funzionario esemplare, Kierkegaard parla di una possibilità di esistenza che egli ha già rifiutato, o che gli è ormai preclusa, anche se forse pensa ancora di poterla ricostituire con Regina.
L'etica qui prospettata ha fondamento individuale, perché si istituisce nella scelta assolutamente libera del Singolo, ma trova poi attuazione nel quadro di una moralità sociale molto vicina all'eticità (Sittlichkeit) hegeliana. L'eccezionalità, la straordinarietà, l'autoesclusione dalla comunità, dal generale, sono da condannare.
Anche l'isolamento del mistico va rifiutato, perché egli sceglie se stesso, ma non «nel modo giusto», sceglie se stesso «astrattamente». La scelta deve invece concretizzarsi e rinnovarsi negli istituti del quotidiano ordinario e comunitario, come appunto il matrimonio (che possiede anche una dimensione e sanzione religiosa), il lavoro, l'amicizia: le possibilità infinite del seduttore Johannes sono divenuti i compiti del borghese Wilhelm.
Gli stadi della vita: il limite dell'etica
Che questa dimensione di operosa eticità, di comprensione del singolare nel generale, non possa considerarsi conclusiva, deriva già in Aut-aut dal modo in cui Kierkegaard pone il problema della scelta. Da un lato la scelta dà vita al Sé, poiché senza scelta, come abbiamo visto, il singolo rimane un puro lo immediato; dall'altro, «ciò che è scelto già esiste, altrimenti non si tratterebbe di una scelta».
Dunque, «io non creo me stesso, in quanto scelgo me stesso».
Ciò che è scelto è già posto: è l'individuo che esiste nel tempo all'interno della specie. Lo scacco dell'etica nasce dal fatto che essa «addita l'idealità come scopo e presuppone che l'uomo sia in grado di raggiungerlo».
Così non è, perché l'uomo si dà nel tempo come ineliminabilmente gravato dal peccato, che lo riguarda come singolo e come specie; l'etica è perciò destinata a naufragare «contro lo scoglio della peccaminosità dell'individuo».
Ecco infatti che la vera scelta etica di sé deve passare attraverso l'accettazione dolorosa della colpa propria e della specie: in una parola, attraverso il pentimento, che è espressione dell'amore per Dio.
Il limite superiore della sfera etica è segnato dunque dal rapporto con Dio.
Questa critica dell'eticità di Aut-aut, che conduce all'analisi della vita nella sfera religiosa, è impostata da Kierkegaard in due opere del 1843-44, Timore e tremore e Il concetto dell'angoscia. Il «timore e tremore» è quello di Abramo, al quale; secondo il racconto biblico (Genesi, 22) Dio richiede di sacrificare il figlio Isacco.
Abramo è posto di fronte alla contraddizione, che non si può mediare, fra i comandi della morale del suo popolo e la volontà di Dio. Il dramma della sua scelta, proprio perché non è condivisibile con alcuno, avviene nel silenzio e nella solitudine assoluti, a differenza di quella dell'eroe tragico.
Che cosa certifica ad Abramo che alzando il coltello su Isacco compirà un atto di fede e non un assassinio? Nulla, salvo l'angoscia della scelta.
Questa scelta avviene nell'assurdo e nel paradosso: Dio ha prima spinto Abramo, uomo della fede, a ramingare alla ricerca di una terra; poi gli ha promesso una discendenza, dandogli un figlio quando ormai è vecchissimo; ora gli impone di sacrificarlo.
Abramo compie la scelta della fede: obbedisce al comando divino. Allora l'angelo ferma la sua mano, ed egli riprenderà molto più di quanto era disposto a sacrificare. Riavrà Isacco e sarà riconciliato con Dio.
Se Timore e tremore mostra in Abramo la collisione di etica e religione, di immanenza e trascendenza, Il concetto dell'angoscia esplora, a partire dalla tematica del peccato originale, la dimensione dell'angoscia come costitutiva dell'esistenza dell'uomo.
Il peccato originale presuppone il peccato come possibilità, che si è attualizzata in Adamo e poi ogni volta rivive in ogni uomo. Il peccato è una rottura rispetto a una condizione di innocenza.
Ma che cos'è l'innocenza? Essa non può essere definita che negativamente, perché chi la definisce è già fuori di essa.
L'innocenza è ignoranza, la condizione della naturalità in cui l'uomo non è determinato come spirito, non è ancora consapevole del bene e del male. Il primo peccato di ogni uomo, dunque, non è scelta del male, poiché il male stesso, e il bene, sono posti solo con il peccato.
Come si passa allora dall'innocenza al peccato? Di questo passaggio, che è discontinuità assoluta, atto di volontà, non si può dare per Kierkegaard una spiegazione; se ne può solo indicare la condizione, il presupposto: e questa è l'angoscia.
Nello stato di innocenza la quiete della naturalità immediata è attraversata dalla tensione dell'angoscia: «questo è il profondo mistero dell'innocenza: essa nello stesso tempo è angoscia».
L'angoscia «è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità», vale a dire è il sentimento che deriva all'uomo dalla libertà di potere.
L'angoscia non ha come oggetto qualcosa di determinato, ma il nulla: essa è «la vertigine della libertà», che si fonda in ciò che l'uomo stesso è, una sintesi sempre dinamica tra anima e corpo, finito e infinito, sintesi che Kierkegaard designa con il termine di spirito.
«Se l'uomo fosse animale o angelo, non potrebbe angosciarsi» quindi non potrebbe peccare: è l'angoscia la condizione che mette Adamo di fronte alla trasgressione del divieto divino, di fronte alla scelta e al peccato.
Con il peccato, Adamo - e come lui ogni individuo - prende coscienza di sé e inizia la sua storia. L'angoscia, ora, si configura propriamente come possibilità del male e del bene.
Essa accompagna l'uomo in tutte le sue culture e situazioni: è angoscia di fronte alla potenza del destino per i greci, angoscia della colpa per il popolo ebraico.
Anche in quella completa «insensibilità spirituale» che, secondo Kierkegaard, caratterizza la cristianità moderna, che sembra non angosciarsi di nulla, «l'angoscia tuttavia c'è: solo che essa aspetta».
E c'è, indistruttibile, entro ogni tentativo che l'uomo compie per occultarla, chiudendosi nella propria non-libertà: c'è nella mancanza di comunicazione e nella chiacchiera, nel vuoto e nella monotonia, nella viltà e nell'orgoglio, nell'attaccamento al banale della vita quotidiana.
L'angoscia è insopprimibile come la possibilità da cui si genera. Essa, tuttavia, è condizione di apertura verso la libertà, perché «distrugge tutte le finitezze, scoprendo tutte le loro illusioni»: per questo, «più profonda è l'angoscia e più grande è l'uomo».
Solo «colui che è formato dall'angoscia è formato mediante possibilità; e soltanto chi è formato dalla possibilità, è formato secondo la sua infinità».
La possibilità è «la più pesante di tutte le categorie», ma solo in essa si attua l'autentica pedagogia della libertà.
Se Timore e tremore e Il concetto dell'angoscia segnalano il congedo dall'etica, le ultime quattro opere pseudonime sviluppano la "resa dei conti" critica con la filosofia speculativa e tracciano le linee di una nuova filosofia dell'esistenza, ponendo lo stadio religioso come ultima e più alta sfera dell'esistenza stessa.
Si tratta delle Briciole di filosofia e della Postilla conclusiva non scientifica di Johannes Climacus, seguite da La malattia mortale e dall'Esercizio del cristianesimo di Anticlimacus.
La disposizione e il significato degli pseudonimi rivelano il rapporto di Kierkegaard con queste opere e con le modalità di esistenza in esse delineate.
Climacus è mutuato dal soprannome del monaco bizantino Giovanni (VI secolo) autore dell'opera ascetica Scala Paradisi (in greco, Klimax tou paradeisou): lo pseudonimo indica dunque l'aspirazione, la tensione verso l'ascesa. Climacus non è cristiano, ma si pone il problema della verità e del cristianesimo, del rapporto fra ragione e Assoluto. Di contro, Anticlimacus è il «cristiano straordinario», che ha già compiuto il movimento dell'ascesa.
La posizione esistenziale di Kierkegaard è intermedia fra queste due figure (e infatti egli si firma come editore di queste opere): «nel contrasto Climacus-Anticlimacus io riconosco me stesso e la mia natura». Kierkegaard si pone «un po' più in alto di Climacus, un po' più in basso di Anticlimacus», nella posizione di chi ha già compreso che l'autentica verità è nel rapporto con il trascendente, ma non ha ancora compiuto il passaggio decisivo in questa dimensione.
La tonalità polemica antihegeliana è già trasparente nei titoli delle prime due opere: le "briciole" di filosofia e la loro "postilla non scientifica" ironizzano sul "Sistema" e sulla sua pretesa di una comprensione razionale della totalità. Il punto decisivo di dissenso con Hegel è che, per Kierkegaard, "un sistema logico è possibile, ma non è possibile un sistema dell'esistenza».
Infatti nella logica, che è la sfera del pensiero puro, non può esservi movimento, mentre l'esistenza è precisamente continuo divenire.
Trendelenburg ha già dimostrato, secondo Kierkegaard, l'infondatezza della pretesa hegeliana di dedurre il divenire dalla dialettica di essere e nulla, nei primi paragrafi della Logica: essere e nulla sono pura quiete, e da essi non può dunque sorgere il divenire.
Il movimento, nonché derivato come sintesi, è in realtà presupposto in base all'intuizione concreta del divenire che è nella vita.
Discorso analogo può farsi a proposito del cominciamento, che è posto da Hegel nell'immediato. In realtà, il pensiero non è privo di presupposti: esso presuppone l'esistenza. Lo sforzo dell'astrazione, per quanto condotto al suo massimo grado, non può mai eliminare il fatto che l'astrazione stessa è l'atto di un esistente.
Su queste affermazioni è evidente anche l'influenza diretta di Aristotele, che Kierkegaard, come risulta dal Diario, iniziò a leggere direttamente intorno al 1843, proprio sulla scia di Trendelenburg. «L'esistenza - egli scrive nel Diario - corrisponde alla realtà singolare, al singolo, come già insegnò Aristotele: essa resta fuori, ed in ogni modo non coincide col concetto».
Questo «restar fuori» dal concetto esprime il significato del verbo existere in latino, cioè appunto sistere (stare) ex (fuori). A causa di tale dottrina dell'esistenza Kierkegaard sarà considerato, nel Novecento, il precursore dell'esistenzialismo.
Ciò che caratterizza l'esistenza, secondo Kierkegaard, è la possibilità, cioè l'opposto di ciò che caratterizza l'essenza, vale a dire la necessità. Anche qui è evidente la polemica contro Hegel.
Secondo il grande filosofo di Stoccarda, come abbiamo visto, la filosofia era la comprensione della razionalità del reale, cioè la spiegazione della sua necessità, e quindi per la filosofia tutto accade necessariamente, sia a livello di puri concetti, nella logica, sia a livello della natura, sia a livello della storia.
Secondo Kierkegaard, invece, nella vera realtà, che è l'esistenza, nulla è necessario e tutto è possibile. Nella storia in particolare, cioè nella vita umana, nulla è predeterminato, ma tutto dipende esclusivamente dalla libera scelta dell'individuo, anzi del singolo.
La pura possibilità caratterizza anche l'atteggiamento del singolo di fronte a Dio, cioè il «salto» nella fede. Kierkegaard preferisce parlare di «singolo», piuttosto che di «individuo», per sottolineare il carattere propriamente umano dell'esistente e il suo rapporto unico con Dio.
Ogni uomo, infatti, è creato da Dio con un atto singolare e la sua salvezza dipende da un rapporto altrettanto singolare, cioè personale.
Il tema di fondo della critica kierkegaardiana è che l'essere non può venire dedotto dal pensiero. Il pensiero astratto e oggettivo, nella pretesa di comprendere razionalmente l'esistenza sub specie aeternitatis, la fraintende completamente. L'esistente non si lascia pensare. L'esistenza «è sempre la realtà singola, l'astratto non esiste».
Non appena viene ricondotta nell'universalità del pensiero astratto, l'esistenza si volatilizza: essa è movimento, contraddizione, discontinuità, possibilità, e non può essere compresa nelle categorie della mediazione e dello sviluppo necessario dell'Idea.
Perciò il pensatore oggettivo, il filosofo speculativo, parla della vita, ma non vive. Raggela la vita nel pensiero, nella comprensione razionale, mentre l'esistenza è «passione infinita» e «interesse», quelli propri di ogni Singolo infinitamente interessato al proprio esistere.
Il sistema è identità di soggetto e oggetto, di pensiero ed essere: «l'esistenza è invece precisamente la separazione». Ciò non vuol dire che essa escluda il pensiero: Kierkegaard, come Hegel, vede l'esigenza del superamento dell'immediatezza.
Tutto il percorso dell'esistenza è riflessione, è dialettica. Ma l'esistenza richiede, per essere pensata, «un esistente concreto che si rapporti in concreto alla verità», un «pensatore soggettivo», che accolga nel pensiero il proprio dell'esistenza, la sua ambiguità costitutiva.
Che cos'è infatti l'esistenza? «E quel bambino che è generato dal finito e dall'infinito, dal tempo e dall'eternità, ed è perciò sempre aspirante», come l'Eros del Simposio platonico.
La verità, allora, non è qualcosa di oggettivo che debba essere raggiunto, non è identità astratta di pensiero ed essere: «la verità è soggettività», cioè appropriazione di una interiorità autentica.
Appropriarsi la verità significa divenire se stessi, dunque la soggettività non è un dato, ma un compito che va realizzato, un'aspirazione.
Come può avvenire questo movimento verso la verità? Intanto, il fatto che l'esistente ponga la questione della verità indica già che egli è nella non-verità.
Qui Kierkegaard vede il limite del socratismo, e la necessità di andare oltre esso. Per il maestro Socrate ciascuno porta la verità dentro di sé, e dunque l'appropriazione di essa è un atto di reminiscenza. Per Kierkegaard, invece, il Singolo è fuori della verità: l'appropriazione richiede dunque una rottura, un salto, una discontinuità rispetto all'immanenza, che è non-verità.
Vi è una differenza assoluta fra uomo e Dio, finito e infinito: «Dio non pensa, Egli crea. Dio non esiste, Egli è eterno. L'uomo pensa ed esiste e l'esistenza separa pensiero ed essere, li distanzia l'uno dall'altro nella successione».
Si possono mediare differenze relative, non la differenza assoluta.
Hegel tenta di assorbire la coscienza finita nel movimento dell'infinito, di ricomprendere il relativo nel movimento dell'Assoluto: la sua è una dialettica quantitativa, in cui le differenze di grado sono ogni volta ricapitolate nella continuità del processo.
Ma l'Assoluto è assolutamente «Altro», è trascendenza: perciò la via del Singolo verso l'assoluto non può che essere una dialettica qualitativa, in cui ogni posizione esistenziale è rottura rispetto alle altre.
Le categorie fondamentali di questa dialettica sono la decisione e la ripresa.
Nella decisione il Singolo compie il salto, la scelta in favore dell'infinito che è in lui; nella ripresa egli realizza la sua vera essenza, riprendendo il suo passato in vista dell'avvenire: la vera ripresa, infatti, è «un ricordare procedendo», mentre nella reminiscenza greca «ciò che si ricorda è stato, ossia si riprende, retrocedendo».
Le diverse posizioni dell'esistenza attuano tale dialettica in modi differenti.
Per l'esteta, che non conosce la decisione, la ripresa è impossibile, e si risolve nel vano tentativo di attualizzare il passato nella ripetizione del momento. Nella vita etica vi è scelta e vi è ripresa, cioè continuità dell'Io nella sfera dell'immanenza, il cui limite abbiamo già descritto.
Solo nell'accettazione della trascendenza, quindi nella decisione in favore della fede, la ripresa si configura come una vera «rinascita». Solo il rapporto con l'Assoluto genera un uomo nuovo, che ha scelto sino in fondo la propria infinità e quindi ritrova la propria essenza.
Nella dialettica qualitativa - ironizza Kierkegaard - uno stadio non «inghiotte» il precedente «come il titolo di cavaliere assorbe quello di commendatore».
Ogni stadio ha autonomia propria e il passaggio dall'uno all'altro non è necessità di sviluppo della ragione, ma possibilità della decisione. Vi è un movimento verticale di ascesa e il passato viene ripreso, ma la disgiunzione qualitativa dell'aut-aut è sempre aperta. La sintesi è provvisoria, mantiene sempre in sé i termini della contraddizione.
Leggiamo nella Malattia mortale che l’io «è un rapporto che si rapporta a se stesso»: non puramente rapporto di anima e corpo, infinito e finito, eternità e tempo, ma coscienza di questo rapporto, unità riflessa e sempre dialettica.
La disperazione è la condizione esistenziale che l'uomo incontra nel suo rapportarsi a se stesso: nella Malattia mortale Kierkegaard torna a riflettere su una situazione che aveva già descritto in Aut-aut come momento dialettico terminale della vita estetica.
Ora la disperazione è vista come radice della condizione esistenziale propria dell'uomo in quanto tale. La disperazione è «malattia mortale» non perché dia la morte, ma anzi proprio in quanto in essa l'individuo prova il tormento «di non poter morire».
La disperazione accompagna tutta la vita e costringe l’io a vivere la propria morte spirituale. Perciò l'Io dimora costantemente nella disperazione, anche quando non se ne accorge, anche quando è felice, perché la disperazione abita «nell'intimo dell'anima, nel nascondiglio più segreto della felicità».
Apparentemente l'uomo si dispera per una cosa determinata, ma in verità non è così: la disperazione è sempre di se stessi.
Se un ambizioso non raggiunge il potere, non è disperato per il potere che non ha, ma per il suo lo, che gli è divenuto insopportabile: «vorrebbe sbarazzarsi di se stesso» ma non può, perché l'eterno che è in lui non può essere spento.
La disperazione nasce dal fatto che «quell'Io, che egli disperatamente vuole essere, è un lo che egli non è». Dunque, alla base della disperazione c'è un fraintendimento: il fatto che l'uomo non accetta la propria natura di essere derivato, di essere posto da altro. «Il disperato vuole separare il suo lo dalla potenza che l'ha posto».
Da qui si generano lo squilibrio, la mancanza della sintesi e lo svanire della speranza, il disperare. Così, il disperato cerca l'infinito attraverso l'illusione del pensiero e della fantasia, negandosi come finitezza; o al rovescio, si getta a capofitto nel finito della temporalità e della mondanità, negandosi all'infinità. Corrispettivamente, vive nella possibilità pensata come infinita, fuori della realtà; o piega il capo sotto il giogo della necessità, nel fatalismo e nel determinismo. La disperazione «per non voler essere se stessi» e «il voler essere disperatamente se stessi», assolutamente padroni di se stessi, sono le forme di una medesima malattia.
La via d'uscita dalla disperazione - che si identifica col peccato - consiste nella decisione eterna del credere: con questa decisione «l'Io si fonda in trasparenza nella potenza che l'ha posto».
Il Singolo, «proprio lui, il suo Io», sta davanti a Dio: è questa la conquista dell'infinità «che non si raggiunge se non attraverso la disperazione».
La disperazione è un fatto vissuto nella coscienza, cresce qualitativamente con il crescere di questa.
Quanto più il Singolo è cosciente della propria disperazione, tanto più è vicino a Dio e insieme consapevole della propria lontananza da esso.
Ma alla soglia della decisione infinita, il passaggio avviene attraverso l'accettazione del paradosso, di ciò che precisamente ripugna al pensiero. «L'idea della filosofia è la mediazione, quella del Cristianesimo è il paradosso» dice Kierkegaard. Cristo stesso è il paradosso, perché è l'eterno venuto nel tempo, l'istante che è «la pienezza del tempo».
Che l'eternità si faccia tempo in un esistente è una contraddizione che il pensiero non può accettare. La non accettazione del paradosso è lo scandalo: «la vera ragione per cui l'uomo si scandalizza del cristianesimo è che esso è troppo alto». L'uomo, da solo, non può nulla: non può che essere peccato e disperazione infinita, se Dio non si muove per amore a colmare l'abisso.
Dio si abbassa in Cristo verso l'uomo, diviene Maestro, Redentore e Riconciliatore; viene in incognito e viene come servo; è dono gratuito di salvezza e insieme possibilità dello scandalo. Scandalizzarsi è non accettare l'assurdo che «il peccato dell'uomo interessi Dio». Scandalizzarsi è non accettare il rischio, l'incertezza della fede, che nessuna prova storica può togliere.
La Cristianità, riducendo il cristianesimo a dottrina, la filosofia, pretendendo di «comprendere» tale dottrina, hanno voluto abolire la possibilità dello scandalo, facendo del cristianesimo «un paganesimo amabile e sentimentale».
La boria professorale ha ridotto Cristo «all'unità speculativa di Dio e dell'uomo sub specie aeterni, mentre l'Uomo-Dio è l'unità reale di Dio e di un uomo singolo in una situazione storica reale».
Cristo non è momento di mediazione, ma segno di contraddizione: segno che risveglia, attraverso la contraddizione che è in lui stesso, l'attività di chi lo riceve in direzione della verità.
La concezione kierkegaardiana della religione e del suo rapporto con la filosofia è esattamente l'opposto di quella hegeliana. Mentre per Hegel la religione è solo una rappresentazione, cioè un contenuto di verità espresso per mezzo di una forma inadeguata, che trova la sua espressione adeguata solo nella filosofia, cioè nel concetto, per Kierkegaard la religione è essenzialmente fede, fede pura, non riducibile ad una filosofia e anzi del tutto indipendente da qualsiasi filosofia. La religione è per lui certezza immediata, non risultante da alcun ragionamento.
Kierkegaard polemizza contro la critica storica della religione, praticata dalla scuola teologica di Tubinga, ritenendo del tutto irrilevante, ai fini della fede, l'accertamento della verità storica della rivelazione ed anche la precisazione dei suoi contenuti, perché la fede dipende esclusivamente da un atto di libertà, cioè da una libera scelta, qualunque sia il giudizio della critica storica.
Ma egli polemizza soprattutto contro la «considerazione speculativa» della religione, cioè contro la concezione hegeliana, che pretendeva di spiegare la religione per mezzo della filosofia, di risolvere nel concetto le contraddizioni dell'esistenza umana.
La religione, per Kierkegaard, è essenzialmente «paradosso», cioè rifiuto della razionalità (intesa nel senso hegeliano, cioè come razionalità assoluta, capace di spiegare tutto), rifiuto della speculazione, perché essa appartiene al livello dell'esistenza, mentre la speculazione astrae dall'esistenza, è incapace di coglierla.
Una categoria che esprime bene la concezione kierkegaardiana della religione è quella della verità.
Per Kierkegaard la verità della religione è una verità soggettiva, dove quest'ultimo termine non indica un limite, un carattere di relatività, ma esprime lo stretto legame della verità col soggetto esistente, cioè con la vita del singolo uomo.
Alla religione non interessa una verità oggettiva, cioè impersonale, astratta, priva di rapporti con l'esistenza concreta, con la vita. Essa annuncia, al contrario, una verità che ci coinvolge come soggetti, che dà un senso alla nostra vita, che ci promette la salvezza.
Tale verità non è mai separata dalla passione, ma anzi la richiede. Essa, insomma, è una verità vissuta interiormente, nell'intimità della propria coscienza, a tu per tu con Dio.
Nella Postilla non scientifica Kierkegaard rivaluta anche l'impegno etico rispetto ad Aut-Aut. Mentre nell'opera più giovanile l'etica veniva contrapposta alla religione, in quella più matura essa è considerata come un momento indispensabile della religione stessa, a condizione che sia intesa non come impegno del singolo di fronte agli altri, cioè alla società, bensì come impegno del singolo di fronte a Dio.
Per Kierkegaard, insomma, il rapporto con Dio non deve seguire, ma precedere, quello con gli altri. Naturalmente si tratta di un'etica della pura intenzione, del tutto interiore, molto più simile alla moralità di Kant che all'eticità di Hegel.
Quello che conta infatti, per Kierkegaard, è l'intenzione, che dipende esclusivamente dalla nostra libera scelta, non il risultato delle nostre azioni, che dipende dalle circostanze.
Kierkegaard fu mosso essenzialmente dalla sua sensibilità religiosa, cui ripugnava il razionalismo in cui Hegel aveva voluto ridurre anche i dati della fede.
Per Kierkegaard, in effetti, il cristianesimo non è razionalità ma paradosso: il paradosso per cui «questo singolo uomo, Gesù Cristo, è il vero Dio».
Ora, di fronte a questo paradosso l'individuo deve fare la sua scelta e prendere la sua decisione, e questo non è un fatto di cultura, ma di vita («ciò che importa è di trovare una verità che sia verità per me, di trovare l'idea per la quale io possa vivere e morire»; Diario).
Per Hegel, la filosofia aveva per oggetto la ragione assoluta e la sua realizzazione dialettica, di cui gli individui erano semplici strumenti. Per Kierkegaard, al contrario, la vera realtà sono gli individui, e la loro esistenza è qualcosa di originale e di irripetibile, che non può essere compreso negli schemi della logica («Un sistema dell'esistenza non esiste»).
L'individuo quindi, il singolo, è per Kierkegaard il vero assoluto, ed anche la filosofia deve incentrarsi sulla sua esistenza e assumere il suo punto di vista. Per Kierkegaard, è impossibile far filosofia «dal punto di vista di Dio», come aveva fatto Hegel.
«L'etica, ossia il mondo interiore, non può essere contemplata da nessuno che stia al di fuori; può essere solo realizzata dal soggetto singolo il quale può sapere che cosa abita dentro di lui» (Postilla).
Perciò «la soggettività è la verità ... il singolo è la categoria attraverso la quale l’epoca, la storia, l'umanità devono passare» (Diario).
È un rovesciamento che (come quello di Pascal nei confronti di Cartesio) qualifica per Kierkegaard tutta la filosofia precedente.
Egli rivendica con forza questo rovesciamento: «La categoria del singolo è così legata con il mio nome, che io vorrei desiderare che sulla mia tomba si scrivesse: 'Quel singolo' ...» (Diario); e ribadisce chiaramente la sua origine religiosa: «con questa categoria sta e cade la causa del Cristianesimo ... Senza questa categoria il panteismo ha vinto assolutamente» (Diario).
Ora, dal punto di vista dell'individuo, l'esistenza non è mediazione dialettica e necessità, ma possibilità e libertà.
I contrasti che si presentano in essa, infatti, non costituiscono opposizioni conciliabili, ma alternative che si escludono in modo radicale e che si realizzano solo per una scelta radicale della libertà.
Perciò la caratteristica propria dell'esistenza è la possibilità, nella quale «tutto è possibile»; e la libertà è incertezza e rischio («vi è il pericolo che nel momento seguente io non sia più così libero di scegliere», Aut-aut).