Il romanzo ottocentesco ha una struttura chiusa, in quanto tende a comunicare un messaggio preciso, delineato dal suo procedimento "a parabola": la vita del personaggio, colta nel suo percorso o in un momento significativo della sua esistenza, rivela un significato chiaro. Così I promessi sposi sono la storia di un matrimonio mancato e poi realizzato che dimostra la necessità di sottostare al disegno della Provvidenza, mentre la morte di Gesualdo, in Verga, rivela l'insignificanza di una vita dedita alla roba. In tutti questi casi l'autore mostra di possedere una verità: di tipo religioso, morale e politico in Manzoni, di tipo filosofico e ispirata al materialismo pessimistico in Verga. La struttura chiusa del romanzo deriva insomma da una determinata concezione del mondo e dalla possibilità che lo scrittore ancora avverte di comunicare un messaggio univoco.
Ma la rivoluzione filosofica effettuata da Nietzsche, Bergson, Freud pone in questione proprio la nozione stessa di verità, che ora diventa relativa e problematica, come appare già da Il fu Mattia Pascal di Pirandello (1904). l'impianto del racconto cessa perciò di essere "a parabola" e tende ad assumere la forma aperta del "diario" (come in Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Pirandello o Ricordi di un impiegato di Tozzi) o quella contraddittoria e ironica del resoconto di un nevrotico che mescola «verità e bugie» (come ci vien detto nella premessa della Coscienza di Zeno di Svevo) o quella caotica e inconclusa di un "flusso di coscienza" (come nell'Ulisse di Joyce). Da un lato sono caduti i parametri oggettivi che rendevano misurabile e conoscibile il mondo delle cose; dall'altro è venuta meno anche l'unità del soggetto, la cui anima si rivela non più momento di sintesi o di autenticità, come nell'epoca romantica, ma luogo di scissione, di compresenza di verità opposte e addirittura di diverse personalità. Risulta dunque impossibile il tipo di romanzo unitario, organico, "ben fatto" della tradizione ottocentesca; nasce invece un romanzo policentrico, poliprospettico, capace di esprimere verità diverse: un romanzo la cui struttura "aperta", divagante e inconclusa, esprime una concezione della vita analogamente "aperta" e altamente problematica.
Nel primo quarto del Novecento si assiste in tutta Europa, e anche in Italia, a due fenomeni paralleli: uno di distruzione, l'altro di rifondazione su basi nuove. Nella narrativa la nuova generazione, nata negli anni Ottanta dell'Ottocento, porta a dissoluzione le strutture ottocentesche, giungendo talora, nel momento più radicale della sua rivolta, a rifiutare in blocco il romanzo e la novella, sentiti come generi "vecchi", legati alla cultura del Naturalismo e del Decadentismo. Tutti gli espressionisti vociani scelgono la soluzione del "frammentismo" respingendo i tradizionali modi narrativi. Nello stesso tempo, però, sia alcuni autori della vecchia generazione (come, in Italia, Pirandello e Svevo, o, in Francia, Proust), sia alcuni della nuova (come Joyce e la Woolf in lingua inglese, Kafka e Musil in lingua tedesca e, in Italia, in modo più incerto, Tozzi) lavorano per ricostruire un nuovo flusso narrativo e per rifondare il romanzo su basi diverse rispetto a quelle della tradizione ottocentesca. In altri termini, questi autori non si limitano a mettere in crisi le forme del passato ma ne inventano di nuove, basate sul "flusso di coscienza" del monologo interiore (Joyce), sulle "intermittenze del cuore" e sul lavoro della memoria (Proust), sul "romanzo-saggio" (Musil), su strutture aperte del racconto che rifiutano la successione logica e cronologica degli avvenimenti: si pensi, in Italia, alla struttura aperta della Coscienza di Zeno di Svevo, al programma dell'umorismo in Pirandello, alla poetica di Tozzi tutta centrata sulla svalutazione della trama. Nasce così il romanzo del Novecento: esso, almeno nel primo venticinquennio del secolo, non è una restaurazione di quello del passato, ma una nuova forma narrativa capace di rendere dall'interno la vita interiore dei personaggi, la loro visione del mondo deformata e onirica, i loro incubi, le loro allucinazioni. L'esperienza dell'Espressionismo - attiva in modi diversi in Kafka come in Joyce, in Pirandello e in Tozzi - non è dunque passata invano.
Nuovi temi si affacciano nell'immaginario degli scrittori: quelli della nevrosi (in Svevo), della memoria (Proust), della malattia (Thomas Mann), della dimensione onirica (Kafka), dell’"uomo senza qualità" (Musil) e dell'inettitudine (Svevo, Tozzi, Pirandello). Soprattutto quelli della malattia e dell'inettitudine si prestano bene a rappresentare e definire la condizione di esclusione dell'intellettuale nella società primonovecentesca. Alcuni di questi temi, poi, si coagulano attorno alla figura del padre: un padre autoritario e incombente che rappresenta la sicurezza borghese, ma anche la sua vuotezza, che impersona la forza della legge e dell'autorità, ma spesso anche la sua insensatezza. Una figura paterna di questo tipo rafforza il senso di impotenza, di inettitudine, di malattia del figlio. Motivi psicologici e psicoanalitici desunti da Freud (il complesso di Edipo e il desiderio inconscio di uccidere il padre), motivi sociali (ribellismo piccolo-borghese) e motivi letterari (siamo di fronte a una generazione di scrittori che vogliono rompere con la tradizione e uccidere i loro padri ottocenteschi) confluiscono nel tema del padre, quale compare, con particolare forza, in Kafka ma anche in Svevo (in La coscienza di Zeno) e in Pirandello (in Uno, nessuno e centomila).
Se è in discussione il ruolo del padre, un padre-antagonista da uccidere, non lo è meno quello della donna, che è insieme madre, amante e moglie. In Italia è il romanzo di Sibilla Aleramo Una donna (1907, ma realmente pubblicato nel novembre del 1906) a riproporre il tema del rapporto fra i sessi, imponendo un salto di qualità al dibattito sulla questione femminile.
Nella narrativa in lingua tedesca è utile distinguere due gruppi di scrittori. Il primo comprende autori nati fra il 1864 e il 1877; il secondo autori nati fra il 1878 e il 1886. Il primo è più legato al romanzo tradizionale e lo mette in crisi dall'interno; il secondo contribuisce a determinare il clima culturale dell'Espressionismo ed è assai più radicale sul piano dei contenuti e della rottura formale. L'esponente di maggior spicco del primo gruppo è Thomas Mann, mentre Kafka e Musil sono i maggiori esponenti del secondo gruppo.
Fanno parte del primo gruppo, oltre a Thomas Mann, il fratello Heinrich Mann e Hermann Hesse. L'ultimo autore è ancora legato al romanzo ottocentesco d'impostazione romantica, ma lo rinnova attraverso l'analisi psicologica dei personaggi. In Demian (1919) di Hesse (1877-1962) si avverte per esempio l'influenza di Freud, che questo autore poi complica con temi mistici della cultura orientale, particolarmente nel romanzo Il lupo della steppa (1927). Hermann Hesse, unendo classicità di stile a motivi irrazionalistici e decadenti, ha non pochi punti in contatto con Thomas Mann.
Quanto a Heinrich Mann (1871-1950) fu più vicino del fratello al radicalismo degli espressionisti, sia in campo politico, sia nelle soluzioni formali. La sua critica alla borghesia, condotta in modi grotteschi e satirici, è al centro dei suoi romanzi Nel paese di Cuccagna (1900) e soprattutto Il professar Unrat (1905), storia di un insegnante, moralista e rigido benpensante, che si innamora di una cantante di cabaret, sprofondando nella degradazione sociale e morale. Dal libro venne tratto il film L’angelo azzurro, con Marlene Dietrich (1930).A causa delle sue posizioni politiche, che lo portarono a opporsi al nazismo, Heinrich Mann fu privato della cittadinanza tedesca e costretto a vivere all' estero.
Thomas Mann (1875-1955), per quanto partito da posizioni decisamente conservatrici, visse all'estero (in Svizzera, poi negli Stati Uniti, infine ancora in Svizzera) a partire dal 1933, per sottolineare così la sua opposizione al regime nazista. Nel 1929 ricevette il premio Nobel per la letteratura.
Mann apparteneva a una ricca e colta famiglia borghese di Lubecca. Questa provenienza alto-borghese lo condiziona, concedendogli un superiore distacco, una vocazione alla classicità goethiana e un amore per la solidità e per la concretezza delle forme e delle strutture. Nello stesso tempo però egli vive la propria situazione di artista, di persona inquieta, raffinata e sottile, poco adatta al mondo pratico, come contraddizione rispetto al robusto buon senso della propria classe di provenienza. La storia della sua arte nasce da tale conflitto e dal bisogno di conciliarlo.
Ciò è già evidente nel suo primo grande romanzo I Buddenbrook (1901), che narra la decadenze di una famiglia borghese attraverso quattro generazioni. Scritto con moduli narrativi che si inquadrano completamente entro i confini della tradizione realistica, il vasto romanzo contiene già un motivo di fondo dell'arte di Mann: cioè un dissidio, una posizione conflittuale rispetto al mondo borghese rappresentato. La solidità fisica e psicologica, la concretezza produttiva di quei mercanti anseatici sono visti dall'autore come qualità che vanno sì ammirate, ma che nel con tempo svelano una certa angustia di orizzonti, una sicurezza e una gioia di vivere un po' troppo a buon mercato per essere con piena adesione condivise. È già evidente cioè la consapevolezza dei limiti delle virtù borghesi e l'attrazione - che Mann non cesserà mai di sentire - verso tutta quella gamma di atteggiamenti e di modi di essere che della solida sanità e normalità borghese sono la negazione: l'inquietudine, la sensibilità raffinata al punto da diventare morbosa, l'aggrovigliarsi di dubbi nell'intimità problematica della coscienza, l'attrazione verso il gorgo ineffabile dell'arte, della musica, la diversità che si configura come inettitudine a quella vita e come malattia.
I Buddenbrook
È questa la tematica cui soprattutto inclina Mann e la storia de I Buddenbrook è storia di una decadenza, di un affinamento che è disfacimento degli antichi valori; e così si spiega l'attenzione per i conflitti interiori dell'ultimo Buddenbrook, il giovane Hanno, nel quale questo nuovo sentire si impersona, così si spiegano il fascino della morte che Mann sente ed esprime in pagine mirabili dedicate via via al finire dei vari personaggi.
Nel romanzo, Mann trascriveva indubbiamente una larga parte della propria biografia, per così dire, anagrafica e intellettuale: cioè la vicenda della sua famiglia di operosa borghesia mercantile e la sua esperienza di intellettuale fine di secolo che accoglieva le suggestioni inquietanti del decadentismo e si estraniava dal mon-do dei padri. Ma questo estraniarsi non era privo di dolorose lacerazioni. La polemica dei decadenti (Huysmans, Wilde, D'Annunzio) era improntata ad un aristocratico disprezzo, Mann invece sente quella solida sanità e quell'equilibrio del mondo dei padri come valori che non può più condividere ma che però non può disprezzare: quel mondo aveva una sua dignità, una sua misura e ci può essere posto, nel rappresentarne la fine, per la malinconica elegia o per la poesia della morte, non per il disprezzo.
I racconti lunghi
Ma nello stesso tempo quell'itinerario personale diventava paradigma di storia europea ed il successo del libro fu anche dovuto a questo, anche se Mann con molta modestia se ne confessò sorpreso.
Anche nel successivo libro Tristano (1903), che raccoglie una serie di racconti, fra i quali il racconto che da il titolo al libro e uno dei capolavori di Mann, Tonio Kröger, il tema fondamentale resta quello del contrasto arte-borghesia.
Nel Tristano il conflitto tra arte e vita viene esemplificato nella lotta che un raffinato esteta, Spinell, e un borghese impegnano intorno ad una donna, la moglie di quest'ultimo; ma il racconto si conclude con l'avvilente sconfitta di Spinell, nella cui figura Mann ha riassunto «tutti i lati negativi dell'esteta di moda agli inizi del secolo» (R. Fertonani).
Tonio Kröger è un giovane scrittore che sperimenta le proprie frustrazioni nella vita pratica e in quella amorosa, e confida le proprie contraddizioni all'amico Hans Hansen, alla fanciulla di cui è innamorato (e che invece sposa Hans) e a una pittrice russa, Lisaveta Ivanova. Tonio Kröger è un racconto lungo (o romanze breve) che rientra in un genere tipicamente primonovecentesco, il "ritratto dell'artista da giovane" (vi si cimentano anche Musil e Joyce).
Nel Tonio Kröger il protagonista è lucidamente consapevole dell'identità fra malattia e arte. A un' epoca in cui si potrebbe ragionevolmente pretendere di vivere d'amore e d'accordo con Dio e con il mondo, uno comincia a sentirsi segnato, a rendersi conto d'essere in incomprensibile contrasto cogli altri, coi normali, con la gente ordinaria; sempre più fondo si scava l'abisso di ironia, di incredulità, di opposizione, di lucidità, di sensibilità, che lo separa dagli uomini; la solitudine lo inghiotte, e da quel momento non c'è più possibilità di intesa. Ma questa coscienza di essere diverso e segnato è però sentita come condanna e il senso del racconto- che a molta critica sembra una delle cose migliori di Mann - è proprio nell'affermazione che se qualcosa è realmente in grado di fare di un letterato un poeta è appunto questo borghese amore per l'umano e il vivo e l'ordinario.
Un altro racconto lungo è La morte a Venezia (1912), che segue immediatamente al romanzo Altezza reale (1909). In La morte a Venezia il conflitto fra dignità borghese e decadenza estetizzante si cala nell'interiorità del protagonista, lo scrittore Gustav von Aschenbach, ambiguamente attratto dalla bellezza di un ragazzo polacco, Tadzio, in una Venezia decadente e voluttuosa, torpida e "malata" (vi si diffonde il colera). Il caos dell'irrazionale, della bellezza e della morte devasta il sogno di classico equilibrio del protagonista che muore inseguendo il ragazzo.
Certo, ancora una volta di fronte al torbido, al vagheggiamento del sogno di bellezza di Aschenbach, Mann non è esente, qua e là, da ambiguità, ma la realtà del colera che nella fascinosa città si cerca di minimizzare e tener nascosto e poi esplode - e Aschenbach ne resta vittima - assume significazione di giudizio morale: e d'altra parte quell'impasto di miti di bellezza e di fuga dalla realtà, di estraneità e solitudine è descritto da Mann con uno stile inclemente e lucido nel quale è prevalente l'atteggiamento del distacco e della diagnosi. In questo racconto lungo tematiche tipiche del Decadentismo (il senso della corruzione e della decadenza. il fascino dell'irrazionale e della bellezza) entrano in contrasto con la volontà di controllo classico e umanistico che caratterizza sempre Thomas Mann. Le atmosfere e le tematiche del racconto sono perfettamente rese nel film che ne ha tratto, nel 1971, Luchino Visconti (qui però Gustav von Aschenbach non è uno scrittore ma un musicista).
La montagna incantata
Il tema della malattia è presente nell'ampio romanzo del 1924, La montagna incantata. Mann definì quest'opera «un ideale congedo da molte pericolose simpatie e seduzioni e incantesimi da cui l'Europa era ancora pervasa» e certo si tratta di un'opera di straordinaria complessità, di un romanzo che per le perenni discussioni tra i protagonisti (specialmente quelle fra Nafhta e Settembrini) finisce per diventare un saggio o almeno un romanzo-saggio(un genere, questo, che si sviluppa con particolare fortuna nel corso del Novecento), una summa dei problemi e del dibattito ideologico dell'Europa del primo Novecento, concepito come una vasta allegoria umanistica.
Il protagonista, Hans Castorp, è un "sano" borghese che va a visitare il cugino ammalato di tisi in un luogo di cura. Nel mondo rarefatto e separato del sanatorio, dove la vita scorre monotona e tuttavia non priva di esperienze esistenziali e culturali, scopre di essere egli stesso ammalato. D'altra parte il sanatorio lo attrae ambiguamente: in esso decadenza, malattia e raffinatezza intellettuale si mescolano strettamente. Alla fine, scoppiata la guerra, il protagonista parte per cercare nella morte un senso alla propria vita.
L’autore mette in scena vari personaggi che rappresentano diverse posizioni politiche, culturali e morali dell'Europa degli anni Dieci (quelli della prima guerra mondiale), controllando dall'alto la materia con un distacco, fatto di sottile ironia e di fine umorismo. Qui è bene evidente una componente pedagogica dell'arte di Mann orientata ora verso un recupero dei valori della ragione: Nafhta è il celebratore dell'irrazionale, della mitologia delle oscure forze istintive, del dispotismo teocratico, di quanto di torbido e di oscuro cioè la società europea del Novecento già conteneva (e avrebbe mostruosamente sviluppato nei decenni successivi), ma approda al suicidio (l'esemplarità pedagogica qui è magari un po' troppo meccanica). La parola resta così a Settembrini, portavoce del razionalismo e delle idealità democratiche, e si può concludere che Mann, anche se non risparmia contro di lui le puntate ironiche, ne condivida però il credo tutto illuministico. Questa posizione, d'altra parte, trova riscontro con gli atteggiamenti politici dello scrittore che, superando quel groviglio di vitalismo barbarico che lo aveva portato ad esaltare la guerra del '14, ora è su posizioni democratiche.
Doctor Faustus
Alla difesa dei valori della migliore tradizione democratica e umanistica dell'Europa dimensione va inscritta un'altra fondamentale sua opera, il Doctor Faustus. La vicenda del protagonista Adrian Leverkuhn è narrata nel romanzo dall'amico Serenus Zeitbloom. Adrian, un giovane musicista, ha incontrato una prostituta alla quale, malgrado i di lei ammonimenti, si è unito: ha contratto così una terribile malattia che lo distruggerà lentamente ma nel contempo gli consentirà momenti di straordinaria eccitazione creativa. Venuto in Italia, a Palestrina, Adrian incontra, - reale apparizione e allucinazione della sua eccitata fantasia - sotto le spoglie di un distinto signore, il diavolo che gli propone un patto: qualche decennio di intensa attività creativa - una musica straordinariamente originale - in cambio della rinunzia ad ogni affetto, dell'assoluta aridità sentimentale ed umana.
Adrian accetta, realizza un'opera di potente novità, ma alla fine, proprio mentre la esegue di fronte ad una cerchia di intenditori, che ha convocato appositamente, crolla, confessa il suo terribile segreto e impazzisce. È ovvio che qui ritorna un vecchio mito caro a Mann - l'artista diverso dalla normale umanità, il rapporto tra malattia e arte.
Il cronista Zeitbloom registra la vicenda di Leverkuhn con l'orrore dell'uomo «normale» e quindi con un implicito giudizio, che nella conclusione sarà espresso a piene lettere, di condanna di questa demoniaca avventura intellettuale. Siamo, in ultima analisi, sulla linea della conquista già realizzata in La montagna incantata: cioè il recupero della ragione, l'accettazione di un metro di giudizio alla cui luce la malattia perde ogni torbido fascino, ogni aristocratico privilegio.
«Nella sorte di Adriano Leverkuhn grandiosa ma tragica, Zeitbloom vede il destino di tutta la Germania negli ultimi decenni della sua storia e soprattutto nell'epilogo terrificante della seconda guerra mondiale. Gli elementi demoniaci, quasi un patto o una serie di patti col diavolo, la superbia derivata dalle stesse qualità positive, dalla grandiosità dei successi, l'arditezza senza limiti, anzi la temerarietà di andare oltre tutti i confini, una crudeltà spregiudicata senza doveri morali, fredda, quasi glaciale, sono caratteristiche di Adriano Leverkhun, ma anche di parecchi momenti della politica tedesca della storia recente» (B. Tecchi). Ed è fondamentale il giudizio conclusivo su questa vicenda (di un uomo e di un'intera nazione) espresso nelle ultime parole di Zeitbloom: «quando sorgerà dalla estrema disperazione il nuovo crepuscolo di una speranza? Ecco, un uomo solitario giunge le mani e invoca: Dio sia clemente alle vostre povere anime, o amico, o patria».
Quest'opera sintetizza quasi - pur senza essere sul piano artistico la più valida - il significato che nella cultura del secolo ha avuto questo scrittore. Il quale ha accolto i temi di fondo del decadentismo ma, con un dibattito e una interiore ricerca durata una vita, li ha sottoposti ad un riesame, ha dato alla trascrizione della propria biografia intellettuale ed umana una significazione universale, ha contribuito ad esorcizzare col fascino della creazione artistica e del dominio intellettuale i mostri del mondo moderno.
Thomas Mann sperimenta forme nuove (per esempio, il romanzo-saggio) restando fedele tuttavia a una misura classica e realistica. Non è così per gli esponenti, di lui poco più giovani, della generazione degli espressionisti o che hanno fiancheggiato comunque l'Espressionismo. Gli esponenti maggiori di questo secondo gruppo di scrittori sono l'austriaco Musil e il boemo Kafka.
Il mondo dell'incubo, dell'allucinazione, dell'assenza di significato è protagonista delle novelle e dei romanzi del praghese Franz Kafka (1883-1924). Figlio di un commerciante ebreo, laureato in giurisprudenza, fece l'impiegato in una compagnia di assicurazioni. Ebbe un rapporto travagliato con il padre e con due donne, che non poté sposare. Ammalato di tisi, morì in un sanatorio vicino a Vienna. Nei romanzi America, Il processo, Il castello, scritti fra il 1910 e la morte e pubblicati postumi, il protagonista deve sempre espiare una colpa, talora a lui stesso ignota (come in Il processo), in una società incomprensibile e assurda che lo perseguita e a cui deve sottomettersi.
Il processo
In Il processo il mondo dei giudici e del tribunale, che condanna a morte l'impiegato di banca Joseph K., agisce secondo meccanismi del tutto misteriosi, in un'atmosfera onirica di incubo. Nell'appartamento di K., il protagonista (uno scrupoloso impiegato) si presentano due poliziotti con un ordine di comparizione per un delitto non precisato. K. si trova così coinvolto nel meccanismo giudiziario senza sapere il perché e si dedica - con uno zelo che si traduce ben presto nell'atteggiamento preoccupato del colpevole ad accelerare la causa. Ricorre ad un famoso avvocato il quale però gli spiega che quei processi vengono risolti con sistemi extra giudiziari, con corruzioni e intrighi. K. tuttavia non cessa per questo di esperire le vie legali anche se il contatto con la misteriosa e gigantesca organizzazione giudiziaria - uffici e uffici negli ultimi piani o nei solai di misere case - lo fa sentire sempre più fragile e indifeso. Il processo ossessiona i suoi giorni e le sue notti e nell'immensa città egli avverte la sua solitudine e la sua posizione di accusato, in quanto crede che tutti al caffè, in ufficio, per le vie siano al corrente di quel processo: e nei loro occhi K. legge l'ironia o la condanna. Oppresso da questa condizione, K. si rende conto che al processo non si sfugge, che un potere sinistro e inconoscibile ha già deciso, che la condanna e la morte erano già in tutta quanta la trama di giorni che prima gli era sembrata vita. Paralizzato dalla paura, accoglie i due distinti signori in nero che lo portano in periferia e gli danno un coltello perché si tagli la gola: al suo rifiuto sono loro ad ucciderlo. La punizione, la repressione, il senso di colpa diventano condizione assoluta dell'uomo e insieme allegoria dell'insensatezza della vita nella società moderna.
Il Castello
Tema dell'insensatezza che si manifesta anche ne Il castello. Un agrimensore, K., giunge in un villaggio governato da un Conte che trascorre la sua vita in un Castello che, dall'alto della collina su cui è costruito, incombe sul circostante territorio. Al desiderio dell' agrimensore di lavorare in quelle terre, difficoltà insormontabili si oppongono: il castello è la sede di una mostruosa burocrazia, ordinata con una complicata e inesorabile gerarchia, che amministra il villaggio con un groviglio di leggi contrarie alla morale e alla logica. E tuttavia gli abitanti del villaggio le accettano e se ne fanno scudo, quasi, per respingere nell'isolamento il nuovo venuto il quale si trova così circondato da un impenetrabile muro di diffidenza. Eppure K. non desiste, si attacca a qualsiasi espediente per superare questa condizione e penetrare, « comunicare» col mondo del Castello, sintetizzato per lui in Klan, uno. dei tanti signori che vi abitano. Riesce a sedurre - per realizzare il suo piano - Frieda che gode i favori di Klan, ma poi purtroppo viene da lei abbandonato. Proprio quella notte K. entra casualmente in un albergo dove i signori del Castello alloggiano quando scendono al villaggio: per la prima volta, uno degli innumerevoli funzionari gli offre benevolmente aiuto. Ma K. stanco, si addormenta e non ode il discorso del funzionario. Qui il romanzo si interrompe.
La metamorfosi
La metamorfosi è il più celebre dei racconti di Kafka. Si tratta di una delle poche opere che l'autore avrebbe voluto salvare dal rogo a cui condanna tutte le altre. La «piccola storia» di cui è protagonista Gregor Samsa venne composta tra il 17 novembre e il 17 dicembre 1912, e pubblicata per la prima volta nel 1915.
Questa la vicenda. Un mattino il commesso viaggiatore Gregor Samsa si ritrova trasformato in un insetto e non riesce a scendere dal letto per recarsi al lavoro. Questa attività gli è necessaria anche per poter pagare i debiti che il padre ha contratto in precedenza. Mentre lo sconcerto dei familiari - il padre, la madre, la sorella Grete - aumenta con il passare del tempo, Gregor cerca di adattarsi in qualche modo alla situazione straordinaria prendendo man mano consapevolezza del nuovo corpo. Il racconto si articola per gran parte intorno al modificarsi di tutti i rapporti familiari nei riguardi di Gregor (a Kafka sembrano interessare queste "piccole metamorfosi" quotidiane più che la "grande metamorfosi" iniziale). E mentre la comprensione materna non riesce a concretizzarsi in manifestazioni di affetto, padre e sorella esprimono sempre più chiaramente odio e disgusto. Adesso Gregor non può più lavorare, tutta la famiglia è costretta a fare sacrifici, a riprendere le precedenti attività, ad accogliere in casa pensionanti quanto mai esigenti. Dopo un violento scontro con il padre, Il materiale narrativo è suddiviso in tre capitoli di uguale lunghezza. Nel primo la vicenda passa dallo strano risveglio di Gregor al "dialogo" con i familiari e con il datore di lavoro, sino al primo scontro con il padre che lo ricaccia nella sua stanza. Il secondo è dedicato ai rapporti quotidiani con la madre e con la sorella, fino al nuovo, terribile scontro con la figura paterna. Nel terzo capitolo si assiste alla preparazione della morte di Gregor, prima di giungere al finale liberatorio.
Questa ripartizione generale si rispecchia in un vero e proprio sistema triadico che percorre il testo come un' ossessione. Gregor è circondato e assediato da rapporti ternari: alla sua stanza si accede attraverso tre porte che lo mettono in collegamento con la camera della sorella e con il soggiorno; sono tre anche le donne di servizio che si alternano in ciascun capitolo e tre i pensionanti accolti in casa per far fronte alle difficoltà economiche. L' ossessione del tre ritorna anche in altri elementi: la vicenda di Gregor si svolge nell'arco di circa tre mesi ed egli muore alle tre del mattino «alla fine del mese di Marzo». È come se il trittico familiare padre-madre-sorella comportasse un implicito ampliarsi e riprodursi della stessa tipologia di relazioni.
Il tema della colpa, centrale in tutta l'opera di Kafka, è legato alla figura del padre. La causa del senso di colpa rinvia a motivazioni biografico-familiari, ricavabili dalle numerose annotazioni dell'epistolario. Ma è soprattutto la Lettera al padre a fornire i dati essenziali. L'''impossibilità'' di amare il padre e di esserne in qualche modo all'altezza genera in Franz uno «sconfinato senso di colpa», il rinchiudersi nella propria interiorità e nel mutismo di un rancore non rassegnato; una morsa da cui non è possibile svincolarsi e che l'attività letteraria può solo allentare.
In questa prospettiva non è da meravigliarsi se anche la punizione non risponde a motivazioni logiche e precede addirittura l'accertamento dei fatti. Quando il padre tornando a casa scopre la moglie svenuta e la figlia impaurita, non sa esattamente che cosa sia successo: è sufficiente un gioco di sguardi per decidere che Gregor deve essere punito. In una delle sequenze più terribili di tutto il racconto, il padre, militarmente statuario e minaccioso, comincia a rincorrere Gregor intorno alla stanza e quindi a colpirlo con delle piccole mele rosse. Una di esse penetra nella schiena di Gregor e vi resta conficcata fino alla sua morte, segno tangibile della condanna.
Tuttavia la colpa di Gregor è legata a doppio filo con l'innocenza. Kafka, con una scelta affascinante, lascia l'esatta determinazione della colpa e dell'innocenza in una zona di ambiguità. Gregor è, da un lato, l'insetto-parassita che umilia i suoi familiari e che risulta colpevole per l'incapacità di agire, di sollevarli dalla vergogna; dall'altro, questa stessa passività lo rende innocente.
Quella di Gregor,in effetti, è l'innocenza di un figlio condannato da una tirannica figura paterna a permanere in una condizione infantile e comunque pre-adulta.
Il rapporto tra tempo e spazio è fondamentale per entrare nei meccanismi narrativi della Metamorfosi. Il racconto, fino alla morte di Gregor, si svolge nel chiuso delle pareti domestiche. La camera di Gregor, infatti, appare fin dall'inizio il luogo delimitato del suo "potere", il ghetto volontario che sospende per alcune ore la morsa del vivere quotidiano. Gregor prova gioia a chiudersi a chiave di notte rompendo ogni legame con il mondo esterno.
Lo spazio interagisce rigorosamente con il tempo. Nei tre capitoli del racconto le categorie temporali subiscono un'evoluzione costante. La vicenda si svolge nell'arco di circa tre mesi. Avvicinandosi alle pagine conclusive le determinazioni temporali divengono sempre più rare, ma con alcune, significative eccezioni: il momento della morte di Gregor («le tre del mattino») e la specificazione del mese primaverile («Si era già alla fine di marzo» ). La metamorfosi, dunque, è anche il racconto del progressivo annullarsi della percezione spazio-temporale, sia nei confronti della realtà esterna che di quella interna, domestica. Il tempo è quello del lavoro, degli impegni, delle coincidenze nelle stazioni: non è colto in senso biologico e "naturale", ma solo nella sua funzionalità economica.
Collegato al tema del tempo di lavoro compare quello importantissimo dei debiti. Kafka lascia che anche questo tema circoli in varie zone del testo, per accenni successivi come parti di un mosaico ricomponibile a distanza. Quando la metamorfosi impedisce a Gregor di lavorare per risarcire i debiti contratti dal padre, salta la paradossale naturalezza delle sue fatiche, e la famiglia si rivela per quello che è: un intrico di egoismi. Con la metamorfosi Gregor non fa altro che mettere alla prova la loro normalità, tutta inscritta nei parametri dell'egoismo e della grettezza piccolo-borghese. Non solo essi parlano un linguaggio diverso, ma vivono in un universo morale inconciliabile con quello di Gregor.
Il racconto è caratterizzato dalla centralità della figura paterna. Il padre rappresenta il principio di autorità, colui che guida la vita dei familiari con piglio militaresco e tirannico. Tali aspetti virili, tuttavia, sono rintracciabili anche negli altri personaggi. Intorno a Gregor ruotano figure che moltiplicano e riproducono tratti di forza e di comando. Stringere i pugni, percuotere il tavolo, picchiare alle porte, battere con gli stivali sull'impiantito, inveire con rabbia sono tutti aspetti che dal padre passano a Grete, alle donne di servizio, ai pensionanti. Questi ultimi, in particolare, sono raffigurati secondo tratti aggressivi e nevrotici, quali veri e propri persecutori.
La madre, invece, sfugge del tutto a queste tipologie. È l'unica persona che riesce a interpretare il pensiero e il mondo interiore del figlio. E, tuttavia, nel corso del racconto (con l'eccezione delle pagine finali) il suo ruolo finisce per ridursi a un disagio incapace d'esprimersi, privo di qualunque efficacia sulle sorti di Gregor. La madre tende a chiudersi nel silenzio, ad avvolgersi in un sonno da malata che la rende cieca e impotente di fronte al dolore: quasi l'emblema fisico della rassegnazione.
La sorella, al contrario, fa propri i modi bruschi e violenti del padre divenendone lo sdoppiamento perfetto. Nell' economia del testo la sua presenza risulta fondamentale e complessa. A partire dal secondo capitolo Grete è il vero e proprio motore dell' azione, colei che ha in mano la vita di Gregor, nel bene e nel male. Ma la sua figura non si presenta monolitica come quella del padre, dei pensionanti o del procuratore: Grete è soprattutto un nodo irrisolto di conflittualità. Un rapporto profondo tra i due fratelli emerge innanzitutto nella scelta dei nomi, nella somiglianza fra Gregor e Grete. Nel secondo capitolo, inoltre, emerge la natura morbosa di questo rapporto fondato sul desiderio dell' esclusività, sul possesso reciproco più o meno Kafka espone nella Metamorfosi per via metaforico-allegorica un nucleo di problematiche psicologiche di complessa ricostruzione. E lo fa rovesciando la linearità del romanzo di formazione (come il Wilhelm Meister di Goethe o L’educazione sentimentale di Flaubert). La storia di Gregor è il resoconto di una maturazione mancata. La lotta dell'uomo-insetto per ottenere un riconoscimento nella "norma" si infrange subito contro un sistema esterno che rifiuta il "diverso", lo combatte, lo fagocita. Gregor può mettere alla prova la normalità dei suoi familiari, tutta inscritta nei parametri dell'interesse economico e della grettezza piccolo-borghese; può scompigliare, per una brevissima parentesi, il loro mondo convenzionale, smascherarli nella loro natura aberrante e perversa. Ma dopo la sua morte i familiari possono recuperare nella narrazione la dignità di un nome. Il padre, la madre e la sorella, finalmente sollevati dalla presenza fisica della colpa, divengono a tutti gli effetti il Signor Samsa, la Signora Samsa e Grete, la figlia "vera"', prosecutrice ed erede del loro nuovo futuro.
Pochi autori come Kafka hanno conosciuto, soprattutto nel secondo Novecento, un successo di pubblico e di critica così ampio e consolidato. Non a caso La metamorfosi, come Il processo e Il castello, vengono ormai percepite come opere emblematiche della condizione novecentesca, di un modo di vivere la realtà sintetizzabile nell'aggettivo che trae origini dall'autore: "kafkiano". Non può sorprendere, dunque, che le interpretazioni di Kafka siano molteplici e divergenti.
La poetica
La prima caratteristica che immediatamente risulta evidente a chi legge Kafka è la precisione, anzi la minuziosa attenzione che questo scrittore mette nella descrizione della realtà: persone, oggetti, ambienti sono rappresentati con moduli di estremo realismo. E tuttavia la pagina o la vicenda descritta da Kafka vanno ben al di là dei confini cari al realismo tradizionale in quanto tale realtà rappresentata scopre subito tutta una trama di risvolti, di implicazioni simboliche, metafisiche quasi. Come nei sogni, allorché capita di vivere una vicenda con estrema precisione di particolari e di avere nello stesso tempo la lucida coscienza che si sta trattando appunto di un sogno, così nell'opera di Kafka dimensione realistica e dimensione simbolica parallelamente coesistono: la minuziosa insistenza realistica mentre ci immerge in una precisa realtà la esaspera però, fa sì che essa ci appaia in una fredda luce che le toglie credibilità nella dimensione del reale, la immobilizza, la fissa in emblema. È quello che capita in tanta pittura surrealista che non rinunzia alla precisione realistica e ai dettagli, ma li utilizza strumentalmente: per far sortire dall'accostamento degli oggetti un'aura stregata e inquietante. O quello che può capitare ad ognuno di noi se, fissando a lungo un oggetto e isolandolo quasi, astraendoci dalla familiarità che deriva dall'uso giornaliero che ne facciamo, lo «scopriamo» come nuovo, mai visto e incomprensibile, assurdo nella sua forma considerata come entità a se stante, estrapolata dal contesto di consuetudini e di usi cui esso è destinato.
L'allegorismo kafkiano è di tipo particolare: non comunica un significato o un messaggio positivo o una tesi precisa e razionale, come faceva l'allegoria tradizionale, ma esprime un bisogno di significato che resta senza risposta. Per questo la critica del Novecento ha coniato per Kafka la formula di "allegorismo vuoto". Come ogni autore allegorico, Kafka rappresenta una, vicenda per "dire altro"; ma quest'''altro'' resta indecifrabile e dunque indicibile. In questa modalità espressiva confluiscono ragioni psicologiche (il conflitto con il padre, che rappresenta per Kafka l'inaccessibilità della legge, dell'autorità) e ragioni culturali (la cultura ebraica, con la sua obbedienza mistica a una Legge inaccessibile alla ragione moderna). Essa è presente anche in alcuni grandi e complessi racconti, come La metamorfosi, La condanna, Nella colonia penale, ma anche in brevi narrazioni, come Davanti alla legge o In galleria, che si prestano particolarmente bene a illustrare i modi dell'allegoria vuota kafkiana.
Incomprensibile e assurda appare a Kafka la vicenda dell'uomo: che è certo dominata da una legge, ma proprio dal fatto che all'uomo non è dato conoscerla deriva la dimensione di assurdo e di tragedia nella quale l'uomo è immerso. Ciò che, d'altra parre, fu il costante dissidio dell'uomo Kafka che nei Diari scriveva: «Non sono la pigrizia, la cattiva volontà, la goffaggine che mi fanno fallire o non fallire in tutto: vita familiare, amicizia, matrimonio, professione, letteratura, ma è l'assenza del suolo, dell'aria, della legge. Crearmi queste cose, ecco il mio compito ... il compito più originale».
Un meccanismo complesso e inesorabile schiaccia l'uomo ed è mosso da una logica che non è fatta certo a misura dell'uomo, la cui vita è un susseguirsi di disperati tentativi - conoscere questa logica e questa legge, entrare consapevolmente in questo meccanismo - che si concludono con la sconfitta: nel Processo i mezzi di cui il protagonista può disporre falliscono, sono piccole ruote che non ingranano con le inconoscibili ruote che costituiscono quel meccanismo procedurale; nel Castello, malgrado ogni tentativo il «varco» (per dirla con Montale) non è possibile, con quel mondo non si riesce ad entrare in comunicazione.
Da questa incomprensibilità e inaccessibilità della legge deriva tutto il ventaglio di temi della narrativa di Kafka: la solitudine dell'uomo; la impossibilità di stabilire un rapporto di adesione col mondo che lo circonda e di trovare nella sua giornaliera trama di gesti e di vicende un senso plausibile; la impossibilità di realizzarsi in una dimensione di autenticità; la consapevolezza della sua condizione di escluso, di «straniero» (tema che tornerà negli esistenzialisti e in Camus soprattutto); il senso di essere oggetto di una determinazione di cui ignora i fini; la sua alienazione.
Tutto questo però non è rappresentato da Kafka come una situazione di cui non resti altro che prendere atto: il suo atteggiamento cioè non è quello della rassegnazione o del vittimismo. Basta pensare ai protagonisti del Processo e del Castello che fino all'ultimo non desistono dal loro scopo o a quello del breve racconto-parabola Di fronte alla legge che anche quando non può più raddrizzare il suo corpo irrigidito e non ha più molto da vivere non rinunzia ancora una volta a chiedere il perché della sua condizione di escluso; o al protagonista della Metamorfosi che pur nella prigione del suo corpo di immondo animale aspira sempre a rompere la sua condizione di escluso, ad avviare un rapporto di comunicazione coi suoi familiari.
Kafka quindi descrive una tragica condizione dell'uomo, ma non sembra (si tratta di uno dei problemi più dibattuti dalla critica, però) che vi si rassegni. Da tante testimonianze risulta che Kafka amava profondamente la vita e che il fatto che egli sentisse il mondo in cui viviamo come un mondo senza luce non aveva spento in lui questo amore, questa ansia di vita. Decidere quale strada egli suggerisse per riscattarsi da questo mondo senza luce - se quella mistico-religiosa (fondamentale era stata nella sua formazione l'influenza del misticismo dell'ebraismo orientale), o quella della contemplazione artistica o altre ancora - è problema troppo complesso per essere qui affrontato.
Alla base di questa lucida e inesorabile rappresentazione della condizione dell'uomo c'è certamente la trascrizione di una condizione autobiografica: la solitudine dell'uomo Kafka (io vivo in famiglia fra le persone migliori e più amorevoli, più estraneo di un estraneo. Con mia madre non ho scambiato in questi ultimi anni più di venti parole in media al giorno, con mio padre niente più di un saluto); la situazione conflittuale col padre (illustrata nella agghiacciante e famosissima Lettera al padre); una costante e patologica fuga di fronte alla vita e all'eros (le interruzioni dei fidanzamenti); la sua condizione ebraica, cioè di « sradicato» che sente in sé conflittualmente l'urto di varie culture; l'angosciosa consapevolezza del fallimento della propria esistenza, resa mirabilmente in queste righe dei Diari: Un'immagine della mia esistenza sarebbe una pertica inutile, incrostata di brina e neve, infilata obliquamente nel terreno, in un campo profondamente sconvolto, al margine di una grande pianura, in una buia notte invernale.
E però evidente che nelle sue pagine Kafka ha inteso anche trascrivere - sia pure con la mediazione e la rarefazione del simbolo - condizioni storiche precise che poteva constatare o, con la caratteristica di ogni vero artista, intuire e sentire: il progressivo schiacciante dominio della macchina sull'uomo; l'elefantiasi burocratica della società moderna che annienta nei suoi ingranaggi le vocazioni del singolo; il margine sempre più esile di possibilità di salvezza lasciata da questa (o da ogni?) società all'uomo. Ritornava cioè in Kafka quel motivo del «disagio della civiltà» che parte dai decadenti e, dilatato dall'analisi fattane da Freud, è tanta parte dell'arte contemporanea.
Thomas Mann e Kafka esprimono due modi diversi, e per certi versi opposti, di interpretare la crisi delle ideologie e dei valori ottocenteschi. Mann la registra restando fedele ad alcuni valori del passato (l'umanesimo, il controllo classico e razionale, le strutture chiuse); Kafka la vive drammaticamente denunciando l'insignificanza della vita e la sostanziale vuotezza di un potere tirannico e oscuro ed elaborando strutture narrative aperte che invitano il lettore alla collaborazione nella ricerca di un senso per lui indecifrabile. Di qui il conflitto delle interpretazioni. Per esempio, il grande critico ungherese Gyorgy Lukacs, teorico del realismo, individua in Thomas Mann l'unico grande scrittore del Novecento che sia all'altezza dei realisti del primo Ottocento come Balzac, mentre vede in Kafka un atteggiamento di resa di fronte alla crisi, che ne fa il prototipo di una posizione letteraria sbagliata: quella delle avanguardie che si limitano a subire e a registrare la crisi senza conoscerla e senza giudicarla. Viceversa Walter Benjamin, teorico e rivalutatore dell'allegorismo, valorizza Kafka proprio perché, attraverso l'allegoria vuota, ha elaborato una modalità espressiva che è tipica delle avanguardie novecentesche. Fatto sta che Kafka ha indubbiamente avuto una enorme influenza sulla letteratura del Novecento, in Europa e anche in Italia (da Buzzati a Bilenchi), mentre alcuni scrittori italiani del primo Novecento, come Pirandello e Tozzi, presentano, con le loro soluzioni visionarie, surreali e oniriche e con la centralità del tema del padre, interessanti e significative analogie con la sua ricerca artistica.
Alle strutture aperte del romanzo novecentesco ha dato un contributo sostanziale anche l'austriaco Robert Musil (1880-1942), il cui capolavoro, L’uomo senza qualità, può essere paragonato, per la rivoluzione delle forme espressive, all'Ulisse di Joyce e alla Ricerca del tempo perduto di Proust.
Dopo aver compiuto gli studi in un collegio militare (lo stesso dove ambienterà il suo primo romanzo), Musil divenne ingegnere meccanico. Poi, trasferitosi a Berlino, si laureò con una tesi su Ernst Mach (fisico e filosofo austriaco), subendo profondamente l'influenza delle sue teorie probabilistiche e relativistiche. Musil ne derivò la coscienza della crisi dell'oggettivismo e dell'impossibilità di qualsiasi conoscenza sicura del mondo, ma anche la coscienza delle infinite possibilità dell'uomo: di qui l'intreccio fra nichilismo e utopia che caratterizza la sua opera.
Dopo aver partecipato alla guerra, Musil fece il bibliotecario e l'impiegato ministeriale, finché, a partire dal 1923, poté occuparsi solo di letteratura e dedicarsi al suo romanzo L’uomo senza qualità, a cui lavorò tutta la vita, peraltro lasciandolo incompiuto (i primi due volume dei quattro previsti uscirono nel 1930 e nel 1933 ). All'avvento di Hitler lasciò Berlino per Vienna e, dopo l'annessione dell' Austria alla Germania (1938), si rifugiò in Svizzera.
Musil esordisce nel 1906 con il romanzo autobiografico I turbamenti del giovane Torless, una sorta di "ritratto dell'artista da giovane" parallelo al Tonio Kroger di Thomas Mann. Le opere successive rientrano tutte nell'ambito dell'Espressionismo: sono le novelle di Incontri (1911) e Tre donne (1924) e le commedie I fanatici (1921) e Vincenzo e l'amica degli uomini importanti (1923)
I turbamenti del giovane Torless, pur essendo in terza persona, inaugura lo stile "dall'interno" che caratterizza molta produzione espressionista. Il protagonista, un adolescente costretto a vivere in un collegio, viene subito presentato senza esperienze e "senza qualità", affetto da un'«intima indifferenza» per la vita, sprofondato «in un cupo almanaccare» e diviso fra due mondi, quello solido e ordinato della borghesia e quello «fantastico, pieno di tenebre, di mistero e di sangue, del suo temperamento. Il romanzo è una sorta di itinerario di iniziazione: nel collegio l'adolescente protagonista sperimenta non solo l'estraneità delle istituzioni, che mascherano con le regole un vuoto sostanziale, ma anche la realtà delle pulsioni e dell'irrazionale, la scoperta del sesso, la vicenda sadomasochista dei rapporti umani.
La vicenda dell'Uomo senza qualità ruota in gran parte intorno a Ulrich, il protagonista. Questi rappresenta l'uomo senza qualità, in quanto, essendo proteso verso tutte le possibilità intellettuali e pratiche, non riesce a indirizzare la vita secondo un unico senso e appare perciò sempre indeciso e perplesso. Ulrich è eletto segretario da un comitato di aristocratici, l'Azione Parallela, messo in piedi per organizzare le celebrazioni del Giubileo dell'imperatore Francesco Giuseppe. La cosa però si trascina per le lunghe e si trasforma in un fiasco. Questo filone principale della trama permette all'autore di descrivere satiricamente la crisi della società austriaca e del suo impero (la Kakania, come viene ironicamente chiamato), alla vigilia della prima guerra mondiale. A questo filone principale si uniscono infiniti altri filoni minori.
Questo confluire di temi e di filoni narrativi fa del romanzo una sorta di labirinto costruito con gelida esattezza e con rigore matematico. E tuttavia, se l'autore controlla il racconto e impone il proprio ordine, ogni vicenda rivela alla fine la propria insensatezza: contiene sì una possibilità, ma si conclude sempre nel fallimento, nella coscienza della vanità. D'altra parte la vicenda stessa viene svuotata dall'interno. È il concetto stesso di storia o di vicenda che viene messo in discussione. Mentre apparentemente Musil accetta la logica del racconto o della storia, in realtà egli la svaluta e la ironizza di continuo. Musil stesso dirà che l'Uomo senza qualità «viene a dire che la storia che in esso si doveva raccontare non viene raccontata». Di qui il fatto che l’azione romanzesca si presenta sempre come parodia dell'azione; e di qui, anche, lo stesso carattere aperto e inconcluso dell'opera che riflette non solo il carattere di Ulrich, straripante di possibilità intellettuali e vitali ma incapace di indirizzarle, ma anche la visione del mondo di Musil.
Anche nella narrativa in lingua inglese il primo Novecento segna una svolta radicale, che si manifesta nel modo più consapevole e completo nell'Ulysses [Ulisse] di Joyce, ma che annovera anche altri grandi esempi, come quelli di Virginia Woolf in Inghilterra e di Gertrude Stein negli Stati Uniti.
Tutto proiettato nel futuro è lo sperimentalismo di Gertrude Stein (1874-1946), studiosa di psicologia sperimentale e di neurologia, che portò il proprio abito scientifico e la sua attenzione per la tecnologia moderna nell'ambito della letteratura. A ventinove anni si recò a Parigi, dove visse sino alla morte, facendo della propria. casa il punto d'incontro fra scrittori americani (Anderson, Hemingway, Fitzgerald) e artisti europei (Braque, Picasso, Matisse). La Stein concentra la sua attenzione sul linguaggio, nella consapevolezza che la società contemporanea modifica i modi di percezione e di espressione, trasformando insieme le psicologie e le parole. Il suo primo libro, Three Lives [Tre esistenze] (1908), si presenta da un lato come studio e rifacimento di Tre racconti di Flaubert, dall'altro come analisi e scomposizione critica del linguaggio delle tre protagoniste, quello parlato e quello mentale. Le vicende delle tre donne interessano alla scrittrice solo come pretesti per l'analisi psicologica e per quella linguistica. Si avvia qui quel processo di svalutazione della trama che si approfondirà nelle opere successive. In Tender Buttons [Teneri bottoni] (1914) si nota l'influenza del cubismo: la Stein adotta la tecnica del "collage" e destabilizza la macchina narrativa, con il proposito di trasferire sulla pagina la multilateralità sincronica di un «presente continuo» in cui confluiscono le tre dimensioni del tempo. Il racconto cessa di raccontare (si veda, per esempio, The Making of Americans [C'era una volta gli Americani], 1925), mentre il trattato cessa di trattare scientificamente: The Geographical History of America [Storia geografica dell' America] (1936) è un trattato surreale, che si nega come trattato. Insomma lo sperimentalismo della Stein pone in discussione non solo la parola, ma i generi letterari, ibridandoli e destrutturandoli.
In Inghilterra, all'inizio del Novecento, mentre continua il tradizionale romanzo realista rappresentato da John Galsworthy e si sviluppa, sempre nel rispetto della misura ottocentesca del racconto, il racconto profetico e fantascientifico di Herbert George Wells (1866-1946), l'elemento di novità è introdotto dalla psicoanalisi o, almeno, dagli interessi per la psicologia. Non necessariamente, tuttavia, essi portano alla rottura delle forme espressive. Si può distinguere un gruppo di scrittori in cui l'analisi è condotta ancora nel rispetto della tradizione da quelli più innovatori. Nel primo gruppo occorre collocare, per esempio, Edward Morgan Forster, Katherine Mansfield, David Herbert Lawrence; nel secondo Virginia Woolf e James Joyce.
Forster (1879-1970) conduce la propria critica alla società borghese calandosi nelle coscienze e adottando la formula del romanzo psicologico. Ambientò i suoi primi due romanzi in Italia (Where Angels Fear to Trend [il romanzo è tradotto in italiano con il titolo di Monteriano] e A Room with a View [Camera con vista]), usciti rispettivamente nel 1905 e nel 1908. Dopo Howard's End [Casa Howard], Forster scrisse il proprio capolavoro con A Passage to India [Passaggio in India] (1924), storia di due signore inglesi in visita a un magistrato in India e analisi dei rapporti fra europei e indiani.
La neozelandese Katherine Mansfield (pseudonimo di Kathleen Beauchamp, 1888-1923) scrisse varie raccolte di racconti incentrati su personaggi femminili, da In a German Pension [In una pensione tedesca] del 1911 a The Garden Party [La festa in giardino] del 1922.
Più ricca e complessa è la personalità di David Herbert Lawrence (1885-1930). Egli deriva da Forster il gusto del primitivo, dell'istintivo, del naturale, che lo induce a esaltare il valore liberatorio del sesso e a guardare con simpatia i popoli mediterranei (di qui il suo interesse, per esempio, per Verga, di cui tradusse in inglese Mastro-don Gesualdo e alcune novelle). Nello stesso tempo Lawrence è un intellettuale che ragiona astrattamente e logicamente sui problemi che agita. Ne nasce una contraddizione che Lawrence cerca talora di risolvere attraverso il romanzo-saggio (tale è, in fondo, anche il suo romanzo più famoso, Lady Chatterley's Lover [I: amante di Lady Chatterley]). La tematica psicologica, centrata sull' analisi del rapporto fra madre e figlio, domina già nel primo romanzo importante di Lawrence, Sons and Lovers [Figli e amanti] (1913), cui seguono The Rainbow [L’arcobaleno] e Women in Love [Donne in amore], che ne è la continuazione, rispettivamente del 1915 e del 1920. Tutt'e due uniscono realismo psicologico a tematiche simboliche, legate al tema della natura, del sesso, della fecondità. Questi aspetti, realistici e simbolici, tornano nel romanzo ambientato in Messico (terra particolarmente amata, in quanto primitiva, come l'Italia meridionale e l'Australia) The Plumed Serpent [Il serpente piumato] (1926). Clamoroso scandalo suscitò L’amante di Lady Chatterley, uscito nel 1927, processato e censurato e pubblicato in edizione integrale, in Inghilterra, solo nel 1960. La signora protagonista, moglie di Sir Clifford, un aristocratico reso paralitico da una ferita di guerra, conosce l'amore fisico attraverso una relazione con il guardiacaccia del marito, Mellors. Alla fine la donna, che attende un bambino, decide di andare a vivere con l'amante, sfidando le convenzioni sociali. Lo scandalo non fu prodotto solo dalle crude scene erotiche e dall'ideologia di Lawrence volta a esaltare il valore liberatorio del sesso, ma dalla questione sociale implicita nella vicenda: all'ipocrisia e all'artificialità della vita delle classi più elevate si oppone infatti il mondo naturale, più franco e istintivo, delle classi più basse, rappresentate da Mellors.
In Virginia Woolf e in Joyce la scoperta freudiana dell'inconscio induce al tentativo di renderne sintatticamente e linguisticamente i procedimenti rompendo la tradizione del racconto lineare, impostato sulla successione logica e cronologica e sui consueti nessi causali e temporali. Nasce così il cosiddetto stream of consciousness novel, vale a dire il romanzo del "flusso di coscienza', una forma particolare di "monologo interiore" volto a tradurre immediatamente le sensazioni più profonde dell'io. Mentre il tradizionale monologo interiore presupponeva ancora un narratore onnisciente che gli dava un senso secondo la normale logica consequenziale del discorso lineare, il "flusso di coscienza" comporta l'adesione ai procedimenti "illogici" - perché paradossali, analogici, surreali e onirici - della fantasia a occhi aperti o della vita notturna dei sogni e degli incubi, al di fuori del controllo dell'intelletto e del pensiero elaborato.
James Joyce, irlandese, nasce nel 1882 a Dublino. Studia nelle scuole dei Gesuiti e si laurea in letterature straniere, specializzandosi in francese e in italiano. In questa fase studia l'Odissea e la Commedia dantesca, e comincia a interessarsi alla figura di Ulisse. Nel 1904 lascia l'Irlanda per stabilirsi in Europa con la compagna Nora Barnacle, da cui avrà due figli. Si reca in Italia, a Trieste, a Roma, di nuovo a Trieste, insegnando l'inglese alla Berlitz School. Conosce Italo Svevo, di cui diventa amico ed estimatore.
Nel 1914 pubblica quindici racconti con il titolo complessivo di Dubliners [Gente di Dublino], il libro che gli dà fama europea e dove mette in atto la poetica delle "epifanie": si tratta di improvvise rivelazioni del senso delle cose, che di colpo si mostrano, per un attimo, in una luce nuova e più vera. I quindici racconti dei Dublinesi presentano un ampio affresco di quella città alla quale Joyce fu legato per tutta la vita da un ambiguo legame di odio-amore: una galleria di tipi umani, di abitudini, di ambienti emerge da queste pagine nelle quali i moduli di rappresentazione adottati dall'autore (che potremmo anche chiamare realistici: la critica ha fatto riferimento tra l'altro a Maupassant) mirano a mettere in luce caratteristiche e situazioni della gente di Dublino all'inizio del secolo nelle quali sia possibile riscontrare esemplari e tratti generali della natura umana. Ma l'attenzione - ed è un elemento fondamentale per capire la futura produzione - è soprattutto rivolta alla psicologia dei personaggi: la realtà esterna è minutamente descritta, ma strumentalmente: solo in quanto fornisce agganci per capire il meccanismo che scatta nell'animo del personaggio. Per fare un solo esempio: Joyce indugia sull'atmosfera opprimente della vita d'ufficio, sulla giornata del misero impiegato (che passa da un'umiliazione che gli infligge il suo capoufficio ad un bicchiere di birra in uno squallido pub) solo per individuare le premesse che spieghino la rivalsa (è il titolo del . racconto) che il protagonista trova alle proprie frustrazioni nel picchiare a sangue, tornato a casa, il figlio. bambino.
Nel 1917 pubblica A Portrait of theArtist as a Young Man [Ritratto dell' artista da giovane], più conosciuto in Francia e in Italia con il titolo di Dedalus, il nome del protagonista. È un romanzo costruito con materiale autobiografico in cui si narra la storia dell'educazione di Stephen Dedalus.
Nel Dedalus si accentua la vocazione all'indagine psicologica al di là degli elementi realistici. Le caratteristiche fondamentali che via via si affermano sono l'analisi delle reazioni del protagonista di fronte all'opprimente conformismo del collegio gesuitico in cui vive, il suo faticoso processo di liberazione che lo porta a rifiutare i valori borghesi vittoriani e a prendere coscienza della sua missione d'artista. Questa crisi di un adolescente è narrata in una prosa di impianto lirico, elaborata e musicale, fitta di rispondenze e di suggestioni ritmiche mediante la quale Joyce cerca di cogliere quello che di indefinibile ed oscuro c'è nella psicologia dell'adolescente che tumultuosamente cerca la sua strada.
E, d'altra parte, nella descrizione di questo itinerario, Joyce trascriveva larga parte della propria esperienza autobiografica e adottando nelle ultime pagine dell'opera la forma diaristica inclinava manifestamente verso una interiorizzazione del rapporto col mondo esterno, si spostava verso quelle soluzioni formali che avrebbero costituito la novità dell'Ulisse.
Nel 1918 Joyce comincia a pubblicare a puntate l'Ulisse sulla «Little Revue» di New York; ma la rivista viene sequestrata perché il testo di Joyce è giudicato immorale. Il romanzo esce a Parigi nel 1922, dove l'autore si era trasferito (ma morirà a Zurigo nel 1941).
A partire dal 1923 Joyce lavora al suo ultimo romanzo, un'opera aperta, anzi in divenire (Work in progress [Opera in divenire] era il suo titolo provvisorio), da lui pubblicata nel 1939, benché incompiuta (ma l'incompiutezza le è, per così dire, organica), con il titolo di Finnegans Wake [La veglia di Finnegan], desunto da una ballata irlandese. È l'opera più sperimentale di Joyce, e anche la più complessa e oscura. Il linguaggio non obbedisce alla logica comunicativa, ma vuole evocare, in modo allusivo, la realtà indecifrabile e caotica della società contemporanea.
Ulisse
Ulisse racconta non solo e non tanto gli avvenimenti vissuti a Dublino, in una sola giornata, da Leopold Bloom, agente pubblicitario di origine ebrea, ma ciò che avviene nella sua coscienza in questo periodo di tempo. E se i pensieri e le sensazioni inconsce del protagonista si sviluppano nello spazio temporale di poche ore, in essi il presente s'intreccia indissolubilmente con tutto il suo passato individuale e con quello dell'umanità intera. D'altronde la stessa unità dell'io è messa in questione: nel protagonista convivono pensieri e sensazioni inconciliabili, identità multiple, che ne fanno un modello complessivo e tipico di uomo. Come Ulisse rappresenta l'eroe greco antico e, insieme, aspirazioni e valori dell'umanità tutta, così Leopold rappresenta l'uomo moderno e, insieme, l'esperienza umana nel suo complesso e nella sua varietà molteplice. Il mediocre Bloom. uomo comune, è, perciò, un modello e un "eroe". Ma è un eroe moderno e dunque inevitabilmente degradato, in quanto inetto, grottesco, mediocre. La modernità "abbassa" ironicamente il mito, mostrandone il rovescio e ponendo in primo piano le inquietudini, le debolezze, le irrisolte contraddizioni dell' eroe. La sua è l'odissea dell'uomo comune. Da questo punto di vista, Leopold è anche una parodia di Ulisse, così come Molly, la moglie, è una parodia di Penelope.
Ogni episodio della giornata di Leopold trova un proprio corrispondente tematico-simbolico nell'Odissea. Come l'Ulisse del mito omerico, Leopold cerca di ricongiungersi a un figlio, rappresentato nel romanzo da Stephen Dedalus, un giovane intellettuale. Mentre Bloom la mattina si separa dalla moglie Molly, cantante, per recarsi a un funerale, Stephen lascia la torre dove abita con un amico. Durante la giornata, Leopold e Stephen s'incontrano in luoghi diversi della città. finché a sera, in un quartiere malfamato, il giovane, ubriaco e aggredito da due soldati inglesi, viene salvato da Leopold, che lo conduce a casa sua. I due parlano sino a notte inoltrata; poi Stephen se ne va. Molly è già a letto e, non potendo addormentarsi, si abbandona a ricordi, immagini, pensieri fluttuanti fra la memoria, il sogno e la riflessione consapevole. Il suo lungo monologo interiore, condotto attraverso la tecnica del "flusso di coscienza", conclude il romanzo.
Le innovazioni tecniche dell'Ulisse sono rivoluzionarie. Anzitutto lo stream of consciousness: è portato alle estreme conseguenze: la narrazione segue gli sbalzi della coscienza dall'interno, senza sovrapporvi alcun ordine, neppure quello della punteggiatura. In secondo luogo la mescolanza degli stili è spinta al punto massimo: il registro alto si mescola a quello basso, il linguaggio biblico a quello dei bassifondi, termini antichi e letterari al gergo tecnico e giornalistico. Infine la struttura è volutamente aperta e caotica, capace sia di mostrare la vita di un uomo da ogni possibile angolatura e di sottolinearne gli aspetti contraddittori, sia di forzare i limiti della scrittura lineare e della sua esposizione progressiva dei fatti attraverso la presentazione simultanea di più azioni contemporanee.
L'interesse per la vicenda interiore del personaggio, per la sua realtà psichica - poliedro dalle innumerevoli facce che rifrange il reale accogliendone sollecitazioni che contamina o complica con l'intersecarsi di presente, di passato e di futuro, di ricordi e di speranze - spinge Joyce a superare le normali coordinate di tempo e di spazio entro le quali era stata fino ad allora rappresentata l'esperienza psichica del personaggio. Lo porta cioè a tentare di descrivere il cosiddetto flusso di coscienza, quella ininterrotta colata di sensazioni, sentimenti, ricordi che costituisce la realtà interiore di ognuno di noi. Rappresentare questa realtà con questo nuovo metodo comportava due conseguenze.
Bisognava superare le normali strutture sintattiche che finora avevano razionalisticamente situato in una prospettiva e in una gerarchia quanto l'autore narrava. Ritenute insufficienti al suo intento le suddette strutture, Joyce sperimenta il famoso monologo interiore cioè registra - con una gamma di soluzioni abbastanza varie di cui le ultime pagine dell'Ulisse sono il caso estremo - l'alogico fluire di richiami e di associazioni di idee, l’apparentemente gratuito intersecarsi di differenti piani temporali. È appena il caso di ricordare che siamo sulla strada imboccata suppergiù negli stessi anni da Proust, né si può trascurare la suggestione che gli studi di Freud già esercitavano. Era necessario, dunque, arrivare a toccare - e a rappresentare - il fondo oscuro e finora inconfessato dell'animo umano, il groviglio degli istinti, delle tortuosità, il complesso mascherarsi dell’uomo a se stesso.
La sperimentazione linguistica
Assieme al crollo delle strutture narrative tradizionali un altro elemento fondamentale dell’Ulisse è lo sperimentalismo linguistico. Ogni personaggio, secondo la tecnica del monologo interiore, rifrange in un particolare modo nella sua psiche il mondo esterno: il flusso di coscienza è un dato costituzionale di ognuno, ma approda in ognuno ad esiti differenti in relazione alla sensibilità, alla cultura, al patrimonio sentimentale. Come ha notato uno dei più autorevoli critici inglesi, E. Wilson, nel flusso di coscienza di Stephen Dedalus c'è una complessa tessitura di immagini poetiche e di memoria di cose lette che manca in quello di Bloom che è un uomo qualsiasi, incolore e prosaico. Di conseguenza Joyce adotta un particolare registro linguistico a seconda del personaggio «per distinguere i pensieri di un certo dublinese da quelli di ogni altro », dispiega le sue straordinarie capacità di mimesi linguistica. In questo caso la sperimentazione linguistica finisce col diventare in certo qual modo uno strumento di rappresentazione naturalistica, volto cioè a dare credibilità, verosimiglianza ai personaggi. La cosa a prima vista può sembrare paradossale ma non lo è poi tanto se si pensa che le esigenze di realistica precisione furono assai sentite da Joyce che si preoccupa di farci «sapere con esattezza quali abiti indossano i personaggi, quanto pagano le cose che comprano, dove si trovano nei diversi momenti della giornata, quali canzoni popolari cantano, di quali avvenimenti leggono il resoconto nei giornali del 16 giugno 1906» (E. Wilson).
Può capitare inoltre che nella descrizione, a seconda dell'argomento, della situazione, Joyce adotti ora uno stile aulico che si rifà ai moduli dell'inglese medioevale, ora uno gergale, ora uno da disquisizione accademica: l'episodio della biblioteca, ad esempio, e quello del bordello sono descritti su registri linguistici ben diversi. Viene a cadere quindi l'unità stilistica che era una tradizionale norma narrativa.
Ma la sperimentazione linguistica assume in Joyce ancora un'altra e ben diversa funzione che, tanto per intenderci, potremmo chiamare simbolista e consiste nello sfruttare la componente fonica della parola, la sua dimensione allusiva, evocativa, nel creare un gioco di rapporti e rispondenze con la fusione di parole note o di parole di lingue diverse, o con la creazione magari di termini privi di valore semantico ma carichi di suggestione onomatopeica e fonica. È chiaro che qui Joyce sviluppa fino al limite della estrema complicazione i canoni e le realizzazioni già viste in Rimbaud e Mallarmé e li utilizza per mettere in luce i meandri della coscienza, le associazioni che il suono di una parola può provocare, insomma per dar voce all'ineffabile, obiettivo anch'esso dei poeti francesi di fine Ottocento.
È proprio da questo particolare tipo di sperimentalismo linguistico che nascono sia le difficoltà di lettura dell'Ulisse sia, a parere di molta critica, i limiti dell'arte di Joyce allorché egli - come avviene nell'ultima opera (La veglia di Finnegan) si abbandona ad un virtuosismo eccessivo e «pesca nella macedonia delle lingue a lui note e combina suoni e forme in una moltitudine di ibridi» (Praz).
La crisi delle ideologie in Francia è vissuta profondamente da scrittori come Gide o Proust, nati fra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta dell'Ottocento.
André Gide (1869-1951) fondò nel 1908 la rivista «Nouvelle Revue Française» [Nuova rivista francese], che diventerà il periodico di letteratura più prestigioso in Europa; ebbe un rapporto di adesione e di scontro con il movimento comunista; confessò apertamente la propria omosessualità; ricevette nel 1947 il premio Nobel per la letteratura. Fu all'inizio influenzato dal Simbolismo di Mallarmé e di Valéry. Successivamente pose al centro della propria riflessione il contrasto tra etica protestante (era di famiglia ugonotta) e spinta all' affermazione nietzschiana dell'io in L'immoraliste [L’immoralista] (1902) e in La porte étroite [La porta stretta] (1909). Ma Gide va ricordato soprattutto per Les caves du Vatican [I sotterranei del Vaticano] del 1914 e Les faux-monnayeurs [I falsari] del 1925. La prima è un'opera eminentemente grottesca e parodica, che contribuisce in modo originale alla dissoluzione delle tradizionali strutture narrative. Vi si immagina che il papa Leone XIII sia tenuto prigioniero nei sotterranei di Castel Sant'Angelo da una congiura di logge massoniche e sia stato sostituito da un sosia. Questa storia è in realtà un imbroglio organizzato da Protos per estorcere soldi ai fedeli organizzando una finta crociata. Fra le vittime dell'imbroglio c'è anche Amédée, fratellastro del protagonista, Lafcadio. Amédée viene ucciso da Lafcadio senza ragione, in obbedienza alla teoria, di origine dostoevskiana, dell'''atto gratuito". Protos, testimone del fatto, ricatta Lafcadio. Intanto Lafcadio è in preda ai rimorsi: né sarà l’amore con Geneviève, la figlia di un altro fratellastro, Julius, a risolvere la sua drammatica incertezza, accrescendola anzi di nuovi dubbi e sensi di colpa. La storia dunque resta aperta e irrisolta. D'altronde la vicenda è apertamente pretestuosa: è un puro strumento per mettere sotto accusa cattolici, massoni, liberi pensatori, e per far prevalere il tono digressivo, ironico, buffonesco e dissacrante del racconto. Anche il superomismo leggiadro ed elegante di Lafcadio non si sottrae al processo di degradazione che accomuna personaggi e ambienti.
I falsari è l'unico testo di Gide che l'autore volle definire con l'etichetta di romanzo. Vi predominano temi che sono cari anche a Pirandello: la dissociazione dell'io e la compresenza al suo interno di varie personalità, qui proiettate in altrettanti autonomi personaggi che rappresentano vari aspetti della vita passata e presente dell' autore. I falsari è dunque una sorta di paradossale autobiografia, in cui s'incontrano e dialogano fra loro le diverse componenti dell'animo dell'autore (da quella immoralista a quella protestante, da quella demoniaca a quella spiritualista), con le relative problematiche: la rivolta contro la famiglia e la morale puritana (presente anche in un'altra opera di Gide, la Symphonie pastorale [Sinfonia pastorale], 1919), il viaggio, l'omosessualità, il superomismo nietzschiano e le suggestioni dostoevskiane. Del 1939 è il Journal [Diario], documento dell'autoanalisi e della vocazione dell'autore alla confessione.
Il fatto che Gide dia valore alla contraddizione e all'ambiguità in sé, senza risolverle ma lasciandole aperte, ne farà un maestro degli scrittori esistenzialisti fra le due guerre. Nello stesso tempo questa apertura non diventa mai cedimento all'irrazionalismo o al vitalismo anarchico, ma viene sempre studiata e razionalizzata con procedimenti che di nuovo possono far pensare a Pirandello.
Ancora più radicale è la rottura con la narrativa ottocentesca effettuata da Marcel Proust (1871-1922). Dopo essersi a lungo diviso fra vocazione narrativa e interessi critici, a partire dal 1909 Proust si dedica per intero a comporre il vasto ciclo di À la recherche du temps perdu [Alla ricerca del tempo perduto] suddiviso in sette romanzi: Du coté de chez Swann [Dalla parte di Swann] (1914),A l'ombre des jeunes filles en fleurs [All'ombra delle fanciulle in fiore] (1918), Le coté de Guermantes [I Guermantes] (1920-21), Sodome et Gomorrhe [Sodoma e Gomorra] (1921), La Prisonnière [La prigioniera] (1923, postumo), Albertine disparue o La fugitive [Albertina scomparsa o La fuggitiva] (1925, postumo), Le temps retrouvé [Il tempo ritrovato] (1927, postumo).
L'opera di più di tremila pagine si articola in sette parti. Il protagonista narratore, assecondando fortuite sollecitazioni e impressioni rievoca vicende e luoghi della sua infanzia: il paese di Combray, il signor Swann che dopo turbinose vicende sentimentali ha sposato Odette, la loro figlia Gilberte, che sarà poi il suo primo amore (La casa di Swann). Ma col tempo tutto finirà e il posto di Gilberte verrà preso nel cuore del protagonista da Albertine, una delle ragazze conosciute sulla spiaggia di Balbec in Normandia (All'ombra delle fanciulle in fiore). Ma alla frequentazione del mondo borghese succede finalmente per il protagonista, che lo ha lungamente desiderato, l'introduzione nel mondo dei Guermantes: il gran mondo del Foubourg Saint-Germain. Fascino e bizzarria sconfinante nell'anormalità sono le caratteristiche degli esponenti di questo mondo, legati tutti da una complessa trama di ambizioni e di fatuità. Ma in seguito ad un ritorno a Balbec, nel protagonista la passione per Albertine erompe con torturante intensità (l Guermantes e Sodoma e Comorra). I due vivono assieme a Parigi, ma il protagonista che aspira a realizzarsi nel possesso completo della creatura amata, sente, in preda ad angoscie e gelosie, che anche a segregarla, a tenerla prigioniera, Albertine gli sfugge. E un giorno essa fugge anche materialmente e muore in un incidente: ne deriva per il protagonista un angoscioso travaglio fatto di gelosie retrospettive e di ricordi, del quale riesce a fatica a liberarsi (La prigioniera, Albertine scomparsa). Scoppia intanto la prima guerra mondiale. Incontri con personaggi del mondo frequentato spingono il protagonista a constatare malinconicamente una legge di cambiamento e di decadimento nelle vicende umane. L'opera si conclude con una illuminazione che è una dichiarazione di poetica: fissare con la creazione artistica i momenti del passato equivale a recuperare il tempo perduto (Il tempo ritrovato). La trama è sorretta dalla ricerca del proprio passato, del quale si tenta il salvataggio. Infatti, la vita che non viene ricordata si riduce in nulla. Tuttavia, la resurrezione del passato non è affidata, come nelle tradizionali opere autobiografiche e nella memorialistica, a uno sforzo della volontà. Al contrario, è solo attraverso la memoria involontaria che il passato può riaffermarsi nel presente, dimostrando la propria vitalità. Anzi, il senso vero delle cose vissute si rivela solo per mezzo delle epifanie attraverso cui esse riaffiorano prepotentemente in tutta la loro forza e al'autenticità. Le epifanie riguardano spesso oggetti e fenomeni banali e comuni, ed è servendosi di essi che il narratore può rievocare dunque il passato.
Nonostante la capacità di far rivivere la vita ormai perduta della società francese fra borghesia colta e nobiltà mondana, domina a lungo la sensazione che il passato non sia davvero recuperabile; finché la conclusione del romanzo non raggiunge la certezza che è proprio attraverso l'atto della scrittura che la vita acquista significato e il passato risorge veramente.
La Ricerca inizia con una scena indeterminata e fluttuante. Nulla sappiamo del personaggio che dice io; e confusi sono i suoi ricordi e le sue sensazioni. Il tema del tempo perduto, cioè il tempo che, essendo trascorso, non ci appartiene più, è subito introdotto; eppure, il suo recupero non è il fine ultimo del narratore. Egli vuole piuttosto capire qual è il suo posto tra le cose, per ritrovare la propria identità: e poiché il senso di quest'ultima risiede nel passato, il ritorno a esso è una necessità strumentale. Riappropriarsi del passato varrà, dunque, a riappropriarsi di sé. Ma quello che emerge è un sé frammentario, disperso, che attende, con la sua storia, di essere ricostruito
La ricerca volontaria del passato è inutile. Essa non ci restituisce la realtà interiore degli eventi che abbiamo vissuto, ma, al contrario, ci presenta i nostri ricordi come figure piatte, che no ci appartengono più. Il passato non può tornare per opera dell'intelligenza, ma quando il cuore, per caso, sia scosso da una rivelazione.
Il narratore ha già rievocato un episodio della propria infanzia: quello in cui sua madre, a Combray, non gli dava il bacio della buonanotte. Teme, però, che l'essenza di quel mondo – cioè la sua realtà, la sua complessità, la sua ricchezza - sia «morta per sempre». È un evento fortuito a contraddirlo. Grazie a un ricordo involontario, legato a una percezione fisica (il sapore di un biscotto inzuppato nel tè), egli ritrova il suo io di un tempo. Ma soprattutto, egli ritrova tutto il mondo di Combray: le storie dei personaggi il cui destino si è intrecciato al suo riemergono come cose vive e si impongono alla sua attenzione.
Alla memoria involontaria sono legate le epifanie, cioè i momenti in cui si rivela il senso delle cose; e poiché rivelare il senso delle cose è il compito dell' arte, le epifanie sono il fondamento strutturale della Ricerca e, anche, l'origine dell'atto di scrittura.
Il valore delle epifanie è ben rappresentato dall'episodio della madeleine. «Tutta Combray», dice il narratore, «è uscita dalla mia tazza di tè»: cioè tutto il racconto intitolato Combray e, di conseguenza, tutta la Ricerca nascono da quella illuminazione.
Retroterra culturale
Pur trattandosi di un'opera di estrema originalità, la critica ha indicato per la Ricerca alcuni presupposti culturali della tradizione francese ai quali essa è riconducibile. E cioè:
1. La produzione memorialistica e di saggistica di costume di tanti autori del Seicento e del Settecento che hanno descritto dal di dentro il loro ambiente, con ricchezza di dettagli e attento studio dei costumi e delle leggi ad esso interne, e hanno dato il sapore, il clima dei tempi e del mondo sociale descritto.
2. La lunga tradizione di analisi psicologica, di attento ed inclemente esame dell'animo umano che parte dai Saggi di Montaigne e, passando attraverso i moralisti del Seicento francese, arriva sino al romanzo psicologico di fine Ottocento, al Sainte-Beuve dei saggi critici e del romanzo Voluttà (solo per fare un esempio illustre).
3. Tutte le conquiste della poesia francese di fine Ottocento che avevano portato alla valorizzazione delle «corrispondenze », dei reconditi rapporti tra stato d'animo e natura, alla tecnica analogico-evocativa.
4. La filosofia di Bergson con la teorizzazione del tempo interiore, del tempo come durata.
Bergson utilizza i risultati ai quali era già arrivata tutta una corrente che aveva criticato il'interpretazione positivistica della scienza e aveva riaperto la via all'affermazione di valori spiritualii, religiosi, mistici o comunque irrazionalistici.
Proseguendo su questa strada - nella quale chiaramente rientrano sia le precedenti posizioni dei decadenti e dei simbolisti, sia la filosofia di Nietzsche - Bergson fa una critica del concetto (o della categoria) di tempo: per una conoscenza estrinseca il tempo «è puramente una successione di istanti che si susseguono in un ben determinato ordine rettilineo (passato, presente e futuro); per la realtà della coscienza il tempo è invece qualcosa di irriducibile all'istante, è durata; è processo fluido che conserva il passato e crea il nuovo» (L. Geymonat).
Bergson cioè oppone due forme di conoscenza: quella estrinseca che si basa su dati empirici (il prima e il poi) e quella interiore che dissolve le intelaiature entro le quali noi sistemiamo i dati sensoriali e al prima e al dopo sostituisce e contrappone la durata, cioè la contemporanea presenza nella nostra coscienza del passato e del presente, del ricordo che si proietta sul presente e lo condiziona, ce lo fa apparire in un modo o in un altro. In questa prospettiva «il tempo non è più principio di dissoluzione e distruzione, l'elemento in cui le idee e gli ideali perdono il loro valore, la vita e lo spirito la loro sostanza, ma anzi è la forma in cui noi diventiamo padroni e consci del nostro essere spirituali ... Quel che noi siamo lo diveniamo non solo nel tempo ma grazie al tempo. Non solo siamo la somma dei singoli momenti della nostra vita, ma. il prodotto dei nuovi aspetti che essi acquistano ad ogni nuovo momento. Non diventiamo più poveri per il tempo passato e "perduto"; solo esso anzi dà sostanza alla nostra vita» (A. Hauser).
L'esaltazione del valore della coscienza interiore è visibile d'altra parte nella soluzione che Bergson dà al problema della conoscenza: il senso più profondo della realtà noi lo cogliamo non con l'intelligenza che utilizza i concetti e le astrazioni elaborate dalla scienza (il concetto di causa ed effetto), ma con l'istinto che al suo grado più alto diventa intuizione. Tramite l'intuizione noi penetriamo all'interno delle cose, cogliamo nel profondo il divenire stesso della realtà. Bergson ritiene che una forma di intuizione «sia già presente nell'arte, in quanto essa penetra nell'anima delle cose infinitamente più a fondo di qualunque pur minutissima descrizione scientifica, di qualunque riproduzione fotografica per quanto precisa ...» (Geymonat)
Questi precedenti - che solo per esigenza di schematismo didattico si possono catalogare - si amalgamano in un'opera di straordinaria novità, ma tuttavia è alla prima di queste componenti che vanno accostati certi aspetti assai importanti, anche se spesso messi in ombra, della Ricerca: cioè la sua caratteristica di grandioso affresco di un'epoca attraverso le vicende di due gruppi sociali (l'aristocrazia e l'alta borghesia), la presenza di una infinità di pagine colme di animate scene e pullulanti di personaggi altamente caratterizzati sì da diventare emblemi di un'epoca. I nomi di Balzac e di Dickens che a questo proposito sono stati fatti dai critici ci dicono dell'altezza dei risultati raggiunti da Proust, ed a questo proposito il Fortini, scaltrito traduttore di Proust, osserva: «La Ricerca è anche la Commedia umana dell'età fra l'Otto e il Novecento».
Il recupero memoriale
Ma la novità fondamentale di Proust non è certo in questa caratteristica, bensì in quell'insieme di moduli artistici coi quali fa rivivere questa società storicamente determinata: e qui sono evidenti le suggestioni degli altri tre filoni o presupposti sopra elencati. Anche Proust è convinto - e siamo sulla scia che va da Baudelaire al simbolismo - che compito del poeta è liberare l'essenza delle sensazioni componendole, per sottrarle alla contingenza del tempo, in una metafora e che l'artista non inventa, ma scopre; e, assegnando all'arte il compito di cogliere nascoste corrispondenze, egli dichiara che dipende da noi rompere l'incanto che tiene prigioniere le cose, portarle sino a noi e impedire che cadano per sempre nel nulla.
Ma le sensazioni e le cose - il bacio della buonanotte della mamma che conclude la giornata del ragazzo morbosamente sensibile, o le vetrate della chiesa di Combray - sono immerse nel flusso della transitorietà e dell'effimero, sono sottoposte al tempo che le disintegra e le travolge (e proprio sul tempo, sul cadere nel nulla, insistono le due citazioni sopra riportate). Si tratta quindi di impegnare questa strenua lotta contro il tempo, di salvare questo prezioso patrimonio del nostro io più autentico. Già Bergson aveva parlato di coscienza interiore, di una coesistenza di passato e di presente nel fluire della coscienza. Proust non pensa che questa presenza o meglio questo recupero del passato sia un dato permanente e sempre possibile della coscienza: egli distingue due gradi, due tecniche di recupero: memoria volontaria e memoria spontanea.
La memoria volontaria (o intellettuale) richiama alla nostra intelligenza tutti i dati possibili del passato ma in termini, per così dire, logici, sen: a restituirci quell'insieme di sensazioni e sentimenti che contrassegnano quel giorno o quel momento come qualcosa di irrepetibile; la memoria spontanea (o sensoriale), sollecitata da una casuale sensazione (un profumo, un sapore, una musica) ci rituffa nel passato con un procedimento alogico che ci permette però di «sentire» con contemporaneità quel passato, di riviverlo nel suo clima e di costruire l'edificio immenso del ricordo. È questa la famosa intermittenza del cuore ed è questa la tecnica da seguire per il recupero memoriale basato quindi sull'analogia, anzi su una vera e propria identità tra la casuale sollecitazione presente e ciò che è sepolto nel tempo perduto. Tutta la Ricerca - è stato notato dalla critica - si può considerare come una intermittenza del cuore.
La tecnica narrativa
Ma il recupero sarà completo e l'uomo si sarà liberato dall'angoscia derivante dalla coscienza del morire delle cose solo quando avrà trovato, con sovrumano impegno, la frase precisa, la forma perfetta che dia realtà d'esistenza a quel paradiso (tale esso è dal momento che i veri paradisi sono quelli perduti). Si tratta quindi di un problema di creazione artistica. Sulle caratteristiche che questa creazione assume nella Ricerca è opportuno proporre alcune osservazioni.
1. Solo l'arte coglie e fissa l'essenza delle cose sottraendole al flusso depauperante e deformante del contingente. Essa è quindi - secondo un canone fondamentale del decadentismo - conoscenza, ma per Proust è anche salvazione: l'unica via concessa all'uomo per sfuggire al tempo e alla morte.
2. Per assecondare la legge di questo recupero memoriale, cioè il diagramma tutt'altro che lineare della memoria involontaria, Proust procede nella narrazione senza seguire un ordine cronologico normale, logico, ma con continui trapassi dal presente al passato, con un andirivieni da un episodio all'altro, da un ricordo all'altro. Questi passaggi o transizioni - ha notato il Fortini - «creano sospensioni, ritardi, effetti d'eco; variano continuamente il rapporto fra la rilevanza e la durata psicologica media o normale degli eventi e quelle che essi assumono sulla pagina: il lettore subisce una continua deformazione delle proporzioni, come per una lente che gli venisse ora allontanata, ora avvicinata ... La transizione è lo strumento stilistico che, intende riflettere la importanza psichica decisiva del flusso di coscienza e che quindi consente a Proust di passare da pagine o passi d'uno straordinario realismo e di altissima capacità mimetica a pagine o passi di astratto ragionamento o di lirica esaltazione».
Ma tutto ciò - e questo è importante - non è affidato all'irrazionale, alla caotica successione di sensazioni gratuite, ma obbedisce ad un sapiente gioco di rispondenze, ad un reciproco integrarsi tra una transizione e l'altra, ad un dominio dell'artista sul pullulante e magmatico mondo della coscienza. E ciò spiega come nello stile di Proust assieme alla componente analogico-evocativa (e l'intermittenza del cuore non poteva esser trascritta in uno stile diverso) ci sia anche quella logico-razionale, cioè un linguaggio analitico e preciso, un impegno - tutto cartesiano, secondo una costante della cultura francese - di definire, ordinare, paragonare. Per Proust insomma anche la sperimentazione di una nuova tecnica narrativa va ricondotta entro precise esigenze di architettura, di chiarezza.
3. Nella Ricerca c'è un incrociarsi di piani psicologici. Come ha notato E. Wilson, il protagonista narratore rievoca l'infanzia ma con le disposizioni d'animo - volta a volta differenti dell'uomo maturo; Swann ci viene presentato prima attraverso le impressioni che suscitava nel fanciullo, poi attraverso quelle ben diverse che provoca nell'adolescente e nel giovane protagonista narratore; Odette De Crecy ci viene rivelata in una varietà di aspetti ma attraverso le impressioni dei vari uomini che l'hanno amata; il Bois de Boulogne, prima sfondo, per il giovane protagonista, della luminosa bellezza di Odette, diventa poi ben altra cosa quando quella presenza femminile e quell'atmosfera non sono altro che un ricordo.
Da ciò deriva come conseguenza il frantumarsi della tradizionale figura del personaggio concepito come un coerente e unitario blocco psicologico; ora il personaggio si disintegra e al suo posto abbiamo le varie e difformi immagini che esso assume nella coscienza degli altri: in Proust cioè l'interesse si sposta dalla caratterizzazione del personaggio alla rappresentazione della dinamica, del meccanismo della coscienza. (Su questa strada - ovvia considerazione critica, ormai - si porranno Joyce con Ulisse e tanta narrativa del Novecento che vedrà la scomparsa del personaggio e il prevalere del famoso flusso di coscienza). E vale la pena sottolineare che esiste uno stretto rapporto tra questa inesauribile molteplicità di punti di vista, e le fondamentali acquisizioni della fisica moderna per la quale «tutte le nostre osservazioni sui fenomeni dell'universo sono relative, poiché dipendono dal luogo in cui ci troviamo, dalla velocità e dalla direzione in cui ci stiamo muovendo ... Proust ha ricreato il mondo del romanzo dal punto di vista della relatività; ha dato per la prima volta alla letteratura un equivalente totale delle nuove teorie della fisica moderna» (E. Wilson).
Queste sono solo alcune osservazioni che proponiamo come -elementi da tener presenti nella lettura; in realtà la Ricerca è di una straordinaria complessità, è una vera e propria «discesa agli inferi» della coscienza, la più vasta e suggestiva ricognizione dei meccanismi e dei meandri dell'animo umano di cui l'arte del Novecento disponga.