Nell'età moderna si giunge, sia pure gradualmente, al riconoscimento dell'autonomia dell'arte rispetto alle altre forme della cultura e alla consapevolezza teorica dei suoi fondamenti e concetti essenziali. Sarà però necessario un lungo processo - dal Quattrocento fino a tutto il Seicento - nel quale saranno rielaborati, trasformati e abbandonati termini e criteri di valutazione estetica ricorrenti nell' Antichità o nel Medioevo. In questi tre secoli, pur in assenza di una compiuta riflessione estetica, saranno elaborate alcune teorie su temi estetici fondamentali che, in seguito, diverranno le questioni-chiave della nuova disciplina, come la funzione delle arti, il rapporto tra conoscenza artistica e conoscenza scientifica, o la collocazione di una specifica arte nel sistema complessivo delle arti. A conclusione di questo processo, nel corso del Settecento l'estetica si affermerà definitivamente come autonoma disciplina filosofica, costituendosi come parte integrante della teoria filosofica generale.
L’artista esce dall'anonimato
Un primo fondamentale frutto di questo processo evolutivo consiste nell'uscita dall'anonimato in cui erano rimasti confinati quasi tutti i pittori e gli scultori medievali. Nel Rinascimento, la maggiore dignità attribuita agli artisti e il riconoscimento della loro rilevante funzione sociale, corrisponde al superamento della concezione delle arti come attività meccaniche e "servili". Nel Rinascimento, d'altra parte, i maggiori pittori, scultori e architetti (di cui le Vite di Vasari forniscono una straordinaria rassegna) occupano una posizione di avanguardia nel mondo della cultura. Sono cercati ed esaltati per dar lustro alle corti, a nobili casati e a ricchi mecenati: principi, re e aristocratici, ma anche borghesi.
Questa "uscita dall'anonimato" è favorita anche dalla rilevanza che la cultura del Rinascimento attribuisce all'individuo: un elemento di novità che lo storico svizzero Jacob Burckhardt (1818-1897) chiama "il sentimento del soggettivo", la "trasformazione dell'uomo in individuo spirituale". Ed è indubbio che questa presa di coscienza sul "ruolo" dell'individualità sia il prodotto della cultura rinascimentale italiana e dell'opera degli artisti italiani. Oltre a ciò, le arti vengono rivalutate anche perché si afferma un primato del ''fare'' rispetto al "contemplare", della vita activa rispetto a quella contemplativa.
Pertanto, nel quadro del ripensamento e della ristrutturazione dei saperi, valorizzate dagli Umanisti italiani, le arti si conquistano un ruolo autonomo e di rilievo. La pittura e la scultura sono inserite a pieno titolo fra le arti liberali, poiché sono percepite come attività degne di uomini liberi, superiori alle arti meccaniche, anche se a esse collegate. Pur mantenendo intatto il legame con i "mestieri", cioè con le attività pratiche e tecniche, esse crescono nella considerazione generale in quanto altissimo prodotto dell'intelligenza, rappresentazione di ciò che l'artista, uomo dall'ingegno fuori del comune, vede con la sua mente.
L’arte ha un valore "scientifico"?
Nell'ambito dell'Umanesimo italiano non solo la pittura e la scultura, ma anche la poesia, la retorica e le lettere vengono valorizzate e conquistano talvolta una posizione privilegiata. Riscoprendo nel loro valore autentico le opere degli antichi, gli Umanisti affermano - nello stesso tempo - il valore autonomo della poesia, che non è imitatrice della filosofia.
L'Umanesimo esalta una poesia estranea a preoccupazioni teologiche o filosofiche, ma ugualmente capace di educare alla moralità, al senso del bello, alla religiosità. La poesia, scrive Coluccio Salutati (1331-1406), al di là del "diletto" che procura, permette di cogliere nel mondo sensibile una verità più profonda, un significato spirituale riposto. Tutta l'arte è considerata una prospettiva privilegiata sul mondo.
L’aspetto di maggiore novità di questo periodo concerne il rilievo "scientifico" che il lavoro artistico viene sempre più assumendo, e il riconoscimento del ruolo essenziale delle arti figurative. Grazie all'introduzione della prospettiva in pittura e di elaborati calcoli matematici in architettura, le opere d'arte appaiono come forme rigorose di rappresentazione e costruzione.
Piero della Francesca (1420-1492) nel De prospectiva pingendi svolge un'approfondita riflessione teorica sulle leggi della prospettiva, sviluppando le analisi della scienza ottica araba, in particolare dell' Ottica di Alhazen. Con la prospettiva, viene elaborata su basi matematiche una rappresentazione unitaria della realtà, costruita attraverso una piramide di raggi luminosi che dall'oggetto convergono verso l'occhio dell' osservatore. Il pittore deve saper osservare correttamente la natura e individuarne la regolarità, l'ordine strutturale e la proporzionalità geometrica, in modo da poterla riprodurre fedelmente. Deve essere, insomma, scienziato e artigiano nello stesso tempo.
Leon Battista Alberti (1404-1472), nell'elaborazione dei suoi progetti, fa ampio uso dell'aritmetica e della geometria: egli - pitagoricamente - considera la bellezza come espressione dell'''ordine'' e dell'''armonia'' presenti nella realtà.
Leonardo da Vinci (1452-1519), infine, sottolinea come i modelli aritmetici e geometrici che permettono di organizzare lo spazio attraverso l'uso della prospettiva, abbiano una corrispondenza profonda con la struttura della realtà, con le leggi, anch'esse matematiche, che regolano i suoi processi. Per questo egli rivendica una maggiore considerazione per le arti figurative rispetto a quelle letterarie: infatti, mentre la pittura "finge fatti" - giacché descrive fedelmente cose ed eventi -, ed è perciò strumento privilegiato di conoscenza della realtà, la poesia si limita a "fingere parole" e dalla realtà resta lontana.
L’arte è imitazione?
Al centro della riflessione estetica rinascimentale permane ancora il concetto di imitazione elaborato dal pensiero antico, ma declinato secondo termini differenti poiché non è più considerata un'adesione passiva alla realtà, ma è vista come un'attività creativa e originale: non è solo imitatio, bensì anche inventio.
Nelle arti figurative, i temi e i personaggi rappresentati sono ancora di genere religioso, come nel Medioevo, ma si coglie in essi un senso nuovo della figura umana, un'attenzione rinnovata nei confronti del corpo, una volontà di rappresentare uomini e donne reali. Gli artisti, con l'imitatio naturae, tendono a realizzare quella "riconquista della realtà" che appartiene a pieno titolo all'arte rinascimentale, in particolare a quella del Quattrocento, ricollegandosi così ai grandi modelli greci e romani.
Il Neoplatonismo rinascimentale, pur riproponendo l'idea dell'arte come imitazione, fa proprie le tesi di Plotino e respinge la condanna platonica dell'arte come "imitazione dell'imitazione". Marsilio Ficino (1433-1499) sostiene che l'anima, indotta dal desiderio e dall'amore della bellezza, tende a risalire i diversi gradi della realtà per giungere alla contemplazione del Bello, che riflette l'armonia della Verità e della Bontà di Dio. L’artista, ispirato dalla Bellezza, imprime le idee nella materia (se è pittore o scultore), o imita l'armonia del creato (se è musicista), o si eleva con il verso alla superiore armonia della mente divina (se è poeta).
Per Michelangelo Buonarroti (1475-1564), compito dell'artista è rappresentare il bello in sé "estraendolo" dalla realtà sensibile, liberandolo e depurandolo il più possibile da essa. Così fa lo scultore con un blocco di marmo nel quale - potenzialmente - è già contenuto il modello che l'artista ha presente nella propria mente. Con Michelangelo l'arte, in quanto amore e ricerca incessante del "bello" in tutte le sue forme, diventa furor creativo orientato a raggiungere, con una tensione infinita, quel modello supremo di armonia e bellezza.
Tuttavia il modello più diffuso di imitatio è quello teorizzato dalla Poetica di Aristotele, tradotta in latino solo nel 1498 per opera di Giorgio Valla. Tale modello, da un lato ripropone il principio della imitatio natura e, dall'altro ribadisce il valore conoscitivo e la funzione pratica (etica ed educativa) dell'arte, in quanto imitazione del "verosimile" e dotata di una funzione "catartica", liberatoria e altamente educativa, delle passioni rappresentate.
La conoscenza degli scritti di Aristotele eserciterà una rilevante influenza tra '400 e '500.
A differenza del Platonismo, l'Aristotelismo sviluppa una riflessione teorica sull'arte, ricostruendo, per esempio, la complessa articolazione del 'sistema' delle arti nella varietà di indirizzi (in letteratura, di generi letterari) in cui si svolge e di cui occorre determinare caratteristiche, fini e leggi. Nel suo aspetto meno originale, l'Aristotelismo rinascimentale darà luogo a una precettistica minuziosa e pedante, a una rigida codificazione di regole per l'insieme dei generi letterari. Pretenderà di imporre come "legge" alla tragedia il cosiddetto "principio" delle tre unità di azione, tempo e luogo, che per Aristotele aveva un carattere "non di 'norma', bensì, al contrario, di semplice constatazione delle consuetudini rappresentative del dramma greco" (Cesare Vasoli).
Contro la rigida codificazione delle regole aristoteliche si scaglierà Giordano Bruno (1548-1600), descrivendo come delle "bestie" i "regolisti de poesia", cioè "certi pedantacci de' tempi nostri" che giudicano bella solo un'opera che rispetti i canoni della Poetica di Aristotele. La poesia non nasce dal rispetto di determinate regole, ma, al contrario, è proprio dalla poesia che derivano le regole: ad esempio, Omero fu un poeta geniale perché egli stesso creò le regole della sua poesia, che i suoi imitatori si limitano oggi a scimmiottare. Così, vi sono tante "specie de vere regole", quante specie vi sono "de veri poeti".
L'arte è finzione, non verità
Nel corso del Seicento non vi sono grandi teorizzazioni sull'arte: l'affermarsi della moderna scienza matematica della natura, infatti, sembra garantire tecniche di indagine e un linguaggio ben più efficaci e precisi di quelli dell'arte. Appare perciò superata l'idea rinascimentale secondo la quale le arti possiedono anche un ruolo conoscitivo. Piuttosto, la preoccupazione maggiore dei filosofi del Seicento consiste nel rimarcare la distanza esistente fra ciò che è "scienza" e ciò che non lo è.
Le arti - tutte le arti - iniziano a essere considerate forme del sapere incapaci di produrre una conoscenza autentica della realtà. Francesco Bacone, nel De dignitate et augmentis scientiarum (1623), colloca la poesia (o, più in generale, l'arte) nel campo della finzione, in quanto costituita da "favole", da racconti su vicende che non hanno alcun riscontro con la realtà. Egli distingue la poesia, che poggia sulla fantasia, dalla scienza e dalla storia, prodotti di due altre facoltà umane ben più nobili e importanti: rispettivamente la ragione e la memoria.
Secondo Cartesio (1596-1650) la poesia e le arti - come leggiamo ne Le passioni dell’anima (1649) - generano le passioni più ingannevoli, "da cui dobbiamo guardarci con maggiore cura". L’amore per le cose belle, infatti, ha la sua fonte nei sensi e perciò si basa su nozioni "che hanno in genere una minor verità". I giudizi di gusto, per il fatto di fondarsi sulle impressioni sensibili, sono del tutto soggettivi, legati cioè alla valutazione individuale, e possono differire da persona a persona.
L’esclusione delle arti dal dominio della verità le confina in una "zona grigia" della conoscenza: è il campo dove, oltre all'aristotelico "verosimile", si manifestano l'agudeza (o "arte dell'ingegno", come scrive Baltasar Graciàn), il wit (o argutezza, in Locke), il motto di spirito, la capacità di sorprendere e meravigliare.
Nondimeno, anche durante il '600 l'arte prosegue nella sua evoluzione: nelle arti figurative si afferma il Barocco, una nuova tendenza a rompere gli schemi classici, a operare con la massima libertà, costruendo forme architettoniche o scultoree sorprendenti e ingegnose, ricercando soluzioni formali ardite, talvolta - è stato detto - quasi degli effetti "cinematografici", con scene che sembrano "colte di sorpresa e spiate". Le composizioni artistiche "paiono sempre più o meno incompiute e sconnesse, sembra che possano proseguirsi in ogni senso e che sempre rinviino a qualcosa che sta oltre di loro" (Arnold Hauser).
Il sistema delle arti
Con l'Illuminismo la riflessione sull'arte compie un salto di qualità, ponendo le basi per la fondazione dell'Estetica come disciplina filosofica.
In primo luogo, gli Illuministi hanno il merito di cercare di definire concettualmente il sistema delle arti e di sviluppare una riflessione sulla specificità delle singole arti, al fine di comprenderne e ricostruirne il sistema. Essi intendono offrire una visione unitaria dell'insieme delle discipline artistiche, come parti costitutive di un tutto che si vuole giustificare e fondare: è nel quadro di tale visione unitaria che gli Illuministi cercano di definire la natura specifica di ogni singola arte.
Verso la metà del secolo, il francese Charles Batteaux (1713-1780) cerca di ricondurre le Belle Arti all'aristotelica imitazione come unico principio. L’imitazione, però, costituisce il tramite con cui le arti cercano di conseguire il loro fine preminente, cioè il piacere e non, per esempio, l'utile, che invece caratterizza le arti meccaniche, l'eloquenza o l'architettura.
Anche Jean-Baptiste Le Rond d'Alembert, nel Discorso preliminare dell'Enciclopedia (1751), vuole determinare concettualmente il sistema delle arti, articolando lo in cinque forme fondamentali: 1. pittura; 2. scultura; 3. architettura; 4. poesia; 5. musica. La facoltà dell'animo che giustifica e fonda l'unitarietà di tale sistema è l'immaginazione, la capacità di "creare imitando", afferma d'Alembert, ribadendo il principio aristotelico della mimesis, o imitazione, e rifacendosi allo schema baconiano, che fondava l'arte sull'immaginazione e non sulla memoria e sulla ragione.
E mentre l'immaginazione è assunta come principio costituente della creazione artistica e del giudizio estetico, la bellezza si configura come una qualità che può appartenere a diverse rappresentazioni: essa è perciò universale, ma pur sempre riferita a un materiale empirico per definizione molteplice e soggetto alle oscillazioni del gusto. La questione che si porrà sarà quella se vi sia - ed eventualmente quale sia - un criterio della bellezza che trascenda la pratica concreta dell'artista e sia, in qualche modo, indipendente dalle singole opere.
Il gusto è 'oggettivo' o 'soggettivo'?
A tale riflessione sul criterio della bellezza si lega quella sulle ''facoltà'' della mente umana cui attribuire il riconoscimento della bellezza, cioè il "giudizio di gusto", quello in cui il soggetto valuta come "bella" o "non bella" una determinata opera e che costituisce il secondo importante campo di indagine degli Illuministi.
Su che cosa si fonda tale valutazione o "giudizio di gusto"? Su questo tema si delineano due linee di pensiero: quella oggettivistica, di carattere metafisico, che fa riferimento a una platonica idea di "bellezza" e quella, soggettivistica, di derivazione empiristica, che rinvia interamente al soggetto che avverte il "piacere" contemplando l'opera.
Secondo il primo orientamento, il bello è il frutto della percezione di un'armonia cosmica. Nella bellezza si esprime quindi la natura divina e spirituale del creato, l'architettura del mondo. Pertanto, l'arte non fa che riprodurre un 'modello' di bellezza già presente nella natura: è il criterio formulato da Anthony Shaftesbury (1671-1713), il quale parla di un'armonia universale della natura (percepibile attraverso il sentimento), che costituisce un metro oggettivo di valutazione sul piano estetico come sul piano morale. Il bello, il fine fondamentale di ogni espressione artistica, si fonda su un criterio di simmetria e ordine, contenuto direttamente nelle forme naturali. Tale criterio risale alla creazione divina ed è inscritto nel creato: pertanto il bello è relativo a qualcosa che esiste in sé e per sé ed ha valore etico oltre che estetico.
Alcuni decenni dopo, l'illuminista Denis Diderot (1713-1784) mostra un analogo orientamento "oggettivistico", sostenendo la tesi che il "bello" non è altro che un rapporto fra diversi aspetti della realtà e che la conoscenza estetica è - appunto - "percezione di rapporti".
L’impostazione soggettivistica si afferma soprattutto nella cultura inglese, per influsso della concezione lockiana della conoscenza. La bellezza non viene fatta corrispondere a una qualità presente nell'oggetto, ma si assimila alla "percezione di un qualche animo". Insomma - dice Francis Hutcheson (1694-1746) - "se non vi fosse animo alcuno, dotato del senso del bello, a contemplare gli oggetti, non vedo come essi potrebbero essere definiti belli".
Ma è soprattutto David Hume (1711-1776) ad affermare che la bellezza "esiste solo nella mente che la contempla e ogni mente percepisce una bellezza diversa". Hume nega che la bellezza corrisponda a una qualità che si suppone presente nell'oggetto e fonda i giudizi estetici su un radicale soggettivismo, affermando che la "regola del gusto" non risiede nelle cose ma nelle abitudini e nelle percezioni dell'individuo.
Hume parla di un sentimento estetico che resta sempre all'interno del soggetto, non esprime giudizi sulla realtà delle cose. Inoltre, egli ritiene impossibile definire una regola che valga per tutti i Paesi, o per tutte le epoche storiche. Così, se di "regola" (quindi di una specie di uniformità di giudizio fra più individui) si vuol parlare, lo si può fare solo in senso statistico, riferendosi a modelli di gusto di derivazione quantitativa, rilevati in base alle esperienze e agli orientamenti espressi da un certo numero di individui.
La sapienza poetica
Giambattista Vico (1668-1744) fornisce un contributo decisivo all'affermazione di una concezione dell'arte come dimensione culturale autonoma.
Il filosofo napoletano pone a fondamento della produzione poetica la fantasia. Per Vico la forma fantastica di una rappresentazione del mondo s'identifica con una fase dello sviluppo della civiltà umana, quella "eroica", caratterizzata dalla "sapienza poetica". Questa era un'età in cui gli uomini - incapaci di pensare in base a princìpi e concetti astratti - procedevano grazie a "robusti sensi e vigorosissime fantasie", cioè sotto la spinta di passioni fortissime e di una fantasia "vivida all'eccesso". La sapienza poetica generò in loro una visione del mondo fondata sui sentimenti e sull'immaginazione, non sulle astrazioni della ragione.
Le immagini sono sensazioni trasfigurate dal tumulto passionale degli uomini, un autonomo modo di esprimere e di rappresentarsi la realtà, perfettamente coerente con il tipo d'uomo e di società esistente in un'epoca del "senso" e della ''fantasia''. La poesia è, perciò, creazione, come creazione, espressione spontanea della natura umana è il linguaggio. È grazie alla fantasia artistica che la realtà viene a trasfigurarsi.
In tale processo, l'imitazione della realtà non è più fondata sul criterio aristotelico del "verosimile", ma si avvicina al principio della creazione poetica, che verrà teorizzato dal Romanticismo. Vico rovescia dunque la concezione classicistica e la sua visione intellettualistica della poesia, per affermare che la poesia ha una genesi fantastica e sensibile.
Per queste ragioni - nel Novecento - il filosofo idealista italiano Benedetto Croce rivaluterà Vico come il filosofo che per primo ha sostenuto la piena autonomia della poesia e dell'arte, cioè il loro valore in sé, fondato sull'elemento espressivo.
L’estetica come "scienza della conoscenza sensibile"
La nascita dell'Estetica come campo autonomo di indagine si deve alla riflessione dell'autore tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762). Il termine "estetica", che dà il titolo al suo scritto principale, Aesthetica (1750), deriva dal greco aisthesis, "sensazione". Nel contesto di una filosofia di stampo razionalistico, che si rifà a Leibniz e al suo interprete tedesco, Christian Wolff, Baumgarten afferma che mentre la logica riguarda la conoscenza intellettuale, l'estetica concerne la conoscenza sensibile: "L’estetica, teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del bel pensare, arte dell' analogon della ragione, è scienza della conoscenza sensibile".
L’estetica per Baumgarten è la teoria generale della sensibilità; suo fine è la bellezza, intesa come "la perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale", che si raggiunge nelle arti liberali; una perfezione che - leibnizianamente - si configura come "unità nella molteplicità": "se più elementi, assunti contemporaneamente, costituiscono la ragion sufficiente di una sola cosa, allora vuol dire che essi si accordano fra di loro, e questo medesimo accordo è la perfezione". In tal modo Baumgarten unisce e collega reciprocamente nella sua teoria estetica la conoscenza sensibile, la bellezza e le arti liberali.
Per Baumgarten l'arte è una forma di conoscenza che si differenzia non per essenza, ma solo per grado di chiarezza, da quella intellettuale; essa si basa su rappresentazioni confuse, ossia non perfettamente "distinte" fra loro (come è invece il caso dei concetti logici e scientifici, forma superiore di conoscenza), ma è comunque una forma autonoma di conoscenza, che ha di mira il particolare concreto. In altri termini, si tratta di rappresentazioni sensibili, preconcettuali, di percezioni che colgono con immediatezza la totalità di un oggetto, senza tuttavia fornirne una rappresentazione logico-analitica, senza distinguere con precisione i concetti. Poiché la conoscenza sensibile riguarda gli individui, l'estetica diviene la scienza della conoscenza individuale (come la logica lo è di quella astratta).
L’autonomia dell'estetica
Con la Critica della facoltà di giudizio (1790) di Immanuel Kant (1724-1804), la teoria estetica assume compiutezza e piena consapevolezza di sé e, soprattutto, si afferma come uno dei cardini della filosofia, riconducendo a unità la molteplicità di problemi trattati dall'estetica settecentesca. Con la riflessione kantiana, il discorso estetico viene inserito nella problematica della soggettività trascendentale.
La nozione della bellezza è effetto di un giudizio, ovvero di un "pensare il particolare come contenuto nell'universale". L’autonomia dell'estetica poggia su una facoltà, quella del sentimento (da intendere come sentimento del piacere e del dispiacere), e su un tipo di giudizio - quello riflettente - diverso sia da quello conoscitivo che da quello morale: l'arte, infatti, secondo Kant, non ha né funzioni né intenti conoscitivi, né ha a che fare con valutazioni o istanze di ordine morale.
Il giudizio riflettente non ha alcuna valenza conoscitiva e non fa riferimento ad alcuna qualità oggettiva delle cose. Attraverso tale giudizio, ci si muove dal particolare alla ricerca di leggi che consentano di spiegare l'infinità varietà delle forme e dei fenomeni che l'esperienza ci mostra in natura. In tale giudizio si esprime la facoltà del sentimento, il quale attribuisce in tal modo alla natura una finalità, un'unità, un'armonia. Quando è associato al sentimento di piacere e dispiacere, il giudizio riflettente è di tipo estetico e riguarda il bello (giudizio di gusto) o il sublime.
L’esperienza estetica del bello si verifica quando dinnanzi a una data realtà naturale o a un determinato oggetto artistico (creazione del genio), si determina nel soggetto un "libero gioco" fra immaginazione e intelletto, da cui si genera un sentimento che "agevola e intensifica la vita". Il giudizio di gusto che deriva da quel "gioco" e dal conseguente sentimento di piacere presenta quattro caratteristiche essenziali, che concorrono a definire la natura del "bello":
è disinteressato, in quanto il "piacere" estetico è sganciato da considerazioni utilitaristiche o da valutazioni morali;
aspira ad una universalità senza concetto; "universalità", perché chi formula quel giudizio si attende che ognuno provi analogo compiacimento; "senza concetto" perché non si propone - e non potrebbe proporsi - di conoscere l'oggetto, ma intende unicamente descrivere un atteggiamento del soggetto che contempla l'oggetto;
considera l'oggetto come una disposizione di elementi che sembra finalizzata a produrre quel piacere nel soggetto;
esprime una necessità senza concetto, in quanto si accompagna alla presupposizione che tutti debbano concordare sul piacere o dispiacere estetico prodotto dall'oggetto.
L’esperienza estetica non riguarda solo il bello, ma anche il sublime, che deriva invece dal contrasto tra la ragione e l'immaginazione. Mentre il "bello" di un oggetto è caratterizzato dall' idea di limite, inteso come limite della forma che l'oggetto stesso presenta, il sublime appare come una percezione dell'illimitato, dell'informe, del mostruoso: di fronte alla potenza, talvolta spaventosa, di una realtà naturale che lo sovrasta, il soggetto avverte in sé una dimensione sovrasensibile che supera i limiti del mondo naturale e che lo atterrisce. Ma la percezione della piccolezza dell'uomo di fronte alla natura produce anche un'esaltazione, perché rende l'uomo ancora più consapevole della sua destinazione soprasensibile e della sua "superiorità" spirituale. Il "sublime" denota quel sentimento di superiorità morale, spirituale, che l'uomo prova dinanzi a forze - come quelle della natura - che pure lo sovrastano per dimensioni e forza.
L’arte come creazione dello spirito
Il Romanticismo sviluppa le tesi dell'estetica kantiana presente nella Critica del Giudizio, guardando all'arte classica greca come esempio altissimo di umanità e allo sviluppo. Per questo il Romanticismo offre all' Estetica contenuti innovativi e originali, tra cui spicca la tendenza al superamento del principio di imitazione, che il Neoclassicismo settecentesco aveva ripreso dall' Antichità: l'arte, ora, non è imitazione della realtà ma creatività incessante, cioè produzione di realtà.
Secondo molti autori romantici, l'opera d'arte è frutto di una creazione spontanea, di un'assoluta originalità, il prodotto del genio che, mosso da un'ispirazione che gli urge dentro, crea l'opera. Essa è libera espressione dello spirito e, come tale, non è soggetta a regole ma detta essa stessa le regole. L’arte non 'imita', "non riproduce qualcosa che c'è già nel mondo, ma [è] qualcosa che dà forma ad un mondo ancora sconosciuto, in cui si riflette e si rivela anche il mondo delle cose" (F. Rella). Questa concezione romantica dell'arte, anticipata nel XVIII secolo dal movimento dello Sturm und Drang, si caratterizza altresì per una fiera opposizione all'Illuminismo, alla sua razionalità astratta, incapace di cogliere gli aspetti più vivi e creativi della natura umana, della sua immaginazione, delle sue passioni.
L’arte si afferma come bisogno ed espressione di libertà e come inquieta ricerca del senso di sé e del mondo, del quale si tenta di cogliere la natura segreta. Allo stesso tempo, diventa potente mezzo di individuazione dei caratteri nazionali di un popolo, linguaggio nel quale è possibile fare riaffiorare la fisionomia originaria di una comune tradizione e di una comune appartenenza.
Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) e Johann Gottfried Herder (1744-1803) concepiscono l'arte come espressione creativa dello spirito e non più come pura imitazione della natura: l'arte è manifestazione di un principio ideale, tensione volta a 'oltrepassare' il reale, mentre la rappresentazione sensibile si costituisce come espressione artistica solo in virtù della mediazione dello spirito, che trascende, nell'arte, la semplice natura.
La supremazia dell'arte, "organo della filosofia"
Il Romanticismo, partendo dal riconoscimento kantiano dell'autonomia dell'arte, sostiene che l'arte possiede una vera e propria posizione di primato, una supremazia culturale, per la sua capacità di rivelare e manifestare l'infinito e la totalità (carattere che Kant le aveva negato). I Romantici considerano quella dell'arte una forma privilegiata di conoscenza del reale, di esplorazione della realtà: l'estetica romantica - osserva ancora F. Rella - "non riflette sull'opera d'arte, ma conosce attraverso l'arte".
Musica, pittura e poesia sono i generi in cui questo primato prende corpo: spetta loro, infatti, l'altissimo compito di consentire all'uomo di ricongiungersi con l'Assoluto. "Essere uno con tutto ciò che ha vita, fare ritorno, in una beata dimenticanza di sé, nel tutto della natura: ecco il vertice dei pensieri e delle gioie", scrive Friedrich Holderlin (1770-1843). Ma questo compito, che dovrebbe condurre all'''innalzamento dell'uomo sopra se stesso", secondo Novalis (1772-1801) è inesauribile, non potrà mai considerarsi concluso.
Caratteristica del pensiero romantico è la continua tensione verso l'ideale, uno sforzo, un anelito, un'inquietudine (Streben), un desiderio verso l'infinito mai sazio, mai capace di essere soddisfatto, eppure incessante, ineludibile. L’Ideale è irraggiungibile, e si può talvolta affermare solo negando se stessi in una vita che è lotta e dramma. Nel suo aspetto letterario, la nuova concezione della poesia ha come canoni la libertà di fantasia, la liberazione da ogni impaccio di regole e di contenuti prefissati (come quelli mitologici), la popolarità dell'arte.
Il valore dell'arte come forma di conoscenza è presente nell'opera del filosofo Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854). Egli vede l'arte come "l'unico vero ed eterno organo e documento della filosofia", nel quale si rivela l'Assoluto, concepito come identità originaria di conscio e inconscio, spirito e natura, libertà e necessità. L’arte è "organo della filosofia" proprio perché è produzione al tempo stesso conscia e inconscia: ispirato da un' oscura e indipendente "potenza" - l'Assoluto, appunto -, nell'arte il genio produce cose del cui significato è solo in parte consapevole. L’intuizione estetica con cui fruiamo l'opera d'arte costituisce dunque il mezzo più adeguato per cogliere il senso ultimo della realtà, l'Assoluto: essa apre al filosofo "quasi il santuario, dove in eterna ed originaria unione arde, come in una fiamma, quello che nella natura e nella storia è separato".
Gli artisti romantici formulano anche una critica estetica alla società industriale, che assume caratteri ambivalenti:
a. guarda con nostalgia al passato medievale, "sognando" un ritorno a un'epoca considerata "armonica", perché spiritualmente unita da valori universalmente riconosciuti, quelli del Cristianesimo;
b. esprime la protesta e il rifiuto per una società, quella alle soglie della Rivoluzione industriale, caratterizzata dalla standardizzazione dei prodotti e degli uomini. Contro questa società, gli artisti romantici si considerano "agenti della rivoluzione per la vita" (R. Williams) e concepiscono l'arte come strumento di perfezionamento dell'umanità.
Di questo secondo aspetto sono espressione le Lettere sull'educazione estetica dell'umanità (1795) di Johann Christoph Friedrich Schiller (1759-1805), che assegnano all'arte l'altissima funzione sociale di contrastare "l'utile", "il grande idolo del tempo". Essa deve favorire una formazione "onnilaterale" delle persone, che la civiltà moderna - con la divisione del lavoro sociale e lo sviluppo di saperi specialistici - ha invece trasformato in individui solo "parziali", "unilaterali". L’arte conduce inoltre al superamento della scissione kantiana fra "inclinazioni sensibili" e "legge del dovere". Essa, infatti, esprime un momento di sublime equilibrio fra inclinazioni sensibili e inclinazioni intellettuali: la bellezza è forma vivente, prodotta dal libero gioco della sensibilità e della ragione, è strumento di formazione morale degli individui e di intere comunità, quindi di educazione dell'umanità.
In altri Romantici, tale orientamento critico si configura come vera opposizione al proprio tempo. Per esempio, il poeta P. B. Shelley (1792-1822) contrappone l'arte al modello della razionalità "calcolante", fondata sul principio egoistico, di cui il denaro è la visibile incarnazione, la nuova malvagia divinità.
Più in generale, l'artista romantico assume spesso l'atteggiamento di chi si isola dal mondo, attuando comportamenti miranti a scandalizzare i borghesi, marcare le differenze dai loro valori e dai loro comportamenti. Termini come bohème e bohèmiens (vagabondo, che vive in situazioni precarie) diverranno abituali per indicare la vita degli artisti.