Il bilancio complessivo delle vicende economiche del '600 europeo è per forza di cose assai complesso e dominato dai chiaroscuri di un andamento divergente fra le varie aree. Numerosi fattori sembrano indicare una congiuntura di crisi abbastanza generalizzata: la popolazione tese a ristagnare o addirittura a calare sotto l'incalzare di frequenti carestie e rovinose epidemie; lo stato quasi endemico delle guerre ebbe ripercussioni negative sulla vita economica; il trend ascensionale dei prezzi invertì progressivamente la sua tendenza; gli indici della produzione e degli scambi manifestarono un andamento negativo; aumentò il fenomeno del pauperismo; i disordini politici e sociali, che si manifestarono in frequenti rivolte popolari, erano un segno preciso del disagio in cui vivevano ampi strati della popolazione. La grande espansione cinquecentesca trovò, insomma, il suo limite più evidente, nel carattere commerciale e finanziario che l'aveva caratterizzata, un carattere che non aveva permesso di sviluppare, se non in maniera molto modesta, le strutture portanti dei settori produttivi più importanti come l'agricoltura e le manifatture. Il '600 fu però un'epoca di grandi cambiamenti e non solo di grande crisi; alcune aree, come l'Olanda, conobbero un notevole sviluppo politico ed economico tanto che si parla di "Secolo d'Oro" olandese; in altre, come l'Inghilterra, nonostante i conflitti che caratterizzarono la sua storia in questo periodo, si affermarono pienamente alcuni elementi dinamici che portarono la nazione ad una posizione di preminenza in ambito internazionale; la stessa Francia, nella seconda metà del secolo, fu terreno di un notevole sviluppo economico. Più in generale sembrò affermarsi pienamente uno spostamento e una divaricazione sempre più accentuata fra un'area del Mediterraneo che venne perdendo la sua centralità e un'area atlantica che acquisì una posizione di preminenza.
Già nel corso dell'età elisabettiana, nel tardo '500, l'economia inglese aveva mostrato i sintomi di un notevole mutamento che aveva coinvolto anche il mondo rurale. In questo ambito si erano affermate profonde trasformazioni di carattere sociale sotto la spinta di alcune vicende politiche (ad esempio la nascita della chiesa anglicana che fu accompagnata dalla vendita ai privati del vasto patrimonio della Curia di Roma) e del contesto economico generale che favoriva gli investimenti nella terra. Si era andato dunque affermando un nuovo ceto di grandi proprietari fondiari che aveva approfittato delle difficoltà dei piccoli coltivatori indipendenti (gli yeomen) e delle comunità di villaggio; il progredire del fenomeno delle recinzioni (enclosures) altro non rappresentava se non la progressiva affermazione della proprietà privata a spese delle proprietà collettive o della piccola proprietà contadina che si esprimeva nel sistema dei campi aperti (open fields). Le trasformazioni sociali dei rapporti di proprietà qui riassunte, e che progredirono nel corso del '600, costituirono sul piano della conduzione delle proprietà, la base per le innovazioni che consentirono all'agricoltura inglese di superare i limiti di un'agricoltura di sussistenza e di incrementare la propria produttività. Il nuovo tipo di conduzione che tendeva a considerare la terra come impresa economica capace di produrre profitti e non più solo rendite di posizione. Due soprattutto furono le innovazioni importanti: i grandi proprietari nobili presero a suddividere le loro tenute in aziende di grandi dimensioni affidate in affitto ad imprenditori che le facevano coltivare da manodopera salariata. L'affermarsi del sistema delle cosiddette high farming che prevedevano una maggiore integrazione fra agricoltura e allevamento, grazie all'introduzione delle piante foraggiere che permettevano di mantenere maggiori quantità di bestiame (disponendo di più abbondanti scorte di concimi e di prodotti vendibili sul mercato), eliminando dalle rotazioni il sistema improduttivo del riposo. Questi elementi di trasformazione economica e sociale, che si affermeranno pienamente nel XVIII secolo, sembrano comunque affondare le loro radici in questa epoca.
Ha scritto un celebre storico italiano dell'economia: "Il sistema produttivo può essere fantasticamente immaginato come uno scatolone in cui da una parte entra una serie di cose e dall'altra ne escono delle altre. L'insieme di quanto entra viene chiamato input. L'insieme di quanto esce viene chiamato output o produzione" (C. M. Cipolla, Storia economica dell'Europa preindustriale). Questa breve introduzione serviva a suggerire con una semplice immagine la complessità del ciclo produttivo: dalla miscela di una serie di input o fattori produttivi si ricavano una serie di output o produzione di beni. Gli economisti classici, per comodità di analisi, avevano raggruppato i fattori produttivi in tre grandi categorie onnicomprensive: la terra, il lavoro, il capitale. La categoria "terra" in realtà comprendeva l'insieme delle risorse naturali, sia quelle riproducibili (come le materie prime vegetali o animali), sia quelle non riproducibili (come i minerali e i combustibili di origine fossile). Fino alla rivoluzione industriale dei secoli XVIII e XIX le risorse naturali di gran lunga più importanti per un'economia ancora in gran parte agricola erano essenzialmente la terra e la copertura forestale: in pratica gli ettari da coltivare o da lasciare al pascolo, e le cataste di legname da ricavare nei boschi. Se per quanto riguarda le foreste lo sfruttamento cui furono sottoposte in età moderna non fu molto diverso da quello delle risorse non riproducibili (un prevalente prelievo indiscriminato), per la terra l'intervento umano era essenziale a determinarne la "riproducibilità" nel tempo. L’agricoltura è infatti un insieme di pratiche volte in primo luogo a rigenerare artificialmente il ciclo di fertilità del terreno. Tutte le agricolture del passato, pur nelle loro infinite varianti, rientravano in tre categorie principali a seconda del metodo utilizzato per la di ricostituzione della fertilità: a) agricoltura discontinua o sistema del debbio; b) agricoltura idraulica o sistema intensivo con irrigazione; c) aridocoltura o sistema del maggese. Nella prima era essenziale una grande disponibilità di terra e una scarsa popolazione: lo stesso terreno era coltivato fino all'esaurimento prima di essere abbandonato per un altro terreno che veniva liberato dalla vegetazione col fuoco (debbio). L'agricoltura irrigua, tipica della Cina, prevedeva la costante azione fertilizzante dell'acqua che garantiva una coltivazione continua dello stesso terreno. L'ultimo sistema - tipico dell'Europa urbanizzata - prevedeva un sistema integrato di abbandono/concimazione e di rotazione delle coltivazioni su uno stesso campo (l'abbandono periodico era detto maggese).
Il paesaggio naturale diviene paesaggio agrario quando un ecosistema entra in contatto con una società umana. Da quel momento l'ambiente naturale risulta inserito in un complesso processo di modificazione in cui gli elementi naturali e quelli antropici convivono influenzandosi a vicenda. Le componenti naturali non rappresentano dunque degli elementi immutabili e strutturali ma sono una realtà in continua trasformazione, dominante oppure dominata, combattuta oppure sfruttata da un'organizzazione sociale ed economica. Quindi lo spazio rurale risulta essere un insieme nel quale interagiscono e si combinano dialetticamente elementi naturali ed elementi umani. Le società umane sono intervenute sull’ambiente modificandolo e organizzandolo per ricavarne una produzione agricola: il paesaggio agrario è il frutto di questo intervento, che nel corso del tempo ha assunto molteplici forme, dai dissodamenti ai diboscamenti, dal governo delle acque all’aratura ecc. Questa azione si presenta con i caratteri dell’irreversibilità, sotto forma di processo di continuo cambiamento e di sostituzione dei precedenti equilibri. Alle soglie dell’età moderna la presenza di paesaggi completamente naturali nel mondo civilizzato era ormai piuttosto scarsa; solo la sostituzione dei coltivi alle foreste native in talune aree dell’Europa oppure il prosciugamento di alcuni bacini acquitrinosi in alcune aree costiere in favore dei seminativi, possono essere inquadrati - con caratteri di intensità diversi - nei processi di trasformazione degli "ecosistemi" in "agrosistemi". Un altro esempio da ricordare è quello del nuovo mondo dove, all'indomani della conquista nella prima metà del XVI secolo, gli equilibri esistenti vennero sostituiti da nuove forme di sfruttamento delle risorse naturali, e soprattutto dall’incontro con nuovi patrimoni genetici di importazione di cui l’esempio più eclatante è quello delle piantagioni monocolturali (ad esempio della canna da zucchero o del caffè).
I progressi e i cambiamenti che investirono la società europea a partire dall’autunno del Medioevo sfiorarono solo in maniera marginale le tecniche agricole. Il mondo rurale continuò a produrre con i suoi ritmi lenti, con i suoi saperi millenari, con le sue incessanti fatiche. La produttività non conobbe significativi incrementi qualitativi o particolari innovazioni tecnologiche. Per aumentare i raccolti, per sfamare sempre più bocche, si era costretti ad estendere i campi, a conquistare nuove porzioni di paesaggio da coltivare faticosamente. La crescita della popolazione e l’aumento del prezzo dei grani che sembrano caratterizzare le vicende europee fin quasi alla fine del '500 determinò un accresciuto sfruttamento delle risorse naturali che si attuò soprattutto tramite la messa a coltura di nuove terre (ad esempio mediante consistenti operazioni di prosciugamento idraulico), la trasformazione dei pascoli in aratorio, e massicce operazioni di deforestazione dei rilievi montuosi e collinari (sulle quali influì l’accresciuta domanda di combustibili vegetali). Questo atteggiamento più aggressivo nei confronti dell’ambiente, la fame inesausta di terre da cui ricavare il pane, provocò - soprattutto nell’area mediterranea - anche dei forti squilibri che si manifestarono con il passare del tempo. Il sopraggiungere delle gravi crisi di mortalità che iniziò a manifestarsi con gradi di intensità sempre maggiori all’inizio del '600, rallentarono e poi bloccarono un po’ ovunque l’avanzata della cerealicoltura: le prime ad essere abbandonate furono le terre di più recente conquista. Le case coloniche costruite sui campi strappati alle acque tornarono a sommergersi mentre l’abbandono dei poderi ricavati a fatica sui rilievi provocò - con il venir meno della copertura vegetale - gravi problemi di dissesto idrogeologico e di erosione aggravato anche dal negativo andamento climatico: le inondazioni assunsero allora il volto sinistro delle maledizioni. Ma l’arretramento della cerealicoltura non significò solo abbandoni ma anche cambiamenti: nel paesaggio agrario mediterraneo tornarono a guadagnare terreno le colture arbustive mentre in quelli settentrionali acquistarono importanza l’allevamento e le colture industriali.
La tendenza alla "cerealizzazione" dell’agricoltura che caratterizzò l’Europa del tardo '400 e del '500 si realizzò in parte mediante la conversione a grano di terreni in precedenza coltivati in maniera differente (pascoli e colture arboree specializzate), in parte mediante la conquista di aree incolte ricoperte di boschi o di acquitrini. L'estensione delle superfici arabili caratterizzò un periodo di grandi bonifiche in tutta l'area mediterranea ed atlantica: importanti interventi di regimazione idraulica e di disseccamento interessarono i ducati padani dei Gonzaga, degli Estensi e dei Farnese; la Repubblica di Venezia e la Toscana; il Milanese e lo Stato Pontificio; la Francia (in Linguadoca, in Provenza e lungo la Durance) e l’Inghilterra (nell’area fra lo Yorkshire, il Lincolnshire e il Notthinghamshire). Ma il paese dove si raggiunsero i risultati più spettacolari fu certamente l’Olanda che riuscì, grazie alla costante opera di bonifica degli acquitrini mediante il sistema dei polders, a cambiare il volto della sua fascia costiera strappando al mare centinaia di migliaia di ettari da coltivare. I Paesi Bassi settentrionali divennero il paese all’avanguardia in questo settore; i suoi ingegneri e i suoi tecnici iniziarono ad essere richiestissimi in tutta Europa, li troviamo in Francia, in Inghilterra (sotto la guida di Vermuyden, sotto gli Stuart, furono riscattati 160.000 ettari di "fens" cioè bassifondi palustri), in numerosi stati italiani per tutto il corso del '600 ed oltre. Ma anche in Italia - dove il problema degli acquitrini costieri e il dissesto delle pianure interne aggravato dal carattere torrentizio di numerosi corsi d’acqua era particolarmente gravi - sorse una importante tradizione di studi ingegneristici e matematici che, nel corso del '600, dette contributi fondamentali alla nascita della moderna scienza idraulica: basti pensare all’opera di personaggi quali lo stesso Galileo Galilei, Benedetto Castelli oppure Vincenzo Viviani. Le tecniche adottate per liberare i terreni dalle acque si riducevano sostanzialmente a tre: per canalizzazione, per sollevamento (ma la tecnica, che presupponeva la presenza di pompe idrauliche azionate dall’energia eolica, ebbe scarsa applicazione al di fuori dell’Olanda), per riempimento che in Italia ebbe il nome di "colmata" (una tecnica che prevedeva un lungo processo di innalzamento del terreno sommerso grazie all’opera di sedimentazione di un corso d’acqua convogliato a depositarvi le sue torbe).
Anche le foreste subivano l’incalzare dei campi coltivati. Ma nel caso del patrimonio boschivo il quadro era ancora più complesso. Ancora nel '500 e nel '600 siamo nel pieno di quella che è stata definita la "civiltà del legno". Il legname costituiva la materia prima e la fonte energetica per eccellenza, essendo utilizzato per molteplici scopi: dal riscaldamento alle piccole necessità dell’attrezzistica quotidiana, dalle attività siderurgiche alla cantieristica navale, dall’edilizia ai trasporti, per non parlare naturalmente dell’agricoltura. Insomma lavoro e vita quotidiana non potevano prescindere dal legno. La larga disponibilità di tale risorsa poteva addirittura decidere dell’affermazione politica e militare di uno stato, come fu nel caso della Svezia nel corso del '600 e, in forma indiretta, dell’Olanda che da sempre deteneva il monopolio degli scambi delle materie prime con l’area del Baltico. Allo steso modo in Francia il ministro Colbert - attento a rafforzare anche attraverso l’economia la politica di potenza di Luigi XIV - si impegnò nella salvaguardia del patrimonio boschivo della Francia. Pur essendo una forma di capitale riproducibile (gli alberi possono essere piantati) i boschi subirono attacchi sempre più distruttivi. A niente valsero le politiche di tutela e di contenimento che pure furono messe in atto; la pressione demografica e la crescente domanda di legname uno sfruttamento parassitario, non dissimile dal puro e semplice prelievo che si praticava in qualsiasi miniera o giacimento. Gli effetti di lungo periodo furono una consistente riduzione del patrimonio boschivo europeo. Alcuni dati sono eloquenti: in Francia dal 1500 al 1650 la superficie boschiva si ridusse del 10% mentre nell’Inghilterra dello stesso periodo la distruzione del patrimonio forestale portò a cercare forme alternative di combustibili (il carbone minerale).
Tra tutti gli alberi che popolano i boschi europei, il castagno è certamente il meno "naturale". La sua coltura fu "inventata" nel Caucaso per poi diffondersi nell’età classica nell’Europa occidentale, ove esisteva già allo stato selvatico. Grazie a una selezione metodica delle sue migliori varietà, esso fu stato letteralmente "addomesticato" tra la fine del Medioevo e i primi secoli dell’età moderna. Consumati in varie forme, i suoi frutti - di grande valore nutritivo - compensarono per lungo tempo i frequenti deficit cerealicoli di un mondo e vulnerabile alle minime variazioni climatiche. "Le castagne - scriveva D’Herrera (Agricoltura tratta da diversi antichi et moderni scrittori, Venezia 1568) - sono di gran nodrimento, et sustantia, et dan forza grande. Esse son forte da digerire (…) dopo del frumento dan più sustanza al corpo che niuno altro pane". La pianta ha goduto anche di una fortunata tradizione letteraria, a livello popolare, che ne esaltava i pregi e la provvidenzialità, finalizzata sul piano più strettamente ideologico a diffondere tra gli strati più poveri e marginali valori quali la frugalità, la parsimonia, la rassegnazione e l’accettazione del proprio status, dimostrando che la generosità della natura compensava in qualche modo l’indigenza e la povertà. "Il nostro pane viene dal bosco". Così si esprimevano i corsi e gli italiani per designare il loro nutrimento quotidiano, le castagne, consumate più o meno nelle stesse forme dei cereali, fresche, secche o in farina. Usata come alimento stagionale o come derrata di base, trasformata in carne - serviva ad ingrassare i maiali - essa è stato anche oggetto di un commercio su grande scala. Avendo giocato fino all’800, in numerose regioni montane o alto-collinari, un ruolo fondamentale nell’economia rurale, il castagno è all’origine di una marcata tipologia paesistica - della quale oggi non restano che poche tracce. Oltre che sul piano alimentare, esso è stato intensamente sfruttato come materiale per usi molteplici, in particolare per i pali delle vigne e per una gran quantità di oggetti della vita quotidiana. Si può dunque parlare a buon diritto di una "civiltà del castagno", che possiede dei tratti comuni in Galizia, come in Toscana, nel Tràs-os-Montes portoghese, come in Corsica, nelle Cévennes, l’Alvernia e il Limosino: una civiltà dall’immaginario ricchissimo la cui scomparsa suscita oggi una certa nostalgia.
Ancora in età moderna sopravvivevano categorie di persone e talvolta intere società che pur inserite pienamente nei cicli e nelle logiche produttive di tipo agricolo vivevano un rapporto ravvicinato con ambienti dominati dall'incolto. Per essi garanzia essenziale delle loro attività e, su un piano più ampio, della loro organizzazione sociale era il mantenimento controllato e la persistenza dell'incolto. Attività di questo tipo erano quelle che in antropologia si classificano come di caccia e raccolta, ovvero interventi di prelievo sulle risorse naturali senza ricostituzione delle stesse. Condizione necessaria a garantire nel tempo l'entità del prelievo era quella di mantenere il fragile equilibrio fra le risorse e coloro che vi potevano accedere, evitando tutti gli interventi umani che sovvertissero il quadro ambientale. Fra tali attività si possono annoverare certamente i lavori del bosco (in particolare l’attività dei taglialegna e dei carbonai), la caccia oppure la pesca nelle acque interne (i fiumi, i laghi e le paludi), tutte attività alternative e complementari a quelle agricole, talvolta caratterizzate da proprie specifiche culture, ed eredi di saperi millenari. Quando però la pressione sull'incolto aumentava, le due logiche opposte, quella della conservazione e quella dello sfruttamento, entravano inevitabilmente in conflitto. Un esempio particolarmente complesso di logica "conservativa" del paesaggio è quello della caccia, un'attività che da libero esercizio praticato da tutti, alla fine del Medioevo iniziò a trasformarsi sempre di più in uno svago signorile, in un privilegio per pochi. L'esigenza di mantenere la selvaggina portò così ad escludere chi la praticava per scopi alimentari e di commercio. Aumentarono i divieti a cacciare determinate specie o ad utilizzare particolari strumenti, come le tagliole. Il passo successivo fu quello di trasformare alcuni spazi incolti in bandite di caccia riservate al divertimento del principe e della sua corte. I primi, in Italia, ad istituire le riserve, generalmente poste nelle vicinanze delle città, così da essere più comodamente raggiunte, furono i Visconti di Milano, seguiti dai Medici, dagli Este e dai Gonzaga. Ma questa pratica si diffuse in tutta l'Europa delle corti; vaste estensioni di terreno incolto furono sottratte all'agricoltura e sottoposte a vincoli che ne garantivano la permanenza e l'esclusività di uso. Del resto, secondo i consigli di Baldassare Castiglione, era utile che un uomo di corte si dedicasse alla caccia, attività che oltre ad essere segno di distinzione sociale, era anche, secondo la pedagogia dell’epoca, funzionale alla preparazione guerresca.
L'enorme rilevanza che rivestivano la attività agricole per la società e per l'economia dell'epoca, non disgiunta dalla crescente fame di terra, non potevano che avere ripercussioni anche sulla letteratura. La riscoperta degli autori classici e una tradizione che anche in epoca basso medievale aveva trovato degli epigoni di larga fama (I Ruralium commodorum libri XII del bolognese Pier de Crescenzi nel XIV secolo), beneficiò del nuovo veicolo della stampa per diffondere le conoscenze e per far circolare le notizie. Nacque allora un nuovo genere letterario, che si può considerare quasi un sottogenere della manualistica di comportamento, e videro la luce un gran numero di manuali di agricoltura. Ogni paese ebbe le sue raccolte di consigli e di suggerimenti, opere spesso composte per agevolare il compito del gentiluomo proprietario di terre,. Nei vari paesi furono pubblicati manuali tra i quali si ricordano quelli giustamente famosi di Pérez de Herrera per la Spagna (L'Agricultura general, 1515), di Olivier de Serres per la Francia (il Théâtre d'agriculture, 1600), mentre per la Germania si possono menzionare le opere di Conrad von Heresbach (De re rustica, 1570) o di Johann Coler (Oeconomia ruralis, fine '500); anche la Polonia poté disporre di una sua raccolta di Osservazioni sull'economia agraria, pubblicata nel 1588 da Anselm Gostomskij, mentre in Inghilterra si ricordano fra '500 e '600 le opere di Tusser (1557), di Markham (1656), di Blith e di Weston. L'Italia fu patria di opere rimaste famose per il loro contenuto innovativo e per la ricerca di nuovi mezzi - in materia di rotazioni, di concimazioni e di nuove colture - con cui migliorare il rendimento delle terre. Oltre al Ricordo di Agricoltura (1565) del Tarello, si può ricordare le Dieci giornate della vera agricoltura (1550) scritte da un altro agronomo bresciano, Agostino Gallo. Altre opere di notevole rilievo furono quelle del padovano Clemente Africo (Della Agricoltura, 1572); dei fiorentini Luigi Alamanni (La coltivazione, 1546) e Bernardo Davanzati (La coltivazione toscana, 1600); infine, quella più tarda del bolognese Vincenzo Tanara (L'economia del cittadino in villa, 1644).