eros e agape
Il termine italiano "amore" unifica la traduzione di due vocaboli greci: eros e agàpe. L'area semantica del primo, eros (lat. amor) identifica la concezione dell'amore propria della filosofia classica ed ellenistico-romana. Quella del secondo, agàpe (lat. caritas) esprime il significato cristiano dell'eros, inteso come amore verso Dio e verso il prossimo.
In realtà il cristianesimo ha un significato più specifico per l’eros che è legato al significato sponsale presente nell’intera tradizione biblica e anche nel Nuovo Testamento. Già il libro della Genesi evoca nel racconto della creazione una benedizione liturgica sponsale. Nella tradizione questo aspetto di un eros positivo che sta al centro del cristianesimo viene rafforzato dall’interpretazione allegorica inaugurata dai Padri della Chiesa di un testo come il Cantico dei Cantici nel quale l’amore è celebrato nella ricchezza gioiosa dell’amore tra un uomo e una donna. La trama narrativa del poemetto si sviluppa attorno alle pene d’amore dell’amata e dell’amato che si cercano e vivono le pene d’amore della lontananza reciproca. Questa pagina poetica è diventata il simbolo stesso della profonda unione tra Cristo e la Chiesa come valore di ciò che non potrà mai venir meno: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore,/ come sigillo sul tuo braccio:/ insaziabile come morte è amore,/ insaziato come gli inferi è ardore;/ le sue vampe sono vampe di fuoco,/ le sue fiamme, fiamme del Signore!/Le molte acque non possono spegnere l'amore/ né travolgerlo i fiumi. /Se un uomo offrisse tutte le ricchezze della sua casa in cambio di amore,/ sarebbe sicuramente disprezzato.» (Cantico 8,6-7). Sebbene la pagina abbia un forte significato simbolico è certamente anche la celebrazione di un amore con tutta la delicatezza e l’intensità passionale della sua realtà. Anche la pagina biblica parla di ansia e sofferenza per la lontananza e di desiderio e promessa di compimento nelle braccia dell’amato/a, così come di gelosia e paura.
Amore dei sensi e amore celeste
Amore di salute e amore di malattia: amore che salva e amore che danna. L’amore è un sentimento di natura duplice, con due teste e due facce. Dona benessere: Beatrice «salute salutava». Per Cavalcanti è fonte di turbamento e di rovina: «l' vo come colui che è fuor di vita». Dante e lo Stilnovo separano i due aspetti, celebrando il primo e condannando il secondo. Ma la donna-angelo e la donna-diavolo proiettano nell'universo cristiano una scissione che ha origini lontane e risale all'antichità.
La concezione classica dell'eros lo intende per lo più come una forza unificante e armonizzatrice che si modella a differenti livelli su quella dell'amore sensuale. Così la filosofia greca dalle origini fino al neoplatonismo concepisce l'eros come un elemento o una forza naturale che agisce sia a livello individuale sia a livello cosmologico. Un esempio di questa seconda valenza è offerto dalla cosmologia di Empedocle. Egli, infatti concepisce l'universo sensibile come una fase intermedia tra i due principi o forze dell'amore e dell'odio: il primo tende a ricomporre i quattro elementi originari (acqua, aria, terra e fuoco) nell'unità e perfezione dello sfero, il secondo, a scinderli e separarli gli uni dagli altri. L'amore non è perciò dal pensiero greco inteso in senso statico ma come forza e tensione. Allo stesso modo dell'amore sensuale esso è un desiderio che nasce da una mancanza e tende alla eliminazione di questa e al raggiungimento della perfezione e della compiutezza. Platone distingue nel Fedro due forme d'amore: il «desiderio irrazionale», suscitato dalla «bellezza dei corpi», che «trascina ai piaceri» e l'amore sorretto dalla «ragione» verso il «bene più grande» della bellezza eterna. Secondo l'allegoria mitica che narra nel Simposio, Eros è figlio di Poros - l'ingegno - e Penia - la povertà - (Simposio, 203). La concezione platonica dell'eros, la più ampia e articolata del pensiero antico, compendia e riassume la duplice valenza - individuale/sensuale e cosmologica - che caratterizza la concezione classica dell'amore. L'amore è per Platone in primo luogo passione e desiderio dei corpi belli, ma attraverso il medium della bellezza sensibile esso può trasformarsi in tensione verso il mondo delle idee e divenire così amore per l'idea suprema del bene. Piano psicologico e cosmologico/ontologico perciò si intersecano: l'eros è infatti un desiderio individuale che può tramutarsi in amore per l'idea del bene che, similmente al sole, regge il cosmo.
Sempre nel Simposio egli ribadisce questa opposizione che, per bocca del medico Eressimaco, acquista un fondamento scientifico; l'amore sensuale diventa "amore di malattia", quello celeste invece "amore di salute".
La medicina antica infatti attribuiva una stessa causa all'insorgere dei sintomi della passione, della malinconia e della follia, stati patologici accomunati dall'offuscamento della ragione.
È tuttavia Aristotele a formulare una vera e propria teoria della malattia d'amore. In un frammento del trattato aristotelico Eroticos, conservatoci nell'opera di uno scrittore arabo del X secolo, si legge: «L’amore è un impulso che ha la sua origine nel cuore; una volta nato, l'amore esce dal cuore e aumenta di intensità finché raggiunge uno stato di piena maturità. [ ... ] Questo stato di amore conduce l'amante a uno stato di cupidigia e lo spinge a richiedere con insistenza l'oggetto della sua passione; le conseguenze della privazione dell'amore saranno perciò dolore inquieto, continua insonnia, passione senza speranza, tristezza, deperimento mentale») (M. Ciavolella, La «malattia d'amore» dall'antichità al Medioevo). Sebbene Aristotele riprenda anche la concezione dell’amore-bene quando nel libro lambda della Metafisica sostiene che il primo motore immobile provoca il movimento nel cielo delle stelle fisse: "Come fa un oggetto amato»
L'amore, pur avendo origine nel corpo, incide profondamente sulla costituzione mentale dell'individuo: è un'arma a doppio taglio, anche se si mira a sottolinearne solo l'effetto negativo. Intuendo lo stretto legame che unisce il corpo alla psiche, Aristotele poneva anche le basi per una possibile rivalutazione della passione. La scoperta aristotelica del nesso tra fenomeni psichici e fisiologici inaugura così un'importante tradizione medico-filosofica che, attraverso i bizantini e gli arabi, arriva nel XIII secolo alle scuole di Montpellier, di Salerno e di Bologna.
A sua volta la distinzione platonica fra un eros positivo e un eros negativo, più consona all'etica religiosa cristiana, fu ripresa e rilanciata dai padri della Chiesa, influenzando in vario modo il ragionare d'amore medievale e rinascimentale. Il dissidio tra le due forme d'amore diventa perciò irriducibile per un poeta cristiano. Nel Secretum, Petrarca cerca di difendere la purezza del suo amore per Laura, ma Agostino, che ne conosce le «fiamme di desiderio», è irremovibile e alla condanna pagana (esso è «follia») aggiunge quella cristiana: «Ha volto il tuo desiderio dal Creatore alla creatura. E questa sola è stata sempre la via più breve verso la morte [dannazione]».
L'amore che coinvolge anima e corpo, come lo intendiamo noi oggi, sia per l'antichità che per il Medioevo, è dunque malattia: svia gli uomini dal cammino della Ragione e della Virtù.
Amore che sana e amore che danna
Per una breve stagione (XI-XII secolo), nella cultura laica del mondo cortese si afferma un'idea dell'amore come passione naturale e fatale, che non solo esclude ogni condanna moralistica, ma acquista il carattere di una forza positiva, dominata dalla bellezza e dalla virtù della donna. Questo modello nuovo di passione assoluta trova il suo teorizzatore in Andrea Cappellano e ispira il romanzo cavalleresco europeo.
La leggenda di Tristano e Isotta, simbiosi perfetta di due esseri che vivono e muoiono all'unisono, diventa rapidamente un mito e un modello di comportamento; trova una rispondenza storica nell'amore scandaloso, del filosofo Abelardo e di Eloisa, sua allieva. La passione al di là della morte di Paolo e Francesca ( «questi che mai da me non fia diviso») replica infine quella di un'altra celebre coppia cortese, Lancillotto e Ginevra. Lancillotto, che ha dedicato cuore e corpo alla regina, moglie di re Artù, mettendo alla prova in mirabolanti imprese il proprio valore, coglie finalmente il frutto della propria devozione amorosa in una mitica notte d'amore. Anche Francesca ama, intensamente riamata, e come Isotta e Ginevra, tradisce il marito che, sorpresi i due amanti, li uccide. Tuttavia non un istinto cieco, ma l'unità di corpo e intelletto accende l'amore di Francesca per Paolo. I termini fortemente realistici («scolorocci il viso», «la bocca mi baciò tutto tremante») attestano una passione intensamente nutrita di fisicità («bella persona», «del costui piacer») che è insieme sostenuta da consapevolezza culturale.
Proprio in questa vicenda esemplare Dante coglie il conflitto, interno all' esperienza cortese, tra tensione positiva e tensione tragica e distruttiva della passione d'amore, che Francesca riassume in un breve giro di versi: «Amar che al cor gentil ratto s'apprende [ ... ] Amar condusse noi a una morte». La ripresa di egemonia culturale della Chiesa nel XIII secolo impone ormai la condanna dell'amor cortese. Così Dante, dall'aldilà, mostra il terribile rovescio dell'effimera felicità dei due amanti, nella vita terrena («noi che tignemmo il mondo di sanguigno»), e nella dannazione eterna.
Paolo e Francesca, infatti, come Tristano e Isotta, non si sottraggono alla schiera dei «peccator carnali che la ragion sommettono al talento [la passione]», arrivando a trasgredire una norma morale e sociale consacrata come il matrimonio. Tuttavia il giudizio sofferto, ma fermo, della condanna religiosa non offusca nel poeta la coscienza della nobiltà dei sentimenti che Francesca rivendica, consentendo ai due amanti di restare abbracciati nell'eterna rapina. L’equilibrio tra amore e ragione è invece al centro del rapporto tra Dante e Beatrice, dalla Vita nuova alla Commedia, e resta, fino al Rinascimento, il criterio che decide della salute o della follia d'amore. Anche Dante, nel suo primo incontro con Beatrice, è violentemente scosso a livello fisico e psichico dalla celestiale apparizione della donna e sperimenta come anche l'amore più nobile ed elevato coinvolga necessariamente i sensi. Dante soffre non perché non può avere la persona amata, ma semplicemente perché ama con tutta l'anima e con il corpo intero. Ma presto riconosce che questo amore non soddisfa il bisogno di assoluto dell'animo umano e la Beatrice terrena muore per rinascere nella Commedia come guida celeste verso la salvezza eterna.
Ammalarsi d'amore
Se nella tradizione religiosa medievale l'amore-passione porta all'inferno, in quella laica, influenzata dalle correnti materialistiche dell'aristotelismo, è disgregazione e follia. Non deve perciò stupire se in ambiente comunale è un poeta integralmente laico come Cavalcanti a dare voce all'esperienza più drammatica e negativa della passione d'amore ( «Voi che per li occhi mi passaste 'l core»). Ciò non dipende solo dalla crudeltà della donna, ma dalla natura stessa dell'amore che Cavalcanti indaga con rigore filosofico e scientifico, ispirandosi alle teorie allora dibattute all'università di Bologna. Nella canzone Donna me prega, Cavalcanti, descrivendo il meccanismo dell'innamoramento, centra il discorso sull'irrazionalità della passione: questa si origina nell'anima sensitiva, al di fuori della conoscenza razionale. Attraverso la vista la donna rende attiva la potenzialità del soggetto ad amare. La memoria conserva l'effetto d'amore, ma lo sottrae all'intervento dell'intelletto. Perciò la passione amorosa di per sé è incontrollabile, ha in sua balìa l'io ed è causa di squilibrio e di lacerazione. Più forte e contrastato è l'amore, più il poeta sente in pericolo la propria identità umana e intellettuale. La metafora dell'automa esprime bene questa condizione dell'amante perennemente al confine tra vita e morte.
Ammalarsi di un amore negato
A metà Trecento, Boccaccio, anch'egli scrittore laico, rifiuta il pessimismo cavalcantiano, rivalutando l'istinto amoroso e anticipando una nuova morale che non demonizza più la natura e il piacere. I personaggi del Decameron vivono con gioiosa naturalezza l'amore dei sensi considerato un'esperienza positiva e quindi un fine da perseguire. È l'amore vietato a provocarne la perversione fino alla follia e alla morte. La malattia di Giachetto, con tanto di diagnosi medica, terapia e guarigione è in questo senso esemplare. In un contesto tragico si pone invece la novella di Ellisabetta da Messina. Boccaccio vi indaga acutamente il processo di sfaldamento fisico e mentale conseguente alla fissazione amorosa di Elisabetta. La fanciulla, privata di Lorenzo, ucciso dai suoi stessi fratelli, riversa un amore allucinato sulla testa recisa dal corpo del giovane e sepolta in un vaso di basilico. Ma i fratelli, che alla fine si accorgono della «sua guasta bellezza e di ciò che gli occhi le parevan dalla testa fuggiti», le tolgono il vaso sottraendole, dopo l'amato, l'oggetto su cui ha spostato il suo ossessivo vagheggiamento. «È una perdita questa, non riparabile, se non con la follia. Elisabetta, dimentica dell'amato come persona, si fissa sul simulacro e delira: "infermò, né altro che il testo nella sua infermità domandavi'». (A. Serpieri in AA.VV., Il testo moltiplicato. Lettura di una novella del Decameron).
Ammalarsi d'amore fino alla follia
Soggetto a follia nell'Orlando furioso (1516) è l'amore sublime di Orlando per la bella Angelica. Per Ariosto, come per gli antichi, amore è insania e Orlando, primo paladino di Francia diventa, per amore, furioso. La pazzia amorosa di Orlando da una parte è segno di "dismisura" sentimentale, sintomo dell'eccezionalità cavalleresca; dall'altra introduce il motivo, estraneo alla tradizione cortese, ma non a quella antica, della gelosia. Saffo, già nel VII secolo a.c., aveva esplorato con drammatica intensità questo versante dell'amore. L’amore, in Ariosto, proprio in quanto passione, implica il possesso fisico ed è sempre unito alla gelosia e alla sofferenza. E se le pene d'amore sono all'ordine del giorno nel poema, quelle di Orlando assumono un valore esemplare. Il paladino, dopo avere inseguito invano Angelica e averla rispettosamente scortata dall'Oriente alla Francia, quando scopre che è andata sposa a un fante saraceno impazzisce. Dopo aver gettato via armi e vesti, corre scatenato nella foresta, sradicando alberi, distruggendo case e armenti. La forza della passione si rovescia in una bestiale furia aggressiva. Eppure non è l'abbrutimento sensuale che, nella Gerusalemme liberata, spinge Ruggero tra le braccia della maga Alcina, a provocare la regressione di Orlando nell'animalità, ma proprio l'''eccesso''di idealizzazione dell'amore e della donna l’immagine sublime di Angelica, posta platonicamente nel cielo dei valori assoluti, rende cieco il paladino di fronte alla realtà e gli impedisce di accettarla. Anche l'amore ideale e totale di un cavaliere senza macchia come Orlando non eleva a Dio, ma fa perdere il senno.
Un secolo dopo, la passione amorosa infuria nel teatro shakespeariano e, non a caso, assume un'importanza centrale nella riflessione del Seicento. Moralisti e scrittori arrivano a precorrere l'intuizione del moderno inconscio nell'immagine di un io che, secondo l'immagine freudiana, non è più "padrone in casa propria", non è in grado cioè di controllare i conflitti interiori. La pazzia d'amore, infatti, rappresenta nella storia di Orlando uno smarrimento devastante, ma momentaneo della ragione; nei personaggi di Shakespeare la gelosia d'amore acceca fino al delitto. Lo scenario è cambiato. Mentre lo scrittore rinascimentale conserva ancora la fiducia nel controllo della ragione, nel Seicento la ragione umana, pur esaltata dalla rivoluzione scientifica, scopre il suo limite di fronte alla forza e al tumulto delle passioni. In primo piano è ora l'uomo, il suo corpo, con tutte le sue lacerazioni e la sua fragilità, con l'insorgere di pulsioni che l'io non sa dominare perché in primo luogo non sa riconoscerle. In Otello non è un fatto esterno oggettivo a scatenare la tragedia della gelosia. Desdemona è sposa innocente e fedele, eppure basta l'insinuazione di un amico perché la gelosia accechi Otello a tal punto da tramutare il suo amore in impulso omicida. Egli percorre così l'intera parabola dell'alienazione, dal distacco dalla realtà al suo fraintendimento e rovesciamento fino alla totale incomunicabilità: il delitto diventa allora ineluttabile e, paradossalmente, l'unico modo per possedere Desdemona.
«Come amar sana e come ancide»
È tuttavia nel Canzoniere che il tema medievale della malattia d'amore trova il proprio modello e insieme si apre alla sensibilità moderna. L’amore, per Petrarca, come per Dante, è peccato; ma la sofferenza morale non cancella il desiderio. È dunque il luogo di un'eterna scissione. Ne riassume l'ambiguità la potenza dello sguardo di Laura. Il suo sguardo «sana» e insieme «ancide» [uccide], stringe il poeta in un nodo inestricabile «dolce e amaro». In «Benedetto sia 'l giorno, e 'l mese, et l'anno» Petrarca, paradossalmente, benedice il giorno in cui i due «begli occhi» l'hanno «legato» a Laura, non per la felicità, ma per le «piaghe» «i sospiri et le lagrime». Attraverso la scrittura, che Laura ispira; egli riesce infatti a dare significato alla sofferenza e all'esistenza stessa. Esistenza che cerca costantemente una verifica nello sguardo dell'amata: così sempre «io corro al fatal mio sole/ degli occhi». Sole, luce è Laura, ma «fatale». Il poeta lamenta di essere comunque condannato a «perire» a causa dello splendore di Laura perché da lontano si strugge e da vicino arde, brucia di desiderio.
L’esperienza d'amore è percepita dunque da Petrarca come condizione psichica perennemente contraddittoria di avvicinamento e di fuga, dove sia la lontananza che la prossimità hanno effetti dolorosi e sconvolgenti. Tuttavia solo sotto lo sguardo di Laura il poeta avverte di esistere come soggetto. Perciò l'assenza dello sguardo dell'amata, distolto dai «micidiali specchi», lo getta nello sconforto dell'«oblio», nella «morte» del silenzio e dell'inesistenza. Lo stesso senso di minaccia all'integrità dell'io deriva dalla lontananza di Laura nel sonetto «lo mi rivolgo indietro a ciascun passo», in cui Petrarca riprende e interiorizza il motivo cavalcantiano dell'amante come vivo-morto. Ma proprio questa condizione di perpetua crisi e sofferenza caratterizza il paradosso dell'amor petrarchesco. L’unica esperienza di "pienezza" amorosa è il rifugio nella visione interiore («'l bel viso leggiadro che dipinto / porto nel petto, et veggio ove ch'io miri»). In tal modo il poeta si chiude nella prigione di una interiorità malata e senza scampo dove l'amore non è dialogo, apertura verso l'altro, ma continuo soliloquio con se stesso, con la propria anima. Di qui la solitudine, la fantasticheria e la malinconia, che trovano la più compiuta espressione nella canzone «Di pensier in pensier, di monte in monte». Nasce così il profilo del moderno melanconico, ossessivamente ripiegato nel suo «amoroso pensero», all'impossibile ricerca del proprio oggetto d'amore. Per questo, mentre nella poesia di Petrarca i temi, le immagini, il lessico della sofferenza amorosa conoscono un incremento senza precedenti, decresce in maniera netta il tasso di fisicità del dolore (Santagata).
Secoli dopo, nel saggio Lutto e malinconia, Freud illuminerà il nesso tra mal d'amore e malinconia esistenziale. Se la pulsione amorosa - egli osserva - privata del proprio oggetto non si sposta su un altro oggetto, «l'ombra dell'oggetto perduto allora ricade sull'Io» come esperienza di una irrimediabile "mancanza" (S. Agosti). E l'amore come mancanza segna la nascita del moderno.
Che mai ti cruccia cavaliere armato?
Nell'Ottocento, proprio mentre si compie il processo di consolidamento della famiglia e l'eros è canalizzato nel modello opportunamente codificato del matrimonio, risorge il mito della passione totale, al di fuori di ogni regola morale e sociale. L'amore-passione, in quanto minaccia, è socialmente represso, ma celebra ugualmente il suo trionfo nell'immaginario, da una parte come gratificazione compensatoria, dall'altra come estrema rivendicazione dei diritti dell'io. In piena epoca romantica il poeta inglese J. Keats nella La belle dame sans merci [La bella dama senza pietà], rielaborando, non a caso, un testo medievale, reinterpreta il modello della passione cortese sotto il segno della malinconia e dell'inevitabile dialettica tra amore e morte. Un modello che resterà esemplare per tutto l'Ottocento.
La ballata da una parte enfatizza i luoghi comuni tipici della malattia d'amore che ormai conosciamo, dall'altra conferisce loro un alone di mistero. Il cavaliere è «pallido», «solo», «smunto», «abbattuto», consunto dalla «febbre», sfibrato da un segreto «tormento». È ancora lo sguardo della donna («occhi folli», «folli occhi») a imprigionare l'amante nel cerchio di un malefico incantesimo. La seduzione della bellezza e dell'eros svela contemporaneamente una irresistibile attrazione verso la morte. L'amore fatale, che il Romanticismo esalta come valore, si carica simbolicamente del senso di smarrimento, di terrore e di mistero del poeta moderno, sempre più scisso da un universo che stenta ormai a comprendere. La passione, osteggiata dagli antichi sino ai filosofi e moralisti del Seicento, diventa ora il segno del tragico destino dell'individuo. Questo motivo dell'amore romantico, spinto ai limiti estremi dell'annullamento di sé nella malattia e nella morte avrà larga fortuna nell'arte simbolista di fine Ottocento.
«la dolcezza che affascina e il piacere che uccide»
Con Charles Baudelaire (1821-1867) la malattia diventa un segno della modernità. Il poeta, esule nella società di massa, bersagliato dall'urto violento della metropoli, sperimenta una nuova dimensione del tempo, caratterizzato dalla simultaneità e dalla precarietà. La poesia A una passante mostra chiaramente i segni che la vita cittadina imprime all'amore. L'incontro del poeta con la bella sconosciuta nel caotico flusso della folla è fulmineo. L'attimo dell'incanto coincide con un congedo definitivo. «Un lampo ... poi la notte!». Lo choc colpisce non solo l'io del poeta, ma anche la natura del suo sentimento. Ciò che contrae convulsamente il corpo - «contratto come un maniaco» - non è la beatitudine di colui che è invaso dall'eros in tutto il suo essere; ma «ha piuttosto dell'imbarazzo sessuale, che può sorprendere il solitario» (W Benjamin). Lo stordimento della coscienza e l'automatismo del comportamento, a differenza di quanto avviene in Cavalcanti, sono legati in Baudelaire all'impossibilità di rielaborare l'esperienza vissuta, soggetta alla continua perdita dell'oggetto del desiderio. Perciò è impossibile ogni sogno d'amore. L'amore, nei Fiori del male, è decisamente esperienza dei sensi, naufragio nelle tenebre degli istinti e nel demoniaco a cui il poeta reagisce con l'aggressività o con la totale sottomissione alla figura femminile. Eppure è nel naufragio nei sensi che il poeta per un attimo trova la guarigione dell' anima. La salute di cui parla Baudelaire non è certo quella dantesca. Balena in un incontro imprevisto o in un amplesso trasgressivo («scoppio di fiamme nella buia mia Siberia»), ma vive sempre sull'orlo della catastrofe. In Canzone di pomeriggio la lussuria non è più malattia, è un balsamo effimero che dichiara, alle soglie della modernità, l'impossibilità della "passione" sublime e fatale.
l'amore contraddetto
All'inizio del Novecento, la psicoanalisi segna una svolta decisiva nell'esplorazione delle passioni, destinata a influenzare profondamente l'immaginario e il costume contemporanei. Ponendo l'istinto sessuale alla base non solo della vita amorosa, ma degli istinti vitali, Freud riconosce pieno diritto di cittadinanza alle pulsioni erotiche, sottraendole alla condanna moralistica e insieme liberandole dal mito della passione romantica. Dopo Freud, non ci sarà più amore senza sesso. Ma, tranne qualche eccezione, non si aprono le porte al paradiso della libertà e della felicità amorosa. Secondo Freud il "principio di piacere", cioè l'istinto erotico, deve infatti fare i conti con "il principio di realtà", (l'ordine economico e sociale, il cui sviluppo si basa sulla necessaria repressione e sublimazione degli istinti erotici) e - soprattutto oggi - con la pulsione di morte. Freud sottolinea questo «disagio della civiltà», il malessere cioè che scaturisce dalla rinuncia alla completa soddisfazione erotica. «l’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza». La soluzione freudiana è emblematica dell'ambivalente visione moderna della passione: riconosciuta come legittimo fenomeno naturale, questa richiede tuttavia una rinuncia che implica fatalmente una perdita, un sacrificio, l'imposizione insomma di un limite. Fondandosi inoltre il rapporto d'amore, come ogni altro rapporto, sul delicato equilibrio tra Eros e Thanatos, tra le pulsioni che tendono alla coesione e alla vita e le pulsioni distruttive, l'amore è sempre esposto al fallimento, minacciato dalla regressione e dal conflitto o relegato nella favola paradossale. Nel suo romanzo di ispirazione psicoanalitica, La coscienza di Zeno (1923), Svevo rappresenta il rapporto d'amore come luogo privilegiato delle contraddizioni dell'io. Anche al centro dell'opera di Saba è il cuore perennemente «in due scisso» del poeta, il cui moderno Canzoniere (1921) è una suggestiva allusione a quello petrarchesco. D'altro canto la società dei mezzi di comunicazione di massa, vanificato l'amore totale, ha creato nuovi miti inibitori. «Il sesso viene proposto come facile, ma siccome può essere esercitato solo in riferimento a modelli - e questi modelli sono perfetti e continuamente mutevoli, e quindi irraggiungibili - anche il sesso è diventato il luogo di un desiderio impossibile» (Eco).
Forse per questo il tema dell'amore folle continua ad affascinare l'immaginario di massa contemporaneo, televisivo e cinematografico. Un regista come Luis François Truffaut nella Signora della porta accanto lo trascrive, opportunamente aggiornato, in cifra quotidiana. Il destino diventa banale casualità, la fatalità della passione si traduce nella forza cieca, contraddittoria e inesplicabile delle pulsioni sessuali. Bloccata ogni possibilità di comunicazione - il linguaggio non ha presa sulla realtà degli istinti - l'eros non riesce ad esprimersi se non in forme frammentarie, nevrotiche e perverse. «Né con te, né senza di te» è la morale della storia tragica del film di Truffaut che, mentre sottolinea la patologia dell'inseparabilità che affligge i due amanti, manda in frantumi qualsiasi illusione di amore assoluto. Di amore assoluto, anche nel mondo contemporaneo, si impazzisce, si uccide e si muore.