Scoprire di essere nel circolo del tempo
Dopo aver scritto il titolo di questo capitolo, ci si è presentato il problema di cominciare, di individuare un punto d'inizio per introdurci nella vita e nell'opera di Martin Heidegger. E l'abbiamo fatto. Il capitolo è di fatto cominciato e i periodi hanno preso a fluire rapidamente. Poi abbiamo notato una cosa strana: quella che voleva essere (nel presente) una graduale e circospetta introduzione al pensiero di Heidegger (che avremmo esposto in futuro) era in realtà già stata decisa e interamente occupata dal pensiero di Heidegger (da ciò che nel corso di un lungo passato abbiamo compreso e assimilato di questo pensiero che se ne sta già parlando: l'unico possibile punto di inizio è scoprire che si è già cominciato (e che quindi il punto di inizio non c'è, non ci è mai). Se qualcuno volesse poi osservare che non c'è bisogno di richiamarsi a questioni enormi come l'essere e il tempo per spiegare il modo in cui ci siamo introdotti ad Heidegger, ma che basterebbe ammettere la nostra personale passione per questo filosofo, risponderemmo che è assolutamente vero e che anzi si voleva dire proprio questo: quello che ci è, che avviene qui, l'essere che costituisce il nostro Esser-ci (Da-sein) è anzitutto aperto da quella che Heidegger chiama tonalità emotiva fondamentale (Befindlichkeit, dal verbo finden, "sentire", "trovarsi"). Ciò che nel presente ci ha subito coinvolto e proiettato verso il futuro discorso è stata anzitutto l'emozione di trovarci ancora una volta al cospetto di un pensiero che ha occupato tanta parte del nostro passato. È il ri-accadere di questo passato nel presente che ci ha dato la spinta (che ci ha emozionato) verso il futuro. Il nostro immediato" gettarsi avanti" (o pro-gettarsi direbbe Heidegger) verso ciò che avevamo da fare nell'immediato futuro è avvenuto anzitutto per l'impulso del nostro "esser gettati nel presente" a partire da un certo passato (sicché l'Esserci, leggeremo in Essere e tempo, è come "progetto gettato"). Un passato che non si è perduto "alle nostre spalle", ma che si è interamente raccolto e compreso qui, come totalità di ciò che siamo, di ciò che sappiamo e sappiamo fare. Ed è interamente dentro e grazie a questo orizzonte di comprensione emotivamente situato e articolato in un discorso che la nostra esposizione del pensiero di Heidegger ha potuto emergere nelle forme proprie del linguaggio.
La questione del senso dell'essere
"Situazione emotiva", "comprensione" e "discorso" costituiscono, come vedremo in Essere e tempo, le modalità originarie in cui l'uomo vive il proprio essere o, in una parola, esiste, cioè espone o interpreta ad ogni istante il proprio essere-nel-mondo in un certo modo, in un certo qui (per esempio, come sta avvenendo a noi, nel modo dell'esprimere ciò che sentiamo e sappiamo di Heidegger attraverso il linguaggio scritto). Ed è in quanto intrattiene questo rapporto vivente e dinamico con il proprio essere che l'uomo è quel particolare ente in cui, a un certo punto, emerge la questione del senso dell'essere. E il "punto" in questione è l'epoca storica entro cui si sono definite la vita e l'opera di Martin Heidegger, è quel particolare orizzonte di comprensione articolato in un complesso discorsivo di significati entro cui si è emotivamente situata la sua esistenza e a partire da cui si è linguisticamente espresso il suo pensiero, la sua peculiare interpretazione dell'essere. Esponendo nella sua opera questa specifica "gettatezza" (Geworfenheit), Heidegger ci fa capire anzitutto che un filosofo non decide liberamente di occuparsi del problema che più gli interessa, né tanto meno può inventarsi le parole (o un gergo) per "trattare" quel problema come meglio crede. Essere e tempo non è un trattato sull'essere, perché il tempo in cui è stato scritto non gliela ha permesso. Anzi: è proprio la consapevolezza che l'epoca dei trattati filosofici è tramontata per sempre a mettere in moto (ad emozionare) il percorso compiuto da Heidegger in quell'opera; è la consapevolezza che le parole della tradizione di cui egli disponeva non riuscivano più ad esprimere il senso della sua esistenza ad avviare quell'immenso corpo a corpo linguistico (quella "gigantomachia") che ha il suo primo campo di battaglia in Essere e tempo. Opera che non a caso si interrompe alle soglie della sua parte decisiva e rimane perciò incompiuta «per un problema di linguaggio», come spiegherà lo stesso Heidegger vent'anni più tardi nella Lettera sull'umanismo. Giunto alla terza sezione della prima parte (che avrebbe dovuto intitolarsi "Tempo ed essere") «Tutto - egli scrive - avrebbe dovuto capovolgersi (umkehren). Ma la sezione non venne stesa perché il pensiero fallì quando si trattò di dire adeguatamente questa svolta (Kehre); il linguaggio della metafisica non poteva servire».
Un'opera incompiuta per mancanza di parole
Heidegger intende dire: nelle due sezioni precedenti della prima parte, aveva parlato dell'essere quel particolare essere-nel-mondo che è l'uomo (l'Esserci) e si era sforzato di farlo mediante una lunga battaglia con le parole che il suo tempo gli metteva a disposizione: le parole ereditate dalla tradizione metafisica, appunto, parole che esprimono l'essere come qualcosa che starebbe al di là (meta-) delle parole, posto di fronte ad esse come una cosa. Si trattava invece di mostrare che non c'è nessun al di là, che l'essere stesso («in carne e ossa», avrebbe detto il suo maestro Husserl) si manifesta e si esprime nelle parole, attraverso le parole, ed è in virtù di questa animazione che si possono dire o significare le "cose". Di qui la lunga battaglia di Heidegger per riportare le parole all'essere o, che è lo stesso, per mostrare il senso, la circolarità temporale mediante cui l'essere si esprime nelle cose, dà significato alle parole mediante cui l'uomo dice le cose.
Quando però si è trattato di ribaltare la prospettiva e di dare la parola all'essere stesso, quando si è trattato di lasciar parlare non più quel particolare essere che è nel tempo (l'uomo), ma lo stesso tempo dell'essere, il suo senso generale e dispiegato, allora (in quell'istante) è venuta meno ogni parola e il discorso si è ritratto nel silenzio. Per arrivare a quell'istante Heidegger ha dovuto compiere tutta la parabola di Essere e tempo e, dopo il drammatico fallimento di quella svolta, ha trascorso tutta la rimanente parte della propria esistenza tentando di "farsene una ragione", tornando sempre di nuovo al punto da cui era partito, all'inizio già sempre iniziato di Essere e tempo. In questo lungo e tormentoso errare, costellato di clamorosi abbagli esistenziali e abbacinanti illuminazioni filosofiche, egli ha poi finito per riconoscere, come recita il titolo di una sua celebre opera, l'essenza della verità, l'eterno cominciare e finire nel nulla di ogni esperienza, la misteriosa o al limite poetica voce di quell'essere al cui silenzioso ascolto credeva destinata l'esistenza autentica dell'uomo.
Il retaggio hegeliano del pensiero di Heidegger
Di questo percorso e del suo peculiare erramento, cercheremo a nostra volta di dar ragione riportando anche il nostro discorso al problematico inizio di Essere e tempo. Il fallimento della svolta verso il "tempo dell'essere" e il successivo ridursi del pensiero al silenzio dell'ascolto dipendono infatti dal modo in cui Heidegger ha impostato la questione dell'essere al principio di quell'opera e non quindi da una "necessità destinale" a cui dovrebbe ineluttabilmente soggiacere l'umanità dell'Occidente. È il fatto di aver vincolato l'essere a una qualche forma di "espressione" (prima "fenomenologica", quindi "ontologica", infine "poetica") che decide a priori il fallimento di questo percorso: o infatti il senso dell'essere arriva in qualche modo a "dirsi", oppure bisogna concludere al silenzio. È vero infatti che l'essere non è qualcosa che possa stare "di fronte" alle parole, che possa essere definito, incluso in un genere "più ampio" che ne stabilisca la specifica "differenza": anche le parole sono, cioè sono esse stesse già incluse nell'essere e non possono quindi situarsi a parte, in un luogo differente dall'essere. È sempre e solo l'essere che nel suo accadere stabilisce ogni possibile differenza (tra le "parole" e le "cose", per esempio). Messa a fuoco questa differenza ontologica (che la tradizione metafisica ha per lo più ignorato) ecco che allora Heidegger fa qualcosa di molto hegeliano, descrivendo l'accadere dell'essere sul modello della definizione logica. Egli afferma infatti: se è vero che non c'è l'essere da una parte e i termini che lo definiscono dall'altra, ciò significa che è l'essere stesso, «in carne e ossa», che si definisce discorsivamente nelle parole che dicono e fanno emergere le cose. Ed eccoci alla svolta: se le parole non sono una proprietà esclusiva dell'uomo, ma il modo in cui l'essere stesso "si dice" (le parole sono cioè già sempre parole dell'essere), con quale altro linguaggio sarà possibile esprimere questo dirsi dell'essere, l'accadere di questo evento? Con nessun altro evidentemente. Forse, dirà Heidegger nell'ultima fase della sua speculazione, solo il linguaggio poetico ha la capacità di alludere indirettamente a questo misterioso evento.
Cosa significa pensare dopo Heidegger
Così tuttavia è come se avesse stabilito: poiché il senso dell' essere non si può" dire" (ogni possibile dire è infatti già sempre un dire suo, dell'essere), allora non resta che concludere al silenzio, all'ascolto di ciò che si nasconde in ogni detto. Ma è proprio vero che l'unico senso dell'essere sia quello di essere detto? Non è questo piuttosto un senso derivato e particolare, cioè quello stabilito dalla tradizione metafisica dell'Occidente? Gli stessi concetti di "essere" e di "logos che dice l'essere" non nascono entro una certa epoca del mondo? Se questo è vero la "questione del senso dell'essere" non avrebbe quel carattere originario e universale che assume nel discorso di Heidegger o lo avrebbe appunto solo nei limiti di questo discorso. Interamente assorbito nel suo straordinario "cammino di pensiero", nella sua genialissima odòs filosofica, Heidegger ha finito per perdere di vista il méthodos di questo cammino, il senso di ciò che egli stava facendo in quanto filosofo (in quanto "sé filosofante", avrebbe detto Husserl). Ha cioè perso di vista il suo stesso punto di partenza (quell'inizio già sempre iniziato), cioè il fatto che quanto andava dicendo lo stava appunto dicendo o, per essere più precisi, lo stava anzitutto scrivendo.
Parole e concetti come "essere", "tempo" o "discorso" non alludono a misteriose realtà che starebbero oltre il linguaggio, ma sorgono e si definiscono entro un certo tipo di scrittura, la scrittura alfabetica inventata e sistematicamente utilizzata dalla tradizione metafisica dell'Occidente. Prima dell'avvento di questa scrittura, avvenuto nella Grecia dell'VIII secolo circa a.C., quei termini e il modo di considerare la realtà che in essi si esprime erano ancora di là da venire. Altri termini erano in uso, altri modi di scrivere la realtà, modi che non avevano per nulla lo scopo di arrivare a "dire il senso dell'essere". È dunque a queste radici che occorre riportarsi, approfondendo quel ritorno alle origini, quella genealogia della parola pensante inaugurata dallo stesso Heidegger. Ciò che chiamiamo pensiero ha una portata più ampia e profonda di quanto il "pensiero dell'essere" non lasci supporre: e il fallimento di questo pensiero, il suo ridursi al silenzio dopo aver scontato la propria impossibilità di principio, non può e non deve significare la "morte della filosofia". Torniamo quindi da capo al nostro Heidegger e riprendiamo di nuovo la battaglia con le sue parole. Entro il complesso della sua opera, per i motivi che abbiamo appena esposto, daremo risalto soprattutto alle parti di Essere e tempo in cui emergono i temi della differenza ontologica e del circolo ermeneutico, con le connesse analisi dell'essere-nel-mondo e dell'in-essere, analisi che, più delle problematiche propriamente esistenzialistiche e di quelle, pur interessantissime, elaborate dopo la svolta, costituiscono il contributo più originale e profondo offerto da Heidegger alla filosofia della nostra epoca.
Al termine della lunga introduzione a Essere e tempo intitolata "Esposizione del problema del senso dell'essere", Heidegger illustra quello che avrebbe dovuto essere lo schema generale dell'opera nel modo seguente:
L'elaborazione del problema dell'essere si ripartisce in due compiti, a cui corrisponde la suddivisione dell'opera in due parti:
Parte prima: L'interpretazione dell'Esserci in riferimento alla temporalità e l'esplicazione del tempo come orizzonte trascendentale del problema dell' essere.
Parte seconda: Linee fondamentali di una distruzione fenomenologica della storia dell'ontologia sulla scorta della problematica della "temporalità".
La prima parte si suddivide in tre sezioni:
1. L'analisi fondamentale dell'Esserci nel suo momento preparatorio.
2.Esserci e temporalità.
3.Tempo e essere.
La seconda parte è a sua volta tripartita:
1. La dottrina kantiana dello schematismo e del tempo come avviamento alla problematica della "temporalità".
2. Il fondamento ontologico del cogito sum di Cartesio e l'assunzione dell'ontologia medioevale nella problematica della res cogitans.
3. La trattazione aristotelica del tempo come discrimine della base fenomenica e dei limiti dell'ontologia antica
da M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1969, p. 101
La struttura circolare di Essere e tempo
Di questo dettagliato "progetto" Heidegger ha effettivamente compiuto, nell'opera che ancora oggi si intitola Essere e tempo, solo le prime due sezioni della prima parte. Come lo stesso Heidegger è arrivato a concludere nella fase matura del suo pensiero, la terza sezione non è stata scritta perché non poteva e quindi non doveva essere scritta. Essa, potremmo dire, c'è proprio in quanto non c'è: la sua assenza esprime l'unico modo in cui il senso dell'essere può darsi nella presenza.
L’assenza della seconda parte non possiede invece questo carattere costitutivo ed è del tutto contingente. Questa parte storiografica semplicemente non ci è, è mancata l'occasione di mandarne qui ad effetto la possibilità. Essa è infatti ampiamente reperibile altrove: nelle stesse due sezioni effettivamente scritte di Essere e tempo ricche di illuminanti digressioni sulla storia dell'ontologia; nel saggio su Kant e il problema della metafisica (1929) e in quello su Cartesio intitolato L'epoca dell'immagine del mondo (1938); nei cicli di lezioni su Aristotele, ancora, tenuti a Friburgo e a Marburgo nei primi anni Venti.
Più interessante è notare che, secondo lo schema proposto, l'interpretazione storiografica dell'ontologia avrebbe dovuto procedere da Kant ad Aristotele, cioè in senso inverso rispetto alla cronologia della tradizione. Essa non avrebbe avuto il senso lineare di una ricostruzione del problema dell'essere nelle sue fasi storiche salienti, ma quello circolare di una genealogia che, muovendo dall'elaborazione più matura di questo problema (fornita dallo stesso Heidegger), si riportasse alla sua espressione più originaria (formulata da Aristotele). E poiché Essere e tempo prende le mosse proprio dal modo in cui, a partire da Aristotele, la cultura occidentale ha progressivamente obliato la questione del senso dell'essere, l'opera inizialmente concepita da Heidegger avrebbe anch'essa dovuto legare circolarmente la propria fine (la terza sezione della seconda parte) al proprio principio (l'esposizione del problema contenuta nell'Introduzione). Questa continua riappropriazione del passato in un presente che si apre così al futuro costituisce il senso profondo del cammino di pensiero compiuto da Heidegger. A noi non resta dunque che saltare dentro questo cerchio incantato, recuperando a nostra volta il problematico inizio di Essere e tempo. Scrive Heidegger:
All’inizio di questa indagine non ci è ancora possibile discutere esaurientemente i pregiudizi che continuamente suscitano e alimentano la convinzione della non indispensabilità di una ricerca intorno all'essere. Essi gettano le loro radici nella stessa ontologia antica; la quale, a sua volta, per essere adeguatamente interpretata, quanto al terreno in cui sono nati i suoi concetti ontologici fondamentali, alla fondatezza della legittimazione e alla completezza del numero delle sue categorie, non può far a meno del filo conduttore costituito dalla chiarificazione e dalla risoluzione del problema dell'essere. Prenderemo perciò in esame questi pregiudizi solo nei limiti richiesti dal proposito di far vedere la necessità della ripetizione del problema del senso dell'essere. Essi sono tre:
1. Quello di essere è il concetto più generale di tutti: una comprensione dell'essere è già implicita in tutto ciò che si conosce dell'ente. Ma la generalità dell'essere non è quella del genere. L'essere non costituisce la regione suprema dell'ente per il fatto che questo si dispone concettualmente secondo generi e specie. La generalità dell'essere oltrepassa ogni generalità del tipo dei generi. L'essere, secondo la denominazione dell'ontologia medioevale, è un trascendens. Già Aristotele aveva riconosciuto nell'unità di questo generale trascendentale, contrapposta alla molteplicità reale dei sommi concetti di genere, l'unità dell'analogia. Nonostante la sua dipendenza dall'impostazione ontologica di Platone, Aristotele, con questa scoperta, ha posto il problema dell'essere su una base fondamentalmente nuova. Ma non si può dire che egli abbia anche illuminato l'oscurità di queste connessioni categoriali.
2. Il concetto di essere è indefinibile. Questo carattere venne dedotto dalla sua estrema generalità. Difatti l'essere non può esser concepito come un ente; non è possibile determinare l'essere mediante l'attribuzione di predicati ontici. Non è possibile definire l'essere muovendo da concetti più alti, né presentarlo muovendo da più bassi. Diremo allora che l'essere non pone alcun problema? Niente affatto. L'unica conseguenza legittima è questa: l'essere non è qualcosa come l'ente. Ecco perché quel modo di determinare l'ente, la "definizione" della logica tradizionale, che, entro certi limiti, è da considerarsi fondata e che trova la sua ragion d'essere nell'ontologia antica, non è applicabile all'essere. L'indefinibilità dell'essere non dispensa dal problema del suo senso, ma, al contrario, lo rende necessario.
3. Quello di essere è un concetto ovvio. In ogni conoscere, in ogni asserzione, in ogni comportamento che ci pone in rapporto con l'ente, in ogni comportamento che ci pone in rapporto con noi stessi si fa uso di essere e l'espressione è senz'altro comprensibile. Tutti comprendono che cosa significhi: "Il cielo è azzurro", "Sono contento" e così via. Ma questa comprensione media non dimostra che un'incomprensione. Essa sta a denunciare che in ogni comportamento e in ogni modo di essere che ci ponga in relazione con l'ente in quanto ente, si nasconde un enigma. Il fatto che già sempre viviamo in una comprensione dell'essere e che, nel contempo, il senso dell'essere continua a restare avvolto nell'oscurità, attesta la necessità fondamentale di una ripetizione del problema del senso dell'essere.
Dall'esame dei pregiudizi che abbiamo passato in rassegna risulta dunque, che, a proposito del problema dell'essere, non solo manca la soluzione, ma che il problema stesso è oscuro e privo di guida. Ripetere il problema dell'essere significa quindi: incominciare con l'elaborare in modo adeguato l'impostazione stessa del problema.
da M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., pp. 54
Il compito del pensiero va assolto in prima persona
Il problema di senso generato dall’accadere dell'essere che, per il suo nascondimento, ha mantenuto in un'inquietudine vivente il pensiero di Platone e Aristotele è oggi diventato qualcosa di assolutamente chiaro e ovvio: è cioè diventato una "cosa" come tutte le altre e non suscita quindi più alcuna inquietudine o domanda. Questa abitudine di ridurre tutto a "cose", cioè a sostanze che sono o stanno semplicemente di fronte a noi, ha del resto le sue radici proprio nella filosofia di Platone e di Aristotele, o meglio nei modi in cui la tradizione ha interpretato e "fissato" in concetti quella loro inquietudine. Come a dire: un conto è ciò che si sono sforzati di pensare Platone e Aristotele; un altro sono la banalizzazione e la mortificazione di questo sforzo compiute dopo di loro. Un pensare originario non è quindi quello che si affida passivamente alla ricostruzione storiografica della filosofia, ai pensieri sedimentati nelle opere e nelle dottrine di scuola, ma quello che recupera e rivive in prima persona lo sforzo di pensiero compiuto dai grandi filosofi dell'antichità, sforzo generato e messo in movimento dal carattere enigmatico dell'essere: dal suo darsi a vedere analogicamente in ogni ente e al tempo stesso in nessuno (dalla sua estrema generalità); dall'impossibilità di definirlo mediante predicati ontici (ogni possibile predicato, per esempio "genere sommo", infatti è già, possiede già il carattere di un essente, è già compreso nell'orizzonte dell'essere e non può quindi distinguersi dall'essere e definirlo come se stesse a parte, in una sua specifica differenza); dalla sua stessa onnipresente ovvietà, infine, sicché l'essere ha il carattere inafferrabile dell'araba fenice: "Che ci sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa". Di qui la necessità di riproporre il problema del suo senso, cioè di esporsi all'enigmaticità del suo nascondimento.
La precomprensione del senso dell'essere
Heidegger osserva anzitutto che non ci si mette mai a cercare senza un motivo, senza cioè essere preliminarmente spinti o mossi alla ricerca. Da che cosa? Evidentemente da ciò che è cercato. Ciò verso cui ci muoviamo è la cosa stessa da cui siamo mossi. Con questa piccola differenza, nel nostro caso, che ciò che viene cercato non è una cosa (un ente) e non si può quindi domandare: ma che cosa stiamo cercando? Se si affronta il problema dell'essere sul filo della classica domanda socratica, cioè a partire da una teoria che abbiamo assimilato al punto da non intenderla neanche più come tale, non si può che andare incontro a un preventivo fallimento. Tutto ciò che possiamo positivamente avanzare per il momento è una constatazione negativa: l'essere non è qualcosa come un ente. Ogni possibile ente, a cominciare da quello che noi stessi siamo, è comunque sempre già compreso entro l'orizzonte dell'essere. Questo fatto, questo essere comunque già inscritti nell'essere, è all'origine di quella comprensione media dell'essere che ci contraddistingue: per metà ci sembra di averlo perfettamente compreso (coincide addirittura con il nostro stesso essere); per metà invece non ne sappiamo nulla (proprio perché è lui che ci comprende e non viceversa). Questo, osserva però Heidegger, capita in realtà a tutti gli enti. Quindi almeno una cosa è certa: se ciò che cerchiamo è l'essere (ciò che costituisce ogni ente) e ciò che ri-cerchiamo è il suo senso (cioè come si costituisce ogni ente), ne deriva che ciò che dobbiamo interrogare, ciò a cui dobbiamo o possiamo solo rivolgerci per sapere qualcosa in proposito, è l'ente stesso, quella realtà così ovvia e comune che nondimeno nasconde in sé l'enigma dell'essere. A quale particolare ente rivolgersi tuttavia? Gli enti sono innumerevoli e poiché l'essere accade e si nasconde in ciascuno di essi potremmo pensare che per cominciare la nostra indagine l'uno valga l'altro.
Ma è proprio vero, si chiede Heidegger, che le "cose" stanno così? (cioè che sono tutte allo stesso modo). Non c'è per caso una cosa che è in un modo diverso da quello di qualsiasi altra, che fa per esempio qualcosa che le altre cose non fanno mai?
L'Esserci come ente inquisito dall'essere
Domanda retorica, ovviamente: certo che c'è. Ci sono infatti molti enti al mondo che hanno per esempio l'abitudine di "volgere lo sguardo", di "comprendere", di "afferrare concettualmente", di "scegliere" o in una parola di cercare? Non molti vero? Ciò significa allora che almeno una "cosa" l'abbiamo trovata, ed è quella cosa particolare che ha l'abitudine di cercare. E non l'abbiamo trovata perché siamo presuntuosi o perché ci fa comodo che sia proprio quella. Cercare è uno dei nostri modi abituali di essere ed è quindi l'essere stesso che, costituendoci in questo modo, ha designato noi a ricercare il suo stesso senso. Ecco dunque profilarsi una prima articolazione della ricerca: l'esplicitazione del senso dell'essere in generale muoverà dall'esplicitazione del particolare rapporto che un ente intrattiene con il proprio essere, con il modo in cui abitualmente ci è. Tale ente viene perciò designato con il termine Esser-ci.
In questa impostazione della ricerca, fa infine notare Heidegger, non ha luogo alcun circolo vizioso. Ciò che si è affermato a proposito dell'Esserci non è che questo particolare ente ha il privilegio di possedere la "nozione" di essere, ed è quindi l'unico che sia in grado di dedurre da questa nozione i caratteri dell'essere stesso. Se le cose stessero così l'accusa di circolo vizioso, di voler cioè dimostrare qualcosa mediante questa cosa stessa, avrebbe un suo fondamento. Ma la situazione in cui ci troviamo non è affatto caratterizzata da questa chiarezza formale, al contrario. Ciò che si è subito detto di questa illusoria chiarezza è che essa è in realtà il segno o il sintomo di una profonda oscurità. E l'indagine ha infatti preso le mosse proprio da qui: dalla constatazione di questa atmosfera chiaroscurale, di questo sapere e non sapere che caratterizza la nostra quotidiana esperienza. Quindi non si tratta di dimostrare nulla. Si tratta invece di mostrare, di portare all'ostensione, di lasciar emergere il senso di questo nostro essere così, di questo nostro Esser-ci. Questo è il tipo di rigore che qui si persegue. Questo è il metodo, la via orientata che ci si propone di seguire. La medesima, osserva esplicitamente Heidegger, che mi ha indicato il mio maestro Edmund Husserl.
La verità come luogo di rivelazione dell'essere
Il percorso che Heidegger sviluppa nell'Introduzione di Essere e tempo non è in realtà assimilabile a quello compiuto da Husserl: è il medesimo (das Selbe), direbbe Heidegger, ma non lo stesso (das Gleiche). Al centro di questa identità differente sta il fenomeno dell'intenzionalità, cioè proprio quel "volgere lo sguardo", "afferrare concettualmente" e "accedere a" che abbiamo appena incontrato in queste prime pagine. La differenza sta nel fatto che Heidegger non mette queste attitudini sul conto della coscienza trascendentale, quasi che l'intenzionalità sia una sua specifica quanto misteriosa capacità di riferirsi direttamente ai fenomeni. Il cercare che costituisce l'Esserci, questa sua costitutiva inquietudine, viene invece fatto dipendere dall'essere stesso, dal fatto che l'essere originariamente si dà, accade, si manifesta negli enti. Senza questa preventiva rivelazione nessuna coscienza potrebbe intenzionare alcunché, potrebbe cioè volgersi o dirigersi verso quegli enti che a lei si manifestano. A lei, ammette senz'altro Heidegger, ma non grazie a lei.
Il fatto che ci siano già sempre gli enti, che si dia già sempre un mondo, è un fatto che precede, fonda e mette in movimento l'intenzionalità della coscienza, che senza questo preventivo manifestarsi resterebbe altrimenti inspiegabile. Se cerchiamo l'essere, si era detto, è perché siamo spinti alla ricerca dall'essere stesso, dall'evento originario del suo rivelarsi negli enti, dal fatto che nel luogo in cui ci troviamo, in questo nostro qui, ci è già sempre un mondo, una totalità di enti. La via da seguire non è quindi tanto quella di descrivere la relazione intenzionale tra gli atti della coscienza e i fenomeni del mondo, come se noi disponessimo di uno sguardo puro per contemplare dall'esterno questa relazione. Si tratta invece di lasciar emergere il senso di questa relazione, il suo stesso accadere, il fatto originario che si dà già sempre un mondo alla coscienza. Più che Husserl, è stato Aristotele a porre l'attenzione su questo carattere di autorivelazione dell'essere, su questo uscire dell'essere dalla latenza (léthe, in greco) per manifestarsi negli enti. E quindi la verità, la non-ascosità dell'essere (a-létheia), non la coscienza, il luogo originario in cui gli enti si rivelano. Ed è il prodursi di questo senso, di questa provenienza, è questo farsi fenomeno dell'essere a partire da se stesso a cui bisogna allora lasciare la parola, il logos. Ecco perché Heidegger, nel paragrafo in cui espone il metodo della sua indagine, pensa il termine fenomeno-logia a partire dalla sua origine greca (cosa che lo stesso fondatore della fenomenologia, Edmund Husserl, non si era mai preoccupato di fare). Scrive Heidegger:
L'espressione greca phainòmenon a cui risale il termine "fenomeno" deriva dal verbo phàinesthai che significa manifestarsi; phainòmenon significa quindi ciò che si manifesta, il manifestante si, il manifesto; phàinesthai stesso è una forma media di phàino, illuminare, porre in chiaro; phàino deriva dalla radice pha come phos, la luce, il chiaro, ossia ciò in cui qualcosa può manifestarsi, rendersi visibile in se stesso. Bisogna dunque tener ben fermo il seguente significato dell'espressione fenomeno: ciò che si manifesta in se stesso, il manifesto. I phainòmena, i "fenomeni", costituiscono dunque l'insieme di ciò che è alla luce del giorno o può essere portato in luce, ciò che i greci a volte identificavano senz'altro con ta ònta (l'ente). [...]
Logos non significa e comunque non significa primariamente giudizio, se si intende per giudizio il "collegare" o il "prender posizione" (accettare o respingere).
Logos, in quanto discorso, significa piuttosto qualcosa come deloùn, render manifesto ciò di cui nel discorso" si discorre". Aristotele ha esplicato più precisamente questa funzione del discorso come apophàinesthai. Il logos lascia vedere qualcosa (phàinesthai) e precisamente ciò su cui il discorso verte; e lo lascia vedere per coloro che discorrono (medio) o per coloro che discorrono fra di loro. Il discorso "lascia vedere" cioè a partire da ciò stesso di cui si discorre. Nel discorso (apòphansis), nella misura in cui esso è genuino, ciò che è detto deve esser tratto da ciò intorno a cui si discorre, in modo che la comunicazione discorsiva, in ciò che essa afferma, renda manifesto e come tale accessibile agli altri ciò intorno a cui discorre. Questa è la struttura del logos in quanto apòphansis. Non ogni discorso possiede questo modo di disvelamento cioè il lasciar vedere mostrando. La preghiera, ad esempio, manifesta anch'essa ma in un altro modo. [ ... ]
Se esaminiamo concretamente i risultati dell'interpretazione di "fenomeno" e di "logos", salta subito agli occhi l'intima connessione che li stringe. L'espressione fenomenologia può essere formulata come segue in greco: léghein ta phainòmena, dove leghein significa apophàinesthai. Fenomenologia significa dunque apophàinesthai tà phainòmena: lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso. Questo è il senso formale dell'indagine che si autodefinisce fenomenologia. Ma in tal modo non si fa che esprimere la massima formulata più sopra: "Verso le cose stesse!". [ ... ]
Per quanto concerne la durezza e la "ineleganza" di espressione delle indagini che seguono, si deve tener presente che un conto è informare sull'ente raccontando, e un altro è cogliere l'ente nel suo essere. Per questa seconda impresa mancano non solo la maggior parte delle parole, ma, prima di tutto, la "grammatica". Se ci è lecito citare indagini analitico-ontologiche precedenti - impareggiabili quanto alloro livello - si paragonino le sezioni ontologiche del Parmenide di Platone o il quarto capitolo del settimo libro della Metafisica di Aristotele con qualche passo narrativo di Tucidide, e si vedrà quale sforzo inaudito fu richiesto ai greci dai loro filosofi in fatto di formulazioni linguistiche. Quando le forze siano radicalmente inferiori e, per di più, il dominio ontologico da esplorare assai più arduo di quello che fu presentato ai greci, è inevitabile che crescano anche la sottigliezza dell' elaborazione concettuale e l'asprezza dell' espressione.
da M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., pp. 87-100, passim.
Ritagliare le parole nella materia del mondo
Raccontare informazioni sull'ente è quanto fanno coloro che, come i neokantiani (e in parte anche lo stesso Husserl), parlano della realtà dal punto di vista privilegiato di una coscienza "pura", che cioè si pensa separata dalla realtà pur ritenendosi capace di riferirsi ad essa. Radicare effettivamente e non solo a parole questo punto di vista nella realtà, pensarlo come già investito dalla luce dell'essere in cui appaiono gli enti, è invece tutt'altra faccenda. Per riuscire in questo intento occorre intagliare faticosamente le parole nella materia del mondo, così che possano comprendere e portare alla luce questa materia in se stessa e a partire da se stessa. Di questo aspro lavoro di intaglio Heidegger dà un'eloquente dimostrazione esercitandolo sulle radici del termine "fenomenologia", liberato dalla scorza culturale che lo rivestiva ed esibito nella sua nuda e originaria espressività. Questo termine rivela allora nella sua stessa articolazione (logìa), incorporata nei suoni della voce (phone), un riferimento vivente alla luce (Phòs) in cui si manifestano le cose (l'essere) e alle cose stesse che vengono in luce (tà phainòmena, ovvero gli enti in quanto si manifestano). Solo pensato in questo modo il termine fenomenologia lascia vedere in se stesso ciò che si manifesta da se stesso.
Un altro esempio ancora più lampante di questo "articolare parole nel corpo del mondo" è dato dall'uso dei trattini di separazione, reso popolare da Heidegger. A partire dall'espressione fondamentale dell'Esser-ci come eesere-nel-mondo, le successive analisi di Essere e tempo non faranno che articolare ulteriormente questo originario "essere-dentro", dando luogo a catene di termini sempre più complessi e dettagliati: questo modo di in-essere dell'Esserci si darà infatti progressivamente a vedere come "poter-essere", "con-essere-con-altri", "esser-già-sempre-presso", "essere-avanti-a-sé-in" e infine come "essere-avanti-a-sé-essendo-già-in-un-mondo", o in una parola come "Cura" (Sorge).
L'articolarsi di queste espressioni designa il percorso metodico che lascia emergere il senso ontologico della complessa situazione ontica nella quale ci troviamo gettati, del nostro quotidiano avere a che fare con questo o quell'ente, del nostro prenderci cura delle cose e delle persone. Questa complessa e concreta situazione viene invece abitualmente ignorata o saltata da chi pensa che il rapporto tra uomo e mondo si riduca a quello tra un soggetto conoscente e un oggetto posto "semplicemente" di fronte al suo sguardo. Anche questo, in realtà, è un modo di prendersi cura delle cose e delle persone, ma è un modo appunto fortemente riduttivo, che prescinde per comodità metodologica dalla complessità della nostra esperienza nel mondo. Portarsi al di là di questo caratteristico "coprimento" significa recuperare il senso originario del nostro incontro con l'ente, e il metodo fenomenologico rappresenta appunto la via per compiere questo recupero.
La fenomenologia come ermeneutica del senso dell'essere
Ciò che si è detto a proposito del termine "fenomeno-logia" vale infatti anche per la fenomenologia intesa come pratica vivente del pensiero. Essa, dice Heidegger, non deve essere guardata come una realtà in sé, come una "corrente di pensiero" sulla quale si possono riferire molte cose. Più in alto della realtà sta la possibilità e la fenomenologia rappresenta appunto la possibilità stessa di continuare a pensare, la via orientata a mettere in luce l'accadere dell'essere negli enti (in questo senso fenomenologia e ontologia coincidono). Essa non è infatti una scienza che determini l'oggetto della sua indagine (come la teo-logia o la bio-logia), ma una scienza che si rivolge al senso o alla luce in cui l'oggetto (qualsiasi oggetto) si manifesta, viene in presenza. La fenomenologia, potremmo dire, non è scienza di qualcosa (di Dio o della vita), ma un metodo per qualcosa: è la via di accesso agli enti, al come in generale si danno gli enti. Essa non è scienza in quanto dimostra qualcosa a partire da princìpi evidenti, ma in quanto mostra, esibisce, lascia che emerga nelle sue parole il carattere complesso e problematico di ogni evidenza, di ogni farsi fenomeno del mondo attraverso il lògos che discorre nel mondo. In questo senso la fenomenologia descrive il fenomeno: non in quanto essa sia praticata da una coscienza pura che racconta ciò che le appare, ma in quanto essa lascia che il fenomeno stesso, lo stesso manifestarsi dell'ente in presenza, si descriva, si esponga o si interpreti nel suo discorso a partire da se stesso, dal suo modo di manifestarsi.
«Il senso metodico della fenomenologia - afferma Heidegger in un passo capitale - è l'interpretazione»: essa è un'ermeneutica del senso dell'essere. Fenomenologia ed ermeneutica, egli vuol dire, non sono due "correnti di pensiero". Chi le concepisce in questo modo si ferma al piano della realtà, della semplice presenza, crede di avere la libertà di interpretare le cose a suo modo. Ma più in alto della realtà sta la possibilità, cioè il poter continuare a pensare in prima persona, il fare del pensiero un'esperienza nostra, vivente. Ed è su questa base originaria che la fenomenologia viene praticata come ermeneutica, come via discorsiva che dà voce all'interpretarsi dell'essere nell'ente, non alle nostre contingenti e successive interpretazioni dell'ente. Se prima non accade l'esposizione (Auslegung) dell'essere nell'ente, non può aver luogo nessuna interpretazione o commento o analisi dell'ente stesso. Non resta quindi che esporci a nostra volta, con un concreto cammino di pensiero, a questa originaria esposizione, avviando quell'analitica esistenziale che, nelle intenzioni di Heidegger, dovrebbe esibire il modo in cui il senso dell'essere accade anzitutto per noi, cioè attraverso quel particolare Esser-ci che noi già sempre siamo.
Due modi distinti di stare nel mondo
Articolare le parole "nel" mondo, portare il pensiero "dentro" l'esperienza che ne compiamo in prima persona, situarsi "entro" la luce dell'essere "in cui" si manifestano gli enti: ma che senso hanno queste espressioni? In che senso dobbiamo concepire e vivere questo riportarsi alla concretezza dell'esperienza, questo tornare" alle cose stesse"? Che cosa significano tutti questi "in cui", "entro" e "stare dentro"? Al di là dell'intenzione di ribadire che la filosofia non è una pratica astratta di pensiero, ma un modo per vivere più concretamente e autenticamente la propria esistenza nel mondo, resta il problema di mostrare come e in che senso essa concepisca questa concretezza e autenticità, questo "stare dentro" che ci riguarda e ci costituisce.
Faremo quindi meglio a distinguere fin da subito i due sensi in cui Heidegger parla di questo nostro problematico "stare": il primo si riferisce soprattutto alla concretezza, al come effettivamente stiamo nel mondo, ed è l'aspetto più profondo e vitale della sua analisi; il secondo, continuamente intrecciato al primo, riguarda invece l'autenticità e costituisce la componente propriamente "esistenzialistica" di Essere e tempo, componente che introduce un livello di giudizio e di valutazione su quel genere di esistenza a cui manca quel carattere di rigore e di originarietà che lo stesso Heidegger rivendica alla filosofia. Un conto è infatti cercare di mantenere la descrizione sul piano stesso dell'esperienza, articolando il senso di quel problematico dentro in cui già sempre siamo; un altro è esprimere giudizi di valore o indicare norme di condotta relative al modo più o meno autentico in cui dovremmo situarci in esso (ma se ci siamo già sempre situati, non possiamo avere la libertà di deciderci in un modo o nell'altro). Un conto è prendere atto che la nostra esperienza ha un carattere costitutivamente finito o "gettato", come si esprime Heidegger; un altro è lanciare appelli sulla necessità di progettare questa gettatezza nel modo più autentico.
La questione dell'esistenzialismo heideggeriano
In effetti non si è mai compreso bene a quale "superiore" livello di autenticità fossero diretti questi appelli, ma è certo che Heidegger doveva essere un vero mago a tenere tutti con il fiato sospeso formulando drammatici quanto indecifrabili anatemi. Quello che risuona nelle pagine esistenzialistiche di Essere e tempo allude per esempio alla necessità di "possibilizzare" le nostre possibilità più proprie, a partire dall'esperienza dell'angoscia per concludere all'essere-per-la-morte. «Teniamoci, dunque, teniamoci aperti alle possibilità (anche se non sappiamo per cosa)»: così gli studenti di Marburgo parodiavano il senso degli enigmatici moniti che rivolgeva loro il maestro. E si possono anche ricordare a questo proposito le parole di Jaspers, che ebbe modo di frequentare a lungo "il piccolo mago di Messkirch": «Egli ti incanta e ti travolge con la potenza delle sue analisi, ma poi ti lascia vuoto».
Lo stesso Heidegger, d'altro canto, ricuserà nella Lettera sull'umanismo ogni affinità tra l'opera di Kierkegaard e la propria (peraltro innegabile in Essere e tempo) e ogni interpretazione del suo pensiero in chiave esistenzialistica. Questa interpretazione finirà nondimeno per affermarsi (soprattutto in Francia e in Italia) a scapito del rilevantissimo contributo teoretico offerto da Heidegger con la sua ermeneutica fenomenologica. E anche quando in tempi più recenti si è tornati giustamente a valorizzare questo contributo, lo si è fatto con una presa di posizione in favore dell'ermeneutica contro la fenomenologia, come se in filosofia si trattasse, ignorando ciò che ci ha insegnato lo stesso Heidegger, di stabilire primati tra una "corrente di pensiero" e l'altra. Nel dare ulteriore corso alla nostra lettura di Essere e tempo cercheremo dunque di attenerci alla base più strettamente teoretica e descrittiva dell'analitica esistenziale, limitandoci a riassumere per sommi capi le stratificazioni esistenzialistiche che su questa base si sono sovrapposte.
Il problema dell'origine della ragione
Torniamo allora alla questione fondamentale del modo in cui siamo già sempre nel mondo. L'ente da cui prende le mosse l'analisi non è l'uomo che nella sua esistenza attua la sua essenza specifica di "animale razionale": questo è il modo in cui l'ontologia classica definisce l'uomo, spiega che cosa è l'uomo e di quali altre" cose" l'uomo è dotato a differenza degli altri enti (per esempio della "ragione"). Questo è però un modo chiaramente derivato di rapportarci al nostro essere e lo si capisce compiendo una semplice riflessione: se è l'uomo stesso che mediante la sua ragione definisce in generale le "cose", non può essere a sua volta definito come una cosa o, più brevemente, non può essere definito. Proprio in quanto la ragione usa se stessa per definirsi come una cosa o una qualità propria dell'uomo, la sua origine rimane del tutto inesplicata. Come avviene allora che l'uomo si trovi dotato di questa facoltà? Per spiegare l'origine della ragione, l'ontologia tradizionale coinvolge un altro ente, anzi un Sommo Ente che ci avrebbe creati e posti nell'esistenza con questa specifica essenza. Risposta che, oltre a non spiegare o a spiegare con un mistero il nostro modo di essere, non chiarisce neppure come arriviamo a sapere qualcosa dell'essere di questo Sommo Ente.
Il nostro essere coincide con il poter essere
Per uscire da questo circolo di paradossi che continua a presupporre ciò che dovrebbe spiegare, è necessario considerare la questione da un altro punto di vista: che non è quello, suggerito da Husserl, di mettere tra parentesi tutte queste teorie e ricominciare "da zero" a descrivere ciò che manifesta. Il punto in questione è infatti che non si comincia mai da zero, poiché il modo più immediato in cui siamo è quello di aver già sempre a che fare con un certo modo di interpretare il nostro essere: nel nostro caso (relativo cioè non all'uomo in generale, ma proprio a noi, nati in Germania o in Italia in una certa epoca del mondo) si tratta di quel modo di interpretare il nostro essere e quello di qualsiasi altra realtà sotto il profilo della conoscenza razionale, che definisce tutto (compreso "il tutto" stesso, il mondo) come una "cosa", un ente che è, esiste, sta semplicemente lì, presente di fronte a questo sguardo definitorio. Invece di saltare questa nostra situazione, questo nostro modo di essere per proporne uno più autentico più "puro", bisogna allora cominciare proprio da qui, da questa medietà, da questo «essere uomini che stanno in mezzo alle cose» che caratterizza il nostro modo quotidiano e abituale di stare al mondo. Partire da questa concreta situazione significa comprendere davvero ciò che possiamo fare: essere ciò che siamo. Le nostre possibilità non ci sono state donate da qualche misterioso Sommo Ente, ma coincidono con ciò che noi concretamente siamo, con quel particolare modo di essere che definisce la nostra esistenza. È questa provenienza, è il tipo di cultura, di pratiche e di abitudini che abbiamo ereditato dal passato e che costituisce il nostro attuale modo di essere a decidere cosa possiamo o non possiamo fare in futuro. Questo essere coincide con il nostro poter essere: nulla di miracoloso, come si vede. Si tratta solo di lasciare che questa nostra peculiare essenza venga alla luce nel suo modo, non in quello che fa più comodo a noi.
Il nostro modo di essere "innanzitutto e per lo più"
Si tratta di un compito assai arduo, non c'è dubbio, perché la nostra tendenza a ridurre tutto in termini di "cose" ha una grandissima efficacia e quindi una grandissima forza. Per capire che questo non è il modo in cui noi esclusivamente siamo, ma appunto un modo, una tra le infinite altre possibilità di essere, occorre esercitare un'azione contraria ugualmente forte andando contro la nostra stessa natura, contro il modo di essere in cui innanzi tutto e per lo più siamo. Questa abituale espressione heideggeriana ha una grandissima importanza. Essa significa infatti: non completamente, non in tutti i casi. Se infatti noi fossimo interamente determinati dal modo di considerare la realtà in termini di "uomo-cosa che sta in mezzo ad altre cose", non avremmo avuto nessuna possibilità di fare il discorso che stiamo facendo, di situarci in una distanza critica rispetto a questo modo di essere. Se abbiamo invece potuto farlo, è evidentemente perché le "cose" stanno cambiando, è perché il nostro modo di essere in questa tradizione è entrato in crisi, ha cominciato a mostrare la sua costitutiva insensatezza, la sua incapacità di spiegare perché siamo dotati di ragione, in che senso le "cose" starebbero di fronte a noi e come fanno inoltre a "venirci in mente", a passare dal fuori in cui si trovano al dentro in cui starebbe la ragione.
La nostra essenza non è l'anima razionale, ma l'esistenza
Innanzitutto e per lo più continuiamo a considerare la realtà in questo modo, ma per uno scarto minimo che in questo essere si è determinato, per un'impercettibile differenza in cui siamo stati situati abbiamo anche la possibilità di comprendere il nostro essere in un altro modo. Dobbiamo allora rimanere attaccati con tutte le forze a questa preziosa differenza e tenere ben fermo ciò che da questo luogo residuale ci si è rivelato: cioè che lungi dallo "stare" semplicemente e realmente "di fronte" al mondo, dotati di questa o quella facoltà, il modo di essere (o essentia) che ci costituisce originariamente è di poter essere ciò che siamo. Ciò equivale a dire, tuttavia, che noi non abbiamo una specifica essenza, un modo di essere sostanziale che definisce la nostra realtà di "uomini": la nostra essentia coincide con l'exsistentia, termine che Heidegger utilizza, come di consueto, pensando al significato etimologico dell'ek-sistere, dello "stare fuori", dell'andare oltre, dell'essere già sempre proiettati in avanti o appunto del poter essere. L'intenzionalità che in Husserl si presentava come carattere specifico della coscienza costituisce per Heidegger la natura originaria dell'esistenza, il nostro attuarci sempre in un certo modo, in quanto possibilità di un certo essere, o più brevemente in quanto Esser-ci.
La differenza specifica dell'Esserci
Facciamo il punto su ciò che abbiamo compreso circa il nostro "essere dentro" il mondo: esso a quanto sembra non consiste in un semplice e inerte stare al mondo, fusi e confusi con la massa degli enti. Se così fosse, non si capirebbe in cosa consisterebbe la nostra specifica differenza, a meno di non attribuircela con un gesto arbitrario come enti "dotati" di ragione. Eppure una differenza sussiste: è vero, noi siamo nel mondo e non in qualche misteriosa dimensione parallela o panoramica; questo stesso mondo in cui siamo, d'altro canto, ci appare, si manifesta davanti a noi. Questa paradossale situazione può allora spiegarsi in questo modo: più che" sussistere" come un dato di fatto, la differenza tra noi e il mondo si viene a creare. Occorre pensare ad essa non come a qualcosa di statico, di sussistente tra due realtà già costituite per conto proprio (o create già distinte da Dio, come diceva Cartesio), ma come un evento dinamico, un accadere, un provenire, direbbe Heidegger.
Tendere al futuro provenendo dal passato
La nostra possibilità di riferirci alle cose, la nostra intenzionalità non nasce dal nulla o per grazia di Dio: è il nostro stesso accadere in un certo mondo, è il nostro storico provenire da una certa tradizione che ci dà lo slancio verso ciò che si manifesta (a partire da e grazie a questo essere che ci costituisce). Il nostro modo di "essere dentro", più che nei termini classici dello "stare" realmente, si dà quindi a vedere nei modi del "tendere verso provenendo da", del "donde" e del "verso dove" o, come si esprime Heidegger, del poter-essere. In quanto Esserci noi non" abbiamo" certe possibilità, ma siamo le nostre stesse possibilità, ci giochiamo ad ogni istante la nostra partita con ciò che siamo, sicché per noi ne va sempre del nostro essere. Noi non possediamo un io reale e sostanziale capace di realizzarsi in un modo o nell'altro: questo io che siamo, nasce e muore ad ogni istante, vive nella differenza continua di un provenire e di un tendere, può avere un futuro solo in quanto nel presente è un passato. Quando parliamo del nostro esser qui o Esser-ci, quando parliamo dell'istante presente, dobbiamo quindi pensare non a qualcosa di molto piccolo e breve, ma a un orizzonte grande come il passato che, accadendo nel o come nostro presente, ci apre l'orizzonte del futuro. Ma vediamo in che modo Heidegger esplicita questo carattere dell'Esserci.
L'espressione composita" essere-nel-mondo" rivela, già nella sua coniazione, che ci si vuol riferire a un fenomeno unitario. Questo reperto primario dev'essere considerato in tutta la sua complessità. Ma l'insolubilità in elementi eterogenei non esclude la molteplicità di componenti strutturali che entrano a far parte di questa costituzione. L'analisi del reperto fenomenico indicato con questa espressione comporta infatti tre punti di vista. Se lo esaminiamo tenendo preliminarmente ben ferma la totalità del fenomeno, essi possono esser fissati come segue:
1. Il nel-mondo. In ordine a questo momento occorre indagare la struttura ontologica del "mondo" e determinare l'idea della mondità come tale.
2. L'ente che è sempre nel modo dell'essere-nel-mondo. In esso è cercato ciò che indaghiamo col problema del "Chi?". Attraverso una dimostrazione fenomenologica dobbiamo determinare Chi sia l'Esserci essente nel modo della quotidianità media.
3. L'in-essere come tale. Bisogna chiarire la costituzione ontologica dell'in-essenza come tale. La considerazione di ognuno di questi momenti implica, nello stesso tempo, la considerazione di tutti gli altri, cioè la visione dell'intero fenomeno. L'essere-nel-mondo è certamente una costituzione dell'Esserci necessaria a priori, ma è tutt'altro che sufficiente a determinarne esaurientemente l'essere. Prima dell'analisi tematica dei singoli tre fenomeni in questione, dobbiamo tentare una caratterizzazione orientativa dell'ultimo di essi.
Cosa significa in-essere? Di primo acchito completiamo l'espressione con: in-essere "nel mondo" e tendiamo ad intendere questo in-essere come un" esser dentro ... ". Con questa espressione si denota il modo d'essere di un ente che è" dentro" un altro, come l'acqua è" dentro" il bicchiere o la chiave "dentro" la toppa. Con questo "dentro" intendiamo il rapporto d'essere di due enti estesi rispetto al loro luogo nello spazio. Acqua e bicchiere, chiave e toppa, sono, tutti e nello stesso modo, "nello" spazio e "in" un luogo. Questo rapporto d'essere può venir esteso; ad esempio: il banco è nell'aula, l'aula è nell'università, l'università nella città, e così via fino a: il banco è "nello spazio universale". Questi enti, di cui si può così determinare l'esser-l'uno-dentro-l'altro, hanno il modo di essere delle semplici-presenze in quanto sono cose-presenti" all'interno" del mondo. L'esser-presente "in" una cosa-presente,l'esser-compresente con qualcosa che ha il medesimo modo di essere (inteso come un determinato rapporto di luogo) sono caratteri ontologici che noi diciamo categoriali, in quanto propri di enti aventi un modo di essere non conforme all'Esserci.
L'in-essere, al contrario, significa un esistenziale, perché fa parte della costituzione dell' essere dell'Esserci. Perciò non può essere pensato come l'esser semplicemente-presente di una cosa corporea (il corpo dell'uomo) "dentro" un altro ente semplicemente-presente. L'in-essere non significa dunque la presenza spaziale di una cosa dentro l'altra, poiché l"'in", originariamente, non significa affatto un riferimento spaziale del genere suddetto. "In" deriva da innan, abitare, habitare, soggiornare; an significa: sono abituato, sono familiare con, sono solito: esso ha il significato di colo, nel senso di habito e diligo. L'ente a cui l'in-essere appartiene in questo significato è quello che noi abbiamo indicato come l'ente che io sempre sono. L'espressione "sono" è connessa a "presso". "lo sono" significa, di nuovo: abito, soggiorno presso il mondo, come qualcosa che mi è familiare in questo o quel modo. "Essere" come infinito di "io sono", cioè inteso come esistenziale, significa abitare presso, aver familiarità con. L'in-essere è perciò l'espressione formale ed esistenziale dell'essere dell'Esserci che ha la costituzione essenziale dell'essere-nel-mondo.
da M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., pp. 121-123.
L'Esserci è le sue contingenti possibilità
L’Esserci come ek-sistenza, come poter essere, come essere sempre dinamicamente proiettato a realizzare il proprio essere, il complesso delle proprie possibilità non è una caratteristica dell'uomo, una categoria utile a definire quell'ente che chiamiamo uomo. È invece quello che Heidegger chiama un esistenziale, cioè un modo in cui concretamente si struttura l'esistenza stessa, il poter essere dell'Esserci. Ciò equivale a dire che l'Esserci si dà a vedere innanzitutto e per lo più c
ome essere-nel-mondo, come proiettato a realizzare non delle possibilità generiche (come se avessimo detto che l'uomo è quell'essere che ha delle possibilità), ma le possibilità di volta in volta relative a ciò che egli concretamente è, al luogo del mondo in cui si trova a vivere, al complesso dei saperi di cui dispone, al tipo di cose e di persone con le quali ha effettivamente a che fare. È cioè in base al mio essere cresciuto in una certa parte dell'Italia o della Germania, al mio aver ricevuto un certo tipo di educazione e di formazione, al mio aver frequentato un certo tipo di persone, che posso realizzarmi in un certo modo o in un altro.
La mondità del mondo
L’uomo cosmopolitico degli illuministi o il soggetto puro degli idealisti non esiste (o esiste a partire dal modo di interpretare il proprio essere che è tipico della cultura illuministica e di quella idealistica). Ciò che esiste è l'esser-sempre-mio in quanto essere-nel-mondo. Per darci il senso preciso del livello di esperienza a cui si riferisce questa espressione, Heidegger si produce in una mirabolante etimologia della preposizione in (è il lavoro su queste minuzie inapparenti, semplicemente "utilizzate" dal linguaggio comune, che dà la misura della grandezza di un filosofo). Prima che in un semplice e derivato "stare dentro" (che presuppone una serie di nozioni già costituite come quelle di "spazio", "grandezza", "rapporto" e simili), lo stare dell'Esserci in un mondo (nel proprio mondo) consiste più originariamente in un abitare, in uno stare abitualmente presso, in intimità o familiarità con qualcosa che abbiamo fatto nostro, di cui ci siamo appropriati attraverso una lunga consuetudine e un'opera altrettanto lunga di selezione e di discernimento. Le possibilità che innanzitutto e per lo più realizzo sono cioè quelle mediante cui concretamente abito e coltivo il mio essere-nel-mondo. Lungi dall'essere un puro "là fuori" semplicemente presente, ciò che qui viene definito "mondo" è invece una parte costitutiva del mio esistere (è un esistenziale) e l'aver sempre a che fare con cose e persone per coltivare quello che per me è il mondo costituisce la caratteristica principale di questo esistenziale, ovvero di ciò che Heidegger definisce la mondità del mondo.
Le cose come mezzi utilizzabili
Nei capitoli dedicati alle prime due componenti dell'espressione unitaria essere-nel-mondo (la mondità e il "chi" dell'Esserci) Heidegger parla dunque del modo in cui concretamente facciamo esperienza delle cose e delle persone nel mondo. Le cose, tutte le cose, osserva Heidegger, sono anzitutto incontrate non come oggetti autonomi e autosussistenti, ma come mezzi utilizzabili, come "strumenti per". Ciò non equivale a dire che noi utilizziamo di fatto tutte le cose che entrano o si aprono alla nostra esperienza del mondo, ma che le cose, tutte le cose, ci sono nella misura in cui assumono immediatamente per noi un significato, vengono cioè inserite nella nostra visione del mondo e nel nostro pratico averci a che fare con una funzione e uno scopo ben precisi. Si ripensi alla descrizione della "cattedra" compiuta da Heidegger in quel lontano corso del 1919. Apparentemente solo il docente utilizza la cattedra. Di fatto, nel momento in cui viene riconosciuta, identificata e situata nella propria esperienza con un certo significato, essa viene in effetti utilizzata anche dagli studenti. Per utilizzare una singola cosa è quindi necessaria questa preliminare apertura, questo iniziale colpo d'occhio sull'ambiente circostante (Umwelt) che Heidegger definisce visione ambientale preveggente (Umsicht), sguardo che ispeziona quanto ci circonda con cura attenta e preoccupazione costante.
Il mondeggiare del mondo
Questo sguardo ovviamente non sorge dal nulla, ma scaturisce da quella totalità di significati che dobbiamo preliminarmente possedere per assegnare un senso specifico alla cattedra. Inserita in questo orizzonte di significati e riconosciuta come "mezzo per", essa rimanda per esempio all'autorità che conferisce a chi la occupa, al prestigioso contesto in cui è inserita, alla tradizione accademica che simboleggia o, secondo tutt'altro ordine di rimandi (concepiti per esempio da uno studente distratto con attitudini naturalistiche), la cattedra rimanda al legno di cui è fatta, agli alberi da cui è stata ricavata, alla selva formata da quegli alberi e così via. Lungi dallo stare semplicemente lì come un oggetto inerte che esiste per conto proprio, la cattedra - diceva Heidegger già nel 1919 - «mondeggia» (es weltet), racchiude in sé una totalità di significati che rimandano all'intero mondo. E questo vale ovviamente per ogni altro ente. Essere-nel-mondo non significa dunque "stare dentro" un insieme di cose semplicemente presenti, ma equivale a trovarsi già sempre in un orizzonte di significati, in un complesso di saperi a partire da cui gli enti del mondo si manifestano. Il fatto che qualcosa, per esempio una cattedra, si presenti davanti a noi non è mai un semplice fatto, un evento indipendente dal modo in cui siamo costituiti. La cattedra può presentarsi solo nel momento in cui rimanda, si riferisce, si connette a quella totalità di significati di cui già sempre disponiamo venendo al mondo. Che è come se avessimo detto: l'ente accade, si presenta all'Esserci non in sé, ma a partire da ciò che lo fa essere (o, che è lo stesso: l'essere si presenta non in sé, ma nell'ente entro cui di volta in volta accade, nell'ente che, rimandando alla totalità dell'essere, mondeggia).
La funzione conoscitiva dei segni e del linguaggio
Emerge qui il significato di ciò che Heidegger definisce differenza ontologica. L’Esserci non sta a parte rispetto al mondo: è nel mondo, ma questo suo essere è un essere già sempre coinvolto in una trama di rimandi, è un riferirsi intenzionalmente alle cose a partire dal proprio poter essere, dal fatto di trovarsi già sempre in un mondo, gettato in un certo orizzonte di significati e di saperi. Il fenomeno del rimando, il differenziarsi dell'ente dal nostro essere (o del nostro essere nell'ente) si rivela come la struttura fondamentale dell'essere-nel-mondo. Alla scoperta di questa struttura, osserva Heidegger, l'Esserci giunge utilizzando quel particolare tipo di strumenti che sono i segni, strumenti il cui unico scopo è appunto quello di rimandare ad altro, di "stare per" qualcosa che differisce da sé. E poiché lo strumento che per eccellenza possiede questo carattere segnico è il linguaggio, esso viene ad assumere una funzione decisiva nel cammino che conduce l'Esserci alla scoperta del mondo. Ciò che sappiamo del mondo, ciò che costituisce quell'orizzonte di significati con cui siamo già sempre familiari, non l'abbiamo infatti appreso attraverso un incontro diretto con gli enti, ma solo grazie alla mediazione del linguaggio. Coloro che hanno frequentato quel famoso corso del 1919, per esempio, non hanno avuto bisogno di esperire personalmente cosa fossero i professori universitari, la tradizione accademica oppure il legno o la selva per riconoscere la cattedra. La stragrande maggioranza di questi loro saperi, la stragrande maggioranza delle "cose" esistenti al mondo si è rivelata a loro attraverso l'apertura del linguaggio. Nella fase più matura del suo pensiero, come vedremo, Heidegger giungerà a dire che ogni cosa per chiunque emerge e si rivela anzitutto attraverso l'articolazione del linguaggio, che non è quindi il semplice strumento mediante cui si comunica dopo ciò che si è scoperto prima: il linguaggio, affermerà Heidegger, è la casa dell'essere.
Il modo d'essere della deiezione
L’osservazione relativa al fatto che, nella quotidianità media, l'orizzonte di significati mediante cui ci riferiamo al mondo non è costituito da noi in prima persona, attraverso un uso e un commercio diretto con tutte le cose, ma avviene soprattutto per il tramite degli altri porta Heidegger a riconoscere nel con-essere e nell'aver-cura di ciò che fanno gli altri una struttura costitutiva del nostro essere-nel-mondo. Osservando con cura e preoccupazione costanti il modo in cui gli altri "usano" il mondo e apprendendo tramite il linguaggio una molteplicità di altri usi non direttamente osservati, noi scopriamo a poco a poco quella totalità di significati mediante cui possiamo a nostra volta usare il mondo. La scopriamo, si badi bene, non la costruiamo noi in prima persona, né la costruiscono gli altri.
Questo modo di rapportarsi al mondo ha un carattere derivato, posteriore, inautentico, che Heidegger definisce come «pubblicità dell'indefinito si». La stragrande maggioranza delle cose che apprendiamo sul mondo la sappiamo nella misura in cui si sa, se ne sente parlare o la si può osservare pubblicamente. Nella sezione B del capitolo dedicato all' analisi dell'in-essere, Heidegger chiama deiezione questo essere consegnati al dominio del sapere pubblico e individua come suoi caratteri specifici la chiacchiera, la curiosità e l'equivoco. A questo livello inautentico e semplificato del rapportarsi al mondo ci si accontenta cioè di parlare o di sentir parlare delle cose, si dedica ad esse un'attenzione effimera e subito distolta, si scambiano continuamente come autentici e preziosi eventi insignificanti, mode passeggere, pratiche aleatorie e così via. Appropriarsi più autenticamente della propria esistenza nel mondo significa invece andare al fondo delle cose, compierne un'esperienza diretta e vivente. Per un filosofo ciò significa non accontentarsi a sua volta di ciò che si dice a proposito del rapporto tra uomo e mondo, ma di comprendere questo rapporto attraverso una concreta e personale esperienza di pensiero. Alla luce del percorso compiuto da Heidegger in questa sezione di Essere e tempo, l'in-essere che costituisce l'essere-nel-mondo dell'Esser-ci, il modo in cui l'essere ci è, accade nella nostra concreta esperienza del mondo, rivela una complessità e una stratificazione di livelli che l'indefinita pubblicità di ciò che per lo più si pensava era giunta solo a sospettare.
La nostra originaria apertura al mondo
L'Esserci, osserva Heidegger, è la sua apertura che consiste nell'aver-da-essere il suo proprio Ci. In questa piccola sillaba, esigua quanto l'istante che passa, si compendia o si comprende il nostro intero essere. Essa consiste propriamente nell'apertura di un orizzonte in cui si presentano gli enti, nel dischiudersi di uno spazio in cui compiamo le nostre prassi consuete, i nostri percorsi interpretativi, gli atti intenzionali mediante cui significhiamo le cose, diamo ad esse un senso, un valore per la nostra vita e nella nostra vita. E non perché siamo originariamente capaci di fare tutte queste cose: questa nostra capacità di interpretare le cose, questo nostro poter-essere è propriamente e fondamentalmente un aver-da-essere, un compito, un'urgenza, una costante preoccupazione di vivere la vita che ad ogni istante ci incalza, di dare forma e senso all'essere che ad ogni istante ci costituisce. Non scegliamo noi di essere. Non decidiamo noi di entrare in questa tensione che parte dal mondo e va verso il mondo.
In questa tensione, in questa intenzionalità, siamo gettati e il sentimento di questa gettatezza, il puro ed elementare sentirsi vivi in un certo modo, in un certo angolo del mondo, provenienti da chissà dove e diretti a chissà che, rappresenta la tonalità emotiva fondamentale, la nostra originaria apertura al mondo e nel mondo. In questa primigenia emozione si radicano poi tutte le altre (la gioia, la paura, la tristezza, l'indifferenza), tutti gli altri modi in cui istante per istante ci "sentiamo" a questo mondo. Ma l'emozione fondamentale è quella che si dischiude nella domanda "Perché?", la quale significa fondamentalmente per che: a causa di che, mediante che, in vista di che io sono, sono qui, mi trovo gettato in questo Ci? L'enigma del donde e del verso dove è il non sapere perché siamo ciò che siamo, perché facciamo ciò che facciamo, perché abbiamo da essere ad ogni istante questo nostro qui; è questa fondamentale ignoranza (l'ignoranza del fondamento su cui ci troviamo a vivere) il sentimento mediante cui si apre per noi qualcosa come un mondo. E immediatamente cominciamo a lavorare su questo sentimento, immediatamente cerchiamo di articolare una risposta: ogni nostro gesto o atto vitale è una risposta a questa domanda, un modo di interpretare il mondo in cui siamo già sempre compresi. Scrive Heidegger:
La situazione emotiva è una delle strutture esistenziali in cui l'essere del "Ci" si mantiene. Questo essere è cooriginariamente costituito dalla comprensione. La situazione emotiva magari tende a deprimerla. La comprensione è sempre emotivamente tonalizzata. Il fatto che interpretiamo la comprensione come un esistenziale fondamentale sta a significare che questo fenomeno è assunto come un modo fondamentale dell'essere dell'Esserci. Pertanto, la "comprensione" nel senso di un possibile modo di conoscere fra altri - distinto, ad esempio, dallo "spiegare"- dev'essere interpretata, unicamente allo" spiegare" stesso, come un derivato esistenziale della comprensione primaria costituente l'essere del Ci in generale. [...] La possibilità come esistenziale non significa un poter-essere indeterminato del genere della "libertà di indifferenza" (libertas indifferentiae). L'Esserci, in quanto emotivamente situato nel suo essere stesso, è già sempre insediato in determinate possibilità e, in quanto è quel poter-essere che è, ne ha già sempre lasciate perdere alcune; rinuncia incessantemente a possibilità del suo essere, riesce a coglierne talune oppure fallisce. Ciò significa che l'Esserci è un esser possibile consegnato a se stesso, una possibilità gettata da cima a fondo. [...] Perché la comprensione, in tutte le dimensioni essenziali di ciò che è in essa apribile, procede sempre secondo possibilità? Ciò dipende dal fatto che la comprensione ha in se stessa la struttura esistenziale che noi chiamiamo progetto. Essa progetta l'essere dell'Esserci nel suo "in-vista-di-cui" non meno originariamente che nella significatività in quanto mondità del suo mondo fattuale. Il carattere di progetto della comprensione costituisce l'essere-nel-mondo rispetto all'apertura del suo Ci in quanto Ci di un poter-essere. Il progetto è la costituzione ontologico-esistenziale dell'ambito di un poter-essere effettivo. L'Esserci, in quanto gettato, è gettato nel modo di essere del progettare. Il progettare non ha nulla a che vedere con l'escogitazione di un piano mentale in conformità al quale l'Esserci edificherebbe il proprio essere; infatti l'Esserci, in quanto tale, si è già sempre progettato e resta progettante fin che è. [...] Il progettare proprio della comprensione ha una possibilità di sviluppo sua propria. A questo sviluppo del comprendere diamo il nome di interpretazione [Auslegung]. In essa la comprensione, comprendendo, si appropria di ciò che ha compreso. Nell'interpretazione, la comprensione non diventa altro da sé, ma se stessa. L'interpretazione si fonda esistenzialmente nella comprensione: non è dunque questa a derivare da quella. L'interpretazione non consiste nell'assunzione del compreso, ma nell'elaborazione delle possibilità progettate nella comprensione. [...] Nel progetto della comprensione, l'ente è aperto nella sua possibilità.
Il carattere della possibilità corrisponde, di volta in volta, ai modi di essere dell'ente compreso. L'ente intramondano è progettato nel mondo, cioè in quella totalità di significatività ai cui rapporti di rimando il prendersi cura, in quanto essere-nel-mondo, si è già anticipatamente legato. Quando l'ente intramondano è scoperto a partire dall'essere dell'Esserci, quando cioè è portato a comprensione, diciamo che ha un senso. [...] Poiché comprensione e interpretazione rappresentano la costituzione dell'essere del Ci, il senso deve essere concepito come la struttura formale-esistenziale dell'apertura propria della comprensione. Il senso è un esistenziale dell'Esserci e non una proprietà che inerisce all'ente o che gli sta "dietro" o che vaga in qualche "intermondo". Solo l'Esserci "ha" senso, e ciò perché l'apertura dell'essere-nel-mondo non è "riempibile" che attraverso l'ente in essa scoperto. [...]
Il fatto di porre il problema del senso dell'essere non conferisce alla ricerca il carattere recondito e imperscrutabile di un'indagine intorno a ciò che starebbe dietro all'essere, ma non fa che porre in questione l'essere stesso nei limiti della sua comprensibilità da parte dell'Esserci. Il senso dell'essere non può mai essere contrapposto all'ente o all'essere, presupponendolo come "fondamento" dell' ente; il "fondamento" non è pensabile che come senso, sia pur esso l'abisso senza fondo di ciò che è sfornito di senso.
Anche la comprensione, in quanto apertura del Ci, riguarda sempre l'essere-nel-mondo nella sua totalità. In ogni comprensione del mondo è con-compresa l'esistenza, e viceversa. Ogni interpretazione si muove nella struttura del "pre" che abbiamo descritto. L'interpretazione, che è promotrice di nuova comprensione, deve aver già compreso l'interpretando. Si tratta di un fatto già notato da tempo, benché solo nell'ambito di forme derivate di comprensione e di interpretazione come l'interpretazione filologica. Questa cade nel dominio della conoscenza scientifica. Un tal genere di conoscenza richiede la rigorosa giustificazione dei propri asserti. Il procedimento dimostrativo scientifico non può incominciare col presupporre ciò che si propone di dimostrare. Ma se l'interpretazione deve sempre muoversi nel compreso e nutrirsi di esso, come potrà condurre a risultati scientifici senza avvolgersi in un circolo, tanto più che la comprensione presupposta è costituita dalle convinzioni ordinarie degli uomini e del mondo in cui vivono? Le regole più elementari della logica ci insegnano che il circolo è circulus vitiosus. [...] Ma se si vede in questo circolo un circolo vizioso e se si mira ad evitarlo o semplicemente lo si "sente" come un'irrimediabile imperfezione, si fraintende la comprensione da capo a fondo. Non è il caso di modellare comprensione e interpretazione su un particolare ideale conoscitivo, che, in ultima analisi, è pur sempre una forma derivata di conoscere, smarritasi nel compito in sé legittimo della conoscenza della semplice-presenza nella sua incomprensibilità essenziale. Il chiarimento delle condizioni fondamentali della possibilità dell'interpretazione richiede, in primo luogo, che non si disconosca in partenza l'interpretare stesso quanto alle condizioni essenziali della sua possibilità. L'importante non sta nell'uscire fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta. Il circolo della comprensione non è un semplice cerchio in cui si muova qualsiasi forma di conoscere, ma l'espressione della pre-struttura propria dell'Esserci stesso. Il circolo non deve essere degradato a circolo vitiosus e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile. In esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario, possibilità che è afferrata in modo genuino solo se l'interpretazione ha compreso che il suo compito primo, durevole ed ultimo è quello di non lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse, garantendosi così la scientificità del proprio tema. Poiché la comprensione, per il suo senso esistenziale stesso, è il poter-essere dell'Esserci, le presupposizioni ontologiche del conoscere storiografico trascendono in modo essenziale l'idea di rigore delle scienze esatte. La matematica non è più rigorosa della storiografia, ma semplicemente più ristretta quanto all'ambito dei fondamenti esistenziali per essa rilevanti. Il "circolo" del conoscere appartiene alla struttura del senso, che è un fenomeno radicato nella costituzione esistenziale dell'Esserci, nella comprensione interpretante. L'ente per cui, in quanto esser-nel-mondo, ne va del suo essere stesso, ha una struttura circolare di carattere ontologico. Ma poiché il "circolo" è un'immagine che cade nel dominio ontologico della semplice-presenza (sussistenza), bisognerà guardarsi, in generale, dal caratterizzare ontologicamente con questo fenomeno un ente come l'Esserci.
da M. Heidegger, Essere e tempo, op. cit., pp. 236-251, passim
Il modo in cui progettiamo abitualmente il nostro essere
Siamo di fronte a una delle pagine più alte non solo di Essere e tempo, ma di tutta la filosofia contemporanea. Dopo secoli di storie narrate sul soggetto che avrebbe semplicemente presente il mondo o sul mondo che verrebbe semplicemente in mente al soggetto (debitamente "svuotato" e ridotto a una tabula rasa), abbiamo qui una descrizione del processo mediante cui avviene la conoscenza che riporta questa esperienza alle sue origini costitutive e tiene conto della sua radicale e ineliminabile complessità. Una complessità che le storie sopra ricordate si limitavano a "saltare" per motivi diciamo così "economici", cioè funzionali a un modo opportunamente semplificato di interpretare la realtà: il modo proprio della mentalità scientifica moderna.
L’idea che la "vera" realtà delle cose consista nella loro oggettività semplicemente presente, colta dallo sguardo disinteressato e dalle misurazioni esatte dello scienziato non è quindi che un modo di rapportarsi alla realtà e di "usare" gli enti in essa incontrati a partire da una comprensione semplificata del mondo, ridotto a un semplice contenitore di dati e di relazioni tra dati. Ciò equivale a dire che non esiste uno sguardo "puro" e disinteressato che possa posarsi sul mondo a partire da se stesso, per virtù propria (o per grazia di Dio). La purezza dello sguardo e il suo posarsi unicamente su ciò che gli appare "chiaro e distinto" rappresentano invece l'esito di un processo di semplificazione che metodicamente ignora la concreta complessità dei rapporti in cui l'uomo si trova già da sempre gettato. Si può senz'altro vivere pensando che il rapporto tra uomo e mondo si riduca a quello tra un soggetto e un oggetto già costituiti e posti semplicemente l'uno di fronte all'altro, e si possono senz'altro esercitare sulla base di questa ipotesi metodica tutte le pratiche scientifiche e tecniche che si desiderano. Basta sapere che tutto ciò avviene in questo mondo e rappresenta solo un modo di stare in esso (come se ne fossimo fuori): un modo, direbbe Heidegger, di pro-gettare la propria costitutiva e originaria gettatezza. Un modo straordinariamente semplice, funzionale, efficace e vantaggioso, ma non per questo più vero o più reale di tutti gli altri modi possibili.
La conoscenza come interpretazione del proprio essere
Uno di questi modi possibili di progettarsi nel mondo è per esempio quello che, invece di prescindere per questioni di metodo dalla complessità che caratterizza la nostra esperienza, si sforza di metterla a fuoco, cioè di far emergere la progettualità stessa come carattere costitutivo del nostro essere-nel-mondo. L’apertura costituita dalla tonalità emotiva fondamentale, dal sentimento della nostra finitudine o gettatezza, non è infatti un'apertura cieca, una condizione di totale e irrimediabile ignoranza. Noi non veniamo al mondo come soggetti vuoti che l'esperienza si incaricherebbe poi di riempire. Il Ci in cui siamo già sempre gettati è invece costituito, come sappiamo, da una totalità di significati, da un complesso di rimandi a partire da cui le cose possono essere incontrate in un certo modo e utilizzate in un certo senso. A questa totalità di significati, di possibili modi di incontrare le cose Heidegger dà il nome di comprensione, mentre al modo in cui noi ci insediamo o siamo gettati in essa dà il nome di progetto. L’Esserci, il nostro modo di essere qui, di venire al mondo provenendo da esso, ha la struttura del progetto gettato, di un orizzonte di possibilità entro cui e grazie a cui gli enti del mondo si manifestano, vengono in presenza, ci diventano noti in un certo senso, a partire dalla situazione concreta in cui veniamo a trovarci. La conoscenza non è dunque il misterioso afferramento di un oggetto che starebbe di fronte a noi e non è neppure l'altrettanto misterioso interiorizzarsi di questo oggetto nella nostra mente vuota. La conoscenza è invece la progettazione concreta di un'originaria comprensione, a partire da cui un mondo di cose ci è già sempre dato. A questa progettazione concreta, a questo effettivo dirigersi verso gli enti del mondo che vengono così usati o inseriti nel progetto effettivo della nostra esistenza Heidegger dà il nome di interpretazione.
La natura essenzialmente storica dell'esistenza
Il progettarsi della comprensione, il venire al mondo avendo già, o meglio essendo già un intero orizzonte di possibilità interpretative, di possibili modi di avere a disposizione (pre-disposizione), di vedere (pre-visione) e di conoscere (pre-cognizione) le cose non è mai un vuoto progettarsi, non è mai un orizzonte di pure possibilità. In quanto progetto gettato, l'Esserci si è già sempre deciso per l'una o l'altra di queste possibilità, comincia già subito a interpretare le cose, a dirigersi ad esse a partire da questa sua pre-comprensione. Subito le cose del mondo gli appaiono sotto un certo rispetto, in un certo senso, quello appunto che il suo stesso modo di essere o di comprendere il mondo gli rende possibile e disponibile. Quando Heidegger parla di "interpretazione" e di "senso" non allude alla pratica conoscitiva di chi si mette di fronte alle cose e le interpreta cercando di stabilirne il significato. Questo modo di separare il soggetto dal mondo, come abbiamo visto, ha un carattere derivato, semplificato. Nella sua apertura originaria, l'Esserci non è, non è affatto separato dal mondo: è fin da subito un effettivo essere-nel-mondo, un effettivo articolare o interpretare il mondo che egli è secondo certe possibilità e direzioni, cioè secondo un certo senso. Il senso secondo cui uno studente degli anni Venti interpreta la cattedra su cui siede il suo maestro non è per esempio lo stesso secondo cui interpretava questo ente uno studente del tempo di Hegel o uno del tempo di Tommaso d'Aquino.
In quanto segnata da una provenienza (da un "pre") che la costituisce nelle sue possibilità, l'esistenza gettata dell'uomo è essenzialmente storica, orientata nel senso di un'origine (la comprensione del mondo propria di uno studente degli anni Venti) e di una destinazione (il modo in cui questo studente interpreta effettivamente il mondo a partire da quella originaria comprensione). Questo però non significa, di nuovo, che il modo in cui l'uomo interpreta il mondo sia inevitabilmente viziato dal "suo" modo di concepirlo in generale, dalla sua specifica "visione del mondo". Quando Heidegger osserva che l'Esserci è un esser-sempre-mio, non sta dicendo che l'Esserci è un soggetto separato dal mondo, un io individuale, ma allude alla costitutiva gettatezza, al decidersi già sempre per certe possibilità in luogo di altre che caratterizza la nostra esistenza. Chi pensa di sottrarsi a questo destino, a questa provenienza per guadagnare un punto di vista "puro" da cui guardare obbiettivamente il mondo, fraintende completamente il modo in cui qui si parla di comprensione, senso e interpretazione. Un modo che allude, lo ripetiamo, alla costituzione stessa dell'Esserci, al nostro concreto modo di essere e di usare il mondo e non alla pratica specifica della conoscenza, come se questa appartenesse a una res cogitans distinta dal resto del mondo. L'idea che la conoscenza debba ridursi alle "visioni del mondo" che storicamente l'uomo ha concepito è un'idea che presuppone il soggettivismo cartesiano, con tutti i problemi relativi al modo in cui questo soggetto potrebbe o dovrebbe "uscire" da se stesso per cogliere la "vera" realtà del mondo.
L'assenza di fondamento dell'essere-nel-mondo
La cosa più preziosa che ci sta insegnando Heidegger è che non si tratta di "uscire" da nulla, ma piuttosto di "stare dentro" nella maniera giusta: dentro il mondo ovviamente, dentro quel mondo a cui veniamo e che già sempre siamo, interpretandone gli enti in un certo senso; dentro quel mondo in cui non "stiamo" semplicemente, come il pesce sta nell'acqua o la chiave nella toppa, ma in cui progettiamo dinamicamente la nostra provenienza interpretando o utilizzando gli enti in un certo senso, secondo le possibili direzioni in cui gli enti si rendono a noi disponibili, visibili e conoscibili. E questo è tutto. Pensare che "dietro" o "sotto" questa peculiare esperienza, questo modo di farsi fenomeno del mondo negli enti che a noi si manifestano secondo certi profili, ci sia qualcosa come un fondamento, un "vero" modo di essere degli enti, una presunta "cosa in sé", significa di nuovo comprendersi come soggetti separati rispetto agli oggetti che si tratterebbe di "raggiungere". Ma se questo effettivamente avviene, se effettivamente possiamo dirigerei al mondo e raggiungerlo attraverso i suoi enti, è solo perché lo abbiamo già sempre raggiunto, è perché siamo già sempre aperti a un mondo in cui gli enti possono essere incontrati. Ed è questa originaria apertura, è questo uscire del mondo dalla latenza per manifestarsi ai nostri occhi l'unica possibile esperienza della verità che ci è dato di vivere. il fondamento non è una cosa che starebbe "sotto" tutte le altre e non è neppure un Sommo Ente che starebbe" al di là" di esse. L’unico fondamento che ci è dato di esperire è l'aprirsi della relazione tra l'Esserci e l'essere (tra la coscienza e il mondo, avrebbe detto Husserl), è il darsi di un senso, di una provenienza e una destinazione in cui siamo già sempre presi e gettati, è lo storico farsi fenomeno della verità. Certo, osserva Heidegger in un passo a cui nelle opere successive darà i più ampi sviluppi, questo significa che il fondamento (Grund) che ci costituisce consiste in una radicale "assenza di fondamento" (Ab-grund), in una condizione di fondamentale e ineliminabile gettatezza, in uno storico donde e verso dove di cui letteralmente non possiamo "dare ragione".
Le possibilità autentiche o inautentiche dell'esistenza
Queste ultime considerazioni ci introducono alla problematica più propriamente esistenzialistica che Heidegger svolge nella seconda sezione della prima parte di Essere e tempo, intitolata "Esserci e temporalità". Di questo sviluppo, come si è anticipato, daremo conto in modo molto sintetico. Analizzando la prima sezione abbiamo per lo più trascurato i continui riferimenti al tema dell'autenticità come modo "più radicale" o "più proprio" in cui l'Esserci potrebbe o dovrebbe progettare le possibilità della sua esistenza. Di fatto, osservavamo, non si comprende a quale genere di esistenza questa progettazione più autentica dovrebbe condurre né soprattutto in che cosa essa si distinguerebbe dalla medietà dell'esistenza quotidiana, correlativamente definita inautentica. Anche la cosiddetta "deiezione", con le sue chiacchiere, le sue curiosità e i suoi equivoci costituisce infatti un modo di progettarsi da parte dell'Esserci, un modo, assolutamente legittimo, di interpretarsi a partire dalla propria gettatezza. Anzi, è proprio da qui che Heidegger parte e non ha potuto che partire, da quel complesso di saperi e di termini linguistici pubblici, comuni, indefinitamente praticati da tutti che non esistono perché li ha inventati la "gente comune", ma perché costituiscono l'eredità storica, la provenienza o l'orizzonte di comprensione a partire da cui nella nostra epoca si interpretano gli enti e gli eventi del mondo. In cosa consisterebbe quindi l'inautenticità di questo progetto? Heidegger cercherà di spiegarlo nella seconda sezione di Essere e tempo, dove vengono indicate tonalità emotive (come l'an-goscia) e possibilità di progetto (come la decisione anticipatrice della morte) che aprirebbero la possibilità di un'esistenza autentica (o più autentica).
È qui appena il caso di ricordare il tragico equivoco in cui Heidegger incorse negli anni successivi alla pubblicazione di Essere e tempo. La sua decisione di aderire al nazismo fu per esempio una decisione anticipatrice della morte generata dall'angoscia del nulla. Ma invece di risolversi nella "possibilizzazione delle possibilità più proprie" e dare luogo a "nuova vita", questa decisione fece da angoscioso preludio alla morte civile sua e a quella effettiva di milioni di altri Esserci. Dopo questa drammatica svolta, Heidegger volle prendere le distanze da Essere e tempo e concepì una specie di amara avversione nei confronti di quest'opera. Tutta la sua produzione successiva fu come un lungo e reiterato tentativo di rimediare all'errore di Essere e tempo o, più profondamente, di riconoscere in quell'errore l'esperienza della propria verità, del suo modo di essere stato aperto al manifestarsi del mondo. Vediamo allora in che modo Heidegger sviluppa la problematica esistenzialistica dell'angoscia e dell'essere-per-la-morte.
La differenza tra la noia e l'angoscia
Nell'ultimo paragrafo della prima sezione di Essere e tempo, Heidegger aveva sinteticamente caratterizzato l'intera struttura dell'essere-nel-mondo da parte dell'Esserci come Cura (Sorge), nel duplice senso del "prendersi cura" che già sempre commercia con gli enti (Besorge) e dell"'aver cura" del commercio con gli enti e con noi stessi che esercitano gli altri (Fürsorge). Continuamente pre-occupati da ciò che quotidianamente occupa l'orizzonte della nostra esistenza, dal nostro incessante progettare la gettatezza in cui già sempre ci troviamo ad essere, non abbiamo modo di trovarci al cospetto di questa nostra condizione. A partire dalle due particolari tonalità emotive della noia profonda e della profonda gioia, siamo bensì aperti alla comprensione della totalità dei significati (cioè della mondità) che abitualmente ci limitiamo a pre-comprendere, ad esperire in presa diretta nell'urgenza della cura, nelle molteplici prassi interpretative che riempiono le nostre giornate. Può allora accadere che "tutto" o "il tutto" ci venga a noia o ci procuri al contrario l'intensa gioia di esserne parte, di vivere la vita stessa del tutto. Quando invece ci prende l'angoscia avviene esattamente il contrario: questo stesso tutto, la totalità delle cose, delle persone, dei significati e dei valori che costituiscono il nostro mondo prendono ad allontanarsi e come a staccarsi da noi, rivelano la nullità del fondamento su cui stanno sospese tutte le nostre prassi, il nostro quotidiano affannarci in mille piccole cure. Ed è in questo abissale smarrimento, è in questo non sentirsi più fondati (o a casa o in patria) in nessun luogo e in nessun contesto che affiora l'esperienza del nulla. Ciò presso cui eravamo già sempre familiari mostra la propria radicale estraneità e l'ignoranza del donde e verso dove che costituisce la tonalità emotiva fondamentale della nostra esistenza diviene assoluta.
La morte come possibilità più propria dell'Esserci
Questa esperienza di sospensione, questo viversi come pura possibilità irrealizzata, come pura tensione tra un'origine e una destinazione ugualmente ignote costituisce la natura autentica dell'Esserci in quanto poter-essere. Ora, invece di lasciare questa fondamentale scoperta affidata al sentimento occasionale ed effimero dell'angoscia, è possibile renderla tematica (o sistematica) attraverso una considerazione della morte che sia coerente con il carattere di apertura proprio dell'Esserci. Invece di riferirsi alla morte come un fatto che "capita" a tutti, come una semplice possibilità che si aggiunge o viene "dopo" quelle che ci offre la vita, occorre guardarla come la possibilità più propria (e quindi più autentica) dell'Esserci. La possibilità di morire non può infatti essere realizzata o inserita nell'apertura dell'Esserci come avviene per tutte le altre possibilità. Quando ciò avviene (e può avvenire in ogni momento) dell'Esserci non ne è più nulla e tutte le possibilità che gli si offrivano svaniscono per sempre.
Heidegger definisce perciò la morte come la possibilità che rende impossibile ogni altra possibilità, ovvero come la possibilità che non concerne questa o quella direzione in cui abitualmente progettiamo il nostro essere, ma questo progettare stesso, l'apertura stessa del nostro più proprio Esser-ci. In questo senso la morte si dà a vedere non come un semplice fatto che capita a un ente, ma come la possibilità più propria dell'Esserci, come ciò che ad ogni istante può irrompere nell'apertura dell'Esser-ci. Considerate alla luce di questa possibilità estrema e tuttavia sempre possibile, le possibilità per le quali quotidianamente ci risolviamo, le cose, le faccende e le persone che abitualmente interpretiamo come realtà certe e alle quali dedichiamo tutte le nostre cure rivelano il proprio carattere effimero e contingente, si mostrano cioè esse stesse come pure possibilità. Questa abitudine di guardare dal punto di vista della morte le cure in cui solitamente disperdiamo la nostra esistenza viene definita da Heidegger decisione anticipatrice della morte, decisione che continuamente richiama l'Esserci alla consapevolezza della propria finitudine e lo dispone più autenticamente come essere-per-la-morte.
Il senso autentico dell'Esserci come temporalità
Invece di lasciarsi vivere istante dopo istante affidando alle" cose esterne" o agli altri il compito di occupare la propria esistenza, l'Esserci che si progetta come essere-per-la-morte decide di vivere ogni istante come se fosse il solo e l'ultimo, si tiene aperto nelle proprie scelte a ogni futura evenienza, senza perdersi o irrigidirsi in una scelta particolare, in un modo sempre identico di progettare la propria esistenza. In questo modo l'Esserci si appropria (o si riappropria) sempre di nuovo dell'orizzonte di possibilità che originariamente lo costituiscono e progetta se stesso in modo coerente con questo orizzonte. È così aperta la strada per individuare il senso autentico dell'Esserci (cioè il modo in cui esso autenticamente ci è) nella temporalità storica, nel suo provenire da un certo passato che, rivissuto nel presente, apre l'orizzonte delle possibilità future. Vivere in modo autentico viene a significare non disperdersi nelle cure esclusive del presente (come il don Giovanni di Kierkegaard), ma decidersi nel presente secondo le possibilità che il passato offre o apre al futuro. Interpretandosi alla luce di questa continuità l'Esserci non vive più la propria costitutiva finitudine come un limite negativo, ma come la sola possibilità che ad esso sia data di comprendersi come un tutto.