Il Cratilo è un’opera del secondo periodo di Platone. In esso è trattato il problema del linguaggio, o meglio, della correttezza dei nomi. Protagonisti del dialogo, sono Socrate, Ermogene e Cratilo.
Ermogene simboleggia la concezione sofistica del linguaggio: per i Sofisti, a partire da Protagora, se “l’uomo è misura di tutte le cose”, ogni tipo di nome si adatta a seconda delle condizioni poste dall’uso. Il termine "cavallo" è puramente convenzionale; non c’è nulla in comune tra la parola cavallo ed il cavallo, tuttavia l’uso comune ha permesso quest’accettazione e si reputa corretto dire che quell'animale è un cavallo. Tuttavia ugualmente bene andrebbe il termine "scoiattolo" o il termine "cicala" giacché non sussiste nessuna somiglianza tra nome e cosa nominata.
Cratilo simboleggia invece la concezione naturalistica del linguaggio: esiste un’assoluta identità tra nome e cosa nominata. Il nome è vero sempre, perché racchiude in sé la stessa natura che pervade la cosa nominata. Ogni nome è indizio di conoscenza, di una conoscenza meravigliosa, divina, quasi sacrale. Il nome è giusto perché i primi a nominare le cose furono gli dei che, essendo perfetti, assegnarono nomi perfetti alle cose. Non esistono dunque nomi sbagliati; esistono nomi e non-nomi.
Cratilo ed Ermogene, che stanno ragionando sulla natura delle parole, chiedono a Socrate, sopraggiunto in quel mentre, di partecipare alla loro discussione. Ermogene enuncia la tesi di Cratilo, secondo la quale i nomi sono naturalmente simili alle cose nominate e perciò sempre veri; quindi espone il suo punto di vista: i nomi sono per convenzione e non per natura. Socrate pone le sue obiezioni a tale concezione: la convenzione porterebbe alla nascita di tanti linguaggi privati reciprocamente incomprensibili. Inoltre, come i discorsi sono veri o falsi, così debbono esserlo anche le loro parti, i nomi. Se il relativismo protagoreo fosse vero, non vi sarebbe più alcun criterio con cui distinguere le cose; ma esse possiedono invece una loro stabile natura ed anche le azioni sono di tal fatta. Il denominare è appunto un'azione e nel dare i nomi alle cose si deve guardare a come queste vogliono esser chiamate.
Lo strumento con cui noi distinguiamo la realtà e diffondiamo la conoscenza è il nome, che è opera del nomoteta; quest'ultimo lavora guardando il modello dell'oggetto da nominare, mentre sta al dialettico, che sa interrogare e rispondere, giudicare l'opera del nomoteta. I nomi sono dunque per natura; Ermogene a questo punto domanda a Socrate, che ha condotto l'intero dialogo, che cosa precisamente sia la naturale correttezza dei nomi.
Socrate propone di compiere l'indagine consultando Omero ed i poeti: sono così analizzati alcuni casi di nominazione presenti nei poemi omerici. Vengono poi presi in esame i nomi della tradizione mitologica, religiosa e culturale della Grecia, innanzi tutto quelli della genealogia di Oreste. Ma è più conveniente all'analisi considerare i nomi di quelle cose che sono sempre allo stesso modo, onde fondarla su di una stabile base. Si inizia lo studio dei nomi delle divinità, ma subito si apre un'ampia digressione su alcuni importanti termini quali «dio», «demone», «eroe», «uomo», «anima», «corpo», quindi si ritorna ai nomi degli dei. Si conclude l'analisi dei nomi degli dei e si passa a quella dei nomi dei fenomeni naturali (XXIV-XXV). Si sviluppa lungamente lo studio dei nomi delle nozioni morali ed infine si prendono in considerazione dei termini attinenti alla sfera intellettuale quali «nome», «verità», «ente», «essenza». Ma se fino ad ora sono stati considerati i nomi composti, è tempo ormai di passare ai nomi semplici da cui i primi derivano: essi pure abbisognano infatti di spiegazione. Tali nomi primitivi richiamano le cose imitandole, ma non come fanno la musica e la pittura: è l'essenza che devono imitare mediante lettere e sillabe. Vanno allora individuati innanzitutto gli elementi della lingua (vocali, mute, semivocali), quindi i composti che risultano; con le lettere e le sillabe si formano infatti nomi e predicati e con questi i discorsi. Si analizzano alcuni suoni che compongono i nomi primitivi, fino a che Cratilo finalmente interviene affermando di concordare in pieno con Socrate tranne che sull'esistenza di nomi falsi; Socrate ribadisce che il nome può essere rappresentazione infedele della cosa e che in ogni caso non può e non deve esserne un doppio. Si riprende l'analisi dei suoni; Cratilo introduce il concetto di uso ed abitudine per spiegare il funzionamento della lingua, così che si ritorna al convenzionalismo, che lo stesso Socrate è obbligato a riconoscere, sia pure in misura limitata.
Cratilo asserisce che solo conoscendo i nomi si possono conoscere le cose, ma Socrate prontamente obietta che il nomoteta, nel porre i nomi, poteva essere guidato da idee erronee sulle cose, come testimonia il fatto che taluni sembrano indicare sia moto, sia quiete; ed inoltre, se solo i nomi forniscono conoscenza, come poteva il nomoteta possedere delle conoscenze intorno alla realtà, non possedendo egli ancora i nomi? Anche quelle sul linguaggio non fanno eccezione. La questione mostra un interesse particolare nella formulazione platonica perché ci riporta al tema politico che si agita sotto le più complesse indagini teoriche in contrapposizione ai Sofisti e al loro relativismo:
SO.: Allora, torniamo alla tesi, (438a) che chi ha dato i nomi doveva conoscere le cose cui li assegnava. CRAT.: Si. SO.: Ciò anche per i primi nomi? CRAT.: Si. SO.: Ma con quali nomi avrà imparato o trovato (b) le cose, se i primi non erano ancora stati dati? perché, come abbiamo detto, è possibile imparare e scoprire le cose solo imparando o trovando i nomi. CRAT.: Questa mi pare una cosa di rilievo, Socrate. SO.: Certo: quale conoscenza potevano avere per stabilire i nomi e fare i legislatori, prima che alcun nome fosse stato dato ed essi lo conoscessero, se imparare le cose non si può se non attraverso i nomi? (c)
Più volte Platone fa riferimento alla figura del legislatore e a quella del dialettico. La figura del legislatore è la figura di colui che per primo adoperò i nomi per riferirsi alle cose. Socrate/Platone utilizza il termine legislatore in senso molto ampio, intendendolo sia come uomo sia come divinità, secondo la concezione naturalistica di Cratilo. Tuttavia si è visto come Platone alla fine dubiti della infallibilità del legislatore, poiché egli ha assegnato anche nomi errati. La figura del dialettico rappresenta invece la nuova concezione del linguaggio elaborata da Platone. Secondo Cratilo non esiste altra conoscenza al di fuori del nome. Platone invece è convinto che la vera conoscenza sia al di là del nome, nell’essenza stessa delle cose. Se il legislatore è colui che crea i nomi sulla sua opinione riferendosi alla natura delle cose, il dialettico conosce la natura delle cose in maniera approfondita e, di conseguenza, sa quale nome attribuire ad ognuna di queste cose. Tale nome sarà per forza corretto.
Socrate, dunque, conduce Cratilo ad ammettere che i nomi sono strumenti di comunicazione in quanto sono stati dati rispecchiando la verità delle cose: ammissione cui era stato condotto anche Ermogene. Questa quindi è la tesi cui il dialogo conduce, in opposizione al convenzionalismo di Ermogene e all'arbitrarismo di Cratilo.
SO.: Ma se c'è discordia tra i nomi, e sia gli uni che gli altri pretendono di essere veri, con che criterio potremo decidere? Certo, non con altri nomi; anzi, è qualcosa fuori dei nomi che ce ne deve manifestare la verità. (e) CRAT.: Pare anche a me. SO.: A quanto pare, allora, è possibile imparare le cose senza i nomi. CRAT.: Pare. SO.: E in che modo sarà possibile impararle, se non studiandole in sè e nei loro rapporti, per vedere quali sono dello stesso genere e quali no? CRAT.: Mi pare tu dica giusto, Socrate. (439a) SO.: Però abbiamo anche detto più volte che i nomi ben assegnati sono simili alle cose cui si riferiscono, immagini di esse. CRAT.: Sì. SO.: Allora, se è possibile imparare le cose soprattutto attraverso i nomi, ma anche attraverso esse stesse, quale sarà migliore e più chiaro? Imparare sia l'immagine, se è adeguata, sia la verità, (b) a partire dall'immagine o a partire dalla verità? CRAT.: A partire dalla verità, mi sembra necessario. SO.: In che modo si debbano imparare o trovare le cose, va forse molto al di là delle mie e delle tue capacità. Possiamo però rallegrarci di aver convenuto che le cose vanno imparate e cercate a partire da se stesse, molto più che dai nomi. CRAT.: È chiaro, Socrate
I nomi in definitiva, risultano uno strumento secondario e derivato di conoscenza (e di comunicazione della conoscenza): la conoscenza si fonda in modo primario e fondamentale sul rapporto diretto della ragione con le cose. In tal modo, Platone respinge la possibilità di considerare come ambito della verità il linguaggio (posizione che era propria della sofistica), e fonda la verità sull'ontologia.
Si passa alla confutazione dell'eraclitismo latente nei nomi che indicano movimento ed all'affermazione che solo l'esistenza di realtà stabili rende possibile la conoscenza; se infatti tutto divenisse, nulla potrebbe essere adeguatamente nominato e conosciuto:
SO.: Allora, (c) per non ingannarci sui nomi, vediamo questo: quelli che li hanno assegnati, pensavano che tutto si muova e scorra sempre, come a me sembra, o questo pensiero è come un vortice che tutto trascina? Esamina, Cratilo mio, quello che spesso io sogno: diremo che sono qualcosa il bello e il bene in sè, e così per ciascuno degli esseri, o no? (d) CRAT.: Mi sembra di sì, Socrate. SO.: E allora, un volto bello o altra cosa bella, tutto sembra scorrere; il bello in sè, invece, diremo che è sempre qual è? CRAT.: Necessariamente. SO.: E se ci sfugge sempre, potremo dire innanzitutto che è, e poi come è, o, nel momento stesso in cui ne parliamo, inevitabilmente diventerà un altro, si sottrarrà e non sarà più così? CRAT.: Inevitabile. (e) SO.: E allora, come potrà essere qualcosa ciò che non è mai allo stesso modo? O essere qualcosa senza arrestarsi e così perdere la propria forma? CRAT.: Impossibile. SO.: Non potrebbe nemmeno essere conosciuto. (440a) Nel momento che lo si accostasse, infatti, diverrebbe altro e diverso, e non potrebbe più essere conosciuto per quello che è. Nessuna conoscenza infatti coglie il suo oggetto se non sta fermo. CRAT.: È così. SO.: E se tutti gli esseri mutano e nulla permane, non avrebbe senso nemmeno parlare di conoscenza, (b) perché anch'essa muterebbe e non sarebbe più tale. Anzi non vi sarebbe né oggetto né soggetto della conoscenza. Se invece questi esistono, ed esistono il bello, il bene e gli altri esseri del genere, non mi pare (c) saranno simili a un flusso o a un movimento. Certo, non è facile decidere se le cose stanno così o come dicono Eraclito e i suoi seguaci. Penso però che non sia assennato riporre fiducia nei nomi e in quelli che li hanno stabiliti, e poi disprezzare se stessi e le cose, come se non vi fosse in essi nulla di sano, ma fossero in balia dello scorrere e del fluire.
Presupposto dell'ontologia su cui si fonda la verità, è per Platone il rifiuto della tesi di Eraclito (di cui Cratilo era seguace, ma a cui secondo Platone si rifaceva anche Protagora) che la realtà è divenire: se nelle cose non esistono forme stabili, non è possibile conoscenza valida, e nemmeno linguaggio significativo. Per convalidare questa posizione, tuttavia, Platone doveva chiarire il rapporto di queste forme (le idee) con le cose e tra di loro: per questo forse la teoria delle idee è qui presentata come "un sogno". I problemi qui accennati saranno affrontati da Platone nel Parmenide e nel Sofista. Tale esame intorno alla realtà andrebbe approfondito, ma Cratilo rinuncia a proseguire la discussione.