Posta ogni cosa in Dio Paneloux da la massima testimonianza di quella fede presagita nell’ultima predica che, ormai, si impone come suo testamento spirituale. Mentre padre Paneloux muore gli abitanti si chiudono nelle case. La città sembra ormai rassegnata al disastro. Gli stessi Rieux e Tarrou sembrano aver perso le speranze: tra i due nasce una profonda amicizia e decidono per un attimo di staccarsi dalla realtà, concedendosi, una notte, un bagno in mare.
Il momento di pausa è preparato da un intenso dialogo tra i due, nel IV capitolo, che prende spunto dal racconto della vita di Tarrou. Nella sua storia emerge anche il profondo significato metafisico del romanzo: siamo tutti appestati, dice Tarrou, e ne ricava importanti conseguenze per la sua visione del mondo, così centrale nell’economia del romanzo, dove questa ammissione simboleggia la stessa condizione umana. Importante soprattutto la condizione di vittima e carnefice che sfuma i ruoli e lontano dall’indifferenza de Lo straniero apre uno squarcio profondo anche sul presente storico del romanzo, nell’immediato dopoguerra, dove anche la rivoluzione e la sua utopica promessa di superamento del male deve invece fare i conti con la concreta tragica realtà dell’uomo.
"Ho insistito molto su questo inizio perché fu, effettivamente, l'inizio di tutto. Sarò più rapido ora. Ho conosciuto la povertà a diciott'anni, uscendo dall'agiatezza; ho fatto mille mestieri per guadagnarmi la vita, e non mi è riuscito troppo male. Ma quello che mi interessava, era la condanna a morte; volevo regolare un conto col gufo rosso. Di conseguenza, ho fatto della politica, come si dice. Non volevo essere un appestato, insomma. Ho creduto che la società in cui vivevo fosse fondata sulla condanna a morte e che, combattendola, avrei combattuto l'assassinio. Io l’ho creduto, altri me lo hanno detto e, infine, è vero in gran parte. Mi sono quindi messo con gli altri che amavo, e che non ho cessato di amare. Ci sono rimasto a lungo e non vi è paese in Europa alle cui lotte non abbia partecipato. Andiamo avanti.
"Beninteso, sapevo che anche noi, all'occasione, pronunciamo condanne; ma mi dicevano che quei pochi morti erano necessari per portare a un mondo in cui non si sarebbe più ucciso nessuno. Era vero, in un certo modo, e, dopo tutto, forse io non sono capace di fermarmi su questo genere di verità. Di ben sicuro, so che esitavo. Ma pensavo al gufo, e potevo continuare. Sino al giorno in cui ho veduto un'esecuzione (era in Ungheria) e la stessa vertigine che aveva colto il ragazzo che io ero oscurò i miei occhi d'uomo.
"Lei non ha mai veduto fucilare un uomo? No certo; sono cose che si fanno generalmente su invito, e il pubblico è scelto prima. Il risultato è che lei è rimasto alle stampe ai libri: una benda, un palo e a distanza alcuni soldati: Ebbene, no! Lei sa che il plotone d'esecuzione si mette invece a un metro e mezzo dal condannato? Sa che se il condannato facesse due passi avanti urterebbe col petto nei fucili? Sa che a questa distanza gli sparatori concentrano il tiro sulla regione del cuore e che tutti, coi grossi proiettili, fanno un buco dove si potrebbe mettere n pugno? No, lei non lo sa: sono particolari di cui non si parla. Il sonno degli uomini è più sacro che la vita per gli appestati; non si deve impedire alla brava gente di dormire. Ci vorrebbe del cattivo gusto, ci il buon gusto consiste nel non insistere, è cosa che tutti sanno. Ma da allora io non ho potuto dormire bene. Il cattivo gusto mi è rimasto In bocca e io non ho cessato d'insistere ossia di pensarvi.
"Ho capito allora che io, almeno, non avevo finito di essere un appestato durante i lunghi anni in cui, tuttavia, con tutta la mia anima, credevo appunto di lottare contro la peste. Ho saputo di aver indirettamente firmato la morte di migliaia d'uomini, che avevo persino provocato tale morte, trovando buoni i princìpi e le azioni che l'avevano fatalmente determinata. Gli altri non ne sembravano urtati, o almeno non ne parlavano mai spontaneamente. Io avevo un nodo alla gola. Ero con loro, eppure ero solo. Quando mi. capitava di esprimere, i miei scrupoli, mi dicevano che bisognava riflettere a quanto era in gioco e mi davano ragioni sovente impressionanti, per farmi mandar giù quello che non riuscivo a inghiottire. Ma io rispondevo che i grandi appestati, coloro che mettono le toghe rosse, anche essi hanno eccellenti ragioni in quei casi, e che se ammettevo le cause di forza maggiore e le necessità invocate dai piccoli appestati non avrei potuto respingere quelle dei grandi. Mi facevano notare che la maniera buona di dar ragione alle toghe rosse era di lasciargli l'esclusività della condanna. Ma io mi dicevo allora che se si cedeva una volta, non c'era ragione di fermarsi. Mi sembra che la storia mi abbia dato ragione, oggi si fa a chi uccide di più. Sono tutti nel furore del delitto, e non possono fare altrimenti.
"La faccenda mia, in ogni caso, non era il ragionamento; era il gufo rosso, quella sudicia avventura in cui sudice bocche appestate annunciavano a un uomo in catene che doveva morire e regolavano tutte le cose per farlo morire, infatti, dopo notti e notti d'agonia durante le quali egli si aspettava di essere assassinato a occhi aperti. La faccenda mia era il buco nel petto. E mi dicevo che aspettando, e almeno da parte mia, mi sarei rifiutato di dar mai una sola ragione, una sola, lei capisce, a quella disgustosa macelleria. Sì, ho scelto quest'accecamento ostinato in attesa di vederci più chiaro.
"Poi, non ho cambiato. Da tanto tempo ho vergogna, vergogna da morirne, di essere stato, sebbene da lontano, sebbene in buona fede, anch'io un assassino. Col tempo, mi sono semplicemente accorto che anche quelli che erano migliori di altri non potevano, oggi, fare a meno di uccidere o di lasciar uccidere: era nella logica in cui vivevano e noi non possiamo fare un gesto in questo mondo senza correre il rischio di far morire. Sì, ho continuato ad aver vergogna, e ho capito questo, che tutti eravamo nella peste; e ho perduto la pace. Ancor oggi la cerco, tentando di capirli tutti e di non essere il nemico mortale di nessuno. So soltanto che bisogna fare quello che occorre per non esser più un appestato, e che questo soltanto ci può far sperare nella pace o, al suo posto, In una buona morte. Questo può dar sollievo agli uomini e, se non salvarli, almeno fargli il minor male possibile e persino, talvolta, un po' di bene. E per questo ho deciso di rifiutare tutto quello che, da vicino o da lontano, per buone o per cattive ragioni, faccia morire o giustifichi che si faccia morire.
"Per questo, inoltre, l'epidemia non m'insegna nulla, se non che bisogna combatterla al suo fianco, Rieux. Io so di scienza certa (tutto so, della vita, lei lo vede bene) che ciascuno la porta in sé, la peste, e che nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune. E che bisogna sorvegliarsi senza tregua per non essere spinti, in un minuto di distrazione, a respirare sulla faccia d'un altro e a trasmettergli il contagio. Il microbo, è cosa naturale. Il resto, la salute, l'integrità, la purezza, se lei vuole, sono un effetto della volontà e d'una volontà che non si deve mai fermare. L'uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazioni il meno possibile. E ce ne vuole di volontà e di tensione per non essere mai distratti; sì, Rieux, essere appestati è molto faticoso; ma è ancora più faticoso non volerlo essere. Per questo tutti appaiono stanchi: tutti, oggi, si trovano un po' appestati. Ma per questo alcuni che vogliono finire di esserlo, conoscono un culmine di stanchezza, di cui niente li libererà, se non la morte.
"Di qui, so che io non valgo più nulla per questo mondo in se stesso, e che dal momento in cui ho rinunciato a uccidere mi sono condannato a un definitivo esilio. Saranno gli altri a fare la storia. So, inoltre, che non posso apparentemente giudicare questi altri; mi manca una qualità per essere un assassino ragionevole; non è quindi una superiorità. Ma ora, acconsento a essere quel che sono, ho imparato la modestia. Dico soltanto che ci sono sulla terra flagelli e vittime, e che bisogna, per quanto è possibile, rifiutarsi di essere col flagello. Questo le sembrerà forse un po' semplice, e io non so se è semplice, ma so che è vero. Ho sentito tanti ragionamenti da farmi girar la testa, e che hanno fatto girare abbastanza altre teste da farle consentire all'assassinio, che ho capito come tutte le disgrazie degli uomini derivino dal non tenere un linguaggio chiaro. Allora ho preso il partito di parlare e di agire chiaramente, per mettermi sulla buona strada. Di conseguenza, dico che ci sono flagelli e vittime, e nient'altro. Se, dicendo questo, divento flagello io stesso, almeno non lo è col mio consenso. Cerco di essere un assassino innocente; lei vede che non è una grande ambizione.
"Bisognerebbe di certo che ci fosse una terza categoria, quella dei veri medici, ma è un fatto che non se ne trovano molti, dev'essere difficile. Per questo ho deciso di mettermi dalla parte delle vittime, in ogni occasione, per limitare il male. In mezzo a loro, posso almeno cercare come si giunga alla terza categoria, ossia alla pace."
Terminando Tarrou faceva oscillare una gamba, cosicché il piede batteva piano contro la terrazza. Dopo un silenzio, il dottore, sollevandosi un poco, domando se Tarrou avesse una idea della strada da prendere per arrivare alla pace. "Sì, la simpatia."
Due campanelle d'ambulanza risuonarono lontano. Le esclamazioni, confuse poco prima, si unirono ai confini della città, presso la collina rocciosa. Nello stesso tempo si udì qualcosa che somigliava a una detonazione; poi tornò il silenzio, Rieux contò due ammicchi del faro. La brezza sembrò rinvigorirsi, e insieme un soffio venuto dal mare portò un odor di salso, ora si sentiva distintamente la sorda respirazione delle onde contro la scogliera.
"Insomma," disse Tarrou con semplicità, quello che m'interessa è sapere come si diventa un santo."
"Ma lei non crede in Dio."
"Appunto: se si può essere un santo senza Dio, è il solo problema concreto che io oggi conosca. "
Improvvisamente un grande bagliore nacque nella parte da cui erano venuti i gridi, e risalendo il fiume del vento un oscuro clamore giunse sino ai due uomini. Il bagliore subito si oscurò, e lontano, all'orlo delle terrazze, non restò che una macchia rosseggiante. In una pausa del vento si sentirono distintamente gridi d'uomini, poi lo strepito d'una scarica e il rumore d'una folla. Tarrou si era alzato e ascoltava; non si sentiva più nulla.
"Si sono ancora scontrati alle porte." "Adesso è finito," disse Rieux.
Tarrou mormorò che non era mai finito e che ci sarebbero state altre vittime: era la regola.
"Forse," rispose il dottore. "Ma lei sa, io mi sento più solidale coi vinti che coi santi. Non ho inclinazione, credo, per l'eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo m'interessa."
"Sì, noi cerchiamo la stessa cosa, ma io sono meno ambizioso."
Rieux pensò che Tarrou scherzasse, e lo guardò. Ma nel vago bagliore che veniva dal cielo egli vide un volto triste e serio. Il vento si levava di nuovo, e Rieux lo sentì tiepido sulla pelle. Tarrou si scosse:
"Sa cosa dovremmo fare per l'amicizia?" disse. "Quello che lei vuole," disse Rieux.
"Un bagno in mare; anche per un futuro santo, è un degno piacere."
Rieux sorrideva.
"Coi nostri lasciapassare, possiamo andare sul molo. Insomma, è troppo stupido non vivere che nella peste. Beninteso, un uomo deve battersi per le vittime. Ma se ha finito di amare ogni altra cosa, a cosa serve che si batta?"
"Sì" disse Rieux, "andiamo."
Poco dopo l'automobile si fermava presso i cancelli del porto. Si era levata la luna, un cielo lattiginoso proiettava pallide ombre dappertutto. Dietro di loro digradava la città, e ne veniva un soffio caldo e malato a sospingerli verso il mare. [...]
Davanti a loro la notte era senza limiti. Rieux che si sentiva sotto le dita la faccia butterata degli scogli, era pieno d'una strana gioia. Rivolto verso Tarrou, egli indovinò sul viso calmo e grave dell’amico la stessa gioia che non dimenticava nulla, neanche l’assassinio.
Anche la condivisione di un momento di ristoro può diventare un’esperienza forte di quel bisogno dell’altro particolarmente accentuato ed insistito nel corso dell’opera. Là dove ne Lo straniero Meursault poteva guardare con distacco anche Maria, la donna che lo amava, qui emerge il tono accorato e nostalgico del distacco e della separazione. La separazione accompagna lo stesso Rieux per tutto il romanzo sino a diventare definitiva con la morte della moglie lontana. Così come diventa il motivo dominante in Rambert, il giornalista francese, che solo dopo diverso tempo ne comprende il valore e lo mette in relazione all'esilio di tutti:
"Vorrei parlarle", disse Rambert.
"Usciremo insieme, se vuole. Mi aspetti nell'ufficio di Tarrou."
Un momento dopo, Rambert e Rieux sedettero dietro. nell'automobile del dottore; Tarrou guidava.
"Sta per mancare la benzina," disse questi avviando. "da domani si va a piedi."
"Dottore," disse Rambert, "io non parto e voglio restare con voi."
Tarrou non si mosse, continuava a guidare. Rieux sembrava incapace di emergere dalla sua stanchezza.
"E la sua donna?" disse con voce sorda.
Rambert disse che aveva ancora riflettuto, che continuava a credere in quello che credeva, ma che se fosse partito ne avrebbe avuto vergogna; e questo avrebbe guastato il suo amore per colei che aveva lasciato. Ma Rieux, raddrizzandosi, disse con voce ferma che la cosa era stupida e che non c'era vergogna nel preferire la felicità.
"Sì," disse Rambert, "ma ci può essere vergogna nell’esser felici da soli."
Tarrou, che sino ad allora aveva taciuto, senza voltar la testa verso di loro fece notare che se Rambert voleva condividere le sventure degli uomini non avrebbe mai più avuto tempo per la felicità. Bisognava scegliere.
"Non è questo," disse Rambert. "Ho sempre pensato di esser estraneo a questa città e di non aver nulla a che fare con voi. Ma adesso che ho veduto quello che ho veduto, so che io sono di qui, che io lo voglia o no. Questa storia riguarda tutti."
Nessuno rispose, e Rambert sembrò spazientito. "D'altronde, voi lo sapete bene. Se no, che ci fareste nell'ospedale? Avete scelto, voi, e rinunciato alla felicità?"
Né Tarrou né Rieux ancora risposero. Il silenzio durò a lungo, sino a che furono nei pressi della casa del dottore. E Rambert, di nuovo, pose la sua ultima domanda, con più forza ancora. E il solo Rieux si voltò verso di lui, sollevandosi a fatica:
"Mi scusi, Rambert," disse, "ma io non lo so. Resti con noi, se lo desidera."
Uno scarto dell'automobile lo fece tacere. Poi riprese guardando davanti a sé:
"Nulla al mondo vale che ci distolga da quello che si ama. E tuttavia me ne distolgo anch'io, senza poterne sapere la causa."
Si lasciò cadere sui cuscini.
"È un fatto, ecco tutto," disse con stanchezza. "Registriamolo e ricaviamone le conseguenze."
"Quali conseguenze?" domandò Rambert.
"Non posso nello stesso tempo guarire e sapere!" disse Rieux. "E allora guariamo il più presto possibile: è la cosa che più importa."
Ma è un tema reiterato nella condizione degli appestati di Orano che offre uno sguardo nuovo alla poetica di Camus. Lontani gli echi de Lo straniero, ma anche quelli del Mito di Sisifo, dove l’indifferenza verso l’altro e la chiusura in un solipsistico fatalismo impedivano la declinazione degli affetti e dell’amore, qui il tema della separazione e della sofferenza negli affetti resta un motivo di fondo, come spiega il secondo capitolo:
La prima cosa che la peste recò ai nostri concittadini fu, insomma, l'esilio; e il narratore è persuaso di poter scrivere qui, a nome di tutti, quello che lui stesso ha provato allora, avendolo provato contemporaneamente a molti dei nostri concittadini. Ben era il sentimento dell'esilio quel vuoto che portavamo costantemente in noi, quella precisa emozione, il desiderio irragionevole di tornare indietro o invece di affrettare il cammino del tempo, queste due ardenti frecce della memoria. Se talvolta ci si lasciava andare alla fantasia e ci s'illudeva di aspettare la scampanellata del ritorno o un passo familiare per le scale, se, in quei momenti, si era d'accordo nel dimenticare che i treni erano immobili, se ci si disponeva allora a restare in casa nell'ora in cui, normalmente, un viaggiatore portato dal diretto della sera poteva giungere nel nostro quartiere, tali giochi, beninteso, non potevano durare. Veniva sempre il momento in cui ci si accorgeva chiaramente che i treni non arrivavano; sapevamo allora che la nostra separazione era destinata a durare e che dovevamo cercare di venire a patti col tempo. Da allora, insomma, ci si reintegrava nella nostra condizione di prigionieri, eravamo ridotti al nostro passato; e se anche alcuni di noi avevano la tentazione di vivere nel futuro, vi rinunciavano rapidamente, almeno per quanto gli era possibile, provando le ferite che la fantasia finisce con l'infliggere a coloro che hanno fiducia in lei.
In particolare, tutti i nostri concittadini si privarono assai presto, anche in pubblico, dell'abitudine, che avevano potuto prendere, di calcolare la durata della loro separazione. Perché? Gli è che se i più pessimisti l'avevano stabilita, a esempio, di sei mesi, quando avevano esaurito in anticipo tutta l'amarezza dei mesi futuri, sollevato il loro coraggio a livello di tale prova, teso le loro ultime forze per rimanere senza indebolirsi all'altezza d'un patimento prolungato per tanti giorni, allora, talvolta, un amico incontrato, un articolo del giornale, un sospetto fuggevole o una brusca chiaroveggenza gli dava l'idea che, dopo tutto, non c'era ragione che la malattia non durasse più di sei mesi, e forse un anno, o ancora di più.
In quel momento l’inabissarsi del loro coraggio, della loro volontà e della loro pazienza era così brusco che gli sembrava di non poter mai più risalire la china. Di conseguenza, si costringevano a non pensar mai al giorno della loro liberazione, a non rivolgersi più verso il futuro e a tener sempre, diremmo, gli occhi bassi. Ma naturalmente una tale prudenza, un tal modo di barare col dolore, di rinchiudere le sentinelle per rifiutar battaglia, erano mal ricompensati. Nello stesso tempo che evitavano quell'inabissarsi, di cui a nessun costo volevano saperne, si privavano poi di quei minuti, nel complesso frequenti, in cui potevano dimenticare la peste nelle immagini del futuro ricongiungimento. E di qui, incagliati a mezza via tra gli abissi e le cime, ondeggiavano più che non vivessero, abbandonati a giorni senza direzione e a sterili ricordi, ombre erranti che non avrebbero potuto prender forza che accettando di radicarsi nella terra del loro dolore.
Provavano quindi la profonda sofferenza di tutti i prigionieri e di tutti gli esiliati, che è vivere con una memoria che non serve a nulla. Quello stesso passato su cui riflettevano senza tregua non aveva che un sapore di rammarico. Avrebbero voluto, infatti, potervi aggiungere tutto quello che deploravano di non aver fatto quando potevano ancora farlo con colui o colei che aspettavano; nello stesso modo, a tutte le circostanze, anche relativamente felici, della loro vita di prigionieri, essi univano l'assente, e quello ch'erano allora non li poteva soddisfare. Impazienti del proprio presente, nemici del proprio passato e privi di futuro, somigliavano a coloro che la giustizia o l'odio degli uomini fa vivere dietro le sbarre. Insomma, il solo mezzo per sfuggire a una tale insopportabile vacanza era quello di far correre i treni con la fantasia e di colmare le ore coi ripetuti rintocchi d'un campanello, sebbene ostinatamente silenzioso.
Ma se era un esilio, nella maggioranza dei casi era un esilio in patria. E quantunque il narratore non abbia conosciuto che l'esilio di tutti, non deve dimenticare quelli, come il giornalista Rambert o altri, per cui, Invece, le pene della separazione si aggravarono per il fatto che, forestieri sorpresi dalla peste e trattenuti in città, si trovavano lontani sia dalla persona che non potevano raggiungere sia dal paese loro. Nell'esilio generale erano i più esiliati: se il tempo suscitava in essi, come in tutti, l'angoscia che gli è propria, erano anche uniti allo spazio e urtavano senza tregua nei muri che dividevano il loro rifugio contagiato dalla patria perduta. Di certo, erano quelli che si vedevano errare a ogni ora del giorno nella città polverosa, chiamando in silenzio le sere ch'erano i soli a conoscere, e le mattine del loro paese. Nutrivano allora il proprio male di segni imponderabili e di messaggi sconcertanti come un volo di rondini, una rugiada al crepuscolo, o gli strani raggi che talvolta il sole lascia nelle vie deserte. Su quel mondo esterno, che può sempre salvare da tutto, essi chiudevano gli occhi, intestarditi com'erano a. carezzare le loro chimere troppo reali e a inseguire con tutte le loro forze le immagini d'una terra in cui una certa luce, o due o tre colline, l'albero prediletto e dei visi di donna componevano un ambiente per loro insostituibile.
Per parlare infine più particolarmente degli amanti, che sono i più interessanti e di cui forse il narratore si trova a poter meglio parlare, essi erano tormentati ancora da altre angosce, tra le quali vanno annoverati i rimorsi. La situazione, infatti, gli permetteva di considerare il loro sentimento con una sorta di febbrile obiettività; ed era raro, in tali occasioni, che le loro proprie manchevolezze non gli apparissero chiaramente. La prima occasione, la trovavano nella difficoltà che avevano d'immaginare esattamente i fatti e i gesti dell'assente. Deploravano allora l'ignoranza in cui erano su come l'altro impiegava il tempo; si accusavano di leggerezza per aver trascurato d'informarsene e aver finto di credere che, per una persona che ama, l'impiego che del tempo fa l'amato non sia la fonte di tutte le gioie. Gli era facile, cominciando da qui, tornare indietro nel loro amore ad esaminarne le imperfezioni. Nei tempi normali sapevamo tutti, coscientemente o no, che non vi è amore che non possa superarsi, e accettavamo tuttavia, con più o meno tranquillità, che il nostro rimanesse mediocre. Ma il ricordo è più esigente; e, in modo assai logico, la sciagura venuta dall'esterno a colpirci con un'intera città non ci recava soltanto una sofferenza ingiusta, di cui avremmo potuto indignarci; ci provocava, anche, a far soffrire noi stessi, a consentire al dolore. Era questo uno dei modi della malattia per distogliere l'attenzione e per imbrogliare le carte.
E ciascuno dovette accettare di vivere giorno per giorno, e solo di fronte al cielo. L'abbandono generale, che alla lunga poteva temprare i caratteri, cominciò intanto col renderli futili. Per alcuni dei nostri concittadini, ad esempio, essi erano allora soggetti a un'altra schiavitù, che li metteva al servizio del sole e della pioggia. Sembrava, a vederli, che ricevessero per la prima volta, e direttamente, l'impressione del tempo che faceva. Si rallegravano in faccia alla semplice vista d'una luce dorata, mentre i giorni di pioggia gli mettevano sui volti e sui pensieri un velo spesso. Qualche settimana prima, sfuggivano a tale debolezza e a tale servitù irragionevole in quanto non erano soli di fronte al mondo e, in una certa misura, la persona che viveva con essi si poneva davanti al loro universo. A cominciare da quel momento, invece, essi furono apparentemente abbandonati ai capricci del cielo, ossia soffrirono e sperarono senza ragione.
In tali estremi di solitudine, inoltre, nessuno poteva sperare nell'aiuto del vicino e ciascuno rimaneva solo con la sua preoccupazione. Se uno di noi, per caso, cercava di confidarsi o di dire qualcosa del suo sentimento, la risposta che riceveva, qualunque fosse, lo feriva, la maggior parte delle volte. Si accorgeva, allora, che il suo interlocutore e lui non parlavano della stessa cosa. Lui, infatti, si esprimeva dal fondo di lunghe giornate di ruminazione e di sofferenze, e l'immagine che voleva comunicare si era scaldata a lungo al fuoco dell'attesa e della passione. L'altro, invece, immaginava un'emozione convenzionale, il dolore che si vende in piazza, una malinconia in serie. Benevola od ostile, la risposta cadeva sempre nel falso, bisognava rinunciarvi. O almeno, per quelli ai quali il silenzio era insopportabile, e siccome gli altri non potevano trovare il vero linguaggio del cuore, si rassegnavano ad adottare la lingua della piazza, e parlare, anch'essi, nei modi convenzionali, quelli della semplice relazione e della notizia, della cronaca quotidiana, insomma. Di qui, anche i dolori più veri si abituarono a tradursi nelle formule comuni della conversazione. Soltanto a questo patto i prigionieri della peste potevano ottenere la compassione del loro portiere o l'interesse dei loro ascoltatori.
Ciononostante, ed è la cosa che più vale, per quanto dolorose fossero le angosce, per quanto fosse greve da portare il cuore così vuoto, si può ben dire che tali esiliati, nel primo periodo della peste, furono dei privilegiati. Nel momento stesso, infatti, in cui la popolazione cominciava ad atterrirsi, il loro pensiero era del tutto rivolto verso la persona che aspettavano. Nell'affanno generale, l'egoismo dell'amore li preservava, e se pensavano alla peste, era sempre nella misura in cui il morbo dava alla loro separazione dei rischi d'essere eterna. Portavano quindi nel cuore stesso dell'epidemia una distrazione salutare, che si era tentati di prendere per sangue freddo. La disperazione li salvava dal panico; il dolore, per essi, aveva qualcosa di buono. Per esempio, se accadeva che uno di loro fosse portato via dal male, era quasi sempre senza che avesse avuto il tempo di accorgersene. Tratto dalla lunga conversazione intima che sosteneva con un'ombra, egli era gettato allora, senza transizione, nel più fitto silenzio della terra. Non aveva avuto il tempo per niente.
Ma il tema corre sotterraneo come la stessa peste lungo tutto il corso degli avvenimenti fino a sorprendersi in una tonalità nuova dopo i lunghi mesi di prostrazione a cui è sottoposta la città:
I nostri concittadini, coloro almeno che avevano più sofferto per la separazione, si abituavano al loro stato? Non sarebbe del tutto esatto affermarlo; sarebbe più giusto dire che, nel morale come nel fisico, essi soffrivano di consunzione.
Al principio della peste essi ricordavano molto bene la creatura che avevano perduto e la rimpiangevano; ma se ricordavano nettamente il volto amato, il suo riso, in tal giorno che troppo tardi riconoscevano felice, difficilmente immaginavano quello che l'altro potesse fare nell'ora stessa in cui lo evocavano e in luoghi ormai così lontani. Insomma, in quel momento avevano la memoria, ma una fantasia insufficiente. Nella seconda fase della peste, persero anche la memoria. Non che avessero dimenticato quel volto, ma, ed è lo stesso, il volto aveva perduto la sua carne, non lo scorgevano più nell'intimo di se stessi. E mentre, nelle prime settimane, inclinavano a lagnarsi di non aver più a che fare che con ombre, nelle faccende del loro amore, in seguito si accorsero che tali ombre potevano diventare ancora più consunte, sino a perdere anche i minimi colori conservati dal ricordo. Al termine d'una così lunga separazione, non si figuravano più l'intimità ch'era stata la loro, né come avevano potuto vivere accanto a una creatura su cui, a ogni momento, potevano posare la mano.
Da questo punto di vista, erano entrati nell'ordine stesso della peste, tanto più efficace quanto più era mediocre. Nessuno, tra noi, aveva più grandi sentimenti; ma tutti provavano sentimenti monotoni. "E ora che finisca," dicevano i nostri concittadini: in periodo di flagello, infatti, è naturale augurarsi la fine delle sofferenze collettive, e davvero essi si auguravano che finissero. Ma questo si diceva senza il fuoco o l'acre sentimento del principio, e soltanto con alcune ragioni che ancora ci rimanevano chiare, molto poche. Al grande e selvaggio slancio delle prime settimane era succeduto un abbattimento che si avrebbe avuto torto di prendere per rassegnazione, ma che tuttavia era una sorta di provvisorio consenso.
I nostri concittadini si erano messi al passo, si erano adattati, come si dice: non c'era modo di fare altrimenti. Avevano ancora, naturalmente, l'atteggiamento della sciagura e della sofferenza, ma non ne risentivano più l'aculeo. D'altronde, il dottor Rieux, ad esempio, considerava, giustamente, che il male era proprio questo, e che l'abitudine alla disperazione è peggiore della disperazione stessa. Prima, i separati non erano realmente infelici; c'era nella loro stessa sofferenza una luce, che si era appena spenta. Adesso li si vedeva all'angolo delle strade, nei caffè o dagli amici, placidi e distratti, e con l'occhio così annoiato che, grazie a loro, tutta la città somigliava a una sala d'attesa. Quelli che avevano un mestiere, lo facevano con l'andamento stesso della peste, meticolosamente e senza spicco. Erano tutti modesti. Per la prima volta i separati non avevano ripugnanza a parlare dell'assente, ad assumere il linguaggio di tutti, a esaminare la loro separazione con la stessa prospettiva da cui consideravano le statistiche del contagio. Mentre sino ad allora avevano ferocemente sottratto la loro sofferenza alla sciagura collettiva, accettavano adesso la confusione. Senza memoria e senza speranza, si stabilivano nel presente. In verità, tutto per loro diventava presente; bisogna dirlo, la peste aveva tolto a tutti la facoltà dell'amore e anche dell'amicizia; l'amore, infatti, richiede un po' di futuro, e per noi non c'erano più che attimi.
Beninteso, nulla d'assoluto in questo: se è vero che tutti i separati giunsero a un tale stato, è giusto aggiungere che non tutti vi arrivarono nello stesso tempo e che, inoltre, una volta stabiliti nel nuovo atteggiamento, lampi, ritorni di brusche illuminazioni riportavano i pazienti a una sensibilità più giovane e più dolorosa. Occorrevano i momenti di distrazione in cui formassero dei progetti con implicita la cessazione della peste; bisognava che sentissero inopinatamente, e per effetto di qualche grazia, il morso d'una gelosia senza causa. Altri, anche, trovavano subitanee rinascite, uscivano dal loro torpore in certi giorni della settimana, la domenica naturalmente e il pomeriggio del sabato, in quanto quei giorni erano consacrati a certi riti, al tempo dell'assente. O anche una certa malinconia, prendendoli alla fine delle loro giornate, gli dava l'avvertimento, d'altronde non sempre confermato, che stavano per ricuperare la memoria. Quest'ora serale, che per i credenti è quella dell'esame di coscienza, è crudele per il prigioniero o l'esiliato che non ha da esaminare se non il vuoto; li teneva sospesi un momento, poi essi tornavano all'atonia, si chiudevano nella peste.
Si è ormai capito che questo consisteva nella rinuncia a quello che avessero di più personale. Mentre nei primi tempi della peste erano colpiti dalla somma di piccole cose che contavano molto per loro, senza nemmeno esistere per gli altri, e in tal modo sperimentavano una vita personale, adesso, al contrario, non s'interessavano che a quanto interessava gli altri, non avevano più che idee generali, e il loro stesso amore aveva assunto per essi l'aspetto più astratto. Erano abbandonati a tal punto alla peste che gli capitava talvolta di non sperare più che nel suo sonno o di sorprendersi a pensare: "I bubboni, e che la finisca!" Ma ormai dormivano, in verità, e tutto quel tempo non fu che un lungo sonno. La città era popolata di dormienti svegli che non sfuggivano realmente alla loro sorte che le rare volte in cui, nella notte, la loro ferita apparentemente chiusa all'improvviso si riapriva. E svegliati di soprassalto, ne toccavano allora, con una sorta di distrazione, le labbra irritate, ritrovando in un lampo la loro sofferenza, subito ringiovanita, e con essa l'immagine sconvolta del proprio amore. La mattina, tornavano al flagello, ossia sul binario consueto.
Ma di che. cosa, si dirà, avevano l'aria, questi separati? Ebbene, è semplice: non avevano l'aria di nulla.' O, se .si preferisce, avevano l'aria di tutti, un'aria affatto generica; partecipavano della placidità e delle puerili agitazioni della città; perdevano. le apparenze del senso critico, guadagnando insieme quelle del sangue freddo. [...] .
Si può dire, infine, che i separati non avevano più il curioso privilegio che li difendeva in principio; avevano perduto l'egoismo dell'amore, e il beneficio che ne ricavavano. Almeno, adesso, la situazione era chiara: il flagello riguardava tutti. Noi tutti, in mezzo alle detonazioni che echeggiavano alle porte della città, ai colpi di timbri che scandivano la nostra vita o il nostro decesso, in mezzo agli incendi e alle schede, al terrore e alle formalità, promessi a una morte ignominiosa ma registrata, tra le spaventose fumate e le tranquille campanelle delle ambulanze noi ci nutrivamo dello stesso pane d’esilio, aspettando senza saperlo lo sconvolgimento della stessa riunione e della stessa pace.
Si giunge a Natale e anche Grand viene contagiato: quando l'impiegato sembra ormai prossimo alla fine, Rieux tenta il tutto per tutto, somministrandogli un nuovo siero giunto dalla Francia. Stavolta la cura funziona: Grand guarisce e, nel frattempo, la peste inizia a perdere virulenza. Ricompaiono alcuni ratti, mentre il numero dei malati e dei morti diminuisce sempre di più. Nella sua ultima fase, però, l'epidemia uccide Othon e, soprattutto, Tarrou. Quest'ultimo, convinto che ormai l'epidemia fosse alla fine, aveva omesso le quotidiane abluzioni nelle sostanze disinfettanti, venendo così contagiato: Rieux, nel frattempo raggiunto dalla notizia della morte della moglie, tenta disperatamente di salvare l'amico somministrandogli il siero, ma ogni sforzo risulta vano. A breve, comunque, l'epidemia giunge al suo epilogo. A febbraio, finalmente, il cordone è levato e la città esplode in festa. L'unico a non gioire è Cottard, che, deluso dalla fine della situazione a lui vantaggiosa, cade vittima di un raptus di follia e, da una finestra della propria abitazione, dà luogo a una sparatoria sulla folla, prima di essere arrestato dalla polizia. Ma anche Rieux è cauto. Mentre esamina i taccuini lasciatigli da Tarrou, sulla base dei quali stenderà il racconto, ammonisce le autorità sulla necessità di una prevenzione contro un eventuale futuro ritorno della peste, i cui bacilli possono restare inerti per anni prima di colpire ancora.