Lorenzo Valla, uno dei personaggi di spicco dell’umanesimo letterario quattrocentesco, auspica nei propri scritti che le arti della pittura, della scultura, dell’architettura, "che sono tanto vicine a quelle liberali", dopo essere per tanto tempo "cadute così in basso da parer quasi morte", come le lettere, adesso "si risveglino a nuova vita", e che fiorisca "una sì larga schiera di buoni artefici e colti uomini di lettere". La profezia si realizza; l’arte cambia spirito, modi, aspetto e linguaggio, liberandosi dagli stilemi del gotico. Nella prima metà del Quattrocento opera a Firenze una generazione di artefici che dà una nuova definizione della professione e del concetto stesso di espressione artistica; da questa esperienza il gusto estetico e l’arte mondiale usciranno permanentemente e irreversibilmente modificati. Uno dei protagonisti di questa rivoluzione è Masaccio, pioniere della pittura rinascimentale caro a Leonardo e Michelangelo, il primo a tradurre in pittura gli ideali laici, classicisti e razionali di Brunelleschi. Nei suoi dipinti la legge della prospettiva brunelleschiana domina su tutto - figure, sfondi architettonici e naturali - assoggettando sia il mondo umano che quello divino alla stessa norma razionale.
Ventisette anni: un battito di ciglia, nel secolare cammino dell’arte, ma sufficiente a cambiare per sempre il volto della pittura. L’opera di Masaccio, primo pittore rinascimentale, è uno spartiacque nella storia della civiltà espressiva: nella sua breve esistenza, i quattro anni trascorsi ad affrescare la cappella Brancacci nella chiesa fiorentina del Carmine segnano il culmine d’una esperienza rivoluzionaria. Dal suo pennello scaturisce un nuovo pensiero pittorico che rompe ogni legame con l’arte del medioevo. Non più fondi dorati o scenari schematici, simili a quinte di teatro, ma uno spazio realistico, proporzionato, organico all’azione che vi si svolge. Non più le atmosfere fiabesche di Gentile da Fabriano o del Pisanello, ma storie figurate in cui persino il miracolo, evento soprannaturale per eccellenza, diventa fatto storico. Non più figure stilizzate la cui grandezza è decisa dal rango superiore o inferiore occupato nella gerarchia del creato e del potere, ma esseri concreti le cui dimensioni dipendono esclusivamente dalla posizione nella fuga prospettica. È l’annunzio d’un nuovo mondo, coerente, obiettivo, razionale, popolato di "cose vive et vere", secondo l’espressione del Vasari, in cui anche la divinità è a misura d’uomo, come conferma la ricorrente centralità della figura di Cristo
La prospettiva lineare adottata nelle opere di Masaccio, così come nelle architetture brunelleschiane, non è mera tecnica, ma espressione di una filosofia. Lo spazio che l’occhio umano percepisce come limitato, discontinuo e curvo, viene unificato e razionalizzato; il mondo, colto in un solo colpo d’occhio, non si mostra più come una collezione di oggetti, ma come un continuum unitario e omogeneo, unificato, in duplice senso, dalla presenza umana. Organizzando il dipinto secondo la norma dello sguardo umano che lo osserva, elevato a oggettività (ossia, in altre parole, ordinando lo spazio rispetto all’osservatore), se ne riconosce infatti il primato, la centralità, promuovendo il soggetto che fruisce l’arte a ragion sufficiente del fenomeno estetico. Ma per Masaccio l’uomo è protagonista anche della scena dipinta. L’episodio evangelico o la sacra conversazione non sono più visioni fiabesche come le raffigurava Gentile da Fabriano, schegge di una realtà altra e superiore, ma vicende altrettanto reali del mondo quotidiano, e vere al pari di esso; "storie figurate", vissute da un’umanita concreta e austera, in cui persino il miracolo, manifestazione per eccellenza del soprannaturale, diventa fatto storico. D’altro canto, "sfondare" la superficie del dipinto e invitare lo sguardo a entrarvi trasforma il quadro stesso in uno specchio della realtà, che ce ne restituisce una raffigurazione razionale e organizzata, rettificata e sintetica; l’opera non è più, come nel Medioevo gotico, un incantato modello di elevazione, ma la testimonianza di emblematiche vicende, ultraterrene e solenni, vissute da uomini come noi, e racchiuse in uno spazio razionale, realistico, coerente, organico all’azione che vi si svolge. Masaccio intende rappresentare l’uomo qual esso è, non quale vorrebbe o dovrebbe essere, e attribuisce anche al deforme, al brutto e al malato la stessa dignità figurativa che compete alla divinità o al santo. Mentre nel Medioevo la grandezza delle figure dipende dal loro rango, soprannaturale o umano, superiore o inferiore, per Masaccio solo la posizione nello spazio prospettico può decidere delle dimensioni di una figura rispetto alle altre e all’insieme. È l’immagine di un nuovo mondo, in cui anche la divinità è a misura d’uomo; una lettura del messaggio cristiano, alternativa a quella medievale, che unifica il creato.
Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai, notaio, e di monna Jacopa di Martinozzo nasce a San Giovanni in Altura, oggi San Giovanni Valdarno, il 21 dicembre 1401. Resta orfano di padre nel 1406, anno in cui nasce il fratello Giovanni, anch’egli pittore. La madre si risposa con uno speziale molto più anziano di lei che garantirà ai figli un’infanzia agiata. Nel 1417 Tommaso si trasferisce a Firenze con la madre, rimasta nuovamente vedova, e il fratello. Nel 1422 si iscrive all’Arte dei medici e speziali, iniziando l’attività di pittore. Il trasferimento a Firenze lo mette in contatto con le novità artistiche e culturali del tempo, con la prospettiva brunelleschiana e soprattutto con l’innovazione plastica di Donatello, suo amico e protettore. Trasferendo le novità architettoniche e plastiche nella pittura, e liberandola dagli ultimi stilemi tardogotici, Tommaso, ormai Masaccio, opta per un linguaggio neogiottesco; la pittura, pura e senza ornamento, è ridotta alla propria essenza plastica, razionalizzata dalla sottomissione alla prospettiva. La prima importante prova attribuita al giovane artista è il Trittico con Madonna in trono e santi, detto di San Giovenale (1422), dominato da una palese esigenza di applicare la prospettiva brunelleschiana, ancor più strigente nel pannello centrale. È l’opera di un artista esperto e attento alle novità; e a questo proposito è bene sottolineare che, se parte della critica vi ha veduto la mano di Masaccio, altri studiosi, non senza qualche credibilità, lo attribuiscono al fratello Giovanni, detto lo Scheggia.
Nel 1423 Masaccio è a Roma. Il suo rapporto con Masolino da Panicale (1383-1440 ca.), un pittore ancora legato al gusto tardogotico, iniziato forse come apprendistato, si trasforma in un sodalizio fra pari; accadrà anzi che il più anziano Masolino — tradizionalmente ritenuto il maestro di Masaccio, la cui formazione, secondo studi più aggiornati, sarebbe invece avvenuta sotto la guida di Mariotto di Cristofano — mostri di sforzarsi di "digerire" le novità del giovane collega, come palesa nella cappella Brancacci e in altre opere eseguite per proprio conto. Dalla collaborazione di Masaccio con Masolino scaturisce la Sant’Anna con la Madonna, il Bambino e angeli (1424-25), dove l’impostazione tardogotica di Masolino, artefice della figura della santa, che dovrebbe essere preponderante, è smentita, sconvolta e sopravanzata dalla solida Vergine di Masaccio, tanto da far gridare al Vasari di trovarsi dinanzi a "cose vive et vere". Una scelta che Masaccio persegue e approfondisce nel polittico eseguito nel 1426 per la chiesa pisana del Carmine, smembrato nel XVIII secolo e in parte perduto (quello che ne resta è oggi diviso tra vari musei). Lo spazio prospettico nasce dallo spessore plastico delle figure; persino le aureole sono in prospettiva, e il chiaroscuro fortemente contrastato rileva le forme nettamente delineate nello spazio.
Il ciclo di affreschi con le Storie di san Pietro della cappella Brancacci, nella chiesa del Carmine di Firenze, rappresenta l’espressione più matura della poetica masaccesca. Il ciclo, al quale Masaccio lavora col sodale Masolino fra il 1424 e il 1425, continuando da solo fra il 1425 e il 1427, sarà completato da Filippo Lippi nella seconda metà del secolo. Nei suoi riquadri, Masaccio celebra la nobiltà dell’uomo e della sua civiltà, ma al tempo stesso sottolinea con forza la drammaticità della condizione uman;: basta confrontare la coppia dei Progenitori nel fiabesco Eden (dipinto certamente prima dell’incontro con Masaccio) raffigurato da Masolino nella scena del Peccato originale, con i disperati singhiozzi che scuotono Adamo ed Eva allontanati dal Paradiso terrestre nella celeberrima scena masaccesca della Cacciata. La maestria di Masaccio nel dominare l’unità della scena tramite la prospettiva è lampante nella famosissima scena del Tributo, che forse allude all’istituzione del catasto fiorentino. La scena è ripartita in tre episodi, fra l’altro non leggibili da sinistra a destra, ossia in ordine cronologico, ma esposti in simultaneità; essi ruotano tutti attorno all’umanissima, nobile e autorevole figura del Cristo, che risulta così il vero protagonista del dipinto, laddove il miracolo vero e proprio è relegato in secondo piano. Mentre le figure, concrete e credibili, intrecciano un complesso e ritmato gioco di forze, le prospettive architettoniche e paesaggistiche compongono non uno sfondo, ma un ambiente connaturato ai personaggi che in esso si muovono.
Fra il 1426 e il 1428 Masaccio, che vive ancora a Firenze con la famiglia, titolare - malgrado la giovane età - di parte d’una bottega presso la Badia fiorentina, attende al celebre affresco della Trinità in Santa Maria Novella: si tratta del primo dipinto che introduca, promuovendolo a ruolo protagonistico, un monumentale sfondo architettonico d’impronta classica che avvolge la scena, applicando allo spazio e alle figure le norme prospettiche brunelleschiane. Il Crocifisso centrale, trasfigurato in simbolo del martirio del Figlio, sostenuto dall’Eterno, campeggia entro un maestoso arco in ordine ionico aperto su un sacello con volta a lacunari. Le figure dei committenti, all’altezza dello sguardo dell’osservatore, sono delle stesse dimensioni di quelle della Madonna e di san Giovanni, scorciate dal basso verso l’alto (al contrario del Cristo e dell’Eterno, raffigurati senza scorciature, ma di proporzioni rigorosamente umane). È proprio l’inserimento in una architettura realistica, governata da una ferrea proporzione, a imporre il dimensionamento paritetico delle figure umane e divine, come a dire: l’uomo e la divinità condividono lo stesso spazio, obbediscono alla stessa norma razionale. La scena è di una sobria e silente compostezza che pare anticipare Piero della Francesca. Nel 1428 Masaccio si reca nuovamente a Roma con Masolino, dipingendovi il trittico di Santa Maria Maggiore: qui muore giovanissimo, certamente prima del novembre 1429.