Il romanzo fu scritto da Dostoevskij nel 1875, nel pieno della su maturità artistica e poetica e precede la pubblicazione del suo ultimo grande romanzo, I fratelli Karamazov. La sua collocazione temporale mostra i tutti i caratteri peculiari della poetica dostoevskiana.
L’adolescente è un romanzo talmente complesso per struttura e contenuto che mi riesce difficile parlarne o meglio decidere di che cosa parlare. Dovrei fissare in maniera razionale e ordinata una materia che al contrario è confusa, densa, straripante e dinamica, proprio come è il pensiero di un adolescente, nello specifico quella del ventenne inesperto che ci narra, a posteriori, il suo percorso di crescita attraverso gli incredibili avvenimenti succedutisi nell’arco di un anno dal suo arrivo a Pietroburgo.
Inzialmente il protagonista assoluto del romanzo sembra proprio lui, il giovane Arkadij Dolgorukij, figlio illegittimo del nobile Versilov e di un’umile serva, Sofia Andreevna, che Versilov strappa al giovane contadino servo della gleba Makarij Ivanovic, un personaggio che merita una particolare attenzione. Il suo modo di pensare e di vedere l'esistenza umana, anche se primordiale e frutto della sua ignoranza, affascina e coinvolge il lettore. La donna, che vive in povertà, ha avuto dall'amante (il più delle volte assente) due figli: Arkadji e Lisa, quest'ultima ha sempre vissuto con la mamma mentre Arkadji, fu messo nella pensione del rozzo M.Toucherd, in giovane età, abbandonato dai genitori a pochi anni di vita, condannato ad un’infanzia solitaria costellata di umiliazioni e discriminazioni proprio per quel cognome principesco che stride così tanto a fronte della sua misera condizione di “bastardo”.
Il desiderio di rivalsa cresce con Arkadij ed esplode in un fermo proposito, in un’ ”idea” segreta covata con dedizione per lunghi anni che Dostoevskij sapientemente non rivela nell’immediato, tenendo i lettori incollati alle pagine fino al V capitolo quando il mistero è svelato: “ La mia idea è diventare Rotschild (...) di diventare, cioè, ricco quanto Rotschild” “Lo scopo della mia “idea” è l’isolamento (…) oltre che dell’isolamento io ho bisogno anche del potere.” Arkadij esprime, con tutta l’ingenuità e la foga che si può avere solo a vent’anni, il suo ambizioso progetto: il potere fine a se stesso, il denaro per il denaro, non già per poter godere dei piaceri della vita, che a quelli anche una volta divenuto ricco rinuncerà, ma per poter imporsi, vendicarsi dei tanti torti subiti, per essere finalmente libero“Se fossi Rotschild, andrei vestito d’un vecchio cappotto e con un ombrellaccio. (…) La coscienza d’essere Rotschild mi metterebbe di buon umore.” E’ ossessionato da tutto ciò, ha rinunciato all'università per raggiungere il suo fine e si dice pronto a vivere di pane e acqua se necessario.
Ma ecco che nella seconda parte del romanzo tutto è cambiato: Arkadij si trova a Pietroburgo da circa due mesi, chiamato dal padre legittimo Versilov, e come egli stesso ammette non senza vergogna, la vita cittadina e il susseguirsi di fatti sorprendenti tutti legati ad una lettera compromettente per molte persone e conservata gelosamente dallo stesso Arkadij, gli hanno fatto accantonare l’”idea”: ora veste elegantemente, ha un parrucchiere francese, un cocchiere privato, sperpera i soldi alla roulette…insomma non proprio la vita morigerata che si prefiggeva. Ed è a questo punto del romanzo che si ha la conferma che il perno attorno al quale ruota tutta la concezione del romanzo, non è l’adolescente Arkadij, nonostante il lettore continui ad avere una percezione della realtà filtrata dalla sua personalità influenzabile, debole e altamente impressionabile, bensì l’enigmatico Versilov. I personaggi che mano a mano vengono introdotti magistralmente nell’intreccio (e sono come al solito davvero tanti!) sono tutti tesi nello sforzo di decifrare la personalità di quest’uomo misterioso, “sdoppiato”, con una storia passata oggetto di continuo pettegolezzo e un presente non meno turbolento.
Versilov, uomo elegante, arguto e sensuale è tragicamente diviso tra la passione per la bella Katerina ricca e nobile, e l'affetto compassionevole che gli ispira Sofia Andreevna. Seguono ricatti e intrighi (il denaro sembra l'argomento principale), nel quale emerge la figura di Lambert: il fidanzamento di Katerina col barone Rioring; la morte in casa di Sofia, di Makarij Ivanovic, tutto ciò porta Versilov alla pazzia. Cosicché Arkadji verrà definitivamente distratto dai suoi sogni di rivincita, a causa della disgrazia del padre cui egli ha partecipato, inconsciamente burattino di Lambert. Nello sfondo altre disfatte: la sorella di Arkadji, Lisa, incinta del principe Sokolskij, imprigionato, impazzisce; e Anna figlia legittima di Versilov, che a freddo decide di sposare, per interesse, un principe, un altro Sokolskij.
Il lettore, parallelamente ad Arkadij, accecato dal complesso rapporto di odio-amore verso il padre, fino alla fine è disorientato: si convince che Versilov sia un uomo meschino, crudele, senza scrupoli, un fedifrago, un nichilista, un ateo poi ecco che un dialogo, un gesto, un’espressione lo scaraventa dal punto di vista opposto e improvvisamente gli sembra di aver frainteso ogni cosa perché Versilov è in realtà il marito amorevole, l’uomo saggio e generoso, dai forti valori, legato alla “madre Russia” e alla famiglia. In ogni caso un uomo dotato di un forte magnetismo ed il personaggio più indecifrabile e umano fra i tanti creati da Dostoevskij.
In fondo il giudizio sulla personalità sdoppiata di Versilov è posto in bocca al marito di Sofia Andreevna, Makarij Ivanovic, il quale offre un quadro della condizione spirituale della Russia a lui contemporanea che rispecchia la stessa personalità di Versilov e la sua lotta interiore:
«Dell'uomo ateo - proseguì assorto il vecchio - forse avrei paura anche ora; solo, amico Aleksàndr Semenovic, non ho incontrato nemmeno una volta un ateo, ma invece di lui ho incontrato l'irrequieto, come bisognerebbe piuttosto chiamarlo. E gente di ogni specie e non ti capaciti che gente sia: e grandi, e piccoli, e stolti, e dotti, e ce ne sono anche della più umile condizione, e tutto è vanità. Poiché leggono e discutono per tutta la loro vita, saziandosi di dolcezza libresca, e restano sempre perplessi e non possono risolvere nulla. Certuni si sono completamente dispersi, hanno cessato di accorgersi di se stessi. Altri sono induriti più della pietra e nel loro cuore errano sogni; altri ancora sono insensibili e sventati e gli basta poter fare le loro derisioni. Taluni dai libri hanno scelto solo i fiori, ma anch'essi secondo il loro criterio; mentre sono irrequieti e non hanno in sé nessuna opinione. Ecco quello che dirò di nuovo: c'è molta noia. Un uomo da nulla è in miseria, non ha pane, non ha di che mantenere i figlioli, dorme sulla paglia pungente, eppure in lui il cuore è allegro, leggero; e pecca, e ingiuria e il cuore è sempre leggero. Mentre l'uomo grande beve e mangia a sazietà, siede su un mucchio d'oro, eppure nel cuore ha sempre soltanto tristezza. Taluni hanno appreso tutte le scienze eppure sono sempre tristi. E così io penso che quanto più aumenta l'intelletto, tanto più cresce la noia. E poi bisogna tenere conto di questo: si insegna dacché mondo è mondo, ma che cosa si è insegnato di buono, perché il mondo fosse una dimora più bella e allegra e piena di ogni gioia? E dirò ancora: non hanno bellezza morale, anzi non la vogliono; tutti sono perduti, solo ciascuno loda la propria posizione, ma di rivolgersi all'unica Verità non pensa, mentre vivere senza Dio non è che tormento. E n'esce che malediciamo proprio quello che c'illumina e non lo sappiamo nemmeno. E poi che costrutto c'è mai? Non può nemmeno esistere un uomo che non si pieghi, un uomo simile sarebbe impari a se stesso, a qualunque uomo in generale. E se rinnega Dio, si inchinerà a un idolo di legno o d'oro, oppure immaginario. Sono tutti idolatri e non atei, ecco come bisogna chiamarli. Be', ed anche l'ateo come fa a non esserci? Ci sono di quelli che sono veramente atei, solo che quelli saranno molto più paurosi di questi, perché hanno sempre il nome di Dio sulle labbra. Ne ho sentito parlare più di una volta, ma non li ho mai incontrati. Ce ne sono, amico, e credo che debbano anche esserci» (F. M. Dostoevskij, L'adolescente, Milano 1995, pp.325-326).