“Delitto e castigo”, l’opera più famosa dello scrittore russo, è il primo dei quattro romanzi, apparso nel 1866, ma concepito un anno prima quale breve “resoconto psicologico di un delitto”. Il racconto dovette enormemente dilatarsi durante la stesura, complicandosi, nell’analisi delle motivazioni, di elementi teorici che hanno radice in una serie di fermenti culturali e politici, allora più che mai vivi, tra i quali sono facilmente riconoscibili un certo misticismo fatalistico di impronta russa, la filosofia del superomo di Nietzsche, gli ideali societari di Marx. La stessa trama, in apparenza elementare, divenne lo specchio su cui si proiettano i pensieri e i sentimenti del protagonista, Raskolnikov, in funzione del quale, dominatore assoluto della scena, agiscono numerosi personaggi, non minori.
Lo studente Raskolnikov, che per mancanza di mezzi ha dovuto abbandonare l’università, decide di uccidere una vecchia usuraia, prepara con meticolosità il delitto, e massacra a colpi di scure anche la sorella della vecchia, sopraggiunta casualmente. Il motivo di questo gesto cresce su se stesso da una considerazione distruttiva sulla vecchia (“Perché vive?”, “A cosa serve?”), sino ad assumere una valenza positiva, umanitaria (fare del bene con il denaro della vecchia a chi ne ha bisogno). Al centro, ma è una giustificazione, una razionalizzazione che Raskolnikov si sforza di rendere convincente più a sé che agli altri, è l’astratta ideologia (emergere dalla morale convenzionale, disporre della vita umana, eliminare gli inetti per uno scopo alto), esemplifica schematicamente attraverso un personaggio storico (Napoleone, di cui Raskolnikov vorrebbe imitare lo spirito superiore ed eroico, votato all'intransigenza).
Compiuto il delitto con allucinante freddezza, ha inizio in Raskolnikov la disperata difesa di una coerenza che in lui si va lentamente sfaldando, lasciando il posto a un dissidio, tipicamente dostoevskiano, che lo porta a vivere in modo sconnesso e contraddittorio: da un lato il Raskolnikov buono, solidale con gli umili, dall'altro il Raskolnikov tormentato dai dubbi, travolto dagli avvenimenti, carnefice e vittima a un tempo del suo odioso delitto.
L’orrore lo soffoca, tuttavia riesce a raggiungere la sua stanzetta, dopo aver trafugato alle sue vittime tutto quanto è possibile. Ma una volta solo avverte l’inutilità del duplice delitto. Non ha neanche il coraggio di toccare il suo bottino: disperazione e rimorso lo sommergono. Sia pure vagamente, intuisce di aver infranto la legge naturale della pietà e dell’amore. Comincia così in lui un nuovo delirio, un altro incubo, il dramma più umano di Rodin Raskolnikov: egli ha ora bisogno di confidarsi, di parlare, di sfogarsi, di strapparsi di dosso il suo mostruoso segreto, di liberarsi insomma la coscienza. Comincia a frequentare, in un allucinante alternarsi di abbandoni e di timori, magistrati e poliziotti. Alla fine questi finiscono per notare le sue stranezze; si meravigliano, poi s’insospettiscono, infine intuiscono.
Particolarmente scaltro è il giudice istruttore Porfirij Petrovič. Egli induce il giovane a tradirsi in mille modi. Da principio Rodin reagisce: l’istinto di conservazione, l’orgoglio, la paura lo spingono a lottare; ma infine crolla, si lascia andare. Al di là del male compiuto, egli intravede il principio di un nuovo bene, di redenzione nell'espiazione. Ma prima di consegnarsi al magistrato che lo farà condannare, Rodin vuole confessarsi a Sonja, l’unica creatura da cui sente di poter essere compreso, poiché anche essa è vittima della vita, poiché è scesa tanto in basso e ne ha sofferto.
«- Così non puoi indovinare? – egli domandò a un tratto, con la stessa sensazione come si buttasse giù da un campanile.
- No no – sussurrò appena percettibilmente Sonja.
- Guardami, su, per benino.
E come ebbe detto ciò, di nuovo una precedente, nota sensazione gli agghiacciò l’anima: egli la guardava e di colpo, nel viso di lei, gli parve di scorgere il viso di Lisaveta, quando egli, quel giorno, si avvicinava a lei con l’accetta e lei si scostava verso la parete, portando in avanti una mano, con uno spavento del tutto infantile sul viso, come i piccoli bimbi quando improvvisamente cominciano ad aver paura di qualche cosa guardano immobili e inquieti l’oggetto che li spaventa, indietreggiano e, tendendo in avanti la manina, si preparano a piangere. Quasi la stessa cosa accadde ora anche a Sonja: nella stessa impotenza, con lo stesso spavento, ella lo guardò per un po’ di tempo e, a un tratto, portata avanti la mano sinistra, leggermente, appena appena si appoggiò con le dita al suo petto e lentamente prese a sollevarsi dal letto, scostandosi da lui sempre più, mentre il suo sguardo a lui rivolto si faceva sempre più fisso. Il suo sgomento si comunicò d’un tratto anche a lui: uno spavento proprio uguale comparve anche sul suo viso, proprio allo stesso modo egli prese a guardarla, quasi perfino con lo stesso sorriso infantile.
- Hai indovinato? – sussurrò infine.
- O Signore! – un terribile gemito eruppe dal petto di lei. Ella cadde impotente sul letto, col viso sui guanciali. Ma di lì ad un attimo, rapidamente si sollevò, rapidamente si accostò a lui, lo afferrò per tutte e due le mani e, stringendole forte, come in una morsa, con le sue dita sottili, si rimise, immobile, come inchiodata, a guardarlo in viso…
In modo tutto, tutto diverso aveva pensato di rivelarle la cosa, ma era andata così.
Come inconscia di sé, ella balzò su e, torcendosi le mani, andò fino in fondo alla stanza; ma rapidamente tornò indietro e sedette di nuovo accanto a lui, quasi toccandolo, spalla contro spalla. A un tratto, come trafitta, sussultò, mandò un grido e si buttò, senza sapere ella stessa perché, in ginocchio davanti a lui.»
La confessione lo intenerisce e lo fa piangere: durante la confessione, Rodin ritrova la propria umanità, al fondo di un delitto disumano. Sente che non può, che non deve sfuggire al castigo. Si costituisce e viene condannato alla deportazione. Sonja lo seguirà in Siberia. Un gesto d’amore riscatterà entrambi dall’abiezione e renderà meno triste il loro doloroso destino. Il romanzo si chiude con un breve epilogo che permette di gettare uno sguardo sul futuro dei due giovani. Un anno di Siberia trasformeranno Rodin in un uomo migliore; l’amore di Sonja riuscirà a sciogliere il gelo del suo cuore, mentre la dura vita della deportazione lo avvicinerà ai suoi compagni di sventura. Vinti il cieco egoismo e l’orgoglio, Rodin troverà nella lettura del Vangelo la forza per sopportare gli anni di prigionia che ancora lo dividono dal ritorno alla libertà.
Di questo romanzo, non facile, fatto, come qualcuno ha detto, “di soli personaggi intorno a cui non vi è spazio”, intenso e drammatico, oltre alla pagina già citata, si impone il fitto dialogo che scaturisce dall'incontro tra Raskolnikov e il giudice Porfirij. E’ un po’ il gioco a gatto e topo, dove si nota l’abilità con cui l’idea di Raskolnikov viene rigirata e riflessa nelle sue varie sfaccettature. Raskolnikov ha bisogno di Porfirij sul quale impostare il suo dialogo-confessione; nello stesso tempo lo odia e ne paventa il giudizio. La figura del giudice è del resto fondamentale in tutto il romanzo: Porfirij Petrovič è un uomo mancato, come egli stesso si definisce, e proprio in quanto tale è in grado di riconoscere e smascherare a poco a poco quel Raskolnikov che in parte poteva essere lui. La più felice rivelazione di questo personaggio è nelle parole rivolte, in un momento di amaro ripiegamento, a Raskolnikov: ”Abbandonati al fiume della vita: ti condurrà in qualche posto”.
E’ l’unica parentesi autentica, tanto scoperta e imprevedibile da suonare persino stonata; per il resto Porfirij resta fedele al modello di diabolico inseguitore del riconosciuto assassino. In “Delitto e castigo” il delitto è un’azione abominevole che nasce dagli intimi conflitti di un uomo troppo orgoglioso per accettare i colpi della sventura. Chi uccide non ha più diritto di sentirsi uomo fra gli uomini. Ecco come lo stesso Dostoevskij esprime questa idea, in una lettera del 1867“…il sentimento di distacco e di separazione dall'umanità, che egli (Rodin) ha provato subito dopo aver compiuto il delitto, è il suo tormento”.
La critica ha giudicato “Delitto e castigo” il romanzo della perdizione: una perdizione però che, nel toccare il fondo del proprio abisso, riesce a scorgere la luce destinata a riscattarla, a trovare nell’espiazione volontaria un ritorno alla legge morale e cristiana.