Carlo venne alla luce il 24 febbraio 1500 a Gand, antica capitale delle Fiandre, dove passò gli anni della giovinezza, educato da Adriano di Utrecht (futuro papa Adriano VI): i meccanismi dinastici della sua famiglia gli destinavano una favolosa eredità di terre, di potere ma anche di guerre.
Suo padre era Filippo il Bello di Asburgo (Bruges 1478-Burgos 1506), figlio a sua volta dell'imperatore Massimiliano I e di Maria di Borgogna; sua madre era la spagnola Giovanna la Pazza (Toledo 1479-Tordesillas 1555), figlia ed erede dei re cattolici Ferdinando e Isabella, il cui matrimonio, con la riunione delle corone di Aragona e di Castiglia, aveva portato all'unificazione della Spagna.
I suoi genitori si erano sposati nel 1496 e il padre nel 1504, alla morte della Regina Isabella, era diventato re di Castiglia in sostituzione della moglie, che aveva manifestato i primi segni della follia che avrebbe accompagnato la sua lunga vita. La prematura scomparsa del padre, nel 1506, lo pose, a soli sei anni, nella condizione di ereditare i Paesi Bassi e le Fiandre, iniziando quel processo di progressiva concentrazione degli assi ereditari asburgici e spagnoli.
Nel 1516, alla morte del nonno materno Ferdinando di Aragona, ereditò la Spagna, i Regni di Napoli e di Sicilia e gli immensi domini coloniali d'oltremare. Nel 1519, alla morte del nonno paterno Massimiliano I, ereditò i possedimenti asburgici nell'Europa centrale (Austria, Boemia e Ungheria) e divenne il principale candidato alla successione imperiale.
Carica che ottenne nello stesso anno, riuscendo a convincere, con l'aiuto finanziario di potenti banchieri, i principi elettori germanici e a superare la concorrenza del suo acerrimo rivale Francesco I di Francia. Incoronato imperatore ad Aquisgrana, il 23 ottobre 1520 un solo uomo era a capo di un impero sconfinato, che sembrava resuscitare il sogno anacronistico dell'impero universale di matrice medievale; in realtà, si trattava di un’unione tutto sommato effimera, frutto dell'incontro di diversi destini dinastici, piuttosto che il culmine di un processo di unificazione e di assimilazione.
I territori dell'impero rimanevano eterogenei sul piano geografico e dello sviluppo storico, economico e culturale. Il sorgere dei sentimenti nazionali minava alla base le aspirazioni universaliste della corona imperiale. I fronti di conflitto erano più numerosi dei motivi di omogeneità e il regno di Carlo V fu un periodo ininterrotto di guerre.
Il celebre ritratto di Carlo V, eseguito da Tiziano nel 1547 dopo la battaglia di Mühlberg, sembra condensare in numerosi simboli la vicenda umana dell'imperatore; il quadro, effettivamente, vuole rappresentare la gloria del sovrano guerriero, ripreso in una posa di fiera compostezza classica in sella al suo destriero e rivestito di una splendida corazza.
Il modello di ispirazione è la celebre statua equestre di Marco Aurelio. C'è un qualcosa però che sembra stonare, in particolare il volto, che traspare dalla bardatura dell'elmo: è quello di un vecchio, la cui anzianità stride ancora di più a contrasto con l'apparato guerriero e con la luce fulgida dello sfondo. Eppure il sovrano non era ancora cinquantenne.
La vita alla testa di un impero così esteso e l'impegno nei continui conflitti che si aprivano su fronti talora molto lontani richiese risorse sovrumane di energia. La storia assistette così allo spettacolo grandioso e terribile di un sovrano che abdicava e si ritirava in un convento di montagna per trascorrere nella quiete e nella meditazione gli ultimi anni della sua vita.
Infatti stanco e malato, assecondando la sua indole solitaria, nel 1557 si ritirò in un convento a Yuste in Estremadura, dove morì il 21 settembre del 1558. Nel giorno della sua abdicazione, l'imperatore non mancò di ricordare come la sua vita fosse stata estremamente faticosa. Aveva viaggiato continuamente, in un'epoca in cui i viaggi, oltre ad essere lenti e disagevoli, potevano diventare un'avventura senza ritorno: era stato dieci volte nelle Fiandre, nove volte in Germania, sette in Italia, sei in Spagna, aveva fatto due visite ufficiali in Inghilterra, per due volte era approdato con la sua flotta in Africa settentrionale e per quattro volte aveva tentato di invadere la Francia.
Ma che uomo era Carlo V? È impossibile sintetizzare la personalità di un uomo così importante, fonte di ispirazione per numerosi biografi e agiografi. Fra le caratteristiche più evidenti sono da ricordare comunque un certo rigore e la sua devozione religiosa, il senso della famiglia e dei doveri dinastici, la passione per la vita di corte, per l'arte e per i passatempi tipici di un eroe cavalleresco, come la caccia e i tornei.
Parlava numerose lingue - fra cui lo spagnolo, il tedesco, il fiammingo, il francese e anche un po’ d'italiano - e manteneva, personalmente, fitti rapporti epistolari e incessanti corrispondenze diplomatiche.
Francesco I di Valois-Angoulême (Cognac 1494 - Rambouillet 1547), era figlio di Carlo, conte di Angoulême, e di Luisa di Savoia. Appartenente ad un ramo collaterale della casata di Valois, sposò nel 1514 la figlia del re, Claudia, che gli era stata promessa fin dal 1506.
Nel 1515 successe a Luigi XII sul trono di Francia, riprendendo immediatamente il conflitto militare in Italia, che si concluse, dopo la grande vittoria nella battaglia di Marignano (1515), con la riconquista del ducato di Milano. Nel 1519 presentò la sua candidatura per l'elezione a imperatore in concorrenza con Carlo V, contro il quale, a partire dal 1521, iniziò un conflitto militare che, per rompere l'accerchiamento del suo paese da parte dei possedimenti imperiali, durò praticamente tutta la sua vita, salvo alcune brevi interruzioni. Francesco era considerato il principe più potente, coraggioso e cavalleresco d'Europa.
Dedicava molto del suo tempo alla vita di corte e ai passatempi della caccia. Fu certamente amante delle arti; lui stesso, durante la prigionia dopo la sconfitta di Pavia, si dilettò nel componimento di romantiche poesie in stile cavalleresco.
Fu un generoso mecenate di artisti e di letterati, ospitando a corte e proteggendo artisti come Leonardo, Rosso Fiorentino, Benvenuto Cellini, Rabelais e Erasmo da Rotterdam. Gli artisti italiani progettarono e decorarono i suoi palazzi; fu il primo, tra i sovrani francesi, a raccogliere nel castello di Fontainebleau pitture, soprattutto italiane, e statue antiche.
Fra l'altro, si deve a lui la creazione di una biblioteca regia, di cui fu incaricato lo studioso Guillaume Budé, e l'istituzione, secondo lo spirito umanistico che caratterizzò il suo regno, delle cattedre di greco, di latino e di ebraico, che costituirono il nucleo del successivo Collège de France. Sul piano politico mostrò invece notevoli doti di cinismo messe a frutto per contrastare l'egemonia europea del suo avversario Carlo V: mentre in patria iniziò a perseguitare i seguaci delle idee protestanti, li favorì in Germania per minare la compattezza dell'impero; non esitò, infine, a stringere accordi di alleanza con i turchi (nel 1528 e nel 1535) in funzione anti-asburgica.
Le continue spese per sostenere l'aggressiva politica estera costrinsero la corona ad avviare ampie riforme economiche nel paese per sostenere le finanze dello stato. Furono sottoscritti ingenti prestiti pubblici e si cercò di attirare risorse finanziarie ricorrendo alla vendita di titoli nobiliari, fatto che determinò una notevole crescita della classe aristocratica.
Carlo V e Francesco I, oltre alle rispettive corone, ereditarono i motivi di scontro tra gli asburgo-spagnoli e i francesi. Il fronte italiano, con le sue ricchezze e con i suoi tesori di carattere culturale, continuava a rimanere quello più delicato, sia per la posizione strategica della penisola, sia per l'estrema debolezza e divisione che regnavano fra i regni italici.
Di fatto la lotta per il predominio in Italia doveva assumere, per circa quarant’anni (dal 1521 al 1559), il carattere di una più vasta lotta per il predominio in Europa.
Se l'enorme estensione territoriale dell'impero, come era venuta configurandosi con l'ascesa di Carlo V, imponeva alla Francia, per non soccombere, di evitare l'accerchiamento dei domini imperiali in Spagna, nelle Fiandre e in Germania, per la dinastia asburgica, invece, il ducato di Milano, e più in generale l'Italia, assumevano una posizione strategica vitale per garantire la comunicazione fra i nuclei essenziali dell'impero, ovvero l'Europa centrale e la penisola iberica.
Il ducato di Milano, tornato in mano francese dopo la vittoria di Marignano, divenne il primo teatro di scontro militare dopo che, nel 1521, ripresero le ostilità. La prima fase della guerra si concluse con la battaglia della Bicocca nei pressi di Milano (27 aprile 1522), che vide l'esercito francese sconfitto dalle truppe imperiali comandate dal condottiero Prospero Colonna.
In conseguenza della sconfitta, i francesi furono costretti ad evacuare il milanese, che passò sotto l'amministrazione di Francesco Sforza, alleato di Carlo V. Nell'ottobre del 1524, il re di Francia invase nuovamente l'Italia e puntò decisamente verso Milano. Cinta d'assedio Pavia, difesa dall'esercito imperiale, il 24 febbraio 1525, nei pressi della città si svolse lo scontro decisivo fra i due eserciti, che si risolse in una nuova disfatta per i francesi: lo stesso re Francesco I, ferito, fu fatto prigioniero e venne deportato in Spagna.
Nel 1526, a Madrid, fu costretto a firmare un pesante trattato di pace con il quale, in cambio della libertà, fu costretto a concedere Milano e la Borgogna francese a Carlo V, oltre a lasciare in ostaggio in Spagna i propri figli Francesco ed Enrico.
L'ansia di rivalsa non abbandonò Francesco I, che, liberato, tornò in patria e iniziò trattative diplomatiche per dare vita ad un’alleanza antiasburgica per riprendere le ostilità contro Carlo V.
La nuova alleanza (Lega di Cognac, 1526) raccolse un ampio fronte di consensi fra coloro che volevano sottrarsi al pesante predominio spagnolo che era venuto configurandosi in Italia: vi aderirono Firenze, Venezia, il ducato di Milano (che cercava di sottrarsi ad una protezione troppo invadente) e addirittura il re d’Inghilterra Enrico VIII Tudor.
Vi partecipò anche il pontefice Clemente VII (1523-34), appartenente alla famiglia dei Medici, che in precedenza aveva sostenuto Carlo come difensore del cattolicesimo contro il diffondersi in Germania della Riforma protestante. La politica italiana viveva però su altri equilibri: un impero predominante nella penisola metteva in pericolo anche l'autonomia dei territori della Chiesa. La partecipazione del pontefice provocò una durissima risposta dell'imperatore, che, nel 1527, fece scendere in Italia un esercito di oltre 10.000 mila mercenari lanzichenecchi, in maggioranza luterani.
L'esercito imperiale guidato da Carlo di Borbone, dopo aver agevolmente superato a Governolo, nei pressi di Mantova, la generosa resistenza di uno dei più famosi capitani di ventura dell'epoca, il fiorentino Giovanni dei Medici, detto Giovanni dalle Bande Nere (1498-1526), dilagò verso Roma cingendola d'assedio. Nel primo giorno di combattimenti il comandante imperiale, il conestabile di Borbone, trovò la morte colpito da una palla di archibugio - che si vantò di avere sparato lo scultore e avventuriero fiorentino Benvenuto Cellini - mentre dava la scalata alle mura della città. Fu sostituito al comando dal principe d'Orange, Filiberto di Chalon, che mise poi per iscritto i suoi ricordi di quelle giornate (I Giornali del principe d’Orange).
La conquista di Roma degenerò in un saccheggio indiscriminato, di cui, peraltro, l'imperatore declinò ogni responsabilità. Da un lato, vi era l'odio religioso che animava i mercenari di fede luterana; è noto, infatti, che il loro comandante, Giorgio di Frundsberg, si vantasse di portare con sé un laccio d’oro per impiccare il papa e altri di seta cremisi destinati ai cardinali.
Dall’altro, vi erano ingenti ritardi nella liquidazione delle paghe, che accesero al culmine la cupidigia e la rabbia della soldataglia. Per alcuni mesi il pontefice fu costretto a rimanere asserragliato in Castel Sant’Angelo, assistendo impotente alla distruzione della città, al saccheggio delle chiese e al linciaggio e all’umiliazione dei cardinali.
Il vuoto di potere causato dal pontefice assediato nella sua città ebbe forti ripercussioni sullo scenario politico italiano. Venezia approfittò per estendere la sua influenza sul porto di Ravenna, occupando alcuni territori pontifici sull’Adriatico; Genova si schierò apertamente dalla parte di Carlo V; a Firenze, i Medici, parenti del papa, furono nuovamente cacciati e venne restaurata la repubblica.
Clemente VII si vide dunque costretto ad avviare trattative di pace con l’imperatore, accettandone le conquiste italiane; la promessa fu quella di incoronarlo con le sue mani, secondo l’antico rito medievale. La cerimonia si svolse nel febbraio del 1530 a Bologna: il 22 Carlo fu incoronato re d’Italia, mentre il 24, nella cattedrale di San Petronio, fu incoronato imperatore.
Nel frattempo, le sorti del conflitto volgevano apertamente in favore di Carlo V. Anche la Francia, dopo una serie di insuccessi militari, si era vista costretta a sottoscrivere un pesante trattato di pace. La pace di Cambrai (che fu detta anche "delle due dame" perché le trattative furono condotte da Margherita d’Austria, zia di Carlo V, e da Luisa di Savoia, madre di Francesco I) pose fine alle ostilità tra la Spagna e la Francia (5 agosto 1529). Il re di Francia, che fu costretto a sposare in seconde nozze Eleonora, sorella dell'imperatore, rinunciava a tutti i suoi diritti su Napoli e Milano, accettando il passaggio del ducato alla Spagna, alla morte di Francesco Sforza. Rimaneva solo da tenere fede alla promessa fatta al pontefice di restaurare la sua famiglia al governo di Firenze.
La città fu cinta d’assedio dall’esercito imperiale il 12 ottobre 1529, ma resistette, nonostante la carestia, per quasi dieci mesi. Le solide fortificazioni, erette sotto la direzione di Michelangelo Buonarroti, e la coesione dei cittadini furono superati solo il 12 agosto 1530, dopo il tradimento del condottiero Malatesta Baglioni, capo delle milizie di difesa, e dopo la sconfitta di Francesco Ferrucci, che aveva invano tentato di rompere l’accerchiamento attaccando alle spalle l’esercito imperiale (battaglia di Gavinana).
Solo due anni più tardi, nel 1532, i Medici poterono rientrare in città quando Alessandro, nipote del papa, fu nominato duca da Carlo V. L’antica repubblica era definitivamente tramontata, trasformandosi, d’ora in poi, in un principato dinastico vassallo della Spagna.
La pace del 1529, che sembrò segnare forse l'apice del successo di Carlo V, non risolse che temporaneamente gli scenari di guerra che sconvolgevano l'Europa. La rottura dell'unità cattolica, provocata dall'affermarsi della Riforma protestante nei territori germanici, e la spinta espansiva dell'impero ottomano nell'area dei Balcani creavano motivi di forte destabilizzazione sullo scenario politico dominato dall'impero.
I turchi, che, sotto la guida di Solimano I il Magnifico, avevano conquistato Belgrado (1521), erano ormai una minaccia reale per l'imperatore; suo cognato, Luigi II Jagellone, re di Ungheria e di Boemia, tentò di opporsi all'avanzata delle armate turche, ma dovette soccombere, sconfitto nella battaglia di Mohacs (1526), lasciando gran parte dell’Ungheria agli ottomani.
Il suo successore, Ferdinando d’Asburgo, fratello di Carlo V, poté cingere solamente la corona di Boemia (anche se a titolo elettivo e non ancora ereditario), mentre per quella di Ungheria si trovò contrapposto a Giovanni Zapolya, voivoda (governatore) della Transilvania, espressione dei ceti magnatizi locali che non avevano esitato a passare sotto le insegne di Solimano. Il blocco di forze ungherese-ottomano varcò il Danubio nel 1529, portando l'assedio fin sotto le mura di Vienna.
L'urto fu retto faticosamente, ma il fronte orientale rimaneva estremamente fragile e bisognoso di un costante impegno militare e diplomatico. In questo contesto conflittuale si inserì nuovamente la Francia di Francesco I. L'occasione fu, nel 1535, la morte di Francesco II Sforza e l'occupazione del ducato di Milano da parte degli spagnoli, secondo gli accordi stipulati nel 1529. La "ragion di Stato" guidò Francesco I nel superare ogni inibizione di carattere morale e religioso, portandolo a stipulare accordi di alleanza con gli ottomani di Solimano il Magnifico, con i principi luterani di Germania e con il re d'Inghilterra.
In campo avverso, si schierarono dalla parte dell'imperatore Venezia e il nuovo papa Paolo III (1534-49) della famiglia Farnese. L'equilibrio delle forze in campo e l'apertura di fronti diversi, protrassero la guerra, nonostante la tregua di Nizza (1538), fino al 1544, quando con la pace di Crépy l’imperatore si vide riconfermato il dominio su Milano, mentre la Savoia e parte del Piemonte passavano alla Francia. L'Italia appariva invece sempre più frammentata, visto che il figlio del papa, Pierluigi Farnese (1503-1547), aveva ottenuto il ducato di Parma e Piacenza, dando avvio ad una nuova dinastia familiare.
Nel 1547 moriva Francesco I, ma non venivano per questo meno i motivi che animavano lo scontro tra la Francia e l'impero. Enrico II (1547-59), figlio e successore di Francesco I, riprese la politica di alleanze del padre, mantenendo i rapporti con i principi protestanti della Germania in lotta con l'imperatore. Le ostilità ripresero nel 1552, quando il re francese occupò alcuni vescovati nella Lorena che appartenevano all’impero, spostando il confine della Francia verso il Reno.
Nel frattempo, il conflitto fra protestanti e cattolici volgeva negativamente per l'imperatore, sconfitto militarmente ad Innsbruck (1552). Sul fronte germanico divenne sempre più impellente l'esigenza di arrivare ad una pacificazione, che fu raggiunta il 3 ottobre 1555 con la pace di Augusta. L'imperatore, stanco delle incessanti lotte che avevano caratterizzato il suo regno e amareggiato dagli esiti della guerra con i protestanti, decise nel 1556 non solo di abdicare, ma anche di dividere il suo dominio per eliminare i motivi di scontro con la Francia.
Suo figlio Filippo II ottenne i domini spagnoli, comprese le nuove colonie, i Paesi Bassi e i possedimenti italiani; il fratello Ferdinando I ottenne invece i possedimenti asburgici in Austria, Boemia e Ungheria, mantenendo la dignità della corona imperiale (1556-1564). In un contesto economico sempre più provato dalle incessanti guerre e dalle crescenti divisioni confessionali, il conflitto franco-spagnolo non si estinse con l'abdicazione di Carlo V.
Dopo la grande battaglia di San Quintino in Piccardia (10 agosto 1557), che vide vittoriose le truppe spagnole guidate dal duca di Savoia Emanuele Filiberto, si giunse, due anni dopo, ad una pacificazione. La pace di Cateau-Cambrésis (3 aprile 1559) pose fine alle guerre di predominio che avevano sconvolto l'Europa nella prima metà del '500; fu un momento topico e cruciale per ridisegnare il futuro assetto politico dell'Europa moderna. La Francia rinunciò definitivamente alle sue pretese sull'Italia, entrata stabilmente nell'orbita del predominio spagnolo, restituendo la Savoia e il Piemonte alla dinastia dei Savoia; ricompose però il suo territorio annettendosi il porto di Calais rimasto fino ad allora agli inglesi.
La dinastia degli Asburgo vide invece riconosciuto il suo predominio europeo, che si concretizzò fino a tutto il XVII sec. con il ramo spagnolo discendente da Filippo II, mentre successivamente fu il ramo austriaco, discendente da Ferdinando I, a dominare la vita politica europea nel XVIII e XIX sec.