Le tendenze e le concezioni del romanticismo, come abbiamo detto, trovarono espressione, oltre che nelle opere di artisti e di letterati, in quella di alcuni filosofi. Le loro dottrine furono per un lato l'esito della discussione del criticismo, per l'altro l'effetto dell'atmosfera romantica, che la condizionò. Al di là di alcune specifiche difficoltà teoriche da essi individuate nel pensiero di Kant, infatti, fu determinante la loro insoddisfazione per una concezione che, pur ponendo a fondamento dell'esperienza l'attività dell'io, la riconduceva a forme astratte, divise tra loro, e la limitava al mondo dei fenomeni.
Questa prospettiva era evidente già nel rifìuto del rigorismo e dell'intellettualismo kantiano da parte, rispettivamente, di Schiller e di Herder. Sul piano più propriamente teorico, essa fu approfondita in particolare da Johann Georg Hamann (1730-1788) e da Friedrich Einrich Jacobi(1743-1819).
Hamann, concittadino, estimatore e amico di Kant; non condivise l'importanza da Kant attribuita alla ragione e in particolare la distinzione da lui introdotta tra ragione e sensibilità; non pubblicò però, per rispetto, le sue critiche, che apparvero postume col titolo Metafisica del purismo della ragione nel 1788. Secondo Hamann, l'esperienza è un tutto organico, che non sopporta le distinzioni introdotte, in essa da Kant e soprattutto si fonda non tanto sulla ragione quanto sulla fede, cioè su una assunzione immediata delle cose. Hamann intendeva il termine nel senso che aveva dato ad esso Hume, ma anche in quello più preciso della religione; e coltivò in effetti una visione mistica della realtà che gli valse l'epiteto di "mago del Nord".
Anche Jacobi rifiutò di considerare la ragione come condizione suprema dell'esperienza; le strutture che appaiono in essa dipendono, a suo giudizio, più che dalle categorie, dal linguaggio. Anche questo, però, ha in fondo l'effetto di fissare ciò che di per sé è mobile; per questo anche Jacobi sostenne che per intenderne il significato originario è indispensabile affidarsi alle rivelazioni immediate della "fede". Jacobi accetta da Kant la tesi che l'esistenza di Dio non si possa dimostrare, ma perché ciò significherebbe inserire Dio nella catena dei fenomeni, sia pure come il primo anello. La ragione, secondo Jacobi, ha come esito inevitabile lo spinozismo. Egli sostenne questa tesi nelle Lettere a Mosé Mendelssohn sulla dottrina di Spinoza (1785), dove denunciò lo spinozismo di Lessing. Esse provocarono un ampio dibattito, con l'esito per di fare di Spinoza un termine di riferimento importante nella filosofia tedesca.
Oltre che sull'intellettualismo, la discussione sul criticismo si appuntò soprattutto sui rapporti tra i vari aspetti della ragione individuati da Kant (specialmente tra ragione teoretica e ragione pratica, da cui la ragione sembrava come divisa in due), e sul concetto di cosa in sé e fu la discussione su questa, soprattutto, che portò agli sviluppi più rilevanti del criticismo.
Essa fu avviata da Karl Leonhard Reinhold (1758-1823), che fu tra i primi a far conoscere il criticismo con le sue Lettere sulla filosofia kantiana (1786), che gli valsero la cattedra di filosofia a Jena; nel Saggio di una nuova teoria della facoltà rappresentativa dell'uomo (1789) cercò poi di ridurre la molteplicità di forme cui Kant aveva ricondotta l’esperienza.
La rappresentazione (cioè, i contenuti coscienti) è, secondo Reinhold, la base da cui bisogna partire per individuare le condizioni o (com'egli dice) gli elementi della conoscenza; e di essa l'analisi rivela che "deve necessariamente essere formata di due elementi diversi", che sono, rispettivamente, quelli che Kant aveva chiamato materia e forma della conoscenza.
Ciò, secondo Reinhold, spiega il costituirsi del soggetto e dell’oggetto come poli essenziali della conoscenza (non cioè come sostanze ad essa preesistenti, ma come condizioni necessarie ad essa interne); e spiega le diverse forme della conoscenza (intuizioni, concetti, idee) come modi graduali di organizzare i contenuti. Da, questa tuttavia rimaneva esclusa la "cosa in sé", in, quanto "quid inconoscibile".
Questo limite fu denunciato con decisione da Gottlieb Ernst Schulze (1761-1833), professore a Helmstidt e poi a Gottinga, nella celebre opera Enesidemo, o sopra i fondamenti della filosofia degli elementi esposta a Jena dal sig. professore Reinhold (1792), in cui sosteneva che la filosofia trascendentale non aveva affatto "superato" le conclusioni di Hume, proprio perché ammetteva la cosa in sé.
La cosa in sé, secondo Schulze, era un concetto contraddittorio perché da un lato era dichiarata inconoscibile, dall'altro era affermata esistente e quindi in qualche modo qualificata. Ciò significava uscire dai limiti dell'esperienza, e uscirne facendo uso del concetto di causa, che anche per Kant non aveva che un uso fenomenico, senza però acquisire nessuna conoscenza. Per questo appunto il criticismo non aveva superato lo scetticismo di Hume, anzi lo confermava.
Le contraddizioni segnalate da Schulze, invero, derivavano da una concezione della "cosa in sé" quale realtà "dietro" i fenomeni e "causa" di essi (ossia da una prospettiva empirica, non trascendentale) che non era propriamente quella di Kant. Alla concezione kantiana della "cosa in sé" come "concetto limite" si rifece Salomon Maimon (1754-1800) nel suo Saggio sulla filosofia trascendentale (1790), giungendo però a conclusioni analoghe.
Se, come voleva Reinhold, "rappresentazione" sono i contenuti coscienti, la "cosa in sé", in quanto "quid non rappresentabile", è fuori della coscienza, e quindi - conclude Maimon - una "non-cosa"; ed è perciò impossibile anche attribuirne l'origine a qualcosa fuori della coscienza, piuttosto che alla stessa coscienza.
Dal punto di vista trascendentale, la "cosa in sé" può essere interpretata come un limite interno alla coscienza, ossia ciò che in essa non risulta determinato razionalmente, ma può esserlo nel processo della conoscenza. Questa concezione, approfondita da Maimon nel Saggio di una nuova logica o teoria del pensiero (1794) e nelle Ricerche critiche sullo spirito umano, escludeva ormai la conoscenza come rapporto ad altro da sé.
In tal modo era aperta la via per negare ogni realtà al di fuori della rappresentazione e per considerare l'io come l'unico principio dell'esperienza. Su questa via si mise Jacob Beck. (1761-1840), che nell'Unico punto di vista dal quale la filosofia critica può esser giudicata, affermò che la verità come corrispondenza all’oggetto era possibile solo se l'oggetto stesso era prodotto dal soggetto.
Era la via dell'idealismo. Esso si presenta innanzitutto come una concezione della conoscenza, secondo cui il soggetto non "riproduce" l'oggetto che conosce ma lo "produce", in quanto lo determina non solo nella "forma" (come aveva affermato Kant), ma anche nel "contenuto" (che Kant aveva considerato invece un "dato"); e su questa base si configura anche come una concezione metafisica, secondo cui lo spirito non dipende da alcuna realtà a lui esterna, ma ogni realtà esiste solo nello spirito che la pensa.
In questo modo l'idealismo trasvalutava la "rivoluzione copernicana", facendo dell'io non solo l’ordinatore ma il creatore della realtà sperimentata. Nel far ciò, naturalmente,esso non intendeva più l'io come una semplice condizione della conoscenza, bensì come un principio metafisico che, come vedremo, opera nei singoli soggetti come origine di ogni loro esperienza, ma non si riduce ad essi, ma è eterno ed infinito (poiché non c'è realtà fuori di lui che lo limiti). In tal senso fu detto io trascendentale o io assoluto, e talora identificato con Dio.
L'idealismo dava così un nome più preciso all'infinito di cui parlavano i romantici; ma come essi considerò sue manifestazioni sia l'uomo che la natura e la storia, e le interpretò secondo gli orientamenti del soggettivismo, del naturalismo e dello storicismo. Di ciascuno di essi, poi, come s'è accennato, si può vedere schematicamente l'espressione in uno dei tre maggiori esponenti dell'idealismo, cioè Fichte, Schelling e Hegel.