Vladimir Solov'ëv nacque a Mosca nel 1853, nella famiglia del noto storico russo Sergej Michajlovič Solov'ëv (1820-1879). Solov’ëv frequentò il ginnasio moscovita, facendovi ingresso nel 1864, e l’istruzione superiore nell’Università di Mosca, accedendovi nel 1869 e terminando gli studi nel1873. Il carattere straordinariamente dotato di Vladimir e le sue continue e, si potrebbe dire, passionali ricerche delle "più alte verità" si mostrano già in anni precoci. Come è noto, Solov’ëv inizia a leggere molto presto gli slavofili e i grandi idealisti tedeschi. Dal 1876 Vladimir Solov'ev insegna all'università di Mosca, per poi passare al ministero dell'educazione a Pietroburgo; nel 1881 tuttavia è sospeso dall'incarico per motivi politici. In quello stesso anno pubblica Lezioni sulla Divinoumanità, in cui difende il "simbolo" cristologico espresso durante il concilio di Calcedonia, nel 451, che definisce l'esistenza in Cristo di due nature perfette: divina e umana. Secondo Solov'ev l'incarnazione di Cristo costituisce la tappa conclusiva di una graduale manifestazione di Dio nella storia umana, dal politesimo, al buddhismo, al platonismo, al giudaismo, sino al cristianesimo. Un altro aspetto fondamentale del pensiero di Solov'ev riguarda la cosiddetta "teosofia", che individua nella Sapienza Divina (Sophìa) il tramite tra Dio e gli uomini; questa sapienza, che si rivela pienamente in Cristo, si attua nella Chiesa, che è "l'eterna amica", "l'essere reale e femminile: la vera e pura e intera umanità". Nella sua dimensione materiale, la Chiesa assumerà il suo aspetto perfetto allorché realizzerà l'unione delle diverse denominazioni cristiane e la convergenza fra Chiesa e Stato. Tra le altre opere di Solov'ev occorre ricordare I fondamenti spirituali della vita (1884) e Sulla giustificazione del bene (1897).
Il pensiero occidentale ha mosso le sue principali istanze teoriche a partire dall'esigenza razionalistica già dalla scolastica e ha proseguito il suo cammino nel pensiero moderno. La ragione scolastico-moderna ha finito per cancellare l'alterità oggettiva dell'essere rispetto a sé stessa riconducendo tutto alle sue istanze razionali sino a raggiungere la conclusione di fatto nichilistica che Solov'ëv intuisce potentemente e critica severamente, soprattutto in una denso articolo dove egli mostra la folle inconsistenza del dramma di Nietzsche. La sua visione del superuomo è improntata, in realtà, alla lotta viva nella sua anima per tentare di farà spazio alla sua personalità schiacciata da una mole impressionante di erudizione libresca. Ma questo peso trasforma le sue aspirazioni in una sorta di superfilologia: il suo fittizio superuomo è in realtà un realissimo superfilologo. Nel suo tentativo di criticare la storia, Nietzsche ha trasformato la filologia occidentale che lo schiacciava sotto il suo pesante fardello storicistico, in una raffinata filologia orientale. E mentre sperava di liberarsi dall'eccesso erudito, crea una libresca figura superoministica che non è in grado di liberare se non la fantasia dell'autore: «Il superuomo non è che una materia di insegnamento universitario per una nuova cattedra istituita nella facoltà di filologia».(V.S. Solov'ëv, Finzione letteraria o verità?, in V. S. Solov'ëv, O voinié, progressie i kontsié vsiemirnoi istorii so vkliuceniem kratkoi póviesti ob antichristie i s prilozeniiami, Pietroburgo 1904, trad. it. I tre dialoghi e il racconto dell'Anticristo, Genova 19962, p. 242.)
Scrive Solov'ëv che il principio centrale del pensiero occidentale è il pensiero intellettualistico il quale, pur rappresentando un momento importante della riflessione umana, ha avuto un ruolo imperialistico nel corso dello sviluppo filosofico già a partire dalla scolastica. L'io trascendentale, creatore del concetto, è l'esito della riflessione speculativa hegeliana, che chiude idealmente il ciclo del razionalismo, mentre l'io empirico e fattuale conclude il percorso dell'empirismo moderno in Stuart Mill. Due logiche antagoniste ma sorrette dalla stessa atrofizzazione fondamentale che ha chiuso la strada all'essere reale e concreto, rendendo impossibile ogni metafisica.
La diagnosi tracciata da Solov'ëv è semplice e limpida nella sua lucidità: «La filosofia, …, intesa come visione del mondo, è la visione del mondo di persone singole. La visione collettiva del mondo che è tipica dei popoli e delle tribù ha sempre un carattere religioso e non filosofico e perciò, finché tutte le singole persone vivono la comune vita spirituale del popolo, la filosofia come visione del mondo autonoma e sovrana è impossibile». (V.S. Solov'ëv, Krizis zapadnoj filosofii (protiv pozitivistov), trad. it. La crisi della filosofia occidentale (contro i positivisti), in V.S. Solov'ëv, La crisi della filosofia occidentale, Milano 1989, pp. 35-172, p. 36] Questo fatto è tangibile nell'esito soggettivistico e nichilistico del pensiero occidentale. Per recuperare una dimensione metafisica è necessario, con Kant e Schopenhauer, ricostruire una strada percorribile per recuperare quel senso di unità più profondo che la ragione filosofica ha messo fra parentesi nel suo processo di sviluppo. La risposta consiste nel portare a fondo, criticamente, la filosofia della volontà di Schopenhauer partendo dal presupposto di un'identità tra soggetto conoscente e metafisica, tra esperienza interiore e principio spirituale fondamentale unitotale, in quanto l'essere dell'esperienza interiore, il principio spirituale costitutivo dell'uomo, non è né psicologico né idealistico ma oggettivo nel senso platonizzante della forma. La volontà di Schopenhauer lascia fuori, nella sua cecità, la struttura motivata dell'agire spirituale non solo umano ma anche superiore. Pertanto l'essere è l'insieme di idea e volontà; per un verso forza e agilità ma per l'altro conformità ideale verso un fine. In una parola, Unitotalità.
Pertanto il platonismo è inserito in una concezione della conoscenza e del sapere dai toni decisamente religiosi: la conoscenza dell'essere del reale e della sua esistenza si comprende solo a partire da un atto radicale di fede nell'esistenza assoluta - cioè propria, autonoma ed oggettiva - degli enti conosciuti. Proprio in virtù di questa dimensione mistica il platonismo, e più in generale la cultura greca, sembra restare fuori dalla complessa vicenda del razionalismo del pensiero occidentale, a partire dalla scolastica. La vicenda della modernità e la sua parabola nichilista non sono dunque imputate alle premesse greche dell'occidente perché le premesse greche non sono fruibili appieno nel panorama razionalistico-empiristico che ha diviso e logorato la speculazione occidentale.
Diventa più intuitivo cogliere l'insufficienza del sapere razionalistico soggettivistico denunciata da Solov'ëv e comprendere perché il sapere filosofico non sarebbe in grado di soddisfare il desiderio dell'intelletto di superare il soggettivismo moderno, senza una riappropriazione delle radici greche. L'assimilazione di teologia e filosofia diventa possibile solo se il pensare filosofico si riscopre oggettivamente teologico (nel senso dell'idealismo platonico greco e non tedesco) e il teologare si informa nel logos. Ma, più attentamente, non si darebbe assimilazione senza il passaggio estetico che ricerca l'armonia ideale da raggiungere, meta ed esito esplicito del sapere. Un'armonia che diviene celebrazione della riconciliazione presagita e ricercata tra naturale, divino e umano. Così l'apice della speculazione rinnovata mostra la complementarietà dell'elemento speculativo con quello storico, della dimensione intellettuale e di quella positivo rivelata.
Questo compito ci richiama, da una parte, al superamento dell'individualismo razionalistico, da cui la filosofia ha preso le mosse per giungere attraverso lo spirito umano sino allo spirito divino, e, dall'altra, al dovere della riorganizzazione della realtà naturale alla luce delle energie interiori spirituali divine. La libera teosofia diventa libera teurgia e sfocia nella realizzazione estetica della verità divina presente alla radice dello spirito di ciascuno. Questo significa che, «il compito dell'arte nella sua pienezza come libera teurgia consiste, […], nel ricreare la realtà esistente, nell'istituire al posto dei rapporti esteriori dati tra gli elementi divinoumano e naturale rapporti interiori organici di questi tre principi nel generale e nei particolari, in tutti e in ciascuno». Un disegno che dilata sensibilmente sia i compiti tradizionali del teologare sia i compiti del filosofare ma, allo stesso tempo, sovverte il modo consueto di percepire l'arte.
L'unitotalità
Nelle Lezioni sulla divinoumanità, Solov'ëv approfondisce la sua intuizione circa l'unitotalità. L'idea unitotale è pertanto l'idea come soggetto, come persona, mediante la quale possiamo giungere all'idea assoluta, al Dio vivente che riconosce il suo essere ed esistere in relazione al tutto. L'unitotalità è dunque la persona assoluta da cui e a cui tutto è riferito. In essa si ricapitola metafisicamente l'ansia unitotale: «Non conoscendo privazione, essa non conosce invidia, afferma egualmente l'essere e il bene di tutti e perciò viene definita bontà assoluta o amore». E questo bene riconosciuto costituisce la base della nuova alleanza teandrica tra l'uomo e Dio, fondata sulla legge dell'amore universale, che ripristina l'umanità nella sua interezza di popoli e nazioni e riconcilia anche la natura. L'esito ultimo di questa alleanza tra filosofia e sapienza religiosa è la ricchezza del regno dello spirito che nell'apocatastasi, nella ricapitolazione e riconciliazione universale, vedrà la «piena manifestazione dell'unitotale». L'Unitotalità rappresenta il principio primo speculare alla volontà cieca di Schopenhauer. La dove il filosofo tedesco non vede che la cieca affermazione egoistica della volontà, da cui scaturisce la drammaticità conflittuale della vita, Solov'ev vede un fondamento pienamente altruista nell'unitotalità.
Partendo da questa condizione originaria nell'amore Solov'ëv sviluppa la sua intensa meditazione sul male e la caduta, presupposto della riconciliazione . Il male è l'autoaffermazione individuale esclusiva che negando gli altri distrugge l'unitotalità. Una forza distruttiva che si sviluppa su un duplice piano: se il male è distruttivo della comunione tra individui esso è distruttivo anche rispetto al singolo individuo e alla sua volontà egoistica che vede come fatalmente irrealizzabile la sua volontà di autoaffermazione esclusiva, la sua volontà di essere tutto, stabilendo così la radice ultima della sofferenza. Dunque la risposta circa l'origine del male è da ricercare nel mistero della libertà e non in un dualismo di fondo della realtà primigenia: «l'indebita realtà del mondo naturale è una posizione dispersiva e vicendevolmente avversantesi dei medesimi enti che nel loro rapporto normale, cioè nella loro unità e armonia interiori, costituiscono il mondo divino». Si tratta infatti di una modificazione nella disposizione originaria delle relazioni presenti nell'unitotalità divina, in quanto essendo la divinità il tutto, niente può esistere al di fuori di essa. Ma se la disposizione che sconvolge l'unitotalità è frutto di libertà, essa non può essere definita come un male naturale, fisico: gli enti individuali naturali sono già avvolti dalla realtà del male e non possono aver compiuto un salto di quella natura. La radice del male, dunque, deve essere ricercata su un piano anteriore di ordine metafisico che coinvolga il mistero della libertà ab aeterno.
L'analisi di questo problema è svolto con una consequenzialità di grande suggestione. Il punto di partenza resta la differenza, nell'unitotalità, tra l'unità sovrabbondante della Divinità e il tutto che essa include: «la Divinità come essente ha in sé la potenza illimitata e incommensurabile ossia la forza dell'essere (senza la quale nulla può esistere); ma in quanto essente unitotale essa eternamente realizza questa potenza, sempre riempie l'illimitatezza dell'esistenza con un contenuto parimenti illimitato e assoluto, sempre spegne con detto contenuto la sete infinita di essere insita in tutto ciò che esiste». Ma questo non può valere negli stessi termini per le singole essenze presenti nell'unitotalità. In esse si crea l'opposizione tra l'individualità di ciascuno e il tutto: la pienezza assoluta dell'essere che sussiste come tensione ontologicamente infinita, indeterminata e smisurata non ha in sé alcun limite. Pertanto è nella singolarità ontologica di ogni individualità presente nell'unitotalità che può crearsi il presupposto per l'illimitato, per uno scarto ontologico che solo la Divinità, nella sua pienezza, può soddisfare: l'indefinito nella Divinità è un'ipotesi già da sempre sconfitta.
Ora, poiché gli enti individuali non sono immediatamente tali nell'unitotalità, è necessario cogliere il dinamismo attraverso il quale essi raggiungono la realtà individuale autonoma . Il processo si sviluppa attraverso tre sfere principali determinate dalla prevalenza di una delle tre azioni divine: la volontà, la rappresentazione, il sentimento.
La prima sfera è determinata dalla volontà; in essa gli enti sono puri spiriti e riposano nell'unità del puro amore immediato in quanto la loro volontà è identica alla volontà unitotale di Dio. La seconda sfera è il campo del Verbo, del Logos, nel quale prevale la rappresentazione ossia l'attività intellettuale che è determinata dall'intelletto divino. In essa gli enti hanno l'essere non solo in Dio ma anche uno per l'altro in virtù delle relazioni reciproche ideali instaurate dall'attività contemplativa. Ciascun ente è un'idea determinata e separata dalle altre che occupa un suo posto definito nel cosmos ideale.
Queste due prime sfere però non sono in grado di fornire un'individualità distinta pienamente e realmente dalla divinità alle singole essenze dell'unitotalità. Gli enti, in quanto puri spiriti e pure intelligenze, non possiedono un'esistenza distinta dalla Divinità e concentrata in se stessa che permetta loro di interagire interiormente sul principio divino. Inoltre, esso è insufficiente anche per l'unità dello stesso principio divino: essendo amore perfetto egli vuole che i singoli enti ideali ricevano una specificazione reale che permetta la manifestazione piena del suo amore. Per questo non si accontenta di contemplare eternamente le essenze ideali ma vuole che ciascuna idea o essenza abbia una vita piena e reale: è l'atto vero e proprio della creazione divina, la terza sfera dell'essere divino, che «educe la sua volontà dall'unità sostanziale assoluta che determina la prima sfera dell'essere divino, dirige questa volontà su tutta la molteplicità degli oggetti ideali contemplati nella seconda sfera e si arresta su ciascuno di essi in particolare, con un atto di volontà si accoppia a ciascuno e così ne afferma e sigilla l'essere proprio autonomo capace di agire sul principio divino». Si assiste così ad una trasformazione dell'unitotalità originaria che crea realmente l'alterità da sé delle idee e la divina comunione unitotale si trasforma in modo tale che Dio non sia più tutto ma solo uno nel tutto. Ciascun ente perde la sua unità immediata con la Divinità in modo tale da acquistare un limite individuale che non era presente nell'unitotalità immediata prima della creazione. E così vengono create le anime, principi reali e viventi interagenti con la Divinità.
Dall'analisi della realtà delle tre sfere divine emerge una suggestiva immagine trinitaria della creazione poiché gli enti che riposano immediatamente avvolti nell'amore dell'uno Dio Padre, sono contemplati, e contemplano a loro volta, nella luce del Verbo e acquistano vita e attività propria nello Spirito Santo. Questa realizzazione trinitaria del creato vede al suo centro il Verbo principio unificante del tutto e pertanto principio attivo dell'unitotalità. Così assieme alla realtà delle singole anime nella terza sfera acquista vita piena anche il principio costitutivo dell'unità delle anime ossia l'anima del mondo, della quale partecipa, essendo in relazione reciproca e in relazione col divino nel Verbo, l'umanità ideale la Sofia: «Essendo la realizzazione del principio divino e la sua immagine e somiglianza, l'umanità prototipa o anima del mondo è insieme uno e tutti; essa occupa il posto medio tra la molteplicità degli enti vivi che costituiscono il contenuto reale della sua vita e l'unità assoluta della Divinità che è il principio ideale e la norma di questa vita. Come punto focale vivo o anima di tutte le creature e insieme forma reale della Divinità, essa è soggetto esistente dell'essere creato e oggetto esistente dell'azione divina»
Proprio questa duplicità di natura sospesa tra l'unità divina e il principio di relazione della molteplicità delle anime fa si che l'anima del mondo sia libera: dalla natura per la sua appartenenza al divino, dalla Divinità per la sua autonomia creaturale. Questa piena libertà, distinta dalla pura e semplice unità immediata con la libertà dell'unitotalità divina, è data dalla sua unione col Verbo e pertanto rappresenta la piena umanità divina di Cristo, il suo corpo la Sofia. Attraverso di lei Dio agisce sulla creazione perché ciò che si dischiude in forme ideali nella luce del Logos, viene realizzato dallo Spirito Santo. Perciò l'unità offerta agli elementi singoli del creato dall'anima del mondo può attuarsi nella misura in cui essa resta liberamente sottomessa al principio divino. Ma proprio questa libertà a immagine e somiglianza di Dio, rappresenta l'ansia nella quale si inscena il tragico metafisico dell'anima del mondo. Essa, infatti, può volere quell'autonomia totale che la renderebbe simile al principio divino di cui partecipa, può dunque volere possedere il tutto del molteplice in modo differente da quello attuale. Ma così essa perde la sua libertà e il suo potere sulla creazione e precipita dal centro focale unitotale dell'essere divino e diventa semplicemente uno dei molti: tutti perdono il loro nesso comune e l'unità dell'universo si dissolve trasformandosi in un insieme meccanico di atomi. Così, abbandonati a se stessi, i singoli elementi ormai slegati dal centro focale che li univa in modo armonico alla Divinità nello Spirito Santo, sono condannati a una esistenza egoistica atomizzata la cui radice è il male e il cui prodotto è la sofferenza.
Così si conclude il processo cosmogonico nel quale, per effetto della libertà dell'anima del mondo, l'unitotalità non giunge al cosmos ma al caos. Si tratta, di una visione delle origini che Solov'ëv manterrà pressoché intatta negli anni e che si ritroverà, nel 1889, in una delle sue opere principali, La Russia e la Chiesa universale, dove si chiariscono meglio i contorni della risalita dal caos verso il cosmos di divina bellezza. Richiamando concetti già espressi Solov'ëv insiste sul fatto che l'esistenza trinitaria è sufficiente per rendere impossibile la potenzialità caotica della dispersione e in questa esistenza la Sofia è la forza stessa dell'unità divina affermata. Dio vuole poter opporre al caos tutta la pienezza trinitaria della sua esistenza e pertanto oppone al disordine dispersivo la coerenza sistematica delle idee eterne, «che dà ad ogni essere un posto preciso nella totalità assoluta, manifestando così, insieme con la verità di Dio, anche la sua giustizia ed equità». Ma perché la pienezza di Dio possa rifulgere in pienezza triipostatica non basta il fatto stesso dell'esistenza e lo smascheramento della falsità del caos nell'idea, occorre anche un'attività di grazia che compenetri e trasformi il caos riconducendolo all'unità. In questa triplice reazione divina si manifesta in pienezza la Sofia stessa di Dio. Senza la grazia che compenetra il caos Dio non sarebbe compiutamente se stesso, venendo meno la sua potenza d'amore che vuole che tutto sia Dio e non può accettare l'esistenza possibile del caos solo come una possibilità sconfitta dalla sua Onnipotenza e verità.
L'amore di Dio richiede - nella necessità intrinseca dell'amore stesso e non per qualsivoglia necessità logica -, «che vi sia al di fuori di sé un'altra natura che possa divenire progressivamente ciò che lui è dall'eternità, il tutto assoluto. Per arrivare anch'essa alla totalità divina, per instaurare con Dio un rapporto libero e reciproco, questa natura deve essere separata da Dio e nello stesso tempo unita a lui. Separata per la sua base reale che è la Terra e unita per il suo vertice ideale che è l'Uomo». Perché questo accada è necessario che Dio ami il caos e faccia scaturire dal nulla la sua realtà affinché Egli possa colmare con la sua grazia il suo vuoto infinito e riportarlo all'unità, alla piena comunione con Lui. In tal senso ciò che viene primordialmente portato all'essere è l'anima del mondo. Essa rappresenta il cuore dello sforzo a cui il caos dà origine nel suo esistere e manifesta, principiandolo, il dramma della divisione cosmica. Tesa in uno sforzo che è l'antitesi dell'unità, l'anima del mondo non sa ricondurre all'unità e sgretola e divide quel minimum di organicità che le permette di esistere: senza quel minimum essa non sarebbe potuta passare alla realtà attraverso l'amore divino. In questo senso, il mondo inizialmente rappresenta il rovescio della comunione divina e l'anima del mondo il suo anarchico sforzo di esistere, l'antitesi della Sophìa, realtà piena dell'unità divina. Ma questo non significa una condanna manichea del substratum primordiale della realtà cosmica. L'anima del mondo è coinvolta in una condizione alternativa di scelta tra la possibilità nichilista del caos e l'opportunità che essa si unisca sempre più alla Sophìa divina, annullandosi in Dio.
Dopo aver ottenuto da un primo gesto d'amore l'esistenza, l'anima sente il bisogno di andare incontro a ciò che è l'opposto del suo caotico e tenebroso esistere, un desiderio a lei rivelato dal fatto stesso della sua esistenza legata al desiderio divino d'amore. L'anima sente questo desiderio divino ne è toccata e si ribella all'anarchia primigenia, desiderando profondamente l'unità. Questo provoca l'azione del Verbo e determina l'esperienza storica trinitaria. Un'esperienza che pone al centro non il fluire ma una condizione eonica del tempo basata sulla correlazione che l'anima instaura con la Trinità: «Lo stato del suo primitivo assorbimento nell'unità del Padre Eterno, la sua eterna permanenza in lui come pura potenza o semplice possibilità è ormai definita come il passato dell'anima; lo stato della sua separazione da Dio per la forza cieca del desiderio caotico costituisce il suo presente; mentre il ritorno verso Dio, la nuova riunificazione con lui, diventa l'oggetto delle sue aspirazioni e dei suoi sforzi, il suo futuro ideale»
In questo modo il mondo inferiore riceve una realtà relativa mediante la quale inizia la sua ascesa alla pienezza trinitaria. Ma l'esistenza di una realtà relativa antidivina decreta anche la creazione necessaria del mondo superiore celeste, come corrispondente espansione positiva della potenza, verità e bontà divina. Il principio generale della creazione è dato dal dinamismo trinitario per il quale la realtà extradivina può esistere dal momento in cui il Padre si astiene dall'annullarla come possibilità già vinta in virtù della sua Onnipotenza. Pertanto, anche la creazione celeste vede come protagonisti il Verbo e lo Spirito Santo. Le reazioni del Verbo danno origine al sistema delle idee divine, la sfera delle intelligenze pure che manifesta gli stessi pensieri divini. Le reazioni dello Spirito Santo sono invece più concrete e soggettive e formano il mondo dei puri spiriti o angeli, dotati di libero arbitrio, che vanno a creare le gerarchie angeliche e quelle diaboliche in virtù della loro scelta assoluta, piena e definitiva, pro o contro Dio.
Qui si evince ancor più il ruolo e il significato della Sophìa, principio non solo dell'unità divina ma anche della creazione celeste e terrestre; essendo la luce purissima che emana dalle ipostasi divine essa crea lo splendore celeste nel Verbo e nello Spirito. Non solo, essendo il principio dell'unità divina non può che offrirsi come fonte e culmine della riunificazione e ricapitolazione del principio extradivino nell'unità. Essa si incarna nel mondo riportandolo gradualmente ad un'unità sempre più perfetta per giungere al compimento finale del Regno di Dio, nei suoi angeli e nei suoi santi.
La Sophìa rappresenta il principio profondo della creazione che è perfetta, ex parte Dei, sub specie aeternitatis ma si mostra a noi come un laborioso cammino graduale dal caos al cosmos. La Sophìa sviluppa il graduale processo cosmogonico che troverà pace solo quando avrà raggiunto un soggetto con il quale e nel quale realizzarsi completamente: «Lo trova e ne gioisce. La mia gioia, dice, la mia gioia per eccellenza, è nei figli dell'Uomo». Solo nella conoscenza, biblicamente intesa, la Sophìa realizza il suo ideale di comunione celeste e terrestre, prefigurato nell'amore sponsale. Solo pertanto nella comunione con l'Uomo, capace di corrispondere liberamente all'iniziativa divina, può offrirsi l'opportunità di riunificazione piena e totale con Dio. Un'opportunità che crea una stupenda dialettica di offerta divina e risposta umana, di lotta dell'uomo stesso contro la propria interiorità e contro gli elementi naturali, alle prese con i limiti e i condizionamenti della libertà che non si esaurisce nell'istantanea e completa scelta degli angeli ma si compie in una storia di liberazione. È questo il motivo per cui, «la Sapienza eterna non trova le proprie delizie negli angeli ma nei figli dell'Uomo». E questo motiva e spiega la dimensione propriamente incarnata della Sophìa. La Sophìa si incarna gradualmente sino al culmine supremo in Cristo Gesù, al suo complemento femminile nella Vergine e alla sua estensione universale nella Chiesa. Ma sia la Vergine Madre sia la Chiesa non instaurano propriamente quella reciprocità attiva che la Sophìa ricercava nei figli dell'Uomo; essa si offre solo in Cristo Gesù. È questa pienezza instaurata nel Figlio per mezzo della Vergine, e offerta nella Chiesa a tutta l'umanità, che il Padre contempla quando vede la perfezione della creazione. Attraverso questa triplice ipostasi si attua pienamente l'incarnazione della Sophìa, si manifesta la forma assoluta dell'unità divinoumana voluta dall'amore trinitario.
L'uomo
E qui si manifesta il senso dell'Uomo il quale, per conoscersi realmente, deve sdoppiarsi nella sua unità bipolare uomo-donna: «L'uomo come soggetto conoscente o attivo (uomo propriamente detto) doveva distinguersi da sé come oggetto conosciuto o passivo (donna)». È nell'amore che si manifesta in pienezza la conoscenza che l'uomo ha di sé: esso assume il suo autentico significato solo se inteso come restaurazione della pienezza della persona umana. Esso è la scintilla che rivela all'uomo la sua piena vocazione divina e dalla quale ci si attende: «una prima rivelazione della gloria dei figli di Dio». In virtù di questo l'amore è capace di superare tutte le dispersioni e separazioni spazio-temporali che condannano l'individuo alla mortalità. Nell'amore, infatti, siamo liberati dalla morte poiché esso riversa nella nostra vita un contenuto assoluto giacché è «l'assunzione di ciò che è temporale nell'eterno. La falsa spiritualità è negazione della carne, la spiritualità autentica è la sua rigenerazione, la sua salvezza, la sua risurrezione». La natura, nell'amore, non è più un mezzo ma un fine: la bellezza autentica si attua solo nella piena restaurazione dell'individuo assoluto. Un'attuazione che non sfugge manicheisticamente alla carnalità sessuata dell'umano ma la prefigura per la piena restaurazione dell'immagine divina. Solo l'uomo integrale, maschio-femmina, è immagine divina. Così come non riconosce come proprie le speculazioni gnostiche sull'androgino, vista la centralità dell'agape.
L'amore straordinario ed eroico a cui la sessualità chiama può essere attuato solo nella fede perché l'uomo non ha in sé le forze sufficienti per restaurare nell'oggetto dell'amore e in se stesso l'immagine di Dio: se le avesse non avrebbe bisogno di restaurazione alcuna. Perciò il riconoscimento dell'altro può avvenire solo se riconosco, in Dio, il valore individuale dell'immagine divina nel mio io. Un riconoscimento che comporta la scoperta, mediante lo stimolo di un presagio nell'immaginazione, del significato unitotale di ciascun individuo nel mondo superiore a cui questo mondo inferiore naturale tenta di guardare: «questa unità ideale, cui il nostro mondo aspira e che costituisce il fine del processo cosmico e storico, non può essere soltanto il concetto soggettivo di qualcuno (…), ma esiste realmente come eterno oggetto dell'amore di Dio, come il suo eterno altro».
Compito dell'uomo è dunque perpetuare la dimensione apparentemente transeunte e naturale dell'amore, realizzando le condizioni mediante le quali l'amore eterno di Dio possa essere sempre più incarnato. Condizioni che sono tanto più spirituali e profonde quanto più sono esteriori e percepibili, necessitando di una realizzazione che non può eludere l'eroismo ascetico in vista della dimensione comunionale essenziale dell'unità. L'amore non traduce semplicemente la sessualità in motivo peculiare per la correlazione che essa mantiene con la procreazione ma piuttosto perché è mirabilmente in grado di svelare il mistero e lo stupore per l'altro. L'amore coniugale è «il fondamento e l'archetipo» della vera vita, in quanto rappresenta il modello più profondo della complementarità esistente tra gli uomini a tutti i livelli e gradi delle relazioni sociali. L'amore coniugale vissuto nella fede è testimonianza della vita nuova nella complementarità uomo-donna, modello mirabile della stessa realtà Cristo-Chiesa principio della complementarità sociale nuova, della solidarietà che inizia la trasformazione delle relazioni estranee e impenetrabili verso la solidarietà e la reciprocità di un'umanità rigenerata. La sizigia, la relazione coniugale, è così portata a raffigurare i cieli nuovi e la terra nuova; la nuova realtà di grazia spirituale e materiale, celeste e terrestre, nella quale si compie il fine verso cui corre il processo cosmico e storico «dell'instaurazione di un rapporto di sizigia tra l'uomo e il suo ambiente non solo sociale ma anche naturale e cosmico».Questa peculiarità della conoscenza-unione dei sessi definisce l'essenza umana mentre la sua esistenza è data dalla dimensione sociale dell'uomo, la legge della solidarietà, in analogia con la triplice dimensione incarnata della Sophìa. Si tratta di una visione teologica di grande spessore perché, attraverso la riflessione sul ruolo e il significato della Sophìa divina, s’illumina, in modo straordinariamente calcedonense, l'arché e il telos della realtà. E in questo scrutare in profondità il destino dell'uomo in Dio, emerge una visione della Chiesa che si può definire l'espressione compiuta dell'amore con cui Dio ci ha tratti dal nulla del caos. La Chiesa è la forma del cosmos di perfetta bellezza che il Padre contempla, sub specie aeternitatis, nella creazione. Non dunque una visione ottimistica e panteistica ma la graduale espansione sofianica di Dio: la Chiesa. Lungi, dunque, dal ridursi ad un fenomeno giuridico o puramente religioso, la Chiesa si mostra come la pienezza della creazione, il vertice supremo che ha in Cristo le primizie dei cieli nuovi e terra nuova. Il corpo che incarna l'incipiente trasformazione definitiva verso la perfezione del cosmos.
L'orizzonte estetico di Solov'ëv, come già appare dagli elementi sin qui individuati, mostra una riflessione che non può essere confinata nel significato dell'arte così com'è attualmente palesata nelle diverse forme espressive. L'arte è molto di più di quanto le sia richiesto dalle estetiche volgarmente utilitaristiche o dalle diverse forme di estetismo che pretendono di ricondurre l'arte a forma sui generis del tutto isolata dall'intero dello spirito. Per comprendere il significato e il valore dell'arte è necessaria in primo luogo una riflessione sulla bellezza, a partire da quegli elementi che brillano anche nella realtà naturale.
La bellezza è un fatto reale, essa è l'idea nella perfezione e completezza della sua incarnazione, «come realmente percepibile nell'essere sensibile». Nella natura essa si incontra, «là dove la materia pesante si trasfigura in corpi portatori di luce, là dove la brama incontrollata dell'atto sessuale animale si trasforma in una serie di suoni ordinati e misurati». Più in generale, l'intelletto cosmico crea l'universo in contrasto col caos per incarnare l'idea reale, luce e vita, nelle varie forme della natura e, in modo particolare, per creare l'uomo, la forma che possiede «la massima bellezza corporea» e «quel supremo potenziamento interiore della luce e della vita che si chiama autocoscienza». Nell'uomo la bellezza dell'aspetto esteriore è in grado di esprimere un contenuto interiore che non ha simili nel resto della natura e che manifesta in modo esplicito la concezione creazionistica e giovannea della visione di Solov'ëv: luce e vita sono i termini espliciti dell'inno cristologico del prologo di Giovanni (Gv. 1,4-5).
La specificità dell'arte consiste nel fatto di concentrare nell'uomo l'opera di prosecutore dell'attività estetica presente in natura. L'uomo, da prodotto esteticamente culminante dell'attività della natura, trapassa nel ruolo di artefice del processo mondiale che ha come fine la libera solidarietà e interazione di tutti gli elementi spirituali e materiali dell'universo. Proprio questa integrale partecipazione al rinnovamento della realtà da parte di tutti gli elementi giustifica la dimensione propria e peculiare dell'attività artistica: la bellezza implica la trasfigurazione totale dell'universo in modo più radicale dello stesso agire morale e naturale. Rispetto all'agire morale, per il quale la materialità degli elementi è solo un mezzo, la bellezza ha dalla sua il fatto di cercare la solidarietà anche degli elementi e agenti naturali, valorizzati in se stessi e non in funzione di altro. Rispetto alla natura bisogna ricordare che in essa non si da una completa trasfigurazione del caos, delle forze oscure che la tengono parzialmente in scacco. Solo la bellezza artistica è in grado di completare l'opera: «la bellezza della natura è unicamente un manto gettato sulla vita malvagia». Solo in essa vi è la possibilità di vincere il male morale che esprime il vertice supremo del caos. Richiamando l'immagine della luce del cosmo Solov'ëv ribadisce la superiorità della bellezza e del compito dell'uomo nel quale la luce della ragione non deve solo limitarsi alla conoscenza ma deve incarnare artisticamente il significato della vita in una realtà ad esso più confacente.
Questo significa trasformare in modo radicale l'immagine dell'arte affidandole un compito decisivo nel significato complessivo della vita umana. L'arte deve dunque trasformare le qualità esteriori della bellezza naturale in qualità interiori, spiritualizzando la bellezza naturale, eternando le sue manifestazioni individuali e salvandole dalla caducità temporale. Ciò può avvenire solo se la vita fisica si trasforma radicalmente in vita spirituale, se l'arte si orienta verso la perfetta incarnazione della pienezza spirituale della realtà. Un compito che non può che coincidere con la totalità del processo mondiale e che, pertanto, non deve essere inteso come una forma prometeica o titanica di trasformazione del reale in nome dell'uomo. L'arte in questa sua dilatazione escatologica, diviene un'opera edificante (nel senso letterale dell'edificare, dell'operare la trasformazione), «unicamente nel senso di una profezia ispirata». Questo spiega il nesso indissolubile che tutte le civiltà hanno sempre mantenuto tra arte e religione e che deve vedere superato l'attuale stato di separazione tra arte e religione nell'epoca del razionalismo imperante. Un superamento che sarà la sintesi dell'elemento umano e di quello divino per raggiungere quell'arte perfetta capace di incarnare l'ideale assoluto nella realtà, di «transustanziare la nostra esistenza reale».
Un'affermazione che mostra già di per sé la densità e l'originalità dell'estetica di Solov'ëv: estetica, nell'umano, a partire dal divino per raggiungere e trasfigurare il naturale. In una parola, liturgia: creatività assoluta, sacramento, che dall'umano, divinamente informato nell'interiorità dello spirito, riorganizza la natura: essa è, dal punto di vista speculativo, l'opera teandrica dell'economia salvifica di cui rappresenta il momento della rivelazione interiore ma che è determinato dalla rivelazione storica in Cristo Gesù. La libera teurgia si svela come creatività iconica, ispirata dall'oggettività mistico intellettuale che giustifica la realtà stessa del sapere nei suoi fondamenti ontologici, e l'estetica si mostra come il volto integrale dell'unitotalità, il cosmos nello splendore della sua pienezza teandrica rinnovata. Il suo compito essenziale è pertanto mostrare la parzialità e insufficienza delle singole espressioni artistiche davanti all'oggettività della bellezza e armonia del reale assoluto. L'estetica dovrà dunque «riallacciare la creazione artistica ai fini superiori della vita umana». Un compito che richiede un'energia specifica rinnovata, dove tutte le realtà individuali, naturali e spirituali, sono in grado di essere raccolte e riorganizzate in vista dell'unità, mediante la forza creativa e trasformante dell'amore.