Il concetto arcaico di mousiké
La parola «musica» deriva dal greco mousiké, che significa «arte ispirata dalle Muse». Presso gli antichi Greci questo termine indicava non solo l'arte dei suoni prodotta dagli strumenti, ma anche la poesia e la danza. Nel periodo arcaico della storia greca il mousikòs, il musicista, è l'aedo omerico, cioè colui che canta e mima le imprese degli eroi accompagnato dal suono della phòrminx, uno strumento a quattro corde della famiglia delle lire. Ispirata dalle Muse, la mousiké è un dono degli dèi e, come tale, è animata da una sapienza di ordine superiore: si ritiene che essa sia la traduzione in termini ritmico-melodici dell'ordine divino che governa il mondo. Per questo motivo al mousikòs è attribuito un potere psicagogico, cioè la capacità di agire sull'anima umana, inducendola a conformarsi all'ordine cosmico e a disporsi all'amore del bene e del giusto.
La contrapposizione tra lira e flauto
Connesso a questa concezione della musica è lo strumento caro al dio Apollo, la lira, che, accompagnandosi alla poesia, produce una musica inscindibile dal lògos, termine che significa «parola» ma anche «ragione» e, quindi, ordine. Il potere psicagogico della lira dipende, dunque, dal fatto che essa sottomette la sensibilità alla ragione. Diverso il caso dell'aulòs, il flauto a due canne, in quanto chi lo suona, non potendo contemporaneamente cantare, si sottrae alla razionalità per rivolgersi unicamente alla dimensione istintuale dell’uomo, inducendo l'anima alle passioni. La natura irrazionale dell'aulòs è sottolineata dal fatto di essere lo strumento caro a Dioniso, dio dell'ebbrezza e delle forze primigenie della vita, capace di sconvolgere a tal punto la mente dell'uomo da fargli perdere completamente il controllo dei propri istinti.
Sulla base di tale contrapposizione si radicalizza, nell'ambito del pensiero filosofico greco, l'idea che la musica non sia semplice arte dei suoni, riduci bile all'abilità tecnica di saper suonare gli strumenti e alla capacità di suscitare emozioni. La vera musica sarà piuttosto scienza dell'ordine intelligibile della realtà, afferrabile solo attraverso un'operazione intellettuale.
La nascita del concetto di armonia
Il primo filosofo a inaugurare questa concezione è Pitagora (570 ca. - 496 ca. a. C.), secondo il quale, se la musica ha il potere di accordare l'anima all'ordine dell'universo, è perché riflette l'armonia del cosmo, che trova nel numero il principio del proprio ordine. La musica pertanto, prima di essere arte dei suoni, è scienza dell'armonia, ovvero dell'ordine matematico che regola l'universo. La concezione pitagorica della musica viene ripresa da Platone (428-347 a. C.), secondo una linea che lo porta a condannare l'arte dei suoni quando essa, interessata unicamente a colpire il nostro orecchio sensibile, non si preoccupi di rispecchiare nella sua organizzazione ritmico-sonora le relazioni numeriche alla base dell'ordine del tutto. In questo caso, infatti, si ha un'arte che, ben lungi dal disporre l'anima all'apprendimento della matematica e; quindi, all'esercizio della ragione, ne eccita le passioni. Qualora, invece, l'arte dei suoni rispecchi quelle relazioni numeriche, essa ci introduce alla musica come scienza dell'armonia. Tale scienza è la vera musica che, indirizzata unicamente a studiare i rapporti matematici alla base dell'ordine del cosmo, si qualifica come attività puramente concettuale, assimilandosi all'esercizio della filosofia.
La visione medievale
Questa idea di musica viene rielaborata in chiave cristiana dal pensiero medievale: il mondo è libera opera di Dio che, ideatore del suo ordine «secondo numero e misura» (Bibbia, Libro della Sapienza, XI, 20), costituisce il fine ultimo di ogni attività umana. La musica, intesa come scienza dell'ordine matematico che Dio ha dato al mondo, è chiamata mondana: essa ci introduce al pensiero del Creatore, costituendo la via regia per elevarci a Lui.
Accanto alla musica mondana si pone la musica come arte dei suoni che, almeno fino al IX secolo, si identifica con la pratica liturgica del canto gregoriano: canto monodico, ovvero a una sola voce, condotto su un testo preso dalle Sacre Scritture e privo di accompagnamento di strumenti. Infatti, è solo articolandosi nella parola divina che la molteplicità caotica dei suoni acquista l'unità di una forma significativa e si rende riflesso sensibile della musica mondana, riuscendo a esprimere la tensione dell'anima a Dio.
Esistono, tuttavia, altre forme di musica: il canto profano, cioè non basato sulla parola divina, e la musica prodotta dagli strumenti musicali. Nella visione medievale, entrambe - specialmente la seconda in quanto puro suono che si nega totalmente alla parola e quindi alla razionalità - sono da condannare, perché fondano il loro valore unicamente sul piacere sensibile e, invece di favorire l'ascesa a Dio, trattengono l'anima nel mondo terreno, diventando veicolo di perdizione. È per questo motivo che il canto gregoriano ripudia l'accompagnamento degli strumenti.
Polifonia e nuova sensibilità musicale
A partire dal X-XI secolo (la data è controversa) inizia a penetrare nell'ambito della pratica liturgica il canto polifonico: alla melodia del canto gregoriano si affianca un'altra melodia, indipendente dalla prima e di pari importanza. La polifonia si afferma pienamente nel XII-XIII secolo con la cosiddetta Scuola di Notre-Dame, un gruppo di compositori attivi nell'omonima cattedrale parigina, i quali ampliano il numero delle voci da due a quattro.
Il canto polifonico comporta lo sviluppo di una precisa notazione musicale. Esso presenta, infatti, una complessità che non può essere affidata unicamente alla memoria e alla tradizione orale, come avveniva per il canto gregoriano. La musica comincia a essere scritta, diventa libro, portando a una progressiva, seppur discussa, valorizzazione del musicista, che firma i propri lavori ed esce dall'anonimato. Tale valorizzazione procede in parallelo a quella del suono, riabilitato nella sua dimensione sensibile anche grazie all'organo, gradualmente introdotto nelle chiese, a partire dalla fine del IX secolo, come accompagnamento musicale della liturgia.
È comunque con il trattato Ars Nova (1320 ca.) del teorico e compositore musicale Philippe de Vitry (1291-1361) che avviene la piena rivalutazione del suono vocale e strumentale nella sua dimensione fisico-sensibile. L'espressione «ars nova» è utilizzata da Vitry per indicare il nuovo tipo di notazione musicale sviluppatasi all'inizio del Trecento per agevolare la trascrizione della strutture sempre più ardite della polifonia. Tuttavia il trattato suscita molteplici polemiche, in quanto considera il suono come il mezzo più efficace per tributare le lodi a Dio solo in virtù della sua dolcezza sensibile.
Di questo cambiamento è emblematica la Divina commedia di Dante Alighieri (1265-1321): nel XIV canto del Paradiso l'armonia della musica mondana è non solo una musica concretamente udibile, ma sembra anche ricordare i nuovi complessi cori polifonici, condannati da papa Giovanni XXII in una bolla del 1325 perché la moltitudine delle loro note impedisce di udire il testo e inebria le orecchie al punto tale da far dimenticare la devozione. Dante ode, infatti, gli spiriti del cielo di Marte intonare un inno alla Croce ma rapito dalle loro voci non riesce a comprendere le parole: «da' lumi che lì mi apparinno s'accogliea per la croce una melode che mi rapiva, sanza intender l’inno» (vv. 121-23).
La rivalutazione della musica strumentale
L'ars nova pone le premesse per rivalutare pienamente il piacere sensibile prodotto dalla percezione del suono. È emblematica la figura del compositore e teorico musicale Johannes de Tinctoris (1435 ca. -1511 ca.). Nel Terminorum musicae diffinitorium (1472 ca.) - il primo dizionario musicale di cui si abbia notizia - egli definisce l'armonia come una «mescolanza di diversi suoni che porta dolcezza all'orecchio» (citato da E. Fubini in L’estetica musicale dall'antichità al Settecento, Torino, Einaudi, 2003, p. 105). Essa, lungi dall'essere il riflesso dell'armonia intelligibile delle sfere celesti, è inventata dal compositore attraverso la guida del suo orecchio. Per Tinctoris esiste dunque una sola musica, quella strumentale. Una pari rivalutazione della dimensione sensibile del suono è presente, pur su basi diverse, nei trattati musicali di Gioseffo Zarlino (1517-90): Institutioni harmoniche (1558), Dimostrationi harmoniche (1571) e Sopplimenti musicali (1588). Secondo Zarlino, infatti, l'armonia non è solo l'ordine matematico che Dio ha dato al mondo, ma anche il principio che presiede all'intera organizzazione dei suoni perché questi risultino consonanti all'orecchio. AI concetto metafisico di armonia come ordine intelligibile del mondo Zarlino sovrappone, così, un altro concetto di armonia, intendendola come l'arte della combinazione simultanea dei suoni secondo ben precise regole codificabili matematicamente. La pratica musicale è dunque anch'essa una scienza: il musicista è lo scienziato del suono, colui che sa comporre le melodie perché conosce la logica matematica che presiede all'ordine armonico dei suoni e che fa tutt'uno con l'ordine armonico della natura.
La nascita del melodramma
Anche se la concezione zarliniana pone le premesse per un autonomo sviluppo della musica strumentale, nel corso del Rinascimento si mantiene l'idea che essa abbia valore solo come accompagnamento del canto. La riscoperta della cultura classica determina, infatti, la ripresa dell'antico rapporto tra musica e poesia. È in questa direzione che si impegnano gli sforzi della Camerata de' Bardi, salotto musicale-letterario che, costituitosi intorno al 1580 nella casa fiorentina del conte Giovanni Bardi, trova la sua guida teorica nel musicista Vincenzo Galilei (1520 ca. - 1591), padre del celebre scienziato. Galilei sostiene che la musica è «discorso armonioso», cioè canto che, pur trovando nel suono strumentale un utile mezzo per coinvolgere emotivamente l'ascoltatore, è superiore a esso. Il suono, se svincolato dalla parola, rischia di diventare un puro diletto sensibile privo di significato. Netto è il suo rifiuto della polifonia in favore del canto monodico accompagnato strumentalmente. Nel Dialogo della musica antica et della moderna (1581) egli afferma che la polifonia non è altro che un confuso insieme di suoni contrastanti che soffocano le parole, con il risultato di trasformarsi in un semplice effetto per l'orecchio senza alcun valore.
La monodia accompagnata sostenuta da Galilei determina la nascita di un nuovo genere musicale: il melodramma (dal greco mélos = canto e drama = azione, cioè rappresentazione in forma cantata di un'azione drammatica o comica), che, noto anche come opera lirica, è concepito come il risultato del lavoro congiunto del poeta e del musicista. Esso trova la sua compiuta realizzazione in Claudio Monteverdi (1567-1643), diventando, nel corso del Seicento e del- Settecento, la principale forma di arte musicale europea.
La musica e la Chiesa tra Riforma e Controriforma
Il passaggio dal Medioevo al Rinascimento non annulla l'atteggiamento sospettoso della Chiesa cattolica nei confronti del suono. Con l'avvento della Controriforma gli ambienti ecclesiastici, in difesa del testo sacro negano alla musica strumentale valore espressivo se non come accompagnamento al canto liturgico che, per essere rettamente compreso, deve avere un posto di privilegio. Diversa è la visione della Chiesa riformata. Il fondatore del protestantesimo, Martin Lutero (1483-1546), sostiene che la finalità etico-religiosa della musica è intrinseca al suono stesso. La musica è infatti «un dono di Dio e non degli uomini; essa scaccia il demonio e rende felici. Grazie alla musica si dimentica la collera e tutti i vizi. Perciò [ ... ] dal punto di vista teologico nessun'arte può stare alla pari della musica» (M. Lutero, Lettera al musicista Semfl, 1530, citata da E. Fubini in L'estetica musicale dall'antichità al Settecento, Torino, Einaudi, 2003, p. 140) Sulla base di queste considerazioni, egli avvia i Paesi tedeschi convertitisi al luteranesimo a una positiva considerazione della musica strumentale, che inizia a conoscere un autonomo sviluppo.
La musica secondo Cartesio e Leibniz
Con il Seicento si aprono due linee di riflessione filosofica che influenzano profondamente la pratica musicale del tempo: quella del francese Cartesio (1596-1650) e quella del tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716).
Fondatore della nuova concezione meccanicistica dell'universo, Cartesio toglie qualsiasi valore conoscitivo alla sensibilità e, nel Compendium musicae (1650, postumo), giudica la musica uno strumento di puro divertimento privo di finalità etico-conoscitive, in quanto indirizzata al semplice coinvolgimento emotivo dell'ascoltatore. Diversa la posizione di Leibniz, il quale sostiene che razionalità e sensibilità non si escludono a vicenda. Riprendendo il concetto pitagorico di armonia come ordine matematico dell'universo, afferma che tale ordine, penetrabile con chiarezza e distinzione dalla ragione, viene tuttavia percepito in modo inconscio dal nostro orecchio nella forma della bellezza. La musica, quindi, trova il suo principio costitutivo nella struttura numerica, la quale, tuttavia, nella pratica della composizione e dell'ascolto non viene analizzata, ma solo intuita.
La pratica musicale e il dibattito critico
La teoria leibniziana della musica permette di corroborare nei Paesi di area tedesca la fioritura della musica strumentale pura, alla quale viene riconosciuta piena dignità d'arte. Ne è un esempio il grande sviluppo, nell'opera di Johann Sebastian Bach (1685-1750), dell'arte della fuga, che può essere considerata la versione musicale della polifonia.
La teoria cartesiana della musica come arte del divertimento è, invece, alla base dello sviluppo barocco del melodramma italiano che, da intrattenimento destinato alla corte, diventa spettacolo di carattere popolare. Tale sviluppo fa tutt'uno con una concezione della parola che si subordina alla musica per aumentare il proprio potere fascinatorio, così da far leva non tanto sulla ragione, quanto sulle passioni dell'uomo. Tuttavia il cartesianesimo è anche all'origine della polemica che, a partire dalla seconda metà del Seicento, investe proprio questo genere musicale. Di fronte alla condanna cartesiana della conoscenza sensibile si era infatti sviluppata l'idea che tutto ciò che è connesso alla sensibilità dovesse essere disciplinato dalla ragione. Quest'opera di disciplina si era indirizzata, in primo luogo, verso la musica strumentale e, in secondo luogo, verso il melodramma, teso a subordinare la parola alla musica.
È all'interno di questo contesto che deve essere inquadrata la riforma operata dal compositore francese Jean-Baptiste Lully (1632-87) che, a partire dal 1661, piega il «bel canto» italiano a un severo stile recitativo, subordinando la musica alla logica verbale del libretto. Il pubblico si divide, così, tra sostenitori della musica italiana e sostenitori della musica francese, scatenando un dibattito sulla seguente questione: la musica deve semplicemente adornare il testo, in modo da rendere più piacevoli i contenuti morali e conoscitivi in esso espressi, oppure il testo è uno spunto per esaltare le proprietà musicali della parola che, apprezzata esclusivamente per il suo suono, diventa fonte di piacere?
Verso un'autonoma dignità d'arte
Il violento dibattito sul melodramma conduce, nel Settecento, a una generale valorizzazione della musica. Il primo segnale è la riflessione di Jean-Philippe Rameau (1683-1764), che dà base teorica al sistema tonale, il sistema di organizzazione dei suoni su cui si fonda tutta la musica occidentale dal Rinascimento fino alla prima metà dell'Ottocento. Nel Trattato dell'armonia ridotta ai suoi principi naturali (1720) egli sostiene che, se i musicisti preferiscono determinati accordi di note ad altri, non è per una forma di consuetudine, bensì perché essi rispondono a una ben precisa proporzione matematica, riscontrabile attraverso l'analisi fisico-acustica del suono. La nostra sensibilità non è dunque qualcosa di irrazionale; la sua capacità di cogliere alcuni suoni come consonanti dimostra che essa possiede una razionalità inconscia. Il piacere prodotto dalla musica non è altro che il riconoscimento sensibile della struttura razionale intrinseca al suono stesso. In tal modo Rameau rafforza le premesse, già poste da Leibniz, per emancipare la musica strumentale da ogni soggezione alla poesia, così da riconoscerle autonoma dignità di arte.
Il processo di valorizzazione della musica si inserisce comunque in una più ampia rielaborazione del concetto di arte che, da imitazione dell'ordine razionale della natura, come sosteneva il Classicismo secentesco, comincia sempre più a essere considerata imitazione ed espressione del sentimento.
Il contributo decisivo per la valorizzazione della musica come linguaggio dei sentimenti è dato dagli enciclopedisti, ovvero da quel gruppo di intellettuali che, sotto la guida di Jean-Baptiste d'Alembert (1717-83) e Denis Diderot (1713-84), danno vita, tra il 1750 e il 1772, alla più straordinaria impresa culturale ed editoriale mai vista: la pubblicazione dei ventotto volumi dell'Enciclopedia. Decisiva è la riflessione di Jean-Jacques Rousseau (1712-78), il quale, per le sue specifiche competenze musicali, si vede affidare le principali voci musicali dell'Enciclopedia. La sua esaltazione della musica come espressione del sentimento si inscrive in una generale rivalutazione della dimensione affettiva dell'uomo rispetto alla freddezza logico-calcolatrice della ragione.
Sempre più sentita come l'espressione dell'individualità del compositore, la musica, in quanto armonia, continua comunque a essere considerata nel corso del Settecento una manifestazione dell'ordine razionale del mondo. Questa duplice visione si riflette nella pratica musicale del classicismo viennese che, rappresentato dall'opera musicale di Franz Joseph Haydn (1732-1809) e Wolfgang Amadeus Mozart (1756-91), vede l'imporsi della cosiddetta forma-sonata quale struttura sintattica di ogni composizione. Nella sua capacità di compendiare il rigore dei rapporti dell'armonia tonale con le molteplici variazioni tematiche che si possono inventare su di essi, la forma-sonata è l'espressione più significativa di una musica che, pur aderendo all'ordine razionale della natura, è capace di esprimere il genio individuale dell’artista. Tale forma, inoltre, dona per la prima volta al linguaggio musicale omogeneità e stabilità di strutture.
La musica come linguaggio dell'Assoluto
L'esaltazione illuminista del carattere sentimentale della musica costituisce il filo conduttore di tutti gli esponenti del Romanticismo: il sentimento per i romantici è, infatti, l'organo di accesso all'Assoluto che, nella sua infinità e nel suo mistero, può essere colto unicamente dagli slanci del cuore e non dalle fredde categorie della ragione. In quanto espressione del sentimento, la musica diventa così nell'Ottocento l'arte privilegiata.
Nel primo manifesto dell'estetica musicale romantica, Fantasie sull'arte per amici dell'arte di Wilhelm Heinrich Wackenroder (1773-98), la musica viene definita come l'espressione immediata del cuore, capace di penetrare a tal punto nell'essenza delle cose da cogliere il mistero divino che le compenetra. Questo perché è un linguaggio indefinibile e inafferrabile, corrispondente all'indefinibilità e all'inafferrabilità che contraddistingue Dio in quanto mistero. La sua imprecisione rispetto alla parola, è quindi alla poesia, non è dunque segno di inferiorità ma, al contrario, cifra della sua superiorità, in quanto capace di esprimere verità incomunicabili con il linguaggio verbale. La musica è, inoltre, superiore alla scultura e alla pittura, in quanto più immateriale e, quindi, più capace di rappresentare quella tensione al trascendente che contraddistingue lo spirito dell'uomo. L’autore che contribuisce più di chiunque altro a diffondere questa concezione della musica è lo scrittore, compositore e critico musicale Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822). Nel saggio La musica strumentale di Beethoven (1810) egli definisce la musica come la sola arte capace di suscitare nel cuore umario quell' «infinito struggimento» che, schiudendo all'ascoltatore il regno supremo dell'Assoluto, costituisce l'essenza dell'arte romantica. Ciò è vero in particolare per la musica strumentale, giudicata «la più romantica delle arti». Emancipandosi dal potere descrittivo della parola e dalla mediazione del concetto, è infatti capace di far cogliere l'infinito attraverso un atto di pura intuizione. Questo orientamento, secondo Hoffmann, trova la sua massima perfezione in Ludwig van Beethoven (1770-1827).
Lied, poema sinfonico e opera d'arte totale
Le riflessioni dei romantici pongono le premesse per il grande trionfo della musica strumentale in tutte le sue forme: sinfonica, da camera e per un solo strumento, in particolare il pianoforte. Ciò non preclude la presenza di generi quali il Lied, breve composizione per canto e pianoforte condotta su testi poetici di autori celebri, e il poema sinfonico, composizione orchestrale di un solo movimento ispirata a un personaggio storico o a un'opera letteraria. Lo sviluppo di questi generi si inscrive, infatti, in un progetto di convergenza di tutte le arti sotto l'egida della musica. Una peculiarità del poema sinfonico è la presenza del leitmotiv, un motivo melodico ricorrente volto a caratterizzare sentimentalmente un personaggio o un'idea (l'amore, la morte, la festa ecc.). Tale procedimento trova la sua apoteosi nell'opera totale di Richard Wagner (1813-83), che può essere considerata il culmine dell'aspirazione romantica a una vivificazione di tutte le arti attraverso lo spirito della musica.
Verso la disgregazione del sistema musicale classico
L’affermarsi della libera creatività dell'artista in quanto genio determina l'allontanarsi progressivo della musica dalle norme imposte dal sistema tonale: nell'ultimo Beethoven, ad esempio, si determinano inconsuete aggregazioni di suoni che portano a una progressiva emancipazione della dissonanza e, quindi, a una tendenziale disgregazione del tessuto armonico della composizione. Un pari superamento della forma classica si attua in Franz Peter Schubert (1797-1828) in cui l'aspirazione all'infinito come caratteristica costitutiva della musica si traduce in un andamento errabondo del discorso musicale, tendente a dissolverne la concatenazione logica (la cosiddetta «divina lunghezza» di Schubert). L’esaltazione del valore sentimentale della musica induce anche a una ricerca espressiva che valorizza l'aspetto timbrico degli strumenti, determinando nel tardo Romanticismo, in particolare in Hector Berlioz (1803-69), il privilegio della pura sensazione sonora rispetto ai principi d'ordine e di chiarezza formale. Una conseguenza di questa valorizzazione è anche il progressivo aumento delle componenti strumentali dell'orchestra, culminante nel gigantismo orchestrale di Wagner.
Il principio dell'originalità porta inoltre alla rivalutazione delle forme musicali in cui si è espressa la particolarità individuale propria di ciascun popolo, inducendo musicisti come il polacco Frédéric Chopin (1810-49), il boemo Bedrich Smetana (1824-84), il ceco Anton Ovorak (1841-19°4) e il russo Modest Petrovic Mussorgskij·(1839-81) a inserire nelle proprie composizioni armonie e ritmi del folklore popolare.
Questi elementi verranno ripresi in forma estrema nelle sperimentazioni del primo Novecento, determinando la radicale distruzione del sistema musicale tonale.