All’inizio del Quattrocento, il celebre monumento funebre di Ilaria del Carretto del senese Jacopo della Quercia, rappresenta una fase di transizione dall’iconografia gotica — il modello sono le sepolture francesi - a quella umanistica. Anche nelle tombe dell'antipapa Giovanni XXIII, nel Battistero fiorentino, e del cardinal Brancacci a Sant'Angelo a Nilo a Napoli, eseguite da Donatello con la collaborazione di Michelozzo, c'è una ferma volontà di rinnovamento, nonostante la struttura citi esplicitamente la tomba trecentesca a piani sovrapposti.
Attorno alla metà del XV secolo si definisce la tipologia della tomba umanistica con il sepolcro di Leonardo Bruni, opera di Bernardo Rossellino, e quello di Carlo Marsuppini, eseguito da Desiderio da Settignano, entrambi in Santa Croce a Firenze. Nel monumento a Leonardo Bruni, cancelliere della repubblica fiorentina, lo scultore configura un nuovo modello di sepolcro monumentale, in cui convergono architettura e scultura. Un grande arco incornicia una nicchia che contiene il sarcofago e il feretro su cui riposa il defunto.
L'unico riferimento religioso è il medaglione con la Madonna con il Bambino; tutto il resto è celebrazione del defunto, intesa come ammonimento ai vivi affinché ne seguano l’esempio. Coronato d’alloro alla maniera degli antichi, non tiene le mani giunte, ma incrociate su una copia della Storia di Firenze da lui scritta. È la cultura umanistica dunque, come sottolinea anche l'iscrizione, ad assicurare il perpetuarsi della memoria.
Un’originale espressione del culto rinascimentale dell’individuo è certo costituita dal monumento equestre. Donatello per primo celebra plasticamente la volontà e la determinazione di un condottiero, Erasmo da Narni detto il Gattamelata, nel monumento eretto a Padova tra il 1443 ed il 1453. Rispetto al ruolo sociale del personaggio cui il monumento è dedicato l’opera rappresenta un’audace novità, tale da richiedere il beneplacito del senato veneto.
È la prima volta, infatti, che un condottiero è raffigurato a cavallo in una statua a tutto tondo posta al centro della città. Si tratta di un monumento equestre, tipologia non rara in opere a carattere funerario; ma qui, nella base del monumento, che pure ricorda un sarcofago antico, non vi sono le spoglie del defunto.
Esso è inteso a celebrare il ruolo del personaggio ritratto nella storia; e nessun uomo d’armi, se non in pittura, aveva mai avuto un simile tributo. Non si tratta di un ritratto veridico, ma di una ricostruzione ideale. Donatello veste il Gattamelata come un generale romano; lo scultore, infatti, si ispira liberamente all’antichità classica, in particolare al monumento dell’imperatore Marco Aurelio, e crea il capostipite del monumento equestre rinascimentale.
Rispetto all’illustre precedente e ai modelli antichi, nel monumento a Bartolomeo Colleoni eretto a Venezia tra il 1479 ed il 1496 il Verrocchio accentua l’effetto di moto trattenuto, in modo da conferire anche attraverso la rotazione del busto una prorompente vitalità alla figura del condottiero, che spicca in tutta la sua altera minacciosità.
Il contenuto equilibrio del monumento di Donatello si trasforma così in una ricerca dieffetti di movimento scattante e di vigorosa potenza espressiva. Anche Leonardo è chiamato ad eseguire due monumenti equestri, che non termina; a testimonianza di quello concepito per Francesco Sforza rimangono comunque i disegni, con l’idea ardita del cavallo impennato. E tanti sono i monumenti che il Giambologna e la sua bottega erigeranno a granduchi e imperatori sulle piazze d’Europa.
Nel Medioevo, il ritratto individuale era collocato di solito entro più ampie e articolate composizioni; si pensi ad esempio, nei dipinti, ai donatori inginocchiati ai piedi della Vergine o di un santo. Anche Masaccio raffigura i due committenti della Trinità, ma ne rinnova l’iconografia delineandoli con realismo e con le stesse dimensioni dei personaggi divini.
Nel corso del Quattrocento il ritratto plastico, assai in voga nella Roma imperiale, risorge a nuova vita in virtù del valore attribuito all’individuo dalla cultura umanistica. Grazie a Donatello rinasce il busto scultoreo, come quello in terracotta policroma di Niccolò da Uzzano, conservato al Bargello, destinato a ornare la casa dell’effigiato. Accanto al busto, prende sempre più campo il ritratto pittorico.
Dapprima gli effigiati sono posti di profilo, sul modello delle monete antiche, come nel dittico dei duchi d’Urbino di Piero della Francesca, in cui il fine celebrativo prevale sull’indagine psicologica. A seguito della diffusione del busto-ritratto scultoreo e dell’influenza della pittura fiamminga, la posa di profilo è abbandonata in favore di quella frontale o di tre quarti, maggiormente aderente all’esigenza di ricerca espressiva che caratterizza l’attività di grandi pittori quali Antonello da Messina, autore di penetranti ritratti e vero capostipite del genere, Leonardo, Giorgione e Raffaello.
Tiziano propone, agli esordi, un nuovo modello di immagine, di prorompente vitalità ed immediatezza e di palpitante presenza fisica, come rivelano i suoi ritratti di gentiluomini, fra i quali l’Ariosto.
A partire dal terzo decennio del Cinquecento, si andrà affermando una forma di ritratto più incline ad una rappresentazione aulica e spersonalizzata dell’individuo, intesa a mette in evidenza lo status sociale e gli attributi del potere; si tratta del cosiddetto "ritratto di Stato" che, pur prendendo a modello le immagini di Raffaello e Tiziano, non ne ripete la potente vitalità e carica espressiva.
Scultore e architetto, Francesco Laurana (Zara, Dalmazia 1430 ca. - Provenza? 1502 ca.), detto per le sue origini il Dalmata o lo Schiavone, verosimilmente autore delle sculture di un altare della cattedrale di Sebenico in Croazia, è scultore già affermato quando si vede affidare, nel 1458, un ruolo importante nella decorazione dell’arco trionfale eretto da Alfonso d’Aragona all’ingresso di Castelnuovo in Napoli.
Alla morte del re Laurana è chiamato in Francia presso la corte di Renato d’Angiò, dove realizza celebri medaglie, lasciando opere in Provenza. Dal 1468 sino al 1471 circa è in Sicilia dove, con l’aiuto di collaboratori, attende a numerose opere scultoree, fra cui la cappella Mastrantonio in San Francesco di Palermo, alcune Madonne col Bambino in chiese di Palermo, Noto e Messina e la tomba di Pietro Speciale in San Francesco di Palermo.
Tornato a Napoli, dove realizza la Vergine della cappella di Santa Barbara (1471), è in seguito a Urbino (1474-77), quindi in Francia, dove la sua bottega realizza l’altare di Saint-Lazare nella Major, la cattedrale di Marsiglia (1477-83), il Retable de la montée au Calvaire in Saint-Didier d’Avignone, la tomba di Giovanni Cossa a Sainthe-Marthe di Tarascona e la tomba di Charles du Maine a Le Mans. Scultore famosissimo in Francia, ma senza seguaci, ci ha lasciato i famosi busti di Eleonora e di Beatrice d’Aragona, il celeberrimo ritratto di Battista Sforza del Bargello, e le malinconiche maschere marmoree femminili di Avignone, Aix-en-Provence e Le Puy, dalla finalità sconosciuta.
Nel 1401 l’Arte di Calimala, o dei Mercatanti, incaricata del patronato sul battistero fiorentino, il "bel San Giovanni", indice il concorso che deciderà chi debba realizzare, secondo un dettagliato programma iconografico dettato dall’umanista Leonardo Bruni, la seconda porta bronzea dell’edificio, detta anche porta alla Croce.
Il bando prevede che il soggetto da raffigurare nella formella da sottoporre alla giuria, una losanga lobata, sia il mancato sacrificio di Isacco, stabilendo nel dettaglio personaggi terreni e ultraterreni, ambiente circostante e quant’altro.
Le prove di Brunelleschi e Ghiberti, conservate presso il museo del Bargello, mostrano quanto gli artisti, entrambi poco più che ventenni e aperti al nuovo gusto classicista, abbiano recepito il nuovo verbo della cultura umanistica con risultati palesemente diversi.
La formella di Ghiberti è preziosa, ordinata e unitaria, ben inquadrata nella cornice sagomata come la miniatura di un codice medievale. Non comunica tensione drammatica; tutto si svolge senza emozione, compreso l’arrivo dell’angelo che, non ancora avvistato, sopraggiunge a fermare la lama di Abramo.
Al contrario, la scena illustrata nella formella del Brunelleschi è estremamente energica; il moto dell’angelo, che arresta materialmente il gesto del patriarca, si trasmette al corpo di Isacco, sottoposto ad una torsione che lo rende assai più drammatico dell’efebico Isacco di stampo classicheggiante del Ghiberti.
Anche se la rappresentazione è meno verosimile che in Ghiberti, in Brunelleschi tutto concorre alla caratterizzazione drammatica di un episodio intenso, umano, attuale, non rituale né mitico. È soprattutto dal punto di vista della gestione dello spazio che la sua formella introduce notevoli elementi di novità; la visione, dal basso verso l’alto e in profondità, si articola su piani successivi, secondo veri e propri assi prospettici.
La scena, di forte dinamismo plastico, pare debordare dal quadro, specie nella parte inferiore.
Ma fu davvero il migliore a vincere il concorso indetto nel 1401 per la seconda porta bronzea del bel San Giovanni, il battistero fiorentino, dopo quella trecentesca d’Andrea Pisano?
Chi dei partecipanti poteva dirsi il migliore, tra artisti di genio come Lorenzo Ghiberti, Filippo Brunelleschi e Jacopo della Quercia, il più vecchio dei tre coi suoi trent’anni?
La mano raffinatissima di Lorenzo ebbe la meglio, e la porta fu sua: ma col senno di poi possiamo affermare che la giuria non colse appieno gli elementi innovativi della prova brunelleschiana, che lasciavano presagire una nuova visione dell’arte e dell’uomo. Filippo non poteva sapere, allora, che si sarebbe preso la rivincita — e che rivincita — sul rivale battendolo nel concorso per la cupola di Santa Maria del Fiore.
Al momento però Ghiberti seppe imporre la propria sapienza d’abile bronzista, d’orafo squisito, di gradevole miniaturista aperto alle novità, ma ancora debitore del gotico.
Il suo capolavoro è la terza porta del battistero, battezzata da Michelangelo col nome di "porta del Paradiso", in cui, con ben altra libertà espressiva, testimonia una nuova concezione dello spazio e della composizione, lontana dai canoni medievali, facendosi misurato divulgatore — o, come preferisce dire qualcuno, volgarizzatore — dell’arte rinascimentale e del suo linguaggio.
In sintesi, per quanto la vittoria arrida al Ghiberti, in virtù del prevalere del gusto tardogotico nella cultura fiorentina del tempo che ignora le innovazioni presenti nell’opera di Brunelleschi, questi introduce con la sua prova un nuovo linguaggio artistico finalizzato all’umanizzazione dei temi sacri, facendone il manifesto di un’epoca e di un’arte nuova.
Lorenzo Ghiberti nasce a Firenze intorno al 1378 (o 1381), formandosi verosimilmente come orafo sulle orme del patrigno Bartolo di Cione. Critico e scrittore, scultore, architetto e pittore, artista eclettico ed elegante, attorno al 1400, come narra nei suoi Commentari, che sono la principale fonte sulla sua vita, è a Pesaro, per lavorare presso la corte dei Montefeltro.
La vittoria nell’importantissimo concorso del 1401 per la porta settentrionale del battistero lo promuove, assieme a Lorenzo Monaco, a principale esponente fiorentino dello stile gotico internazionale - un compromesso, improntato a un gusto prettamente decorativo, fra i dettami del gotico, un nuovo naturalismo e la ripresa di moduli classici.
Il Ghiberti, con la sua temperata modernità, la sua raffinatezza da orafo e il misurato lirismo, diviene il maggior referente per le commesse delle Arti cittadine. Il lavoro sulla porta del battistero (malgrado abbia vinto il concorso per la porta dedicata ai soggetti biblici, gli viene affidata prima quella dedicata al Nuovo Testamento) lo impegnerà a lungo, sino al 1424; ne risulta un lavoro magistrale, che testimonia l’evoluzione del maestro.
La porta, composta al pari di quella di Andrea Pisano, di ventotto quadri, che raffigurano i quattro dottori della Chiesa, i quattro evangelisti ed episodi della vita di Cristo, è sapientemente decorata; le scene emanano ritmo, eleganza, senso dell’osservazione. Fra le altre sue opere citiamo i disegni per le vetrate di Santa Maria del Fiore (1404-12), la statua bronzea del Battista di Orsanmichele per l’Arte dei mercatanti (1412-15), che esibisce tutti gli stilemi del gotico internazionale, e la statua di San Matteo per l’Arte dei cambiatori (1419-1427), figura solida e viva che segna un importante momento di transizione nell’arte del Ghiberti, testimoniando la meditazione delle sculture di Donatello e annunziando la maturazione verso uno stile più vigoroso.
Oltre al Santo Stefano (1425-29), Ghiberti crea due bassorilievi in bronzo dorato per il fonte battesimale di Siena (1417-27) - nei quali adotta una prospettiva lineare che gli consente di arricchire di particolari la narrazione senza rinunciare all’armonia dell’insieme - e la lastra sepolcrale in bronzo di Leonardo Dati in Santa Maria Novella (1425-27). Nel 1425 riceve la commessa della terza porta del battistero antistante la facciata di Santa Maria del Fiore (quella che sarà detta "porta del Paradiso" da Michelangelo Buonarroti), completata nel 1452.
Nel proprio capolavoro, Ghiberti, capace di assimilare le innovazioni del rivale Brunelleschi e soprattutto di Donatello, di cui applica in modo personale il "rilievo stiacciato", modifica sostanzialmente l’impaginazione, con un afflato lirico che sa farsi epico. I pannelli, ridotti a dieci, sono più grandi, quadrati, interamente dorati; ognuno di essi raggruppa diverse scene dell’Antico Testamento (in totale trentasette), ricche di personaggi e di sfondi diversi, nei quali è fedelmente applicato lo stiacciato, mentre le figure si fanno sempre più rilevate man mano che ci si avvicina al primo piano.
La porta, inizialmente destinata al lato settentrionale, è talmente bella che si decide di invertirne la posizione con la precedente collocandola dinanzi al Duomo (oggi ne è visibile la copia: le formelle originali sono nel Museo dell’Opera del Duomo).
Mentre lavora alla porta, Ghiberti esegue anche l’arca dei Tre Martiri (1428) e l’arca di San Zanobi (1442). Dalla sua bottega escono alcuni fra i più autorevoli esponenti di quella tendenza artistica fiorentina che rappresenta la mediazione fra innovazione e tradizione, quali Michelozzo, Paolo Uccello e Benozzo Gozzoli.
Ghiberti muore nel 1455, dopo aver lavorato, senza completarlo, al terzo libro dei suoi Commentari, iniziati nel 1447; il secondo libro è un valido contributo alla storia dell’arte contemporanea a partire da Giotto.