Anselmo nacque nel 1033 o nel 1034 ad Aosta. Spinto dall'esempio della religiosità materna, espresse il desiderio di dedicarsi alla vita conventuale, ma si scontrò con l'opposizione del padre. Poco più che ventenne, Anselmo lasciò Aosta per la Borgogna e poi la Francia. Nel 1059 Anselmo giunse nell'abbazia benedettina di Notre-Dame du Bec, in Normandia, per seguire le lezioni del noto Lanfranco di Pavia, priore e maestro della scuola del monastero. Nel 1060 prese gli ordini in quella stessa abbazia, poi divenne collaboratore del suo maestro nell'insegnamento e, nel 1063, priore e maestro di arti liberali succedendo allo stesso Lanfranco, il quale si era trasferito nella vicina Caen per assumere la carica di abate nel convento di Santo Stefano. Nel 1078, morì il fondatore e abate del convento di Notre-Dame e Anselmo venne eletto suo successore all'unanimità. Anselmo visse nell'abbazia fino al 1092. Fu questo il periodo di sua più intensa attività, tanto pedagogica che di riflessione e composizione teologica e filosofica: vi compose le due opere più note, il Monologion e il Proslogion,. Nel 1093 venne nominato arcivescovo di Canterbury: in Inghilterra si scontrò più volte con i re Guglielmo II ed Enrico I, e per questo motivo dovette intraprendere due volte la via dell'esilio, la seconda intorno al 1100. La pacificazione tra il re ed il papa gli consentì di ritornare a Canterbury, dove morì nel 1109. L'opera più famosa del periodo inglese (terminata, però in esilio in Italia, sull'eremo benedettino di Villa Sclavia) fu il Cur Deus homo (Perché un Dio-uomo?).
Anselmo è ricordato non solo come teologo, ma anche come filosofo (viene talvolta definito il "padre della Scolastica"), soprattutto per la ricerca, sviluppata nel Proslogion, di un unum argumentum, un unico principio immediato e fondato solo su sé stesso per la dimostrazione dell'esistenza e degli attributi di Dio. Immanuel Kant definí questa dimostrazione prova ontologica dell'esistenza di Dio, sebbene Anselmo non abbia mai utilizzato questa espressione. Fortissimamente speculativa, Anselmo cercò, nel solco della tradizione di Platone e Sant'Agostino, una convergenza tra fides e ratio. Per Anselmo, la ragione umana è uno strumento essenziale per la speculazione teologica.
Anselmo riprende da Sant'Agostino (V secolo) la formula credo ut intelligam, intelligo ut credam ("credo per comprendere, comprendo per credere"). La ricerca della verità ha come fondamento la fede. Tuttavia, la fede di per sé non è sufficiente: esige dimostrazioni e conferme razionali. E in questo, l'intelletto, proprio come la fede stessa, ha una sicura guida nell'illuminazione divina, concetto ripreso sempre dall'Agostinismo, e riproposto anche da San Bonaventura da Bagnoregio. Dunque, tale illuminazione deve guidare l'intelletto, che altrimenti, di per sé, non può minimamente penetrare il mistero divino. Insomma, la ragione non dà giudizi, ma aiuta a capire la fede. Anselmo è uno dei primi filosofi e teologi ad unificare le due discipline, secondo il principio fides quaerens intellectum (cioè "la fede richiede l'intelletto"), che sarà il fondamento di tutta la filosofia Scolastica.
La sua ricerca è tutta concentrata sulla figura di Dio, sulla quale pone due problematiche: la sua esistenza e la sua natura. Tale distinzione è espressa nel Monologion. Dice lui stesso: è questo il problema che sostiene e unifica le mie indagini. Anselmo fornisce 4 prove che possano dimostrare, a partire dal mondo, che Dio esiste. È per questo, infatti, che vengono definite "prove a posteriori":
1) Ognuno tende a impossessarsi delle cose che giudica buone. Ma se esistono cose buone, il loro principio dovrà essere unico. Dovrà esistere cioè una Bontà assoluta.
2) L'esistenza di varie grandezze determina l'esistenza di una grandezza somma che include tutte le altre, di cui tutte le altre sono partecipazione.
3) Tutto ciò che esiste, o esiste in virtù di qualcosa, o esiste in virtù di nulla. Dunque, dato che ciò che esiste in virtù del nulla è il nulla stesso, e dato che qualcosa esiste, ciò esisterà grazie a un Essere supremo, l'essere in virtù (di qualche cosa).
4) Tratta dalla gerarchia degli esseri viventi. Dovrà esistere un essere a sommità della gerarchia che sia perfetto. Una perfezione prima e assoluta.
Anselmo si rese conto ben presto della complessità delle proprie tesi che indicavano le cause "a posteriori", e, convinto del proprio ruolo di divulgatore della verità divina, si dedicò alla composizione di tesi che "a priori" potessero dimostrare l'esistenza di Dio. Esse si proponevano attraverso un'altra via, che come un lampo illuminasse i fedeli. Necessitava dunque di un argomento semplice, persuasivo e autosufficiente con cui convincere dell'esistenza di Dio.
È un'argomentazione dell'esistenza di Dio che parte dalla nozione stessa di Dio, nel famoso enunciato: Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore. In latino: Id quod maius cogitari nequit. Questa argomentazione si trova nel secondo libro del "Proslogion" di Anselmo. Si può dividere in due parti. La prima è un'istanza logica riguardo alla nozione di Dio, la cui esistenza è necessaria. La seconda, invece, è un'istanza teologica, che identifica la nozione ontologica con il Dio cristiano. Anselmo dice che quando l'ateo dice che Dio non esiste, con il termine Dio intende "ciò di cui non si può pensare il maggiore". Tuttavia, per negarne l'esistenza, l'"insipiens" (ovvero il non credente) deve avere almeno nell'intelletto la nozione di Dio. Ma l'idea di Dio non può esistere solo nell'intelletto, perché altrimenti sarebbe possibile qualcosa di "più grande", dotato di esistenza reale, che contraddice la definizione di partenza. In definitiva, se l'idea di Dio esistesse solo nella mente e non nella realtà, non sarebbe realmente Dio e quindi sarebbe contradditoria. Da questo segue che Dio esiste necessariamente. Nel Proslogion Anselmo dialoga con l'insipiens (Salmi, XIII 1). Uno stesso discepolo di Anselmo, il monaco Gaunilone (chiamato anche Wenilo), obiettò che non è sufficiente pensare una cosa perché esista, anche se rappresenta la perfezione. Rifiutò insomma il passaggio obbligato dal mondo ideale a quello reale. Anselmo ribatté dicendo che l'esempio dell'isola non era calzante, poiché non era "ciò di cui niente si può pensare più grande". L'isola meravigliosa ha infatti una perfezione relativa e limitata ad alcuni suoi aspetti, ma non una perfezione assoluta come Dio, che ha ogni perfezione, sotto ogni aspetto. San Tommaso d'Aquino, nella sua "Summa contra Gentiles" scrive: "Tra gli atei non è a tutti noto che Egli è quanto di più grande si possa pensare". Dunque egli ammise l'infondatezza dell'affermazione di Anselmo e impose per la conoscenza dell'esistenza di Dio le prove a posteriori come le uniche valide. Kant lo rigettò totalmente, riprendendo quella tesi di Gaunilone secondo cui non basta che qualcosa sia pensato, perché ciò esista (ad esempio la chimera). La questione rimane ancora oggi aperta in ambito filosofico. Anselmo fu invece appoggiato da San Bonaventura da Bagnoregio e Duns Scoto nel Medioevo, e da Cartesio e Leibniz in età moderna. In particolare Cartesio fu sostenitore della sua "prova a priori", dalla quale prese ispirazione per il suo "metodo dubitativo"; inoltre, avversò la critica di Gaunilone, tacciandola come ingannevole ed inutile sofisma. Nella filosofia moderna, in aggiunta, è notevole l'adesione di Hegel, che accetta la prova di Anselmo in quanto per lui non c'è il salto di cui parlava Kant tra la dimensione logica e quella ontologica, in virtù del ben noto principio idealista per cui "tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale".
Anselmo parla anche del rapporto tra parola e conoscenza, intendendo la parola come intellezione della realtà mediante il nostro intelletto. La parola (o concetto) può essere vera o falsa a seconda del suo maggiore o minore grado di somiglianza con la cosa.
La conoscenza umana (derivata dalla parola) è dunque misurata dalle cose.
La conoscenza divina (derivata dalla parola) è misura delle cose perché suo modello.
La rettitudine dell'intelletto umano è la verità, e si ottiene avvicinandosi alla conoscenza divina, sapere cioè le cose come davvero sono. La rettitudine della volontà è la giustizia, e si ottiene sostituendo alla propria, personale volontà la volontà divina, che è stata rivelata al mondo da Cristo e che può essere donata all'uomo, attraverso la Grazia, nello Spirito Santo. L'agire bene definisce la libertà. Dunque, l'uomo non è libero quando può peccare, ma è libero quando può comportarsi bene (altrimenti ne deriverebbe che Dio e gli angeli non sono liberi). La libertà è potenza di fare il bene. La giustizia (che è divina) è il bene supremo da inseguire, e deve essere raggiunta per sé stessa, e non per altri fini umani. Ma come si accordano predestinazione e merito? Libertà umana e preconoscenza divina degli eventi? Anselmo risponde che la libertà umana non è in contrasto con la prescienza divina. Dio pensa nella dimensione dell'eternità gli eventi che si svolgeranno nel tempo e nel modo in cui si svolgeranno secondo necessità quando sono necessari e secondo libertà quando sono liberi. Dunque, essendo Egli sia necessità che libertà, non vuole e non può andar contro sé stesso, che è già perfezione, quindi imperfezionabile.