Fra gli artisti cari a Cosimo il Vecchio si annovera Paolo di Dono, detto Paolo Uccello, nato a Pratovecchio (Arezzo) nel 1397 e morto a Firenze nel 1475; definito artista "fuori dal coro" nella Firenze del primo Rinascimento - che ciò si debba al suo irrefrenabile sperimentalismo o al fatto d’essersi trovato a lavorare fuori di Firenze negli anni cruciali della rivoluzione di Masaccio e Brunelleschi.
A soli 10 anni, nel 1407, Paolo è documentato nella bottega del Ghiberti che attende alla prima porta del Battistero. Sino al 1414 rimane in questo ambiente intriso di cultura figurativa gotica, ma anche moderatamente aperto alle novità. Nel 1425 è a Venezia per eseguire i perduti mosaici di San Marco: qui vede le opere di Gentile da Fabriano e del Pisanello. Torna in patria nel 1431. Nel Chiostro Verde di Santa Maria Novella dipinge le Storie della Vergine (1431 ca.), in Duomo il monumento equestre al condottiero Giovanni Acuto (1436), in cui la resa prospettica del basamento si coniuga alla calligrafica frontalità della figura, opera che lo rende famoso, insieme alla decorazione dell’orologio (1443) e ai cartoni per due degli "occhi" della cupola con la Resurrezione e la Natività (1443-45).
Frattanto realizza affreschi nel Duomo di Prato e in San Miniato al Monte (Storie di santi monaci), oltre ad eseguire per committenti privati tavolette di gusto gotico e fiabesco, quali quelle con San Giorgio e il drago conservate a Parigi e Londra (1456 ca.). Nel 1445 è chiamato da Donatello a Padova, dove affresca in casa Vitaliani i perduti Giganti. Nel 1447, di nuovo a Firenze, dipinge le Storie di Noè nel Chiostro Verde di Santa Maria Novella, con la famosa lunetta del Diluvio e Recessione delle acque (1446-48), impostata su un duplice punto di fuga, diversamente dalla prospettiva lineare brunelleschiana che ne contempla solo uno.
L’opera più nota di Paolo Uccello, dipinta attorno al 1456, è la serie di tre tavole con la Battaglia di San Romano, opera commissionata da Cosimo in persona per celebrare la vittoria del 1432 dei fiorentini guidati da Niccolò da Tolentino contro i senesi alleati dei Visconti. I tre pannelli, riuniti un tempo in una camera di palazzo Medici-Riccardi, sono oggi divisi fra gli Uffizi, il Louvre e la National Gallery di Londra. Qui il genio di Paolo Uccello associa uno studio raffinato e accanito della prospettiva a un’atmosfera quasi fiabesca che lo colloca agli antipodi di Masaccio.
Fra le ultime opere si segnalano alcune predelle, fra cui il celebre Miracolo dell'ostia (1469), dipinto durante il soggiorno urbinate presso i Montefeltro, tavolette con soggetti profani e alcuni ritratti. La personalità singolare, e per alcuni versi eversiva, di Paolo Uccello, che lo rende estraneo sia agli innovatori che ai conservatori, gli decreta scarsa fortuna, anche presso i posteri, prima di una tardiva revisione del giudizio critico sulla sua arte. Nel 1469 Paolo è di nuovo a Firenze, dove scrive: "Truovomi vecchio e sanza in usamento e no mi posso essercitare e la dona inferma". Malato e povero, muore sei anni dopo.
Guido di Pietro, concittadino di Giotto, nasce a Vicchio di Mugello attorno al 1400. Miniatore e pittore, attivo già nel 1417, entra poco dopo, col nome di fra Giovanni, nel convento di San Domenico di Fiesole, del quale sarà priore nel 1449. Oltre ad alcuni codici miniati, tra le sue prime opere spicca il Trittico di san Domenico, dove è viva la lezione gotica di Lorenzo Monaco e Gentile da Fabriano.
Attorno al 1430 la pittura dell’Angelico mostra evidenti segni di rinnovamento, aprendosi alle novità introdotte da Masaccio, compresa la ricerca prospettica, come dimostra il Trittico di San Pietro (1430); anche se il vigore plastico masaccesco si traduce nelle sue opere in termini di luce e di colore.
La fama del frate pittore è al culmine nella Firenze del primo Rinascimento; in questo periodo dipinge opere insigni come il Tabernacolo dei Linaioli (1433), il Polittico di Perugia (1437) e la Pala di San Marco (1438), che segnano una rivoluzione nell’arte sacra, coniugando le finalità di edificazione ed elevazione dell’osservatore con un impianto compositivo rinascimentale.
Dal 1435 l’Angelico passa nel convento di San Marco, da poco assegnato ai predicatori domenicani e ristrutturato da Michelozzo per volere di Cosimo dé Medici. Qui, dal 1438 al 1446, sovrintende alla decorazione a fresco del complesso, dipingendo di propria mano capolavori (Crocifissione della sala del Capitolo, Noli me tangere, Trasfigurazione, Annunciazione, Cristo deriso, Incoronazione di Maria, Presentazione al Tempio, nelle celle del braccio est; Madonna in trono e otto santi nel corridoio est) che nella loro estrema semplicità formale e rarefazione compositiva ben s’accordano con la meditazione claustrale, traducendo in scarne immagini la vocazione alla trascendenza propria dell’ordine domenicano e le nitide architetture di Michelozzo.
Dal 1446 è a Roma, dove affresca la Cappella nicolina, con Storie di santo Stefano e san Lorenzo. Dopo alcune tavole, inizia nel 1447 la decorazione della volta della cappella di San Brizio nel duomo di Orvieto. Muore a Roma nel 1455. Lungi dal rappresentare un’antitesi al Masaccio, come è stato presentato a lungo, l’Angelico è colui che sa interpretare in chiave religiosa e mistica gli stimoli della cultura contemporanea. Il Museo fiorentino di San Marco è lo scrigno dei suoi tesori.
Domenico Veneziano, nato a Venezia fra il 1405 e il 1410, muore a Firenze nel 1461. Anche se le vicende della sua formazione non sono ben note, presumibilmente è allievo di Gentile da Fabriano a Firenze (1422-23) e lavora a Roma col Pisanello a cavallo fra il secondo e il terzo decennio del secolo, come testimonia l’Adorazione dei Magi di Berlino, attribuitagli pressoché concordemente, che nel paesaggio manifesta il debito di Domenico verso gli ammirati maestri fiamminghi.
Proprio da costoro, stando al Vasari, egli avrebbe appreso la tecnica della pittura a olio, introducendola a Firenze. In realtà, come risulta dal Libro dell’arte del Cennini, scritto fra il 1390 e il 1400, essa era già nota.
Domenico, la cui sensibilità è vicina a quella di Benozzo Gozzoli, fonde la tradizione tardogotica, raffinata e calligrafica, con le nuove istanze umanistiche: dalle sue esperienze scaturiranno le meditazioni di Piero della Francesca e l’espressionismo lineare di Andrea del Castagno. Simbolo eloquente della sua poetica è la Madonna col Bambino (1432-37) conservata presso villa I Tatti di Settignano, mitica residenza del critico Bernard Berenson.
Perduti gli affreschi di Sant’Egidio, cui collaborò Piero (1439), ci rimane l’intensa testimonianza della pala d’altare con Sacra conversazione, detta Pala dei Magnoli (1445-47), agli Uffizi. La composizione prospettica si articola su uno schema complesso basato su tre distinti punti di fuga, a differenza dalla prospettiva detta albertiana, cara a Piero, basata su un solo punto di fuga. L’atmosfera della Pala è magica, sospesa e vibrante, come sottolineano le fronde e i frutti visibili oltre l’esedra sullo sfondo.
La composizione sembra accumulare in modo erudito e virtuosistico elementi intesi a sottolineare lo schema prospettico; almeno 6 piani successivi, le ombre dei corpi e delle architetture disegnate anch’esse secondo rigorosi schemi prospettici, le scorciatissime piastrelle del pavimento, gli scalini e l’andamento del muro, gli archi ogivali e a tutto sesto, le volte a vela, la loggia e i nicchioni. Il colore vibrante e la luce naturale, chiara e solare, giocano un ruolo unificante; un elemento, questo, che si trasmetterà a Piero.
Gli elementi dell’opera che afferiscono alla cultura rinascimentale sono l’impianto marcatamente equilibrato e razionale, la solenne monumentalità, la ricerca espressiva e gestuale che sottolinea realisticamente l’individualità e la vivezza dei personaggi, l’unitarietà dello spazio, il ruolo protagonistico dell’architettura.
Sicura è la meditazione delle opere di Masaccio e del Beato Angelico, riprendendo la tendenza coloristica di quest’ultimo in opposizione alla scuola della linea e del disegno cara a Paolo Uccello e Andrea del Castagno. La predella, smembrata e dispersa, evidenzia un linguaggio più libero e narrativo, pur mantenendo un’esemplare limpidezza.
Andrea del Castagno, così detto dal natio borgo appenninico alle pendici del Falterona che oggi ne porta il nome (Castagno d’Andrea), nasce attorno al 1419 e muore nel 1457, verosimilmente di peste. Orfano e pastorello, manifesta come Giotto un’innata abilità nel disegno. Notato da Bernardetto Medici, è condotto a Firenze; formatosi, a quanto si dice, nella bottega di Domenico Veneziano, ne disdegna la luminosa dolcezza, prediligendo la forza di Masaccio (presso il quale forse svolge parte dell’apprendistato) e l’indagine psicologica di Donatello.
Dopo aver soggiornato a Venezia (1442: affreschi di San Zaccaria, mosaici di San Marco) e Roma (1444), è di nuovo a Firenze nel 1445, allorché esegue la Madonna di casa Pazzi, in cui l’influsso di Domenico Veneziano è evidente nel trattamento dello spazio, mentre personalissima è la forte energia delle figure. L’uso dello schema prospettico è posto da Andrea al servizio di peculiari esigenze espressive, come nell’Ultima cena (1447) del convento fiorentino di Sant’Apollonia, oggi sede universitaria. Le quinte architettoniche, fortemente scorciate al pari del pavimento, delineando uno spazio chiuso in se stesso, accolgono figure dal marcato rilievo plastico che fanno pensare a Donatello, dalle espressioni tormentate, psicologicamente rilevate.
Il disegno domina su di un colore freddo, quasi metallico, intellettuale e antinaturalistico. Introducendo nella pittura fiorentina un tormentato espressionismo, Andrea sposa la tendenza che privilegia la linea, il disegno, aprendo la strada alla generazione del Pollaiolo, e condivide con Paolo Uccello il gusto per il volume monumentale e il contorno drammatico, lasciando al colore solo il compito di rivestire uno spazio creato dall’onnipotenza della forma.
L’inserimento della figura nello spazio tridimensionale obbedisce ai criteri della scultura; una scelta confermata dal celeberrimo ciclo degli Uomini e donne illustri (1446-1451) per la villa Carducci di Legnaia, oggi agli Uffizi, la prima decorazione profana ad affresco del Rinascimento fiorentino. La sistemazione originale prevedeva la decorazione delle pareti della sala con finte architetture; le figure, glorie fiorentine tra cui Dante, Petrarca, Boccaccio e Farinata degli Uberti, sporgono illusionisticamente da nicchie quadrate, estremamente appiattite, in pose solenni o rivelatrici, delineate con una grande evidenza plastica sottolineata dal chiaroscuro.
Nel Monumento equestre a Niccolò da Tolentino, dipinto in pendant (1456) a quello dedicato vent’anni prima da Paolo Uccello a Giovanni Acuto sulle pareti del Duomo fiorentino, Andrea mostra un tratto nervoso e talora enfatico, un po’ rigido nel profilo del condottiero, più simile a un ritratto che a un monumento.
La rivoluzione prospettica riflette un nuovo modo di pensare, oltre che di dipingere, fondato su di una visione del mondo unitaria e razionale: da alcuni artisti però essa è vissuta come voga pittorica mediante la quale dar voce a contenuti e scelte d’altro segno. In Domenico Veneziano, ad esempio, il nuovo linguaggio s’innesta su di una cultura ancora parzialmente legata al gusto gotico: nella sua opera più nota, la pala di Santa Lucia dei Magnoli, agli Uffizi, il congegno prospettico è talmente elaborato da trasformarsi quasi in calligrafico esercizio di bravura, che moltiplica virtuosisticamente i punti di fuga. Il dipinto, assai articolato, trova il proprio elemento unificante nella luce: una soluzione che l’artista trasmetterà a Piero della Francesca, suo allievo. Anche l’altro grande discepolo di Domenico, Andrea del Castagno, s’uniforma al verbo prospettico: ma, contrariamente a Masaccio, non l’interpreta in chiave storica e realistica, bensì introspettiva ed espressionistica. L’interesse di Andrea, che con Paolo Uccello milita nella schiera di coloro che privilegiano il disegno sul colore, si rivolge soprattutto ai connotati psicologici dei personaggi, svelati da contorni drammatici e tormentati: le sue figure, sulle orme di Donatello, si fanno plastiche, eroiche e solenni
Fra gli altri artisti attivi nel periodo in cui Cosimo il Vecchio governa Firenze, a lui legati, a vario titolo, da rapporti di committenza, si segnalano Filippo Lippi, Benozzo Gozzoli e Luca della Robbia. Il primo, nato a Firenze attorno al 1400, rimasto orfano, prende i voti nel 1421 presso il convento del Carmine, ove può ammirare gli affreschi di Masaccio alla cappella Brancacci. Del soggiorno a Padova (1434) non resta traccia. Tornato a Firenze, Lippi apre una fortunata bottega d’arte, pur mantenendo lo stato clericale.
Nel 1456 rapisce da un convento di Prato dov’è cappellano, la monaca Lucrezia Buti, colla quale convive avendone un figlio, Filippino, a sua volta pittore. Solo nel 1461, per intervento di Cosimo il Vecchio presso il pontefice, la coppia avrà pace e riconoscimento legale. Nel ricco catalogo delle opere di Filippo, degno risultato diuna lunga e fertile carriera, e testimonianza di un raro connubio fra religiosità spirituale e libertà formale e compositiva, si ricordano la Madonna dell’Umiltà con angeli e santi (1432 ca.), la cosiddetta Pala Barbadori (1437), la famosa Adorazione del Bambino, posteriore al 1459, dipinta per la cappella del palazzo fiorentino di Cosimo, e la celeberrima Madonna col Bambino e due angeli degli Uffizi (1465 ca.). Morto a Spoleto durante l’esecuzione degli affreschi della cattedrale, le sue spoglie, inumate inizialmente nel duomo umbro, vengono traslate a Firenze per volontà del Magnifico.
Alla stessa generazione appartiene Luca della Robbia (1400 ca.- 1482), allievo di Nanni di Banco, celebre per il perfezionamento della scultura in terracotta invetriata. Tipico lavoro di bottega, di costo minore e d’esecuzione più rapida delle sculture in marmo o in bronzo, colorate e allegre, durevoli e spettacolari, smontabili e facilmente trasportabili, adatte perciò alle chiese meno dotate o dislocate nel contado, le creazioni robbiane, perlopiù lunette o tondi riccamente decorati, fanno la fortuna della bottega di Luca, dei figli e dei nipoti, fra i quali spicca Andrea (1435-1525).
Di vent’anni più giovane, Benozzo di Lese, detto Benozzo Gozzoli (Firenze 1420 - Pistoia 1497), del suo apprendistato d’orafo, allievo del Ghiberti, conserva il gusto per i dettagli decorativi. Collaboratore del Beato Angelico a Roma e Orvieto, dà il meglio di sé nella celeberrima Cavalcata dei Magi della cappella di palazzo Medici-Riccardi a Firenze; qui esplica tutta la propria felice vena narrativa nel raffigurare un corteggio che pare uscito da una fiaba, perpetuando il ricordo dei prelati e dei dignitari partecipanti al concilio di Firenze del 1439, ai quali si alternano personaggi noti e meno noti della dinastia medicea e della sua cerchia. Negli affreschi del Camposanto di Pisa (1468-84), nelle Storie di sant’Agostino di San Gimignano (1463-67) e negli affreschi di Montefalco, Benozzo conferma la propria eleganza di pittore cortese e cortigiano, disinvolto e brillante, che mostra di recepire i grandi motivi del tempo solo in funzione di un risultato gradevole e accattivante.