La politica matrimoniale degli Asburgo
Il territorio del Sacro Romano Impero si limitava ormai soltanto alla Germania. Alla fine del XIII secolo era diventato imperatore Rodolfo d'Asburgo, ma alla dinastia degli Asburgo sul trono imperiale ne erano succedute altre. Il potere degli Asburgo era rimasto limitato all'Austria fino alla metà del XV secolo, quando avevano riacquistato il titolo di imperatore con Federico III.
Nel 1493 diventò imperatore suo figlio, Massimiliano I d'Asburgo (1459-1519). Prima di salire sul trono dell'Impero egli aveva sposato Maria, figlia del duca di Borgogna Carlo il Temerario. Alla morte del padre, nel 1477, Maria aveva ereditato, oltre al ducato di Borgogna, anche le Fiandre e il Lussemburgo.
Maria contesa, come sposa, da parecchi principi europei, si trovò alla morte del padre (1477) in una situazione estremamente difficile, per l'atteggiamento dei comuni fiamminghi, che le imposero la concessione del gran privilegio che avrebbe annullato i poteri del governo centrale, e per gli intrighi del re di Francia, Luigi XI, che invase gran parte degli stati borgognoni.
Sposò allora l'arciduca Massimiliano d'Asburgo (1477), cui il padre l'aveva promessa l'anno prima. Il re di Francia allora aveva invaso la Borgogna e l'aveva conquistata; Massimiliano era riuscito a mantenere le Fiandre, ma aveva dovuto affrontare una rivolta delle città fiamminghe, che era riuscito a placare solo concedendo loro una certa autonomia.
Divenuto imperatore, Massimiliano I rivolse tutte le sue energie a consolidare il potere imperiale in Germania, partendo dall'Austria, la regione che costituiva il dominio ereditario della sua famiglia ed era la più fedele. Egli non riuscì a unificare realmente la Germania, dove principi e città continuarono a godere di una notevole autonomia, ma accrebbe la forza degli Asburgo soprattutto grazie a una intelligente politica matrimoniale.
Fece infatti sposare suo figlio Filippo il Bello con Giovanna, erede della corona di Spagna - in quanto figlia di Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona - e strinse legami di parentela anche con i re d'Ungheria e di Boemia. Abbiamo già visto che era stata un'alleanza matrimoniale a fargli acquisire le Fiandre e il Lussemburgo.
L’ascesa di Carlo V
Nel 1500 Filippo il Bello e Giovanna ebbero un figlio, Carlo (1500-1558), che avrebbe dovuto ereditare vasti domini sia da parte del padre sia da parte della madre. Trascorse l'adolescenza e la prima giovinezza nelle Fiandre, dove si procurò l'amicizia dei Függer e dei Welser, grandi e potenti banchieri, che in seguito gli avrebbero dato sempre il loro sostegno, in cambio di una particolare attenzione che Carlo avrebbe prestato ai loro interessi.
Nel 1516, alla morte del re di Spagna Ferdinando il Cattolico, Carlo ereditò anche il suo regno, compresi i domini spagnoli nel Nuovo Mondo. Nel 1519, alla morte del nonno Massimiliano I, Carlo pose la sua candidatura al titolo d'imperatore. Non si trattava di un titolo ereditario, perché, secondo la Bolla d'oro veniva conferito dai sette grandi elettori dell'Impero. Carlo però, rispetto agli altri pretendenti, era in una posizione favorevole per la successione, in base alla tradizione che vedeva favoriti i discendenti dell'imperatore morto.
Contro di lui giocava il fatto che era già diventato re di Spagna. Se le corone di Spagna e dell'Impero si fossero riunite nella persona di un solo uomo, questi avrebbe avuto nelle proprie mani uno straordinario potere, perché l'estensione territoriale dei suoi domini sarebbe stata immensa.
Carlo, infatti, aveva già ricevuto da parte della famiglia della madre la penisola iberica, le terre del Nuovo Mondo, il Napoletano, la Sicilia, la Sardegna e il Milanese: alla morte del nonno, se fosse diventato imperatore, avrebbe acquisito da parte degli Asburgo l'Austria, la Germania, il Lussemburgo e le Fiandre. Il potere dell'Impero sarebbe fortemente aumentato.
Ciò allarmava gli altri sovrani europei. L'opposizione alla sua candidatura veniva soprattutto dalla Francia, che temeva di essere accerchiata dai possedimenti del nuovo imperatore.
Al momento dell'elezione fu decisivo per Carlo l'appoggio finanziario che riuscì a ottenere da alcuni banchieri e specialmente dai Függer e dai Welser: egli, infatti, diventò imperatore dopo avere comprato con 850.000 fiorini i principi tedeschi.
Un impero sconfinato
Le basi dell'Impero di Carlo V erano piuttosto fragili, perché la sua struttura era precaria. Carlo V possedeva una settantina di titoli regali e principeschi (da quello, fondamentale, di imperatore ad altri politicamente vuoti di contenuto). A tanta ampiezza di poteri teorici non corrispondevano però poteri effettivi altrettanto grandi.
I paesi di cui Carlo era diventato sovrano, oltre a essere geograficamente distanti tra loro, avevano tradizioni ed economie diverse. In nessuno di essi il dominio di Carlo era del tutto solido, sia perché doveva regnare su popoli che non lo conoscevano e di cui anche lui aveva scarsa conoscenza, sia perché i suoi interessi di sovrano spesso si trovavano in contrasto con quelli dei gruppi dominanti dei vari paesi appartenenti all'Impero.
Nel 1516, salito sul trono di Spagna, vi si recò insieme con un gruppo di consiglieri fiamminghi, la cui presenza suscitò il malcontento degli spagnoli Egli stesso non parlava bene la lingua del suo nuovo regno.
Gli spagnoli temevano che Carlo intendesse proteggere non gli interessi della Spagna ma quelli dei Paesi Bassi, dove era cresciuto, e soprattutto di Anversa, la città che costituiva il più grande centro commerciale e finanziario d'Europa e dove aveva molte amicizie.
Quando, nel 1519, si allontanò dalla Spagna per salire sul trono imperiale, Carlo lasciò come reggente un cardinale fiammingo, Adriano d'Utrecht, che era stato uno dei suoi educatori e che più tardi sarebbe diventato pontefice con il nome di Adriano VI (1459-1523).
Le città castigliane allora insorsero, chiedendo gli antichi privilegi, e si verificarono insurrezioni anche in altre regioni della Spagna. La rivolta dei comuneros, cioè degli abitanti delle città della Castiglia, in difesa delle autonomie comunali fu domata soltanto nel 1522.
Per assumere una più precisa fisionomia di sovrano spagnolo, Carlo V si stabilì a Madrid e si circondò di collaboratori spagnoli. Riconoscendo nella Spagna il più solido fondamento del suo potere, Carlo V però finiva col sottolineare la forza assunta dalle realtà nazionali, che minavano il significato universale dell'Impero.
Un nuova visione dell’Impero
Il maggiore ispiratore della politica di Carlo V fu l'italiano Mercurino Arborio (1465-1530), marchese di Gattinara, prima reggente dei Paesi Bassi e poi gran cancelliere. Mercurino di Gattinara elaborò una teoria della monarchia universale che avrebbe dovuto costituire il fondamento dell'Impero: egli sosteneva che l'intera cristianità dovesse essere governata da «un solo pastore».
Ma tra l'imperatore e .il suo consigliere non c'era un'assoluta concordanza. Gattinara riteneva che i fini della politica imperiale dovessero essere soprattutto civili. Carlo V, invece, attribuiva loro un significato essenzialmente religioso, di difesa della cattolicità: come scrisse egli stesso, era deciso a impegnare a vantaggio della fede i suoi regni, i suoi amici, il suo corpo, la sua vita e la sua anima.
Il forte sentimento di religiosità derivava a Carlo V sia dagli Asburgo sia da Ferdinando e Isabella. I due sovrani spagnoli nei loro testamenti avevano chiesto ai successori di non cessare di combattere contro gli infedeli e di essere custodi ed esaltatori della fede cattolica e della Chiesa. Nonostante la sua religiosità, Carlo V ebbe continui contrasti con i pontefici (andò d'accordo solo con Adriano VI).
Carlo V aveva una concezione molto forte dell'autorità imperiale. Un vescovo spagnolo che fu suo biografo, Antonio de Guevara (1480-1545), la riassunse nei seguenti termini: «Dio ha ordinato, non senza giusto motivo, che in una famiglia ci sia un solo padre di famiglia [...], in una provincia un solo signore, in un popolo superbo un solo re, in un possente esercito un capo su tutti gli altri. Nello stesso modo nella monarchia del mondo deve esserci un solo imperatore».
L’opposizione all’Impero: il ruolo della Francia
Carlo V aveva ereditato non solo dei regni diversi tra loro ma anche delle linee politiche diverse. Prima di riunirsi nelle sue mani, infatti, l'Impero e la Spagna si erano mossi su scacchieri internazionali differenti, dove avevano interessi diversi.
La politica della Spagna era stata mediterranea e atlantica; quella dell'Impero aveva guardato soprattutto al centro dell'Europa e alle frontiere orientali e meridionali della Germania. Il luogo dove s'incontravano le due politiche era l'Italia, dove la Spagna possedeva il Napoletano e la Sicilia.
Sull'Italia però si estendevano anche le mire espansionistiche della Francia, che era la più forte monarchia continentale e la naturale avversaria di Carlo V, il quale, ereditando sia i domini tedeschi sia la Spagna, l'aveva chiusa in una sorta di accerchiamento.
I francesi avevano già compiuto dei tentativi di espansione in Italia prima dell’avvento sul trono di Carlo V.
La situazione politica italiana
L'esistenza degli stati regionali rendeva l'Italia militarmente debole di fronte alle monarchie nazionali e la faceva apparire un obiettivo allettante, perché sembrava promettere un ricchissimo bottino, da conquistare senza lotte molto aspre e senza grandi sacrifici.
L'Italia non era uno Stato e non era nemmeno una nazione. Certo, aveva una sua precisa fisionomia geografica e anche culturale: le classi colte della penisola parlavano la stessa lingua e la loro cultura rinascimentale, sebbene elaborata in centri differenti, conteneva molti elementi comuni.
Se però gli intellettuali sentivano spesso di appartenere a una stessa patria letteraria, tale sentimento non era condiviso dalle diverse borghesie cittadine: per esse la patria restava pur sempre quella delimitata dalle mura della propria città, anche quando la città era diventata signora di un'intera regione.
Senza dubbio, nemmeno dove erano nate le monarchie nazionali - in Francia, Inghilterra e Spagna - esisteva nel popolo una coscienza nazionale così come la intendiamo oggi. Gli abitanti di quei paesi sentivano però di essere parte, se non di una sola nazione, almeno di una sola monarchia.
I milanesi, i fiorentini, i veneziani, i romani, i napoletani non aspiravano a unirsi, perché la concezione dell'unità non rientrava nei loro atteggiamenti mentali. Essi, infatti, non sentivano la divisione politica come un elemento d'inferiorità rispetto ad altri paesi ed erano fieri di appartenere al loro Stato regionale, che consideravano in rapporto conflittuale con gli altri stati regionali della penisola.
Per un milanese o per un fiorentino la conquista dell'egemonia nell'Italia settentrionale o centrale era un obiettivo altrettanto importante di quello che per un francese o uno spagnolo era la conquista dell'egemonia in Europa. L'orizzonte politico dei veneziani era italiano soltanto per una parte; per un'altra, non meno importante, era mediterraneo. I napoletani consideravano l'unità dell'Italia meridionale come il massimo obiettivo.
I romani, infine, sentivano di appartenere a uno Stato che, pur essendo spesso impegnato in guerre per la conquista di non grandi estensioni di territorio, aveva pur sempre un carattere sovranazionale, perché Roma era il centro dell'intera cristianità.
Carlo VIII
Nel 1494, due anni dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, iniziò lo scontro in Italia fra Francia e Spagna. Il primo a scendere in Italia, alla testa di un esercito in cui c'era una forte presenza di mercenari svizzeri, fu il giovane re di Francia Carlo VIII (1470-1498), che sosteneva di essere, in quanto discendente degli Angioini, il legittimo erede al trono di Napoli.
Per la sua impresa Carlo VIII poté giovarsi dell'appoggio di Ludovico Sforza detto il Moro (1452-1508). Questi, nominato tutore del legittimo erede al ducato di Milano, Gian Galeazzo Maria, ne aveva usurpato i poteri e cercava alleati contro il re di Napoli, sostenitore dei diritti di Gian Galeazzo.
La discesa di Carlo VIII rivelò, oltre alla debolezza militare di tutti gli stati della penisola, anche l'instabilità interna di alcuni di essi. In Toscana Firenze insorse contro il figlio di Lorenzo, Piero de' Medici, proclamando la repubblica; nel Napoletano i baroni si ribellarono agli Aragonesi, favorendo l'ingresso di Carlo VIII a Napoli.
La proclamazione della repubblica fiorentina dopo la cacciata dei Medici, vide protagonista Girolamo Savonarola che dal 1494 al 1498 diede alla Repubblica Fiorentina un'impronta moralistica. Savonarola ebbe dalla sua parte l'appoggio del popolo perché promosse una riforma antioligarchica dello Stato fiorentino istituendo un consiglio cittadino, composto da 3000 persone, che aveva il governo di Firenze.
Fece provvedimenti favorevoli gli strati popolari, dalla diminuzione delle imposte a misure contro l'usura. Ma la forma di governo voluta da Savonarola era fortemente democratico-teocratica per la caratterizzazione fortemente religiosa e moralistica della sua concezione che con i suoi seguaci, chiamati Piagnoni, bruciava sui roghi oggetti di lusso e libri considerati immorali.
Il pontefice Alessandro VI preoccupato per i continui attacchi che Savonarola rivolgeva alla curia di Roma lo scomunicò nel 1497 dando slancio alla lotta contro il frate da parte dei suoi avversari fiorentini e soprattutto quella sempre più decisa della borghesia perché il suo moralismo era in totale opposizione al senso rinascimentale della vita che si era affermato ormai a Firenze.
Si coalizzarono perciò sia coloro che volevano il ritorno dei Medici sia i loro avversari mentre il pontefice accentuava la sua pressione minacciando l'interdetto contro la città. Nel 1498, dopo una rivolta popolare, Savonarola fu imprigionato, processato e condannato al rogo.
Ma Ludovico il Moro intendeva servirsi dei francesi, non subire il loro predominio. Inoltre, la penetrazione francese in Italia preoccupava gli altri sovrani europei. Contro Carlo VIII fu perciò adottata la tattica che era stata applicata in passato contro i signori italiani che minacciavano di diventare troppo potenti.
Si formò un'alleanza antifrancese tra Venezia, il papa Alessandro VI, Ludovico il Moro e la repubblica fiorentina. L'alleanza era appoggiata anche dall'imperatore Massimiliano d'Asburgo e dal re di Spagna Ferdinando il Cattolico. Nel 1495 Carlo VIII fu costretto a tornare in Francia, dopo essere stato sconfitto a Fornovo.
Il comportamento di Ludovico il Moro non deve essere giudicato come un tradimento degli interessi italiani, ma deve essere valutato alla luce degli atteggiamenti mentali del tempo. L'Italia non poteva essere tradita, perché ancora non esisteva. Per i principi italiani i nemici erano i signori degli altri Stati dell'Italia, non i sovrani della Francia o della Spagna.
In realtà, l'alleanza tra Ludovico il Moro e Carlo VIII e le conseguenze che ne derivarono non furono la causa ma la rivelazione della debolezza degli Stati italiani. I loro principi erano stati molto abili nell'adoperare le armi della diplomazia e non avevano capito che nei rapporti tra stati contava invece la forza.
Luigi XII
L'impresa di Carlo VIII aveva aperto la strada alle invasioni straniere e aveva mostrato che poteva essere percorsa facilmente. Nel 1499 anche il suo successore, Luigi XII (1462-1515), decise di scendere in Italia, accampando pretese non solo su Napoli, ma anche su Milano.
Luigi XII si era procurato l'alleanza sia di Venezia, impegnandosi a cederle alcuni territori del Milanese, sia del pontefice Alessandro VI, promettendo appoggio al tentativo di Cesare Borgia (ca. 1475-1507), figlio naturale del papa, di fondare un nuovo Stato nelle Marche e in Romagna.
Il re di Francia poté così occupare Milano, da dove puntò su Napoli, dopo avere stretto con la Spagna un accordo che prevedeva la spartizione del Napoletano tra le due potenze.
Ma si trattava di un accordo incompleto e vago, perché in esso non s'indicava a chi dovessero andare alcune regioni: ne nacque perciò un conflitto che fu vinto dagli spagnoli con le battaglie di Cerignola e del Garigliano, combattute nel 1503. Nell'ambito di questa guerra si svolse uno scontro tra cavalieri francesi e italiani che combattevano nell'esercito spagnolo, passato alla storia come "la disfida di Barletta".
Il re di Spagna, Ferdinando il Cattolico, diventò anche re di Napoli. Erano trascorsi dieci anni dalla discesa di Carlo VIII e per l'Italia iniziava il periodo della dominazione straniera.
I principi italiani continuavano però a guardare ai sovrani stranieri come a possibili alleati contro i nemici che avevano in Italia.
Nel 1508 il papa Giulio II (1443-1513) organizzò contro Venezia, che minacciava il territorio dello Stato pontificio, la Lega di Cambrai, che aveva il suo braccio militare nella Francia.
L'esercito francese sconfisse presso Agnadello i veneziani, che furono costretti a ritirarsi. A questo punto però Venezia cessò di rappresentare un pericolo per Giulio II, mentre diventava una minaccia il rafforzamento delle posizioni della Francia in Italia.
Per questo motivo, Giulio II, mentre i francesi convocavano un concilio per deporlo, formò una nuova alleanza, la Lega santa, diretta contro di loro. Vi parteciparono Spagna, Svizzera, Inghilterra e la nemica di poco prima, Venezia. La Francia venne sconfitta e gli Sforza, aiutati dagli svizzeri, ripresero possesso del ducato di Milano.
Francesco I
Alla morte di Giulio II ci fu un nuovo capovolgimento di alleanze. Venezia uscì dalla Lega santa e si alleò con il nuovo re di Francia, Francesco I, contro Milano e gli svizzeri, che nel 1515 furono battuti a Melegnano dalle truppe francesi e venete.
Nella battaglia di Melegnano fu impiegata una nuova arma da fuoco, l'archibugio. Data la sua pesantezza e la difficoltà di adoperarla, la nuova arma non determinò per il momento la scomparsa della spada e della lancia. L'apparizione dell'archibugio segnò comunque una svolta nell'arte della guerra, fino ad allora dominata dallo scontro corpo a corpo.
In seguito alla sconfitta di Melegnano, la Confederazione svizzera abbandonò ogni proposito di espansione in Italia. Con la rinuncia all'espansionismo gli svizzeri gettarono le basi per una politica di pace che, cessati anche i conflitti interni, avrebbe reso la Svizzera, a partire dal XVII secolo, un'oasi pacifica in un'Europa sempre tormentata dalle guerre.
A seguito della sconfitta Francesco I, nell'agosto del 1516, aveva firmato il trattato di Noyon con il nuovo re di Spagna Carlo I d'Asburgo, al quale aveva promesso sua figlia in sposa, confermando il Milanese alla Francia.
Lo scontro tra Francesco I e Carlo V
Divenuto imperatore del Sacro Romano Impero come Carlo V, il già re di Spagna Carlo I non rinunciò a estendere la sua egemonia sull'intera Italia.
Carlo V e Francesco I, oltre alle rispettive corone, ereditarono i motivi di scontro tra gli Asburgo spagnoli e i francesi. Il fronte italiano, con le sue ricchezze e con i suoi tesori di carattere culturale, continuava a rimanere quello più delicato, sia per la posizione strategica della penisola, sia per l'estrema debolezza e divisione che regnavano fra i regni italici.
Di fatto la lotta per il predominio in Italia doveva assumere, per circa quarant’anni (dal 1521 al 1559), il carattere di una più vasta lotta per il predominio in Europa.
Se l'enorme estensione territoriale dell'impero, come era venuta configurandosi con l'ascesa di Carlo V, imponeva alla Francia, per non soccombere, di evitare l'accerchiamento dei domini imperiali in Spagna, nelle Fiandre e in Germania, per la dinastia asburgica, invece, il ducato di Milano, e più in generale l'Italia, assumevano una posizione strategica vitale per garantire la comunicazione fra i nuclei essenziali dell'impero, ovvero l'Europa centrale e la penisola iberica.
Si spiega così come nel 1519 Francesco I presentasse la sua candidatura per l'elezione a imperatore in concorrenza con Carlo V, contro il quale, a partire dal 1521, iniziò il conflitto militare che, per rompere l'accerchiamento del suo paese da parte dei possedimenti imperiali, durò praticamente tutta la sua vita, salvo alcune brevi interruzioni.
Perciò ricusa il trattato di Noyon che era stato da lui firmato come re di Spagna, prima della sua nomina a Imperatore in Germania.
Egli poteva contare sulla migliore fanteria d'Europa e nel novembre del 1521 invase il Milanese.
La prima fase della guerra si concluse con la battaglia della Bicocca nei pressi di Milano (27 aprile 1522), che vide l'esercito francese sconfitto dalle truppe imperiali comandate dal condottiero Prospero Colonna.
In conseguenza della sconfitta, i francesi furono costretti ad evacuare il milanese, che passò sotto l'amministrazione di Francesco Sforza, alleato di Carlo V. Nell'ottobre del 1524, il re di Francia invase nuovamente l'Italia e puntò decisamente verso Milano. Cinta d'assedio Pavia, difesa dall'esercito imperiale, il 24 febbraio 1525, nei pressi della città si svolse lo scontro decisivo fra i due eserciti, che si risolse in una nuova disfatta per i francesi: lo stesso re Francesco I, ferito, fu fatto prigioniero e venne deportato in Spagna.
Nel 1526, a Madrid, fu costretto a firmare un pesante trattato di pace con il quale, in cambio della libertà, fu costretto a concedere Milano e la Borgogna francese a Carlo V, oltre a lasciare in ostaggio in Spagna i propri figli Francesco ed Enrico.
Intanto Carlo V vede il suo sogno di unità imperiale dell’Europa entrare in crisi proprio in Germania dove nel 1517, prima della sua incoronazione, è iniziata una forte ondata contestatrice dell’eccessivo potere terreno della Chiesa ad opera di Martin Lutero (Martin Luther, 1483-1546), un monaco agostiniano che insegnava all'Università di Wittenberg.
Nel novembre del 1517 furono rese pubbliche 95 tesi in cui Lutero sosteneva che il pontefice non poteva concedere la remissione di una pena decretata da Dio. Lutero inviò una copia delle tesi ad Alberto di Brandeburgo, che ne era il destinatario più immediato, ma questi, a sua volta, le spedì a Roma, coinvolgendo così anche il papa.
Gli agostiniani intervennero a favore di Lutero, mentre i domenicani gli si schierarono contro. Le posizioni di Lutero si andarono rapidamente irrigidendo: egli negò apertamente la validità delle indulgenze e affermò che l'autorità del pontefice passava in secondo piano di fronte a quella delle Sacre Scritture.
Nel 1520 si arrivò alla completa rottura. Lutero pubblicò alcuni scritti, Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca sulla riforma della società cristiana e La cattività babilonese della Chiesa, in cui polemizzava aspramente contro Roma e delineava gli elementi essenziali della sua dottrina.
Il 15 giugno 1520, papa Leone X emanò la bolla Exsurge Domine con la quale dava a Lutero sessanta giorni di tempo per ritrattare, pena la scomunica.
Per tutta risposta Lutero, il 10 dicembre 1520, diede pubblicamente fuoco ai volumi di diritto canonico, nonché alla stessa bolla papale. Il 3 gennaio dell'anno seguente, la bolla Decet Romanum Pontificem sancì la scomunica di Lutero. La polemica e la separazione religiosa conseguente apriranno un altro fronte di instabilità politica nei domini di Carlo V.
La riforma della Chiesa: Erasmo da Rotterdam
La Chiesa si era andata sempre più allontanando dai suoi compiti pastorali, per assumere funzioni politiche: il pontefice, più che da capo della cristianità, si comportava da capo dello Stato pontificio. Nel Cinquecento questa politicizzazione contribuì alla decadenza dei costumi ecclesiastici, che fu particolarmente forte a Roma, dove l'afflusso di denaro si fece via via più intenso.
La sede del papato si arricchiva di splendidi monumenti costruiti col contributo finanziario dell'intera cristianità, ma a molti cristiani questa ricchezza sembrava rendere Roma sempre più lontana dai princìpi del Vangelo. All'interno della Chiesa nacque perciò l'esigenza di una profonda riforma, che la riportasse a quei princìpi.
Il maggiore interprete di questa esigenza fu il teologo olandese Erasmo Geerts, conosciuto come Erasmo da Rotterdam (ca. 1466-1536). Erasmo condannava la corruzione e l'immoralità degli ecclesiastici e chiedeva il rinnovamento della teologia.
Accusava i teologi di perdersi in sottigliezze dottrinali comprensibili soltanto a pochi e li invitava a usare un linguaggio più semplice, che fosse chiaro a tutti. Erasmo era un umanista: sosteneva che l'uomo è al centro del mondo e studiava filologicamente gli antichi testi evangelici, per contribuire al ritorno al cristianesimo originario.
Erasmo voleva una grande riforma della Chiesa, che però non ne rompesse l'unità. La Riforma fu attuata da Martin Lutero, che seguì solo in parte la strada tracciata da Erasmo, e che portò alla frattura del mondo cristiano, di cui invece l'umanista olandese considerava l'unità necessaria al mantenimento della pace in Europa.
Il Papato nel Cinquecento
All'inizio del Cinquecento la storia di Roma fu dominata dalla figura del grande pontefice Giulio II (1443-1513), guerriero e mecenate, appartenente alla famiglia Della Rovere, di cui abbiamo già ricordato l'attività diplomatica e bellica.
Gli succedette, col nome di Leone X, Giovanni de' Medici che aveva ottenuto la carica di cardinale a soli tredici anni, ma era stato poi coinvolto nel declino della potenza dei Medici dopo la loro espulsione da Firenze e aveva perduto la sua influenza.
Il ritorno dei Medici a Firenze nel 1512, al quale contribuì con la sua attività diplomatica, precedette di poco la sua ascesa sul trono pontificio, nel 1513. Fu anche lui un mecenate e arricchì Roma di splendidi edifici, iniziando la costruzione della basilica di San Pietro.
Leone X a causa delle spese che sostenne per abbellire Roma, indisse la vendita delle indulgenze, che fu una delle cause della Riforma di Martin Lutero
La vendita delle indulgenze
Le necessità finanziarie avevano spinto la curia romana a intensificare sempre più la vendita delle indulgenze, ottenute con le preghiere rivolte alla Madonna e ai santi, affinché intercedessero presso Dio per ridurre le pene che le anime dovevano scontare in Purgatorio.
In origine si riteneva che le preghiere fossero sufficienti a ottenere la concessione delle indulgenze, ma poi era nata l'abitudine di acquistarle dalle autorità ecclesiastiche grazie al pagamento di una somma di denaro.
Fu appunto la vendita delle indulgenze l'occasione che diede inizio al movimento di riforma. Nel 1514 il vescovo di Magdeburgo, Alberto di Brandeburgo, volle diventare anche vescovo di Magonza. Per ottenere il vescovato, Alberto doveva pagare una tassa a Roma e si fece prestare il denaro necessario al pagamento dai più ricchi banchieri del tempo, i Függer.
L'intreccio tra questioni religiose e questioni finanziarie era già abbastanza scandaloso, ma lo scandalo si aggravò quando il nuovo vescovo di Magonza, non trovando il denaro con cui pagare il debito contratto con i Függer, ottenne dal pontefice la concessione di vendere indulgenze per otto anni. Il vescovo avrebbe trattenuto la metà del ricavato, mentre l'altra metà sarebbe andata a Roma. Un domenicano, Giovanni Tetzel, ebbe l'incarico di predicare l'efficacia delle indulgenze ottenute in cambio di denaro.
I procedimenti con cui le indulgenze furono messe in vendita suscitarono l'indignazione di Lutero.
Lutero si era fatto monaco dopo un avvenimento che non conosciamo e che aveva avuto una profonda influenza sulla sua vita spirituale.
Divenuto professore di teologia a Wittenberg, si era applicato con grande passione allo studio delle Sacre Scritture e si era convinto che la Chiesa di Roma si stesse sempre più allontanando dalla purezza delle origini. Questa convinzione era stata rafforzata da un viaggio compiuto a Roma nel 1509-1510.
La dottrina luterana
Alle origini del dissenso di Lutero c'erano però anche ragioni più strettamente teologiche: egli, infatti, non accettava la concezione di un Dio che punisce o assolve gli uomini secondo le opere che essi hanno compiuto. A tale concezione Lutero sostituiva quella della salvezza concessa da Dio per sua grazia e misericordia: sosteneva cioè che è Dio a scegliere gli uomini che vuole salvare e anche ad assegnare loro il posto che occupano nella società.
Martin Lutero affermava che Dio fa conoscere la sua volontà agli uomini direttamente attraverso il Vangelo. Venivano così a cadere due punti essenziali della dottrina della Chiesa: l'importanza dell'intercessione della Madonna e dei santi per ottenere la remissione dei peccati e la funzione della stessa Chiesa, che non era più la sola interprete della parola di Dio.
Oltre a negare la funzione della Madonna, dei santi e della Chiesa, Lutero negava anche la validità dei sacramenti, tranne che del battesimo e dell'eucaristia, gli unici di cui si parla nel Vangelo.
Secondo Lutero, non era la presenza dei sacerdoti, al momento della consacrazione del pane e del vino, a provocare la transustanziazione, cioè la loro trasformazione nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo. Anche la messa veniva così rifiutata.
Per Lutero gli uomini non erano liberi di scegliere tra il bene e il male: al «libero arbitrio» sostituiva il «servo arbitrio». La sola certezza era data dalla fede: era la loro fede a farli considerare giusti agli occhi di Dio. Lutero definiva questa concezione, che egli traeva da san Paolo, «giustificazione per fede».
Questo tema, nel 1524, porterà a un’aspra polemica tra Lutero e Erasmo, che aveva inutilmente invitato ad aderire alla Riforma: Erasmo, infatti, credeva nel libero arbitrio e rimproverava a Lutero di non attribuire agli uomini alcuna possibilità di scelta.
Un altro importante elemento della dottrina di Lutero era la teologia della croce. Egli notava che Dio si è comportato in maniera non solo incomprensibile ma apparentemente folle, incarnandosi in Cristo e soffrendo sulla croce.
Dio però, affermava Lutero, si manifesta all'umanità proprio in questa contraddizione, perché il bene è nascosto, così ben nascosto da apparire come il suo contrario. Soltanto la fede, secondo Lutero, poteva far percepire la forza e la grandezza di Dio sotto l'apparente umiliazione subita sulla croce.
Lo scontro tra Lutero e la Chiesa
Nel 1521 il nuovo imperatore Carlo V convocò Lutero a una dieta a Worms. Lutero fu chiamato a discolparsi, avendo come garanzia un salvacondotto imperiale che lo avrebbe protetto i qualunque caso per potersi allontanare da Worms. Secondo le norme in vigore chi era stato scomunicato dal Papa doveva poi essere condannato dall’imperatore.
Ma Carlo V, consapevole del grande seguito che Lutero aveva, stava cercando di riappacificare gli animi e voleva tentare una mediazione che impedisse un altro fronte di scontro e di tensione interna in Germania.
Anche alcuni principi tedeschi avevano aderito alle idee di Lutero ed essendo al Germania un insieme di stati differenti si rischiava una divisione profonda che avrebbe reso priva di significato l’elezione imperiale di Carlo V ottenuta da meno di due anni, nel giugno del 1519.
Ma Lutero rifiutò di ritrattare ciò che aveva sostenuto fino a quel momento. Nonostante il salvacondotto imperiale garantisse a Lutero di poter abbandonare Worms senza essere arrestato, per sottrarlo a eventuali pericoli, un gruppo di cavalieri, inviati dal suo protettore Federico di Sassonia, condusse Lutero nel castello di Wartburg, dove poté dedicarsi alla traduzione della Bibbia in tedesco.
Questo fu un atto altrettanto rivoluzionario della pubblicazione delle 95 tesi: la traduzione, infatti, dava ai tedeschi la possibilità di conoscere direttamente la parola di Dio. In tal modo Lutero rendeva realmente possibile a tutti diventare «sacerdoti», cioè interpreti delle Sacre Scritture.
La sua traduzione della Bibbia ebbe anche una grande influenza sulla nascita della moderna lingua tedesca, perché Lutero unificò i diversi dialetti, proponendo un nuovo modello linguistico unitario.
Le ripercussioni sociali della Riforma
Intanto un altro professore di Wittenberg, Andrea Bodenstein (ca. 1480- 1541), chiamato in Italia Carlostadio dal nome della sua città natale Karlstad, spingeva alle estreme conseguenze la dottrina di Lutero, dandone un'interpretazione che lo stesso Lutero non approvò. Carlostadio negava, infatti, che Cristo fosse presente nell'eucaristia, rifiutando così uno dei due sacramenti che Lutero invece accettava.
Le idee di Carlostadio apparivano pericolose anche sul piano sociale, perché contenevano elementi di egualitarismo che mettevano in discussione l'ordine costituito e le gerarchie sociali e questo era un altro aspetto che Lutero e i principi che lo sostenevano non potevano accettare. L'egualitarismo di Carlostadio era l'avvisaglia di una possibile radicalizzazione del movimento di riforma.
Un rinnovamento religioso così ampio come quello predicato da Lutero poteva avere, infatti, conseguenze che lo stesso Lutero considerava pericolose. Mettendo in discussione l'autorità della Chiesa, la dottrina luterana indeboliva anche tutte le autorità civili, cosa che Lutero, alleato di alcuni importanti principi, era ben lontano dal volere.
A stabilire un legame tra le aspirazioni dei contadini e il Vangelo fu soprattutto il sacerdote Thomas Müntzer (ca. 1489-1525), che predicò contro la corruzione della Chiesa e fondò un movimento, che è stato chiamato degli anabattisti (cioè di coloro che sono battezzati una seconda volta).
Müntzer respingeva la definizione di anabattisti, adoperata dai suoi nemici, sostenendo che quello ricevuto alla nascita non era un vero battesimo. Secondo Müntzer e i suoi seguaci, infatti, il battesimo non doveva essere impartito ai bambini ma soltanto agli adulti, perché era il segno della loro piena accettazione di una vita tutta ispirata dal Vangelo.
Müntzer voleva che i credenti ritornassero al cristianesimo delle origini, alla purezza originaria del messaggio evangelico, da conoscere direttamente attraverso la lettura dei testi sacri, la Bibbia e soprattutto il Vangelo. La predicazione di Müntzer aveva anche un forte contenuto sociale, perché egli chiedeva la ridistribuzione delle ricchezze e prospettava una società dai caratteri egualitari. Fu perciò tra gli ispiratori della guerra dei contadini.
Le rivolte dei cavalieri e dei contadini
I primi a ribellarsi furono i cavalieri, che appartenevano alla piccola nobiltà. Essi si trovavano in difficoltà economiche e non avevano nessun peso politico. Guidati da Franz von Sickingen (1481-1523) e Ulrich von Hutten (1488-1523) nel 1522 e nel 1523, combatterono contro i principi tedeschi ma furono sconfitti. Ulrich von Hutten si rifugiò in Svizzera.
Nel 1524 scoppiò in Germania una estesa rivolta dei contadini contro i signori. Nelle campagne le rivolte erano avvenimenti frequenti, ma si trattava sempre di episodi isolati, che si esaurivano sul piano locale.
La cosiddetta «guerra dei contadini» fu, invece, un movimento generale, reso possibile dalle divisioni che la predicazione di Lutero aveva aperto all'interno dei ceti dominanti tedeschi, indebolendoli.
I contadini avanzarono rivendicazioni che erano di tipo tradizionale, perché miravano alla difesa delle comunità e dei diritti comunitari, ma tali rivendicazioni acquistavano un carattere nuovo a causa del legame che veniva stabilito tra esse e il Vangelo.
Il programma di lotta dei contadini conteneva, oltre agli elementi tradizionali che abbiamo ricordato, anche la richiesta della diminuzione delle decime e dell'abolizione della servitù della gleba.
La rivolta ebbe inizio nella Selva Nera e si estese a tutta la Germania centromeridionale. I contadini non avevano una salda guida unitaria: formarono delle bande armate che in un primo momento assalirono i castelli dei nobili e poi rivolsero i loro attacchi anche contro alcune città.
Lutero si schierò contro i contadini, intervenendo due volte con i suoi scritti: una prima volta, nell'aprile del 1525, li ammonì a non schierarsi contro l'autorità, anche se essa era malvagia.
Una seconda volta, dopo che l'insurrezione aveva raggiunto punte di estrema violenza, scagliò contro i rivoltosi un libello altrettanto violento, intitolato Contro le bande brigantesche ed assassine dei contadini, in cui invitò i principi a sterminarli.
Principi luterani e cattolici si unirono contro i contadini, che nel maggio di quell'anno furono sconfitti e massacrati presso Frankenhausen. Müntzer, che aveva guidato i contadini della Turingia, fu catturato e ucciso.
La lega di Cognac
La crescente potenza di Carlo V però allarmò tutti gli altri stati europei. Per questo motivo, l'Inghilterra, Venezia e lo stesso pontefice Clemente VII, che pure era stato fatto eleggere da Carlo V, nel maggio del 1526 si unirono alla Francia nella lega di Cognac.
Carlo V rispose inviando in Italia un corpo di mercenari, i lanzichenecchi, che nel 1527 occuparono Roma. I lanzichenecchi erano un corpo di mercenari, costituito dall'imperatore Massimiliano I, per la maggior parte protestanti. Erano soldati molto esperti, ma, come tutti i mercenari, erano esasperati dalla lunga spedizione per la quale non erano stati pagati e, mossi da odio contro la Chiesa Cattolica, saccheggiarono Roma costringendo il Papa a rifugiarsi nella fortezza di Castel Sant’Angelo, dove si salvò a stento.
Clemente VII, inoltre, era nipote di Leone X e secondo papa della famiglia Medici che, solo dopo molti inutili tentativi, tornò a Firenze nel 1512 con Lorenzo II (1492-1519), nipote del Magnifico e padre di Caterina de' Medici, che sarebbe diventata regina di Francia. I fiorentini però non apprezzarono il dominio di Lorenzo II e nel 1527, approfittando dello scontro tra Clemente VII e Carlo V, proclamarono nuovamente la repubblica, che durò fino al 1530.
Anche Genova, che aveva attraversato un periodo di decadenza ed era finita nelle mani dei duchi di Milano e dei francesi, nel 1528 accordandosi con Carlo V, ottenne di nuovo la libertà con l’istituzione di una repubblica oligarchica.
L’artefice della rinascita fu l'ammiraglio Andrea Doria (1466-1560), che aveva combattuto prima per i re di Napoli e per i francesi, alleandosi infine con Carlo V.
Andrea Doria combatté anche nell'esercito imperiale contro i turchi e mise a disposizione del governo spagnolo le galere che possedeva come armatore. I Doria, banchieri e grandi proprietari terrieri, erano tra le più ricche famiglie non solo genovesi ma italiane.
Nel 1531 Andrea Doria ottenne da Carlo V il feudo di Melfi, nel regno di Napoli. Anche un'altra grande famiglia genovese di banchieri, quella dei Grimaldi, aveva grandi possedimenti feudali nel regno di Napoli.
Questo rapporto tra Genova e Napoli è di grande interesse per lo studio della società italiana nel Cinquecento. Le famiglie genovesi, che si arricchivano grazie alla loro attività di banchieri, investivano una parte del loro denaro nell'acquisto di feudi situati sia in Liguria sia nell'Italia meridionale o anche in Spagna: Adamo Centurione (ca. 1500-1568), uno dei primi a stabilire stretti rapporti con il giovane Carlo V, nel 1549 acquistò feudi in Spagna per somme molto ingenti.
Nel Cinquecento, in nessuna delle altre città italiane si accumularono tante ricchezze quante a Genova, diventata uno dei più importanti centri finanziari d'Europa. Mentre una parte finiva nell'agricoltura, un'altra veniva reinvestita in attività bancarie, soprattutto in prestiti ai sovrani.
Successivamente, con la pace di Cateau-Cambrésis, a Genova fu restituita anche la Corsica.
Nel 1529, intanto, si arrivò alla pace di Cambrai, con cui Francesco I rinunciò di nuovo a ogni pretesa sui territori italiani, ma si vide riconosciuta la sovranità sulla Borgogna, già sottratta in precedenza da Luigi XI alla nonna di Carlo Maria di Borgogna. Per questo il riconoscimento della Borgogna alla Francia chiudeva un contenzioso che andava avanti da 50 anni.
Carlo V, inoltre, riconciliatosi con Clemente VII, ottenne dal pontefice, per l’ultima volta nella storia, l'incoronazione imperiale a Bologna nel 1530. Carlo V riportò anche i Medici a Firenze, mettendo fine al tentativo repubblicano e dando il governo della città al giovane Alessandro (ca. 1510-1537), che diventò anche suo genero, perché sposò sua figlia Margherita.
A Milano tornarono gli Sforza, ma nel 1535, alla morte del duca Francesco II, Carlo V s'impadronì del ducato e anche il Milanese passò così sotto la dominazione spagnola. I francesi reagirono invadendo il Piemonte, ma senza riuscire a scacciare gli spagnoli dal Milanese.
L’invasione del Piemonte spinse Emanuele Filiberto di Savoia ad allearsi con Carlo V, per contrastare i francesi che gli avevano tolto la possibilità di diventare Duca. Entrò nell’esercito imperiale dove si distinse per la sua abilità di comandante.
L'alleanza tra Francia e Ottomani
La lotta tra Carlo V e Francesco I riprese più tardi e nel 1536 il re di Francia stipulò un'alleanza con l'Impero ottomano.
L’Impero Ottomano era uno dei nemici di Carlo V. Dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1453, Maometto II espande i suoi domini nella penisola balcanica conquistando la Serbia e la Bosnia (1459). Successivamente Solimano il Magnifico continuò il suo espansionismo in Europa sconfiggendo nella battaglia di Mohács (1526) gli Ungheresi che avevano opposto una forte resistenza all’avanzata ottomana. L’Ungheria restò per 150 anni sotto la dominazione ottomana e l’Europa si trovò nuovamente in pericolo perché gli Ottomani potevano invaderla.
Carlo V fu perciò costretto ad intervenire perché, oltretutto, nella battaglia morì il re d’Ungheria Luigi II, marito di sua sorella Maria d'Asburgo.
In realtà Carlo V si era impegnato in una guerra contro i turchi non solo per la parentela con il re d'Ungheria, ma soprattutto per ragioni dinastiche, in quanto erede della politica antiturca che Spagna e Austria avevano condotto separatamente su due diversi scacchieri.
la Spagna nel mediterraneo aveva costruito la sua indipendenza nazionale nella lotta definitiva contro il califfato di Cordova, condotta dai suoi nonni materni, Ferdinando D’Aragona e Isabella di Castiglia; l’Austria nell'Europa sud-orientale perché deteneva la corona di Boemia. Inoltre, il titolo imperiale, faceva di Carlo V il difensore dell'intera cristianità.
Nell'impegno messo da Carlo V nella lotta contro l'Impero ottomano esercitò un peso non trascurabile anche il fatto che i Függer possedevano miniere di rame e argento nei territori minacciati dall'avanzata dei turchi ed erano perciò fortemente interessati a contenerne la pressione militare.
Quando dunque Solimano il Magnifico cercò di conquistare Vienna Carlo V era esposto militarmente anche sul fronte orientale.
Nel 1529 Solimano riunì un numeroso esercito (si calcola che avesse ai suoi ordini circa 100 000 soldati) e marciò sulla capitale austriaca. La gravità del pericolo fu avvertita con ritardo alla corte di Carlo V. La difesa della città era affidata a un comandante tedesco di milizie mercenarie, il settantenne Nicholas von Salm, che disponeva di truppe bene addestrate ma poco numerose e contava soprattutto sulla solidità delle mura.
L'esercito ottomano era dotato di una poderosa artiglieria ma, a causa delle intense piogge, non riuscì a fare arrivare a Vienna tutti i suoi cannoni. Il fuoco dell'artiglieria fu perciò meno efficace del previsto. Gli ottomani allora scavarono delle gallerie, per infiltrarsi sotto le mura e farle saltare.
Gli assediati se ne accorsero e presero delle contromisure: iniziò così quello che fu definito «l'assedio delle talpe». Alla fine i viennesi riuscirono a impedire agli ottomani di entrare nella città, facendo saltare a loro volta le gallerie. mentre falliva anche un assalto alle mura.
Poiché si avvicinava l'inverno, che si annunciava molto rigido, Solimano ordinò la ritirata, mentre giungevano anche i soccorsi mandati dai sovrani cristiani.
L'assedio di Vienna fu celebrato come un episodio fondamentale della resistenza dell'intera cristianità alla pressione musulmana ma, in realtà. le rivalità esistenti tra gli stati cristiani nella prima metà del Cinquecento erano più forti di quella che li opponeva all'Impero ottomano.
L'urto fu retto faticosamente, ma il fronte orientale rimaneva estremamente fragile e bisognoso di un costante impegno militare e diplomatico. In questo contesto conflittuale si inserì nuovamente la Francia di Francesco I. L'occasione fu, nel 1535, la morte di Francesco II Sforza e l'occupazione del ducato di Milano da parte degli spagnoli, secondo gli accordi stipulati nel 1529.
La "ragion di Stato" guidò Francesco I nel superare ogni inibizione di carattere morale e religioso, portandolo a stipulare accordi di alleanza con gli ottomani di Solimano il Magnifico, con i principi luterani di Germania e con il re d'Inghilterra.
Per le forti motivazioni ideali presenti nella lotta contro i Turchi, Francesco I fu accusato di empietà dagli spagnoli a seguito dell’alleanza con gli Ottomani. In realtà, le motivazioni politiche finivano quasi sempre col prevalere quando erano in gioco gli interessi delle grandi potenze.
In campo avverso, si schierarono dalla parte dell'imperatore Venezia e il nuovo papa Paolo III (1534-49) della famiglia Farnese.
Se la guerra delle talpe prosegue la politica di contrasto all’espansionismo ottomano nei Balcani che aveva caratterizzato l’Austria, nel Mediterraneo la politica spagnola contro l’espansionismo islamico prosegue nella lotta contro la pirateria che terrorizzava le navi sulle rotte per la Sardegna, la Sicilia e l’Italia meridionale. Nel 1535 la flotta e l'esercito di Carlo V sconfissero il corsaro Khayr al-Din (1466-1546), detto Barbarossa, e gli tolsero Tunisi.
Nel 1537 gli ottomani, dopo l’alleanza con Francesco I, cercarono di approfittare dei conflitti tra gli stati cristiani e attaccarono le coste pugliesi e l'isola di Corfù, che apparteneva a Venezia. Questa allora, insieme con il pontefice e Carlo V, armò una flotta cristiana, che fu però sconfitta nelle acque di Prèvesa (Nicopoli) in Grecia.
L'equilibrio delle forze in campo e l'apertura di fronti diversi, protrassero la guerra, nonostante la tregua di Nizza (1538), fino al 1544, quando con la pace di Crépy l’imperatore si vide riconfermato il dominio su Milano, mentre la Savoia e parte del Piemonte passavano alla Francia.
L'Italia appariva invece sempre più frammentata, visto che il figlio del papa, Pierluigi Farnese (1503-1547), aveva ottenuto il ducato di Parma e Piacenza, dando avvio ad una nuova dinastia familiare.
Questi avvenimenti mostrano quanto lo scontro fosse motivato soprattutto dalla strategia imperiale di Carlo V che aveva accerchiato, come già detto, la Francia. Pur di rompere l’accerchiamento e indebolire l’Impero Francesco I era disposto anche a un’alleanza con gli Ottomani perché sperava di indebolire la forza di Carlo V, costringendolo a combattere contemporaneamente contro gli Ottomani, contro i pirati saraceni che infestavano il Mediterraneo e contro la stessa Francia.
Per questo motivo la lunga guerra tra Carlo V e Francesco I, interrotta dalla pace di Crépy, non si concluse nemmeno alla morte del re di Francia, perché il successore di Francesco I, il figlio Enrico II (1519-1559), la proseguì.
La divisione politico-religiosa della Germania
Mentre Solimano attaccava Vienna la dottrina luterana sancisce la divisione anche politica all’interno della Germania. I principi tedeschi che si erano uniti per combattere contro i contadini tornarono subito dopo a dividersi nel 1529 alla dieta di Spira, dove alcuni principi, seguaci di Lutero, di fronte alle pressioni esercitate da Carlo V per convincerli ad abbandonare la dottrina luterana, decisero di «protestare e attestare pubblicamente davanti a Dio di non poter far nulla che fosse contrario alla Sua Parola». I sostenitori della Riforma furono perciò da quel momento chiamati protestanti.
Nel 1530, alla dieta di Augusta, i protestanti presentarono la formulazione ufficiale della loro confessione religiosa. Sia tra le file dei protestanti sia tra quelle dei cattolici vi erano sinceri sostenitori della conciliazione. In quell'occasione però l'atteggiamento sbrigativo di Carlo V fece fallire le trattative.
I protestanti si unirono allora nella lega di Smalcalda. Contro la lega Carlo V si giovò del sostegno finanziario dei Függer che erano cattolici. In numerosi casi però anche principi cattolici, per difendere la propria autonomia, si schierarono contro Carlo V, che voleva affermare l'assoluta preminenza del potere imperiale.
Così la strenua opposizione della Francia al disegno di un potere imperiale universale, trova un alleato proprio nella divisione religiosa operata in Germania e sancisce l’irrealizzabilità del sogno imperiale di Carlo.
Nonostante la sconfitta subita dai protestanti nella battaglia di Muhlberg del 1547, la guerra continuò, proprio come contro la Francia cui non bastò la pace di Crépy.
La Francia di Enrico II
Enrico II (1547-59), figlio e successore di Francesco I, riprese la politica di alleanze del padre, mantenendo i rapporti con i principi protestanti della Germania in lotta con l'imperatore. Le ostilità ripresero nel 1552, quando il re francese occupò alcuni vescovati nella Lorena che appartenevano all’impero, spostando il confine della Francia verso il Reno.
Nel frattempo, il conflitto fra protestanti e cattolici volgeva negativamente per l'imperatore, sconfitto militarmente ad Innsbruck (1552). Sul fronte germanico divenne sempre più impellente l'esigenza di arrivare ad una pacificazione, che fu raggiunta il 3 ottobre 1555 con la pace di Augusta.
Ad Augusta si diede ai principi la facoltà di scegliere tra la fede luterana e quella cattolica. Nello stesso tempo, però, venne affermato il principio cuius regio eius religio, per il quale i principi potevano imporre le loro scelte religiose ai propri sudditi, ai quali restava la possibilità, se non intendevano accettarle, di emigrare liberamente in un'altra parte dell'Impero governata da un principe della loro stessa confessione religiosa.
Per la prima volta si concepiva e attuava l'idea che due differenti comunità e dottrine religiose potessero convivere nello stesso organismo politico, cioè nell'Impero: un piccolo passo sulla strada della tolleranza religiosa.
La fine dell’unità imperiale europea
Il sogno Carlo V di costruire un grande impero cristiano si era rivelato irrealizzabile: la sconfitta della Francia non era stata definitiva e la frattura tra cattolici e protestanti all'interno del suo stesso Impero ne rendeva impossibile una solida e duratura unità.
Nel 1543 Carlo V aveva fatto sposare al figlio Filippo II Maria Emanuela del Portogallo. Nel 1554, morta Maria del Portogallo, gli diede come sposa Maria Tudor, regina d'Inghilterra. Il matrimonio avrebbe dovuto servire alla formazione di un'alleanza dinastica, ancora in funzione antifrancese.
Ma un anno dopo, nel 1555, nello stesso anno della pace di Augusta, Carlo V rinunciò al titolo di duca di Borgogna (la maggior parte della regione era stata annessa alla Francia) a favore del figlio Filippo II (1527-1598) e l'anno seguente gli cedette anche gli altri domini, tranne quelli tedeschi, che passarono al fratello Ferdinando, insieme con la dignità imperiale.
Suo figlio Filippo II ottenne i domini spagnoli, comprese le nuove colonie, i Paesi Bassi e i possedimenti italiani; il fratello Ferdinando I ottenne invece i possedimenti asburgici in Austria, Boemia e Ungheria, mantenendo la dignità della corona imperiale (1556-1564).
Finì in questo modo l'unità dell'Impero, ma Carlo V non poteva agire diversamente. I principi tedeschi luterani non avrebbero mai potuto accettare come imperatore il cattolicissimo Filippo II, mentre accolsero di buon grado Ferdinando I, che era stato uno degli artefici della pace di Augusta, con cui si era conclusa la lunga lotta tra protestanti e cattolici.
Carlo V morì tre anni dopo la sua abdicazione, nel 1558. Nel 1558 anche Maria Tudor morì. Filippo II chiese allora a Elisabetta d'Inghilterra di diventare sua sposa, di nuovo in funzione antifrancese, ma la proposta però non ebbe seguito.
Dopo la grande battaglia di San Quintino in Piccardia (10 agosto 1557), che vide le truppe spagnole guidate dal duca di Savoia Emanuele Filiberto sconfiggere i francesi, si chiuse il conflitto franco-spagnolo e si giunse, due anni dopo, alla pace di Cateau-Cambrésis (3 aprile 1559).
La pace di Cateau-Cambrésis pose fine alle guerre di predominio che avevano sconvolto l'Europa nella prima metà del '500; fu un momento topico e cruciale per ridisegnare il futuro assetto politico dell'Europa moderna. La Francia rinunciò definitivamente alle sue pretese sull'Italia, entrata stabilmente nell'orbita del predominio spagnolo, restituendo la Savoia e il Piemonte alla dinastia dei Savoia; ricompose però il suo territorio annettendosi il porto di Calais rimasto fino ad allora agli inglesi.
Il re spagnolo celebrò nuove nozze con Elisabetta di Valois, figlia del re di Francia Enrico II, come pegno dell'instaurazione di un'epoca di rapporti pacifici tra Francia e Spagna (la regina fu perciò chiamata Elisabetta della Pace).
La dinastia degli Asburgo vide invece riconosciuto il suo predominio europeo, che si concretizzò fino a tutto il XVII sec. con il ramo spagnolo discendente da Filippo II, mentre successivamente fu il ramo austriaco, discendente da Ferdinando I, a dominare la vita politica europea nel XVIII e XIX sec.