La necessità di ripensare il senso della metafisica
Poiché la temporalità si è rivelata come la struttura di senso propria dell'Esserci e poiché l'Esserci è quel particolare ente che possiede già sempre una certa pre-comprensione dell'essere, la fase successiva del percorso di Heidegger avrebbe dovuto mettere in chiaro il rapporto che lega il tempo non più solo con l'Esserci, ma con l'essere in generale. A questa fase, come si è detto, Heidegger non arrivò mai in Essere e tempo e, in una certa misura, nemmeno nelle opere successive. Il linguaggio e gli schemi concettuali ereditati dalla passata tradizione metafisica non consentivano allo stato presente della sua indagine di aprirsi a un futuro come quello previsto nella sezione intitolata "Tempo ed essere". Quel linguaggio e quegli schemi concettuali erano troppo compromessi con una concezione sostanzialistica dell'essere (cioè con il modo di interpretare l'essere come una "cosa", una res) per consentire un'effettiva comprensione del senso di questo essere. Occorreva quindi procedere anzitutto a un ripensamento della metafisica in quanto modo di essere che continua a condizionare innanzitutto e per lo più le prassi mentali e linguistiche dell'uomo occidentale e pervenire, in un secondo tempo, a un superamento di questa eredità che consentisse finalmente di pensare e di parlare del senso dell'essere in termini adeguati. Heidegger non faceva che conformarsi in questo modo al modello da lui stesso istituito dell’esistenza autentica che è tale in quanto si comprende unitariamente a partire dal passato che la costituisce verso le possibilità future che questo passato dischiude nel presente.
La differenza dell’essere nell’ente
Le analisi dell'essere come assenza di fondamento (Ab-grund), come rivelazione del nulla che orla la totalità dell'essente e come provenire dal nulla di questa stessa totalità, costituiscono altrettanti modi in cui Heidegger fa i conti con la tradizione della metafisica nelle opere immediatamente successive a Essere e tempo (Sull’essenza del fondamento, Che cos’è la metafisica? e l’Essenza della verità). Il nodo teoretico intorno a cui esse ruotano (ulteriormente ripreso e rielaborato nell’Introduzione alla metafisica e nel saggio La dottrina platonica della verità) è costituito dalla cosiddetta" differenza ontologica".
A cominciare da Platone, secondo Heidegger, la tradizione metafisica non si è mai voluta confrontare con la scomoda verità della differenza ontologica, pensandola (cioè non pensandola realmente) come differenza o separazione tra l'ente e l'essere, tra la totalità delle cose e l'essere posto a loro fondamento (per esempio come "idea" in Platone, come ousìa in Aristotele, come Dio nel pensiero cristiano e così di seguito). La metafisica cioè è tale poiché si riferisce all'essere come a una "cosa" che starebbe eternamente immobile e presente "oltre" o "al di là" (meta) delle cose, riducendo così l'essere stesso a una cosa e vanificando ogni sua differenza rispetto all'ente. Ma se questa distinzione sussistesse realmente, oltre a non spiegare in alcun modo come l'essere e gli enti vengono in rapporto, lascerebbe anche insoluto il problema stesso dell'essere (ridotto esso stesso a un ente). La sola differenza ontologica che può realmente avere senso non è quindi quella illusoria tra l'essere e l'ente, ma la differenza dell'essere nell'ente.
È vero infatti che l'essere non si manifesta (si manifesta questo o quell'ente), ma questo non accade perché l'essere sta "da un’altra parte" rispetto all’ente: l’essere non si manifesta proprio perché si manifestano gli enti. È nella luce di questo manifestarsi che l’essere si nasconde, non in qualche oscuro al di là metafisico. Noi vediamo gli enti "messi in luce" e quindi non vediamo la luce stessa che li illumina. Non la vediamo perché è la condizione stessa di ogni vedere. Non la vediamo per la stessa ragione per cui non pensiamo il pensiero (grazie a cui pensiamo), non parliamo il linguaggio (grazie a cui parliamo), non viviamo la vita (grazie a cui viviamo) e così via. Ecco perché è scomodo pensare la differenza ontologica secondo la sua verità e non secondo quella istituita dalla metafisica: perché questa verità esibisce l’essere non come una rassicurante "cosa" che fonda tutte le altre, ma come un inafferrabile movimento che rivela le cose velandosi in questa stessa rivelazione (e non nell’al di là), come un senso, una relazione differenziale che fa uscire le cose alla non-latenza (a-létheia) rimanendo latente esso stesso. Ecco perché in Essere e tempo Heidegger ha subito preso di mira la concezione delle cose come "semplici presenze": il venire in presenza di una cosa, infatti, ciò che a noi sembra l'ovvio ed evidente apparire e "stare lì" di una cosa, non è mai semplice e men che meno ovvio ed evidente.
Il legame costitutivo tra essere e tempo
La cosa si presenta, è vero. Ma questo suo presentarsi accade e può essere solo in quanto essa rimanda alla luce che l'ha messa in luce, alla totalità di significati entro cui può avere senso, al passato provenendo dal quale essa è presente e disponibile a ogni prossimo o futuro afferramento (visivo, tattile, emotivo, conoscitivo, discorsivo e via dicendo). Negando la differenza ontologica la metafisica si è ridotta a considerare sia le cose sia l'essere dal solo e semplice punto di vista del presente. Ma il presente da solo non esiste, così come non esistono da soli il passato e il futuro. Adesso si capisce bene il nesso tra essere e tempo, perché lo stesso discorso che abbiamo fatto sull'essere vale anche per il tempo. In quale altro "luogo" andrebbe infatti a cadere il passato una volta passato? E dove starebbe il futuro in attesa di diventare presente? Separando passato, presente e futuro come se anch'essi fossero "cose" distinte non è possibile comprendere ciò che realmente accade né si può comprendere lo stesso presente a cui innanzitutto e per lo più rivolgiamo la nostra attenzione. Ed è proprio questo fissarsi sul presente, sulla cosa presente, che ci impedisce, per così dire, di cogliere i dintorni del presente, ciò che urta l'accadere del presente, l'orizzonte di senso o la luce in cui il presente di fatto accade.
La differenza ontologica come rivelazione del nulla
Per il passato e per il futuro vale dunque ciò che si è detto dell'essere. Essi non cadono da un'altra parte, accadono qui, nel presente, come sua provenienza e destinazione, come suo senso. E il presente stesso quindi non è una cosa assimilabile a un punto geometrico: il presente è una tensione proveniente e destinata, è un continuo aver da essere nell'immediato futuro il proprio passato. Il passato accade nel presente come futuro. Noi non vediamo né il passato né il futuro. Vediamo il presente. Ma lo vediamo e lo viviamo solo in quanto, provenendo dal passato, tende al futuro. Anche il "senso comune" dice a suo modo la stessa cosa: se nel tuo passato non ci sono ore e ore di allenamento, nel tuo futuro non ci sarà mai la maratona di NewYork (e se ti ostini ugualmente a parteciparvi nel tuo presente ci sarà una scarica di acido lattico che ti bloccherà i muscoli delle gambe). Siamo ora forse in grado di capire perché la differenza ontologica pensata come differirsi dell'essere nell'ente, come struttura di rimando dell'ente all'essere che lo fa essere, del presente al passato e al futuro entro cui è iscritto, porti con sé la rivelazione del nulla. Se infatti l'essere non è un fondamento che sta da un'altra parte rispetto all'ente e se passato e futuro non stanno da un' ltra parte rispetto al presente, allora tutto quello che c'è è qui, accade ora. E non c'è altro: nient'altro che questo accadere presente, nient'altro da ciò che si manifesta e viene in luce. In questo senso (poiché l'essere è l'accadere di un senso, di un'intenzionalità, di una relazione differenziale) tutto proviene dal nulla, il nulla orla e circoscrive il tutto della presenza. Scoperta angosciante, questa dell'essere sospesi sul nulla, ma questo provenire dal nulla è tutto ciò che abbiamo. L'essere, il grande essere, non è una cosa, un Sommo Ente. È una provenienza e una destinazione. È un ricominciare sempre di nuovo. È il nostro destino essenzialmente storico.
L'esistenza come provenienza dal nulla a cui tende
Quando parliamo di provenienza, di passato, di destino storico, non dobbiamo ovviamente più intendere questi termini sulla base di una concezione lineare del tempo, come se esso consistesse in una serie di istanti posti in successione, sicché il passato starebbe "prima" del presente (per così dire "a sinistra" del punto che indica il presente) e il futuro "dopo" ("a destra"). Questa concezione del tempo sta infatti ormai tramontando, rivela la propria insensatezza, la propria incapacità di pensare adeguatamente l'essere del tempo, cioè la temporalità o la storicità dell'essere. Passato e futuro non stanno altrove rispetto al presente, anzi non stanno affatto: accadono sempre di nuovo, ad ogni istante del presente in base a un senso non lineare, ma circolare, senza inizio e senza fine, poiché cominciare è sempre aver già cominciato, è già sempre un provenire da una certa comprensione dell'essere che ci costituisce e ci consente di tendere verso gli enti (che così, grazie a questa proveniente tensione, si manifestano in un certo modo, vengono interpretati in un certo senso). Pensata secondo questa concezione del tempo la nostra storicità, il nostro tendere a un certo futuro provenendo da un certo passato, il nostro vivere sempre in un certo mondo, in un certo modo di interpretare gli enti del mondo, non può più significare che noi proveniamo da e tendiamo verso" qualcosa" (il passato e il futuro come cose che sarebbero altrove dal presente o, che è lo stesso, l'essere come fondamento situato prima e dopo l'adesso). Ciò da cui noi proveniamo e verso cui tendiamo si dà invece a vedere come nulla, termine che a sua volta non deve essere guardato sul modello della cosa, cioè come assenza di ogni cosa, come non-cosa o ni-ente.
Come l’essere anche l’ente accade nel nulla
Allo stesso modo dell' essere anche il nulla va rimesso in movimento, va pensato nella sua dinamicità, nella sua essenziale relazione con l'essere. Anche il nulla infatti è: non come una cosa, si è detto, ma come il negarsi stesso dell'essere, come il darsi dell'essere in presenza in quanto fondamentale assenza, come negatività che rende possibile ogni positività, come nascondimento implicito in ogni manifestarsi degli enti. Noi, dicevamo poco sopra, cogliamo questo o quell' ente, non l'essere, ma è proprio questo non cogliere l'essere che ci consente di cogliere l'ente. Noi vediamo la cattedra, non la totalità di significati che ci consente di coglierla e di interpretarla in un certo modo. Questa totalità di significati è ciò che ci costituisce nel nostro essere, è la nostra mondità, il nostro modo di essere-nel-mondo. Ma questa totalità, questa nostra appartenenza al mondo, questo nostro provenire da una certa comprensione del mondo, noi non la cogliamo: la siamo, siamo identici ad essa e non possiamo quindi metterla a distanza e fame un' esperienza, inserirla nel nostro progetto esistenziale. È questa totalità dell’essere che, accadendo, ci pro-getta, ci getta in avanti verso l'ente che, stando nella sua luce, si rivela a noi, viene interpretato come quell' ente che esso è per noi. In base alla nostra proveniente storicità noi interpretiamo l'ente che ci appare come una "cattedra". In base alla sua proveniente storicità un aborigeno australiano, diceva Heidegger in quel lontano corso del 1919, si dirigerebbe a questo ente secondo modi e sensi del tutto diversi, scorgendovi ad esempio del buon materiale per farsi una piroga. Questo significa allora che non solo l'essere si dà per noi solo come nulla, come appartenenza a un mondo da cui siamo già sempre pro-gettati, sbalzati a distanza, ma che anche ciò che chiamiamo ente sprofonda a sua volta e ogni volta nel nulla. In base alla struttura ermeneutica, interpretativa, della nostra esperienza è chiaro infatti che non esiste nulla come la cattedra. Ciò che esiste sono le interpretazioni o le manifestazioni della cattedra che il nostro modo storico di essere-nel mondo di volta in volta ci consente di esperire. E" dietro" queste manifestazioni non c'è altro (per esempio l'idea o la cosa in sé della cattedra). C'è solo il loro cadere sempre di nuovo nel nulla, il loro darsi sempre a vedere secondo sensi differenti.
Una nuova possibilità di comprensione dell'essere
Esponendo le analisi svolte da Heidegger nelle opere successive a Essere e tempo ci saremo forse accorti che l'attenzione si è progressivamente spostata dall'essere dell'Esserci all'essere stesso: è l'essere che, rivelando l'ente, differisce dall' ente; è l'essere che, interpretando si di volta in volta negli enti, proviene dal nulla e cade nel nulla; è l'essere che si storicizza nelle sue stesse interpretazioni; è l'essere che ci pro-getta verso questo o quel modo di incontrare l'ente. Questo spostamento costituisce propriamente l'inizio di quella svolta (Kehre) che Heidegger avrebbe dovuto compiere nella terza sezione della prima parte di Essere e tempo e rappresenta quindi il tentativo di scrivere finalmente questa sezione e di dare la parola non più all' essere dell'Esserci (all' essere mediato dalla comprensione propria dell'Esserci), ma all'essere stesso.
Ora, benché l'inizio di questa svolta abbia condotto a una caratterizzazione del senso dell'essere come fondamentale negatività, come costitutivo sottrarsi o differenziarsi dell'essere nella presenza, esso assume nondimeno un significato altamente positivo per il successivo svolgersi della ricerca. Il fatto stesso di aver potuto parlare dell'essere in questi termini significa infatti che il modo proprio della tradizione metafisica di riferirsi all' essere come a una "cosa" sempre e semplicemente presente non è più il solo e unico modo in cui l'Esserci si riferisce all' essere. Significa che quella peculiare visione del mondo sta ormai tramontando e, sia pure in forme ancora solo negative, una nuova tradizione, un nuovo modo di interpretarsi nel proprio essere si sta rendendo disponibile. Le indagini che Heidegger intraprende a partire dalla seconda metà degli anni Trenta si muovono quindi in una duplice direzione: 1. capire meglio in che senso, in base a quale residua interpretazione dell'essere, la tradizione metafisica a cui apparteniamo, "innanzitutto e per lo più" è ormai giunta alla sua conclusione; 2. lasciar emergere il senso o i sensi differenti in cui l'essere giunge a interpretarsi e ad esprimersi dopo questa conclusione.
Il nichilismo come fine ultimo del sapere metafisico
Il primo ordine di indagini conduce a un confronto protrattosi dal 1936 al 1942 con l'opera di Nietzsche, in cui Heidegger scorge l'annuncio e l'esplicitazione della fine della metafisica. Il sottrarsi dell'essere nella presenza, il suo ridursi a nulla non è in questo senso un'invenzione dello stesso Heidegger, un riflesso del suo pessimismo "esistenzialistico", ma è l'esito nichilistico a cui conduce appunto la fine della metafisica. A forza di voler ridurre l'essere alla presenza (cioè a forza di trattare l'essere come una cosa), la metafisica ha finito per annullare completamente l'essere stesso, il senso dell'essere, generando una visione del mondo esclusivamente rivolta e interessata alla cura degli enti, a un continuo e insensato commercio con le cose che sono (in un senso divenuto ormai incomprensibile). La "forza" esercitata nel ridurre tutto a una cosa (compreso "il tutto" stesso, il mondo) è quella stessa "volontà di potenza" a cui Nietzsche alludeva nella fase estrema della sua speculazione. Specificata in questo senso tale tendenza si dà propriamente a vedere come volontà di ridurre tutto al proprio punto di vista, al proprio modo di "utilizzare" l'essere (come un ente, come il semplice stare insieme degli enti): la "volontà di potenza" è cioè nella sua essenza "volontà di volontà", un volere fine a se stesso, un volere un mondo plasmato "a propria immagine", a proprio esclusivo e totale arbitrio. Destino implicito, rileva Heidegger, in tutta la storia della metafisica in quanto volontà di ridurre l'essere all'idea (Platone), all'attuarsi della potenza (Aristotele), all'evidenza del soggetto (Cartesio), alle categorie dell'io penso (Kant), al processo dello Spirito Assoluto (Hegel), fino a configurarsi da ultimo nelle forze economiche che dominano la materia del mondo (Marx) e nella volontà di potenza fine a se stessa (Nietzsche). Alienatosi nella materia stessa del mondo, divenuto interamente estraneo a se stesso, semplice ente tra gli enti, cosa tra le cose, l'Esserci ha smarrito ogni senso del proprio stesso essere e quindi dell'essere in generale. «Annullandosi nell'ente, scriverà Heidegger nella Lettera sull'umanismo, l'uomo si trova a non avere più alcuna patria, alcun senso di appartenenza al mondo di cui è parte: un luogo vale l'altro». Scrive Heidegger:
La mancanza di patria diviene un destino mondiale. Per questo è necessario pensare questo destino secondo la storia dell'Essere. Ciò che Marx partendo da Hegel ha riconosciuto in un senso essenziale e significativo come l'alienazione dell'uomo, affonda le sue radici nella mancanza di patria dell'uomo moderno. Questa si produce, e ciò in virtù del destino dell'Essere, nella forma della metafisica, che la consolida e nello stesso tempo la occulta, come mancanza di patria. Marx, in quanto esperisce l'alienazione, raggiunge una dimensione essenziale della storia: è perciò che 'la concezione marxista della storia si pone al di sopra di ogni altro "storiografismo"(Historie). Poiché però né Husserl né, almeno fino ad ora, Sartre riconoscono l'essenzialità dello storico nell'Essere, né la fenomenologia, né l'esistenzialismo pervengono a quella dimensione nella quale soltanto diviene possibile un dialogo produttivo col marxismo.
In vista di ciò, ovviamente, è inoltre necessario che ci si liberi dalle ingenue rappresentazioni relative al materialismo e dalle critiche superficiali che dovrebbero colpirlo. L'essenza del materialismo non sta nell'affermazione che tutto è pura materia, ma piuttosto in una determinazione metafisica, secondo cui tutto l'essente appare come materiale del lavoro. L'essenza del materialismo si nasconde nell' essenza della tecnica, su cui si è bensì scritto molto, ma si è pensato poco. La tecnica è nella sua essenza un destino storico essenziale della verità dell'Essere in quanto giacente nell'oblio. Essa si riporta alla téchne dei Greci non solo per l'etimo del suo nome; la stessa sua essenza nasce dalla téchne intesa come modo dell' alethéuein, cioè del rendere-aperto l'essente. Come forma della verità la tecnica si fonda nella storia della metafisica. Quest'ultima è una importante fase della storia dell'Essere, ed è la sola che finora ci sia dato di abbracciare con lo sguardo. Si possono prendere varie posizioni nei confronti delle dottrine del comunismo e delle motivazioni che le fondano; sul piano della storia dell'Essere resta fermo che in esso si esprime una esperienza elementare di ciò che è la storia universale. Chi prende il comunismo solo come "partito" o come "concezione del mondo", pensa in modo altrettanto angusto di quelli che reputano che con il termine" americanismo" si indichi solo, e per di più in modo spregiativo, un particolare stile di vita. Il pericolo verso cui sempre più chiaramente l'Europa attuale è sospinta consiste probabilmente nel fatto che prima di tutto il suo pensiero, che una volta era la sua grandezza, resta indietro rispetto al procedere essenziale del nascente destino mondiale, che tuttavia resta certamente europeo nei tratti fondamentali della sua provenienza essenziale. Nessuna metafisica, sia essa idealistica, materialistica o cristiana, può per la sua essenza, e tanto meno in virtù degli sforzi di svilupparsi come tale, raggiungere ancora il destino; il che vuol dire che non può, pensando, attingere e raccogliere ciò che oggi, in un senso pieno e compiuto di Essere, è. [ ... ] Ma l'essenza dell'uomo consiste nel fatto che egli è qualcosa di più che un semplice uomo inteso come essere vivente fornito di ragione. Il "più" non deve esser qui pensato nel senso di una aggiunta quantitativa, come se la tradizionale definizione dell'uomo dovesse restare la determinazione fondamentale, e subire quindi un ampliamento mediante l'aggiunta della nozione di esistenza. Il "più" significa: più originario e quindi più essenziale nella sua essenza. Ma proprio qui compare l'enigma; l'uomo è nell'essere gettato; cioè: l'uomo come risposta ek-sistente all'Essere è più che l'animal razionale, proprio in quanto è meno rispetto all'uomo che si concepisce a partire dalla soggettività. L'uomo non è il signore dell'essente. L'uomo è il pastore dell'Essere. In questo "meno" l'uomo non ci rimette nulla, anzi ci guadagna, in quanto perviene nella verità dell'Essere.
Guadagna l'essenziale povertà del pastore, la cui dignità consiste nell'esser chiamato dallo stesso Essere a guardia della sua verità. Questa chiamata viene con il gettare da cui si origina l'essere-gettato dell'Esserci. L'uomo nella sua essenza storico-ontologica è quell'essente, il cui essere in quanto ek-sisienza consiste nell'abitare nella vicinanza dell'Essere. L'uomo è il vicino dell'Essere.
da M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, a cura di A Bixio e G. Vattimo, Sei, Torino 1975, pp. 106-109, passim.
La povertà di pensiero come unica ricchezza del tempo presente
Il ritrarsi dell'essere nel nulla coincide con il manifestarsi di un mondo dominato dalla tecnica, cioè ridotto a totalità organizzata di enti da usare in senso puramente strumentale. Il pensiero stesso, utilizzato come strumento, viene a coincidere con ciò che pubblicamente si sa o si può venire a sapere sugli enti. La conoscenza diviene pura informazione, indefinita accumulazione e pubblicazione di "dati" il cui unico scopo è procedere a sempre nuove accumulazioni e pubblicazioni. La metafisica tramonta allora precisamente in questo senso: che"oltre" l'ente ridotto a semplice dato di fatto non c'è essere ridotto nei termini di un "problema" alla cui soluzione si provvede con gli "strumenti" del pensiero. A questa superficiale ricchezza di "cose" e di "conoscenze" (di conoscenze sulle cose) fa tuttavia riscontro, osserva Heidegger, un'estrema povertà del pensiero e conseguentemente dell'uomo. Tornare autenticamente a pensare, lasciare che di nuovo l'essere torni a dare segno di sé nel pensiero, significa dunque ripartire da questa estrema povertà, significa riconoscere in essa, nella misura in cui ci rimette in rapporto con l'essere, l'unica ricchezza di cui possiamo veramente disporre.
Pensare l'essere come evento
L'ultima fase della speculazione heideggeriana si concentra sul tema dell'essere come evento e del linguaggio come casa dell'essere. Si tratta in realtà di temi presenti fin dal principio nel percorso di Heidegger e che alla luce degli esiti complessivamente raggiunti dalla sua indagine ottengono ora una caratterizzazione più ampia e puntuale. Comprendere l'essere come evento (Ereignis) richiama infatti il nesso costitutivo tra essere e tempo, il carattere di provenienza e di apertura dell' essere stesso, il suo non potersi mai ridurre a ente significato dal pensiero, a cosa intenzionata dalla coscienza, poiché esso costituisce l'evento di questa relazione, il dischiudersi dell' orizzonte entro cui gli enti vengono significati e le cose intenzionate. Pensare l'essere come evento è pertanto un'esperienza che diviene possibile solo dopo la fine della metafisica, cioè dopo la totale rinuncia a significare l'essere, a tradurne il senso in significati e parole da parte del pensiero giunto all' età della scienza e della tecnica dispiegate. Alla luce di ciò che si è detto, occorre osservare che anche quando la metafisica ha tentato di esprimere l'essere dell'ente (come idea, sostanza, evidenza e simili) non poteva che fallire in questo intento. L'essere rappresenta infatti la possibilità stessa di esprimere "qualcosa", di significare o intenzionare questo o quell'ente e non può pertanto essere a sua volta significato e intenzionato. Abbiamo tuttavia anche visto che l'essere, rispetto a questo significare e intenzionare gli enti, non sta" altrove", non si ritira in un oscuro al di là dopo aver aperto l'orizzonte dell'esperienza: l'essere coincide con questa stessa apertura e se va quindi cercato da qualche parte, va cercato qui, nel luogo in cui questa apertura si dischiude. Nella raccolta di saggi intitolata In cammino verso il linguaggio, Heidegger usa il termine tedesco Erorierung (" discussione", "interpretazione") per indicare un modo di intendere il linguaggio come luogo privilegiato in cui si compie l'apertura dell'essere (Ort significa infatti "luogo"). Già a partire dal 1935-1936, nelle conferenze su l'Origine dell'opera d'arte e su Holderlin e l'essenza della poesia, Heidegger aveva individuato nella capacità propria dell'opera d'arte di aprire un mondo di significati e nella natura radicalmente inventiva (o poetica) del linguaggio altrettanti luoghi in cui l'evento dell'essere può esprimersi positivamente, ovvero cogliersi nella sua sorgiva rivelazione. Nei saggi sul linguaggio, di cui ora leggeremo un brano, questa nuova ermeneutica del senso dell'essere viene presentata in questi termini. Scrive Heidegger:
linguaggio significa lasciarsi prendere dall'appello del linguaggio, assentendo ad esso, conformandosi ad esso. Se è vero che l'uomo ha l'autentica dimora della sua esistenza nel linguaggio, indipendentemente dal fatto che ne sia consapevole o no, allora un' esperienza che facciamo del linguaggio ci tocca nell'intima struttura del nostro esistere. In quanto parliamo il linguaggio, possiamo allora, in virtù di siffatte esperienze, essere trasformati sul momento oppure col tempo. Ora, per noi uomini di oggi, un'esperienza che facciamo del linguaggio è già fin troppo grande, forse, quando ci tocchi anche solo quanto basta a richiamare la nostra attenzione sul nostro rapporto con il linguaggio e a serbarci poi memori di tale rapporto. Posto dunque che ci venga rivolta a bruciapelo la domanda: «In quale rapporto vivete con il linguaggio che parlate?», non ci troveremmo imbarazzati a rispondere: troveremmo subito un filo e una base per portare il problema su una strada sicura. Noi parliamo il linguaggio. In quale altro modo possiamo essere vicini al linguaggio se non col parlare? Eppure il nostro rapporto col linguaggio è indeterminato, oscuro, quasi incapace di parola. Dato questo strano stato di cose, non è facile evitare che ogni osservazione che si venga facendo al riguardo riesca sulle prime sconcertante e incomprensibile. Perciò potrebbe essere proficuo staccarsi dall'abitudine di star ad ascoltare soltanto quel che risulta subito chiaro. La proposta non vale solo per ogni singolo ascoltatore, vale più ancora per colui che tenta di parlare del linguaggio, specie quando lo scopo del tentativo altro non è se non quello di indicare delle possibilità che consentano di farci memori del linguaggio e del nostro rapporto con esso. Fare esperienza del linguaggio è altra cosa dal procurarsi nozioni sul linguaggio. Scienza del linguaggio, linguistica, e filologia delle diverse lingue, psicologia e filosofia del linguaggio sono le discipline che ci forniscono tali nozioni, ampliandone di continuo il campo, al punto che ne resta impossibile il dominio. La ricerca linguistica e scientifica e filosofica mira, da qualche tempo, in modo sempre più deciso, a costruire ciò che viene chiamato "metalinguaggio". Giustamente, pertanto, la filosofia scientifica che si prefigge di costruire tale super-linguaggio intende se stessa come metalinguistica. Metalinguistica suona come metafisica; non soltanto suona come, ma è. La metalinguistica è infatti la metafisica della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice strumento interplanetario d'informazione. Metalinguaggio e Sputnik, metalinguistica e tecnica missilistica sono la stessa cosa.
Quel che resta da fare è indicare le vie che conducono alla possibilità di fare un'esperienza del linguaggio. Tali vie esistono da lungo tempo. Ma solo di rado vengono percorse in maniera che una possibile esperienza del linguaggio possa a sua volta giungere a dirsi. Nelle esperienze che facciamo del linguaggio è il linguaggio stesso che si fa parola. Si potrebbe pensare che ciò avvenga sempre in ogni parlare. In realtà, però, sempre che parliamo una lingua e comunque la parliamo, mai in ciò si fa parola il linguaggio per se stesso. Nel parlare le più svariate cose "vengono dette"; innanzitutto ciò che costituisce l'oggetto del discorso: una situazione, un avvenimento, un problema, un interesse. Solo per il fatto che nel parlare quotidiano il linguaggio non si fa parola, ma si trattiene piuttosto in se stesso, proprio solo per questo noi siamo in grado di parlare una lingua, e, parlando, di trattare e discutere di e su qualcosa. Ma dove il linguaggio, come linguaggio, si fa parola? Pare strano, ma là dove noi non troviamo la giusta parola per qualche cosa che ci tocca, ci trascina, ci tormenta e ci entusiasma. Quello che intendiamo lo lasciamo allora nell'inespresso e, senza che ce ne rendiamo pienamente conto, viviamo attimi in cui il linguaggio, proprio il linguaggio, ci sfiora da lontano e fuggevolmente con la sua essenza. Ma, quando si tratta di portare alla parola qualcosa di cui mai ancora si è parlato, tutto sta nel vedere se il linguaggio farà dono della parola appropriata o se, invece, la negherà. Uno di questi casi è quello del poeta. Un poeta può così giungere proprio a questo: a dover portare a parola, in modo autentico, che è quanto dire poetico, l'esperienza che fa del linguaggio.
da M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1973, pp. 127-129.
L'articolarsi dell'essere nel linguaggio
Disporsi nella prospettiva dell'Erorterung, del situarsi discorsivamente nel linguaggio come luogo in cui si dischiude e si consuma l'evento dell' essere, non significa mettersi passivamente a guardare o ad ascoltare "che cosa succede" nel linguaggio. Fare esperienza di qualcosa, scrive Heidegger, non equivale a esercitare un qualche genere di pratica (attiva o passiva) «per iniziativa e opera nostra». Significa invece disporsi a comprendere che nel linguaggio qualcosa accade, si incontra, si fa per noi, attraverso il nostro stesso essere. Il "si" a cui qui si fa allusione non è più il "si" indefinito (man, in tedesco) che in Essere e tempo esprimeva il sapere dell'opinione comune, ma è il "si" riflessivo (sich) dell'essere che accade a partire da se stesso attraverso il linguaggio: è l'aprirsi dell' essere nel linguaggio, il suo articolarsi in parole che fanno apparire l’ente, che collocano ogni ente nel luogo del mondo che gli spetta. Le parole non stanno altrove rispetto all'essere (anche le parole infatti sono), ma costituiscono la sua stessa" casa", il luogo in cui l'essere si ritrova e si parla. Analogamente le parole non stanno altrove rispetto alle cose che designano: le cose ci sono e appaiono qui nella misura in cui sono rivelate e situate nel mondo dalle parole, attraverso il carattere originariamente manifestativo delle parole. È stata la successiva storia metafisica dell' essere a separare parole e cose, riducendo il linguaggio a semplice mezzo di comunicazione, a strumento adibito alle utilità del vivere sociale. Colto nella sua natura rivelativa, il linguaggio si dà invece a vedere come "la casa dell’essere".
L'ipotesi illusoria di un meta-linguaggio
Non è certo un caso che Heidegger descriva il rapporto che l'uomo intrattiene con il linguaggio in termini analoghi a quelli utilizzati in Essere e tempo per descrivere il rapporto tra l'uomo e l'essere: come l'essere anche il linguaggio è ciò che ci tocca più da vicino e, al tempo stesso, ciò di cui abbiamo una nozione vaga e oscura. Tutto può infatti essere detto attraverso il linguaggio, tranne il linguaggio. Questa semplice riflessione basta da sola a mettere fuori gioco quel complesso di "scienze" (linguistica, filologia, psicologia, filosofia del linguaggio ecc.) che producono solo nozioni sul linguaggio senza riflettere sul fatto che per ottenere queste nozioni si servono continuamente del linguaggio stesso. Per sfuggire a questo circolo elaborano allora l'ipotesi del meta-linguaggio, cioè di un linguaggio che avrebbe la capacità di non essere il linguaggio di cui parla e al tempo stesso di poterne parlare in continuazione. Ma questa ipotesi non fa in realtà che ridurre il linguaggio stesso a una cosa, a un contenitore di informazioni, esito coerente con la riduzione planetaria dell'essere a sistema di enti dominato dalla tecnica.
Il silenzio in cui risuona la parola Altro, osserva Heidegger, sono dunque le nozioni scientifiche sul linguaggio e altro è fare invece un'esperienza vivente del linguaggio. Sotto questo riguardo ciò che conta non è il fatto empirico che noi parliamo, ma l'evento del linguaggio che si fa parola. Ciò significa che noi possiamo parlare poiché il linguaggio stesso non parla, si ritrae nel silenzio: ed è nella luce o nella differenza di questo silenzio che la parola può risuonare e dire le cose. Esprimere l'essenza del linguaggio non è quindi possibile parlando del linguaggio, ma situando si in quella dimensione umbratile e silenziosa in cui la parola vive come pura possibilità di essere detta, come tensione espressiva in cui è l'essere stesso che preme e urge per farsi parola. In questa tonalità emotiva fondamentale si può allora compiere un'effettiva esperienza del linguaggio nella sua sorgiva provenienza dall'essere e l'ascolto della parola poetica (della parola colta nel suo farsi parola) si dà a vedere come uno dei luoghi privilegiati per essere raggiunti e per potersi raccogliere nel silenzio stesso dell’essere.