Secondo di cinque fratelli, Michelangelo Buonarroti nasce il 6 marzo 1475 a Caprese, piccolo comune in provincia di Arezzo, da Leonardo di Buonarroto Simoni, podestà del villaggio, e da Francesca Neri, che morirà quando il piccolo Michelangelo ha sei anni. Messo a balia presso una famiglia di scalpellini - quasi un segno del destino - vive una fanciullezza solitaria e avara di affetti.
Taciturno, scontroso e dalla lingua mordace, mostra un’intelligenza pronta e vivace che induce il padre a mandarlo ad apprendere grammatica e latino presso l’urbinate Francesco Galeota; qui conosce uno studente di sei anni più anziano di lui, Francesco Granacci, allievo del Ghirlandaio, che lo incoraggia a seguire la propria vocazione artistica.
Il padre, collegato alla cerchia medicea, va su tutte le furie quando il tredicenne Michelangelo gli annuncia le proprie intenzioni, ma alla fine non si oppone e il giovane inizia nel 1488 il proprio apprendistato presso Domenico Ghirlandaio. Dopo un anno, rivelato un precoce talento, Michelangelo passa ad apprendere la scultura presso il giardino mediceo di San Marco, dove i Medici hanno raccolto una notevole collezione di statuaria classica, e qui inizia gli studi di anatomia grazie alla complicità del priore di Santo Spirito.
È quindi introdotto presso la famiglia del Magnifico, dove conosce i figli di Lorenzo e gli intellettuali della sua cerchia.
All’età di 16 anni scolpisce due rilievi: la Battaglia dei Centauri, o Centauromachia (1491-92), in cui dimostra già il proprio interesse per lo studio del nudo, e la Madonna della Scala (1490-92). Due anni dopo la morte di Lorenzo, nel 1494, Firenze scaccia i Medici; lacerata tra "arrabbiati", partigiani di una repubblica oligarchica, e "palleschi" sostenitori dei Medici, si consegna ai "piagnoni", seguaci di Girolamo Savonarola, destinati a governare per quattro anni all’insegna del fanatismo e del terrore.
Michelangelo cambia aria per qualche tempo recandosi a Bologna, dove ammira i rilievi di Jacopo della Quercia, ma alla fine del 1495 torna a Firenze, dove l’anno seguente scolpisce il Bacco del Bargello, la sua prima scultura di grandi dimensioni (1496). Si trasferisce quindi a Roma, dove può ammirare le antichità romane e gli scavi; qui scolpisce la sua prima, celebre Pietà (1497-1499), orgogliosamente firmata, collocata nella basilica di San Pietro.
La Pietà, col Cristo sdraiato in grembo alla madre, è un genere di origine nordica, ma Michelangelo lo sa rinnovare, trasformandolo in un manifesto della propria poetica. Maria, giovanissima, siede affranta, assorta e rassegnata, sorreggendo le belle membra abbandonate del figlio morto.
Il 4 agosto 1501, dopo anni di instabilità politica, a Firenze è di nuovo proclamata la repubblica. Michelangelo fa ritorno immediatamente nella città del suo apprendistato, ricevendo dall’Arte della Lana la commissione di scolpire un David, biblico atterratore di tiranni, da collocarsi dinanzi a Palazzo Vecchio come simbolo di fierezza repubblicana.
Scolpito tra il 1501 e il 1504 in un blocco di marmo già sbozzato da Agostino di Duccio, il David è un simbolo di fede e d’eroismo; un giovane atletico, tutt’altro che efebico, robusto e pronto alla lotta, in procinto di scagliare il suo sasso. Ci vorranno le forze unite di quarantacinque uomini e cinque giorni di fatiche per spostare la gigantesca statua (oggi all’Accademia) dal laboratorio di Michelangelo, proprio dietro il Duomo fiorentino, ai gradini del palazzo in piazza della Signoria, dove oggi è collocata una copia.
Mentre attende al David, la signoria gli commissiona l’affresco con la Battaglia di Cascina, che dovrà decorare la sala del Maggior Consiglio di Palazzo Vecchio fronteggiando la Battaglia d’Anghiari di Leonardo da Vinci. Nessuno dei due affreschi sarà compiuto; quello di Leonardo verrà interrotto per gravissimi problemi dovuti alle tecniche sperimentali adottate dall’artista, quello di Michelangelo rimarrà allo stadio di cartone (noto attraverso una copia del 1542).
Negli stessi anni Michelangelo adotta il donatelliano "rilievo stiacciato" per scolpire il Tondo Taddei (1502 ca.) e il Tondo Pitti (1503-5), dipingendo anche la sua prima opera pittorica di rilievo, il celebre Tondo Doni degli Uffizi (1504-6).
Frattanto Giulio II, eletto al soglio pontificio nel 1503, impegnato nel progetto di restaurare la grandezza del papato rilanciando la missione universale della Chiesa e di corroborarla con realizzazioni artistiche di primo piano, chiama a Roma, fra gli altri, Bramante, Raffaello, i Sangallo, Baldassarre Peruzzi e naturalmente Michelangelo, che lascia incompiuto il San Matteo (1504-6) destinato, con altre undici effigi di apostoli mai realizzate, a ornare i pilastri della cupola del Duomo fiorentino.
Il carattere indomito di Michelangelo, suscettibile, intransigente e scontroso, mal s’accorda con quello del volitivo pontefice; e sono scintille. A Michelangelo il pontefice dà l’incarico di eseguire il proprio monumento funebre, che nelle sue intenzioni dovrà occupare il centro della nuova basilica vaticana da lui commissionata al Bramante, proprio sopra la sepoltura dell’apostolo Pietro.
Michelangelo trascorre otto mesi a Carrara per scegliervi i marmi più belli, ma al ritorno a Roma, nel 1506, il pontefice lo solleva dall’incarico. Deluso, l’artista lascia la città, soggiornando brevemente a Firenze e Bologna, dove incontra il pontefice e si riappacifica con lui.
Tornato a Roma, riceve nel 1508 un incarico di grande prestigio, che accetta non senza qualche ansia; affrescare la volta della Cappella Sistina, cinquecento metri quadri dipinti in quattro anni di lavoro indefesso con una colossale parabola della storia primeva dell’umanità inquadrata in una grandiosa architettura dipinta. Quando, nel 1513, Giulio II muore senza aver visto il completamento né della fabbrica di San Pietro né della propria sepoltura, Michelangelo si dedica di nuovo alla tomba del pontefice, per cui scolpisce i due Prigioni del Louvre (1513-14) e il celebratissimo Mosè (1515), ma senza riuscire a dar compimento al sepolcro.
Sotto il pontificato di Leone X, il cardinal Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, Michelangelo torna a Firenze per assolvere a incarichi di grande importanza: la facciata di San Lorenzo, chiesa di famiglia dei Medici, rimasta allo stato di schizzo (1516), il progetto della Biblioteca Laurenziana, attigua alla chiesa, avviata nel 1524 e portata a termine dall’Ammannati nel 1559, e soprattutto l’innovativa ideazione dell’architettura e della decorazione plastica della Cappella medicea o Sacrestia nuova (1521-1534), attigua a quella "vecchia" del Brunelleschi, concepita quale mausoleo mediceo ove accogliere le spoglie di Lorenzo il Magnifico e di suo fratello Giuliano con quelle di Giuliano duca di Nemours e Lorenzo duca d'Urbino.
Nella Cappella, interrotta e incompiuta, Michelangelo lascia i toccanti ritratti funebri dei Medici e le celeberrime effigi delle parti del giorno (l’Aurora, il Giorno, il Crepuscolo e la Notte), in cui pare annunciare l’avvento della Maniera.
Sotto il pontificato di Clemente VII, Michelangelo è sempre a Firenze, dove si pone al servizio della repubblica, sovrintendendo all’allestimento di nuove difese per sostenere l’assedio degli imperiali intenzionati a riportare i Medici a Firenze e restaurarli nella signoria sulla città.
Caduta Firenze, Michelangelo lavora al completamento della tomba di Giulio II, iniziata circa trent’anni prima, e scolpisce i quattro Prigioni non finiti dell’Accademia; solo nel 1545 il sepolcro del pontefice, affidato ad aiuti, sarà realizzato in una versione minore nella chiesa di San Pietro in Vincoli.
Nel 1534, alla morte del padre, Michelangelo lascia deinitivamente Firenze, recandosi a Roma per dipingere nella parete principale della Cappella Sistina, su incarico di Clemente VII, anch’egli di casa Medici, il Giudizio universale, immane tragedia cosmica nella quale echeggia il ricordo del Sacco di Roma annunziando la totale rinuncia agli ideali artistici e morali del Rinascimento (1537-1541).
Nel frattempo frequenta i circoli romani in odore di riformismo vicini alla colta Vittoria Colonna, con cui ha un fervido scambio di versi. Fra il 1542 e il 1545 Michelangelo dà il suo estremo saggio pittorico negli affreschi della cappella Paolina, con la Conversione di san Peolo e la Crocifissione di san Pietro.
Dopo il completamento della Biblioteca Laurenziana a Firenze, a Roma concepisce e realizza dal 1537 la sistemazione architettonica e urbanistica della piazza del Campidoglio, collabora dal 1546 con Antonio da Sangallo al completamento di palazzo Farnese, iniziato dal Peruzzi, e porta a compimento dal 1547, con il completamento della fabbrica e l’erezione della cupola, la basilica di San Pietro, modificando i piani originari del Bramante ma salvandone lo spirito.
Non cessa, per quanto anziano, l’attività di scultore, dedicandosi al prediletto genere della Pietà, trasformata in accorata meditazione sul sacrificio di Cristo per il riscatto dell'umanità. Nascono così la Pietà di Palestrina (presso l’Accademia), la tragica Pietà dell’Opera del Duomo di Firenze (1550-55) e la larvale Pietà Rondanini del Castello Sforzesco di Milano (1552-64). Alla sua morte, avvenuta a Roma nel 1564, la città di Firenze ne reclama le spoglie, sepolte in Santa Croce.
Il pennello a tre dimensioni
"È terribile Michelagnolo, come tu vedi, che non si pol praticar con lui"; sono parole di Giulio II, pontefice noto per il carattere tutt’altro che mite. Eppure è lui il maggior committente, il primo grande sponsor, si direbbe oggi, di Michelangelo pittore, colui che ai primi del Cinquecento, tra litigi e ripicche, riesce a trasformare il recalcitrante maestro toscano nell’autore di uno dei più eccelsi capolavori di tutti i tempi: la volta della Cappella Sistina, a cui si aggiungerà trent’anni dopo il Giudizio universale, commissionato da Clemente VII e dal successore Paolo III.
In realtà, Michelangelo si stima scultore più che pittore. Emozionato alla vista del cartone della Sant’Anna di Leonardo, ha dipinto trentenne, a Firenze, il Tondo Doni; in quest’opera, contrapponendo allo sfumato leonardesco linee nitide e colori cangianti, conferma l’opinione di chi, anche fra i contemporanei, giudica il suo pennello condizionato dall’abitudine di concepire in tre dimensioni.
Lo studio dell’articolarsi dei corpi nello spazio domina anche il cartone per l’affresco della Battaglia di Cascina, mai eseguito. Il soffitto della Sistina, oggetto di uno storico restauro, rappresenta per Michelangelo una svolta epocale e ne documenta l’evoluzione stilistica e intellettuale. L’immane lavoro, durato quattro anni, segna il superamento della concezione prospettica dello spazio.
La definitiva emancipazione dello spazio pittorico dai canoni rinascimentali avviene nella terribile rappresentazione del giudizio finale, che orna la parete principale della cappella quando già aleggia lo spirito della Controriforma.
Il Giudizio universale è un cataclisma che, sovvertendo l’iconografia medievale di Cristo in trono circondato dalle schiere dei beati, ruota attorno a un Gesù ignudo, muscoloso, corrucciato, che solleva il braccio in un gesto di condanna, ma soprattutto di terribile necessità.
Un vortice pauroso, analizzando sino all’esasperazione le possibilità di articolare la figura umana ignuda, travolge il creato, segnandone insieme la fine e la realizzazione.
L’attività architettonica di Michelangelo, già famoso quale pittore e scultore, inizia relativamente tardi, e si svolge tra la Firenze divisa fra ambizioni repubblicane e la restaurazione medicea sostenuta dalle alabarde imperiali e la Roma di Clemente VII e Paolo III Farnese. Anche per l’architettura di Michelangelo vale la stessa considerazione fatta per la pittura.
Egli è innanzitutto scultore, come dimostra la qualità plastica delle sue realizzazioni, movimentate da lesene, pilastri, nicchie, finestre vere e false, improntate a una libertà creativa, la licenza lodata dal Vasari, che inclina spesso a trasgredire i canoni della proporzione e i vincoli degli ordini codificati da Vitruvio. Al periodo fiorentino appartengono la Cappella Medicea, o Sagrestia nuova, di San Lorenzo, per cui Michelangelo progetta una facciata non realizzata, e l’attigua Biblioteca Laurenziana.
In queste opere Buonarroti mostra di aderire al linguaggio brunelleschiano della chiesa medicea, basato sulla bicromia di candidi intonaci e pietra serena, ma in entrambi i casi moltiplica gli elementi ornamentali rispetto a quelli funzionali, trasformando le pareti in vere e proprie sculture. Anche nel periodo romano, a partire dal 1534, mostra sensibilità al linguaggio locale, adottando il laterizio e il travertino.
Nel ristrutturare il complesso del Campidoglio, ispirandosi a principi di simmetria e organicità, trasforma la statua equestre dell’imperatore Marco Aurelio nel centro generatore del disegno della piazza.
Assunta, ormai settantenne, la direzione della fabbrica di San Pietro, dopo Bramante, Raffaello, Peruzzi e Sangallo, ricollegandosi alla concezione originaria realizza un edificio compatto, malgrado le enormi dimensioni, contraddistinto esternamente da colossali membrature; l’edificio culmina nella cupola, il cui gioco di tensioni e forze è sottolineato dalle doppie nervature che ricorrono nelle colonne binate del tamburo e della lanterna.
Il ritrovamento, avvenuto a Roma nel 1506, del gruppo scultoreo del Laocoonte, copia romana marmorea di un originale del II secolo, è un evento di straordinaria rilevanza, tale da generare un interesse fortissimo nell'ambiente artistico dell'inizio del Cinquecento.
Ne è prova il fatto che Michelangelo, tra i primi a vedere dissotterrata la scultura, la prende a modello per una delle figure di una sua celebre opera: il Tondo Doni. Sono indette subito delle competizioni per la migliore riproduzione dell'opera, come quella promossa dal Bramante in cui è arbitro addirittura Raffaello.
La statua appare come un’immagine paradigmatica in cui l'ellenismo ha rappresentato - nella contrazione dei muscoli e nella torsione del corpo - il dolore fisico e morale sopportato con virile compostezza dal sacerdote troiano e dai suoi figli.
La grande considerazione, di cui sono oggetto questa come altre sculture classiche da poco tornate alla luce testimonia il vivo ed affettuoso interesse per l'antichità che permea la cultura rinascimentale.
"Non ha l’ottimo artista alcun concetto,/ ch’un marmo solo in sé non circonscriva/ col suo soverchio, e solo a quello arriva/ la man che ubbidisce all’intelletto". Per Michelangelo la scultura è arte che procede "per via di levare", liberando la figura dalla pietra, come nell’incompiuto San Matteo dell’Accademia.
Si tratta di un retaggio della cultura neoplatonica fiorentina in cui Buonarroti si è formato, per cui l’artista riscatta l’idea dal "soverchio" della materia, o, come sostiene il Varchi, erudito del Cinquecento, di un’eco della concezione aristotelica del passaggio della figura da potenza in atto?
In realtà, il proposito di "cercare" l’opera all’interno del blocco informe rivela soprattutto un concetto dell’arte come ricerca tendenzialmente infinita, che accomuna il ventenne che rifinisce con batuffoli di paglia la Pietà di San Pietro e il vecchio prossimo alla morte che sbozza le figure larvali della Pietà Rondanini, estrema meditazione sul significato dell’esistenza e dell’arte.
La scultura, che è il genere in cui Michelangelo si cimenta dall’inizio alla fine della sua lunghissima carriera, non testimonia semplicemente l’evolversi del suo linguaggio espressivo, ma rappresenta un’avventura esistenziale che si colloca nel trapasso dal razionalismo umanistico ai dubbi e alle angosce della Controriforma. L’opera plastica è la sua autobiografia scritta nel marmo.
L’energia giovanile imprigionata nelle membra colossali del David, nudo simbolo della dignità dell’uomo, si moltiplica nella figura fremente di vita e di forza profetica, valorizzata dal recente restauro, del Mosè, destinato con i Prigioni al monumento funerario di Giulio II (il tormento d’una vita, mai realizzato secondo il progetto originale).
La tensione matura e assorta, venata di languore, delle effigi celebrative e allegoriche della Cappella medicea si spegne nelle membra spezzate del Gesù della Pietà fiorentina, destinata da Michelangelo alla propria sepoltura, in cui l’uso della tecnica del "non finito" nelle figure vive che attorniano il Cristo sembra voler sottolineare la solitudine e l’ineluttabilità della morte, che è al tempo stesso purificazione, abbandono, silenzio.
La profonda rivalutazione della posizione sociale dell’artista iniziata nel Trecento prosegue nel XV secolo e culmina nel secolo successivo. Si passa da una concezione delle arti figurative come attività pratiche, artigiane, manuali, meccaniche, incentrate sull’abilità tecnica, ad una nuova concezione che le identifica come attività intellettuali, dotte e liberali, che hanno i loro fondamenti nelle discipline tradizionali letterarie e scientifiche.
Così Ghiberti nei Commentari sostiene la necessità per il pittore e lo scultore di conoscere le regole matematiche della prospettiva, dell’anatomia e della medicina, mentre Leonardo ritiene che la "pittura è cosa mentale", e Michelangelo afferma che "si dipinge non colle mani ma col cervello".
Le opere vengono firmate, e sempre più numerosi sono gli autoritratti degli artisti; dapprima entro una composizione affollata di personaggi, poi con valore autonomo, fino ad arrivare all’esaltazione letteraria dell’artista delle Vite di Giorgio Vasari, in cui ad ognuno è riservata una biografia.
E questo intento di formare un’immagine ufficiale e celebrativa da consegnare ai contemporanei, prima che ai posteri, si concretizza nella istituzione casa dell’artista come luogo di glorificazione. Gli architetti, i pittori e gli scultori mostrano, attraverso le loro opere, la nobiltà dello spirito umano, e l’appellativo divino diventa un attribuito corrente degli artisti.
Questi tendono a svincolarsi dagli obblighi corporativi, soprattutto attraverso l’inserimento entro le corti signorili, ponendosi alle dirette dipendenze del principe anziché della corporazione. L’architetto è l’interlocutore privilegiato del potere, poiché, attraverso la sua opera, il signore definisce la sua immagine pubblica nella città.
La libertà d’invenzione, che solo la Chiesa controriformata cerca di imbrigliare, deve essere comunque sempre salvaguardata. Nel 1563, per iniziativa di Vasari, a Firenze viene fondata la prima accademia artistica, detta "del Disegno", che sancisce l’avvenuta emancipazione sociale dell’artista, sottoposto ora soltanto al controllo diretto del principe.