Abbiamo già osservato che considerare "filosofiche" le scuole presocratiche è più che altro il frutto di una nostra interpretazione, nata già con Platone e Aristotele e poi trasmessasi nel tempo, sino alla moderna ricostruzione storiografica del passato. La filosofia ha letto i presocratici assegnandoseli come suoi iniziatori e primi maestri; in realtà i presocratici erano dei sapienti i quali, più che cercare la verità (come suggerisce appunto la parola filosofia: «amore del sapere»), la proclamano e se l'attribuiscono per ispirazione divina, per intuizione eccezionale o per mistica compenetrazione.
Taluni di questi sapienti, come Parmenide, scrivono poemi; altri, come Empedocle, sono maghi e taumaturghi; altri ancora, come i pitagorici, intrattengono rapporti con antiche sette misteriche, come l'orfismo. È però anche indubbio che presso i presocratici si misero in moto quei germi della riflessione razionale e della ricerca naturale che poi dovevano dar vita alla filosofia e alle scienze.
Figure complesse e tuttora non poco enigmatiche, i presocratici scandiscono il passaggio dalla Grecia arcaica, ancora compenetrata dal mondo del mito e dell'oralità, alla Grecia del V e IV secolo, ormai proiettata verso un tipo di sapere prevalentemente profano e razionalistico: un sapere che è alla base di tutta la storia dell'Occidente.
Per altro verso i presocratici, in quanto sophòi, sapienti, caratterizzano il timbro originale della civiltà greca. È stato infatti osservato che, se altri popoli ebbero sacerdoti, profeti, maghi, indovini, fondatori di religioni e di morali, solo i greci ebbero dei "sapienti".
Le ragioni della nascita di una sapienza profana, in varia misura autonoma rispetto alle credenze religiose del mito, vanno ricondotte al particolare cammino storico delle città greche.
Uscita vittoriosa dal confronto con l'immenso impero persiano, la Grecia si fece protagonista di una rapida e anzi vertiginosa ascesa economica e sociale. Le tappe di questa ascesa vanno dalla costituzione delle fiorenti colonie greche dell'Asia Minore, centro di commerci e di scambi culturali intensi e innovatori, allo sforzo eccezionale richiesto dalle guerre persiane, anch' esso fautore di necessarie innovazioni e trasformazioni, sino alla costituzione del grande impero marittimo e commerciale ateniese, che dalla vittoria contro i persiani trasse il frutto maggiore.
Il costume tradizionale dei greci venne allora sottoposto ad un rapidissimo stravolgimento e ad una continua accelerazione trasformativa. Proprio i sapienti presocratici si collocano a cavallo di questo processo. Essi sono come una cerniera che raccoglie la tradizione antica e la proietta nel futuro. Già essi, infatti, sopravanzano e criticano il costume e la sapienza mitica dei loro antenati.
È soprattutto dal V secolo in avanti, con l'apparizione delle scuole sofistiche, che la critica spregiudicata della tradizione e del mito si impone, determinando il fiorire del dibattito e della polemica razionale; a ciò si accompagna, come vedremo, la progressiva specializzazione tecnica e professionale dei saperi.
Dal punto di vista politico si assiste al crollo degli antichi regimi aristocratici, sostituiti dalla nuova democrazia popolare, espressione del nascente ceto imprenditoriale e commerciale. Non a caso fu proprio una rivoluzione democratica a spazzar via, nella Magna Grecia, i regimi dei sapienti pitagorici.
È al centro di questa rivoluzione profonda del costume economico, sociale e morale che compare allora la figura di Socrate, il maestro di Platone; ed è con Socrate, soprattutto alla luce dell'interpretazione che ne diede Platone, che la filosofia, in senso proprio, è nata. Essa, sull'onda dell'insegnamento socratico e della morte drammatica di Socrate, emerge in un tempo in cui la Grecia esaurisce la sua carica espansiva, con la lotta fratricida della Guerra del Peloponneso e la fine della potenza ateniese.
È proprio nel corso del V secolo, infatti, che si passa dal trionfo sui persiani alla progressiva dissoluzione dell' autonomia delle città greche, travolte dalla tragedia della guerra tra Atene e Sparta. Nel giro di pochi decenni, alla dissoluzione politica si accompagna la diffusa corruzione del costume tradizionale. Lo Stato perde di autorità e di prestigio e ovunque si impongono le forze della disgregazione e del più esasperato costume individualistico ed edonistico. Il regime democratico, impostosi ad Atene e in altre città, scade sovente a pura demagogia e a facinoroso intrigo di fazioni contrapposte.
Nel contempo la vita privata accede ad un lusso prima sconosciuto, non di rado accompagnato da immoralità e sfrenatezze. L'ambiziosa ricerca del successo personale, la rapida formazione e dissoluzione di immense fortune economiche guidano le scelte e i destini degli individui, indotti ad azioni prive di scrupoli, sovente al di fuori della legalità, ma sorrette dalla corruzione generale e dalla cinica prepotenza individuale.
In questo nuovo clima si diffonde, nel contempo, un enorme bisogno di "istruzione". Le classi sociali emergenti della media e dell' alta borghesia desiderano affiancare al potere del denaro il prestigio della cultura. Essa è d'altronde indispensabile per imporsi nelle pubbliche assemblee della politica democratica e poi nei tribunali, ai quali sempre più di sovente si ricorre per dirimere innumerevoli questioni legali.
Nel contempo sorgono in gran numero le attività professionali di tipo specialistico, dalla medicina alle varie arti, dalla tattica militare alla ginnastica, dall'urbanistica alla matematica e così via.
Ora, proprio il sofista (termine che in origine significa genericamente "sapiente", ma che ora designa una ben definita categoria di intellettuali) è l'espressione tipica delle nuove esigenze sociali. Alle antiche sette sapienziali, riservate aristocraticamente a pochi eletti (come le scuole degli eleati o dei pitagorici), si sostituisce ora l'istruzione generalizzata, ottenuta dietro pagamento.
Per primi i sofisti chiesero, in cambio dell'insegnamento, compensi in denaro, talora molto alti. Questo fatto inaudito suscitò grande scandalo e ricorrenti accuse di immoralità e di avidità. E tuttavia il successo travolgente dei sofisti, cui ricorsero vere e proprie folle di giovani ambiziosi e di belle speranze, mostra l'utilità pratica della nuova concezione del sapere e dell'insegnamento, consona alle mutate esigenze sociali. I più famosi sofisti accumularono fortune considerevoli che fecero leggenda.
Di mentalità e cultura cosmopolita, i sofisti viaggiavano di città in città, in cerca di pubblico e di clienti, ottenendo successo e fama, ma incontrando anche opposizioni e censure. La loro spregiudicata maniera di intendere l'insegnamento, i metodi innova tori con i quali lo impartivano, nonché i contenuti del loro sapere erano di frequente osteggiati dalle pubbliche autorità e dalle istituzioni religiose, custodi della tradizione. A queste accuse di immoralità i sofisti si sottraevano grazie alloro costume girovago: non appena la situazione e il clima si facevano difficili, essi partivano verso nuove città e nuovi destini.
La loro azione pubblica determinò una vera e propria "moda" e suscitò entusiastiche approvazioni e imitazioni specialmente presso i giovani, molti dei quali ambivano a loro volta di diventare sofisti, seguendo di città in città l'insegnamento dei nuovi maestri.
I sofisti furono, di fatto, i creatori del concetto di cultura. L'uomo greco dell'età aristocratica non distingue il sapere e l'istruzione dalla formazione morale e fisica complessiva. La "virtù", l'areté di un uomo è un tutto unitario che comprende anche la saggezza (sophia) e la facondia. L'ideale omerico dell'uomo perfetto è infatti compendiabile nella capacità di compiere "buone azioni" e di profferire "buone parole" nelle circostanze appropriate del vivere. Non si tratta pertanto del possesso di nozioni specialistiche, per esempio nel senso in cui oggi diremmo di un uomo che è "dotato di buona cultura".
La formazione o educazione (paidéia) antica è affidata al costume sociale condiviso, alla religione, al mito, alla poesia (Omero, Esiodo, Solone ecc.), all'esempio familiare e alla collaborazione politica e militare entro la polis. La "buona educazione" si trasmette di padre in figlio seguendo i modelli della tradizione, secondo quell'impulso conservatore che caratterizza, come dicemmo a suo tempo, le società prevalentemente fondate sulla trasmissione orale dei saperi.
Già le scuole presocratiche introdussero in questo campo una notevole rivoluzione, poiché il mito e la poesia erano affiancati da una più personale e razionale ricerca di sapienza; ma furono i sofisti a sconvolgere il costume aristocratico antico e a fare del sapere una qualità "tecnica" e "specialistica", indipendente dal costume morale complessivo. il sapere diviene così oggetto, come ora vedremo, di una specifica "istruzione".
I sofisti muovevano dal principio che la virtù (areté) è insegnabile e che chiunque può conseguirla, solo che si applichi e che, naturalmente, abbia i soldi per procurarsela. Questa tesi suonava scandalosa ad una società di tradizione aristocratica per la quale l'areté di un uomo era anzitutto conseguenza della sua nascita, della sua origine di sangue e rappresentava inoltre, più che un insieme di abilità pratiche particolari, un tratto del suo carattere e del suo costume. Ogni abili tà pratica e professionale appariva anzi qualcosa di plebeo e di indegno di un autentico aristocratico.
Naturalmente la paidéia sofistica non era propriamente in grado di formare gli uomini alla virtù, intesa come qualità interiore e come armoniosa unità del carattere. Sicché quando si obiettava ai sofisti (come poi faranno anche Socrate e Platone) che la virtù non è qualcosa che si possa vendere o comprare, l'obiezione aveva le sue ragioni.
I sofisti furono tuttavia gli inventori e gli iniziatori di una nuova paidéia e di una nuova areté. Essi inaugurarono quell'idea di cultura che corrisponde al possesso dell'istruzione, cioè ad un sapere specifico che si può conseguire in scuole apposite e in appositi corsi di lezioni, organizzati secondo programmi e contenuti determinati.
Ma cosa insegnavano in sostanza i sofisti? Principalmente essi insegnavano l'arte della parola e dei discorsi (lògoi) e cioè l'arte retorica. Saper parlare, saper convincere, entusiasmare, commuovere, indignare ecc., erano virtù essenziali per dominare le assemblee popolari, orientare le votazioni, ottenere incarichi pubblici, prevalere contro gli avversari nei comizi o in tribunale.
La retorica coincideva insomma con la "scienza politica" del tempo e la sua utilità pratica era dunque grandissima: abilità retorica e potere pubblico facevano tutt'uno. Quindi i sofisti erano dei tecnici dell'arte del discorso e della confutazione e insegnavano con quali artifici si potesse dimostrare la veridicità e validità di qualsivoglia tesi, anche la più paradossale. Una loro specialità era mostrare come si possa egualmente sostenere, in modi che possono sembrare convincenti, sia la tesi che l'antitesi riguardo ad una stessa questione: arte che prese il nome di eristica.
In certo modo i sofisti svilupparono, con estrema spregiudicatezza, la dialettica di Zenone e il suo ragionamento per assurdo. Alcuni sofisti però, attraverso ricerche delle quali furono gli inizia tori, si resero specialmente competenti in discipline particolari come la grammatica, la linguistica, l'etimologia, la sinonimica, la critica letteraria; naturalmente essi non usavano questi nomi moderni per indicare le loro ricerche e competenze.
Altri ancora si interessavano di questioni naturali e scientifiche, come già i presocratici, ma il loro interesse prevalente andava all'areté sociale piuttosto che alla verità della natura e dell' essere, sicché si suole dire che essi determinarono una rivoluzione "antropologica" nella cultura, cioè che si rivolsero a studiare l'uomo, il soggetto, piuttosto che la natura o l'oggetto.
Nei maestri minori la sofistica scadeva sovente a puro illusionismo verbale (donde poi il significato comunemente negativo del termine sofista), alla pretesa assurda di essere di tutto sapienti perché su tutto sapevano parlare e improvvisare discorsi. Cavillatori e disonesti, molti sofisti badarono a raggiungere una fama a buon mercato e a farsi ricchi senza scrupolo alcuno nel profittare della dabbenaggine e dell'ignoranza dei loro clienti e uditori.
I sofisti più grandi furono, viceversa, personalità eccezionali e geniali. È il caso di Protagora, considerato il maestro della sofistica e il suo iniziatore. Nato ad Abdera intorno al 485, sulla sua formazione influì probabilmente il pensiero di Eraclito, interpretato come sostenitore del divenire continuo di tutte le cose e, quindi, della relatività di ogni verità.
Protagora tenne scuola in numerose città, peregrinando per la Grecia per oltre quarant'anni. Ovunque si recasse, folle di giovani accorrevano ad ascoltarlo, attratte dalla sua eloquenza, dalla sua cultura e dalle tesi inusitate e dissacratrici che egli esponeva. Soggiornò più volte ad Atene, dove godette dell'amicizia e della protezione di Pericle. Ciò non gli evitò un'accusa di empietà, alla quale si sottrasse, come già Anassagora, lasciando definitivamente Atene. Morì a settant' anni, facendo naufragio mentre navigava alla volta della Sicilia.
La sua opera più famosa, di cui ci restano pochi frammenti e un gran numero di testimonianze, si intitolava Sulla verità o Sull'essere, significativamente menzionata anche con il titolo o sottotitolo di Ragionamenti demolitori.
Secondo la tradizione, Protagora fu infatti l'inventore delle antilogie, ovvero di discorsi capaci di confutare e di demolire qualsiasi tesi. li che mostrava, secondo Protagora, la sovrana potenza del discorso (logos) e soprattutto dell' arte retorica, che insegnava a servirsene come di un' arma tagliente e alla fine sempre vittoriosa.
Il discorso ha tali poteri perché la conoscenza umana è relativa e mutevole. Sembra che Protagora sia giunto a tale conclusione a partire dal motto di Eraclito «tutto scorre». Non è però da escludere anche l'influenza dell'atomismo, che riteneva illusorie e soggettive le qualità sensibili delle cose.
Unica base del conoscere è infatti la sensazione, ma le sensazioni mutano per il modificarsi della materia di cui sono fatte sia le cose sia gli organi di senso. Inoltre, le sensazioni risultano differenti da uomo a uomo e anche nello stesso uomo in momenti e situazione diverse. Ciò che a uno sembra dolce a un altro sembra amaro, a seconda delle disposizioni del corpo, dell' età, delle circostanze. E così la mia sensazione di dolce è per me irrefutabilmente vera, come lo è per te la tua sensazione di amaro. A questo punto non ha senso chiedersi se la cosa sia in sé dolce o amara, poiché essa riveste tali qualità solo nell'incontro con il corpo senziente dell'uomo.
Da ciò Protagora deriva il famoso principio che suona: «L'uomo è misura di tutte le cose». E aggiunge: «delle cose che sono per ciò che sono, e delle cose che non sono per ciò che non sono». Vale a dire: è sempre l'uomo che stabilisce ciò che è oppure non è, e il suo modo di essere o di non essere.
È evidente il riferimento polemico all' essere e al non essere di Parmenide. Non esiste per l'uomo, secondo Protagora, una verità stabile basata sull'assoluto essere; esistono solo verità particolari e mutevoli basate su ciò che di volta in volta sembra a lui: egli ne è l'unica possibile misura. L'opinione, la doxa, che Parmenide tanto disprezzava, è l'unica unità di misura della verità umanamente possibile e concepibile.
L'applicazione di tale criterio alle credenze religiose, condusse Protagora a una forma di totale agnosticismo, cioè di dichiarata ignoranza, che spiega l'accusa di empietà mossa contro di lui. In un' altra proposizione divenuta famosa, Protagora asserisce: «Degli dèi non posso sapere né se sono né se non sono né quali sono. Molte cose infatti mi impediscono di saperlo, non solo la loro non evidenza, ma anche la brevità della vita umana».
La «non evidenza» degli dèi dipende dal fatto che essi non si manifestano alla sensazione e perciò resta oscuro e indeciso se e cosa siano. La brevità della vita umana rende poi inutile la ricerca del divino che, se pure esiste, è però posto oltre i confini dell'umana finitudine e della brevità delle esperienze di vita. Un pensiero che è forse un' eco di un' analoga osservazione che abbiamo trovato in Empedocle.
Protagora, diremmo oggi, è un relativista e uno scettico. Ma l'aspetto soprattutto notevole è che egli, da tale relativismo, seppe trarre un'efficace dottrina morale e sociale. Egli mostrava infatti che, proprio perché la verità assoluta dell'essere non si rivela, è allora possibile all'uomo stabilire liberamente il valore delle proprie azioni, delle proprie opinioni e del proprio destino. Proprio il relativismo dell’essere fonda e rende possibile una morale ispirata a valori.
Ogni opinione, abbiamo detto, presa per sé è vera, ma è altrettanto vero che certe opinioni valgono più di altre, in quanto sono più utili. In questo senso la dottrina morale di Protagora è stata modernamente definita come un utilitarismo etico.
È proprio qui che interviene la forza persuasiva della retorica e la funzione educativa del sofista, che insegna a coltivare opinioni utili (o più utili) alla convivenza civile e alla città. La mancanza di un valore assoluto rende cioè possibile una società politica fondata sul dibattito e sulla scelta dei costumi e delle leggi che hanno, come diceva Protagora, «maggior valore». E in questo senso Protagora divenne il teorico dell'illuminata democrazia di Pericle.
La grande differenza degli usi e dei comportamenti umani, mostra da sé che, anche in sede morale e sociale, non ci sono verità assolute. Ciò che per un popolo è lecito per un altro è illecito; ciò che una città respinge con orrore, in un' altra accade senza che nessuno si scandalizzi, e così via.
Così come non c'è un vero in sé, anche in sede morale non c'è un bene in sé. Bene è ciò che genera utilità, in modi variabili e secondo circostanze e opinioni mutevoli. Compito della retorica e della sua scienza politica è allora guidare l'uomo alla ricerca del suo bene volta per volta contingente, stabilendo ciò che risulti in pratica di «maggior valore» e che perciò sia conveniente credere per tutti.
L'altra grande figura della sofistica è quella di Gorgia, nato intorno al 485 a Leontini, in Sicilia. Discepolo di Empedocle, insegnò ad Atene e in varie città della Grecia, suscitando grandi entusiasmi per lo stile singolare della sua eloquenza e per l'audacia delle tesi sostenute.
Ad Atene pronunciò un celebre discorso, l'Epitaffio, sui caduti della Guerra del Peloponneso. Famose divennero anche altre sue opere, come l'Encomio di Elena, il Palamede e il Discorso olimpico, in cui sembra che esortasse i greci all'unità e alla pace. Il più filosofico dei suoi scritti è Sul non essere e sulla natura, in diretta polemica contro gli eleati, e in particolare Melisso.
La tradizione riferisce concorde che Gorgia morì in Tessaglia alla veneranda età di centonove anni.
Contro gli eleati, utilizzando la stessa dialettica di Zenone, Gorgia dimostra tre tesi caratteristiche: 1. che 1'essere non è; 2. che anche se fosse non sarebbe né pensabile né conoscibile; 3. che anche se fosse conoscibile non sarebbe esprimibile o comunicabile. Ecco in sintesi l'argomentazione.
Supponiamo che l'essere sia, per esempio, infinito e ingenerato come vuole Melisso; allora l'essere non esiste in alcun luogo. Ma se poi dicessimo che è finito e generato, allora dovrebbe derivare dal non essere, il che, come vuole Parmenide, è assurdo.
Quanto alla sua pensabilità, il fatto è che noi non possiamo mai sapere se ciò che pensiamo esiste, dato che possiamo pensare alcune cose, come per esempio la chimera, che certamente non esistono. Quando dunque pensiamo l'essere, come possiamo sapere se questo essere che pensiamo esiste?
Ma se anche un uomo avesse la fortuna di conoscere l'essere, come potrebbe riferire tale esperienza? Le parole, infatti, non esprimono nulla di per sé, ma solo per convenzione. Se, quando dico "fuoco", non potessi mostrare sensibilmente la cosa cui quella parola si riferisce, la parola da sola non mi farebbe conoscere nulla. L'essere, però, non si può mostrare sensibilmente e quindi non basta la parola "essere" a farcelo conoscere. In conclusione: «nulla è» e ogni sapere è impossibile. Conclusione che è stata definita di totale nichilismo.
Anche per Gorgia, tuttavia, l'impossibilità di una verità e di un sapere assoluti è condizione del conferimento di valore alla retorica. Paradossalmente, la parola acquista valore proprio perché essa non può indicare o pronunciare verità assolute. La funzione del discorso non è infatti quella di dire il vero in sé, ma di produrre nell'animo la persuasione. La parola, dice Gorgia, pur essendo un corpo piccolissimo e invisibile, è la grande dominatrice della vita degli uomini. Essa calma la paura, elimina il dolore, suscita la gioia, aumenta la pietà.
La retorica di Gorgia più che educativa è perciò "magica", cioè più fondata sul potere di promuovere l'adesione passionale dell' ascoltatore che riferita alla forza logica dell' argomentazione.
Gorgia ne dà esempi paradossali nei suoi celebri discorsi. Per esempio, contro tutta la tradizione greca, egli difende Elena dall'infamia che da sempre accompagna la sua figura leggendaria.
In realtà Elena è incolpevole del suo tradimento e della conseguente guerra di Troia. Sia infatti che essa si sia invaghita di Paride per volontà degli dèi, o per una trappola violenta delle circostanze da cui è stata costretta, o per le seducenti parole di lui, o infine per la forza irrefrenabile della passione, in ogni caso essa è una vittima e non una colpevole. È giusto dire che su di lei si è abbattuta la sventura, giunta «per agguato del caso» e non per premeditazione della mente. La vita dell'uomo, infatti, non è retta dalla logica, ma dalla passione e dal caso.
Analogamente Gorgia difendeva Palamede dalla tradizionale accusa di aver tradito la causa dei suoi compagni. Al fondo della sua splendente oratoria Gorgia rivela una concezione amara e pessimistica dell'esistenza. L'occasione, il caso (kairòs), domina ogni vicenda, in modo oscuro e incomprensibile. Più che concludere, come Protagora, che tutto è (relativamente) vero, egli conclude che tutto è falso, che su tutto domina il non essere, la falsa apparenza, l'illusione e l'inganno.
Così egli onora i caduti della guerra non perché furono eroi o perché combatterono per una causa giusta, ma perché seppero sopportare con dignità la loro sorte e agire con fermezza e coraggio, come le circostanze esigevano: «gentili con i gentili, dignitosi di fronte al decoro, insolenti con gli insolenti, terribili nelle situazioni terribili».
Di fronte al dramma delle vicende umane resta, in ultima analisi, solo il potere consolatorio della parola.
Il dibattito sul valore e sulla natura delle leggi fu uno dei temi preferiti della sofistica. A iniziarlo fu Antifonte di Atene. Le leggi, egli sosteneva, sono convenzioni astratte, norma (nomos) artificiosa che si contrappone alla natura (physis). Le leggi infatti provocano una maggior sofferenza laddove ne sarebbe possibile una minore, e un minor piacere in quanto impediscono l'innocenza dell'istinto. E così, richiamandosi alla natura, Antifonte condanna audacemente ogni distinzione di casta e di popolo: per natura tutti gli uomini sono uguali ed è solo per astrazione che noi li distinguiamo in padroni e schiavi, greci e barbari ecc.
In una posizione più moderata è Prodico di Ceo. La società umana è, o può essere, in armonica continuità con la natura. In Eracle al bivio, Prodico presenta con grande efficacia l'alternativa cui l'uomo, e in particolare l'uomo del suo tempo, deve corrispondere: alternativa tra la "virtù" e la "depravazione". Quest'ultima si impone e sovverte il carattere naturale della società quando l'uomo si abbandona in discriminata mente ai piaceri e agli artifizi corrompi tori della civiltà, per esempio vivendo in agi innaturali e sfruttando egoisticamente il lavoro degli altri uomini. Virtuosa è invece una società che sa mantenersi entro misure naturali, onorando il lavoro, le buone opere, la saggia e moderata utilizzazione dei beni e dei piaceri.
Anche Ippia di Elide (di trent'anni più giovane di Protagora e il cui pensiero influenzò probabilmente Socrate) predica una cultura armoniosa che sappia unire gli uomini piuttosto che dividerli. Il tratto caratteristico del suo pensiero è l'universalismo: l'educazione deve fondarsi sull'apprendimento universale di tutte le arti, spirituali e materiali. Tale universalismo conduce Ippia, come Antifonte, a proclamare l'uguaglianza naturale di tutti gli uomini; è la legge, invece, che è sovente "tiranna" in quanto «usa violenza contro natura».
L'ateniese Crizia (che fu uno dei Trenta Tiranni che presero il potere dopo la caduta della democrazia conseguente alla sconfitta di Atene nella Guerra del Peloponneso) respinge l'antichissima tradizione che attribuisce agli dèi l'invenzione delle leggi. Le leggi, dice Crizia, le hanno inventate gli uomini, e così pure gli dèi e tutte le credenze religiose. Tale invenzione ha avuto lo scopo di incivilire l'uomo, impedendo gli di ricadere in uno stato di barbarie e di ferinità primitiva.
Ha buon gioco allora Trasimaco di Calcedonia a radicalizzare tale posizione in senso conservatore, ponendosi agli antipodi di Antifonte e di Ippia (nei quali invece è evidente l'ispirazione democratica). Le leggi sono indubbiamente convenzionali e frutto di invenzione umana. Esse però, in quanto pretendono di livellare e di eguagliare tutti gli uomini che per natura sono diversi tra loro, sono frutto di menzogna e recano danno ai migliori. Le leggi sociali usano infatti violenza alla legge di natura, che vuole la prevalenza del più forte.
Quindi, per natura, ciò che noi chiamiamo" giusto" non è che l'«utile del più forte». Le leggi egualitarie della democrazia non sono che un artificioso strumento inventato dai più deboli per soverchiare le personalità forti, sconvolgendo la legge naturale e gettando le città nelle mani dei peggiori.