Scritto fra il 1871 e il 1872, è il romanzo prevalentemente politico di Dostoevskij, e più ricco forse di figure protagoniste: il sinistro Stavrogin, l’ateo Kirillov, lo strusciante assassino Verchovenskij, la vittima Satov.
La tesi di fondo, che non riesce perfettamente a fondersi nell’azione vera e propria del romanzo, nasce dalla condanna del nichilismo terroristico nel quale Dostoevskij volle vedere il minimo comune denominatore dei movimenti rivoluzionari diffusi in Russia tra il 1870 e il 1880, sulla scia di fermenti liberal socialisti e anarchici.
Scritta infatti una prima parte, l'autore viene "visitato dall'autentica ispirazione e a un tratto mi sono innamorato del mio tema", come scriverà il 21 ottobre 1870. Riscrive quella prima parte, seguendo l'ispirazione avuta, finché sorge un altro problema: "si è fatto avanti un nuovo personaggio che avanzava la pretesa di essere lui il vero protagonista del romanzo, cosicché il precedente protagonista (un personaggio interessante, ma che effettivamente non meritava il ruolo di protagonista) si è ritirato in secondo piano. Questo nuovo protagonista mi ha talmente affascinato che ho cominciato un’altra volta a riscrivere il romanzo".
Il vecchio protagonista è Pëtr Verchovenskij che, come novello Nečaev, porta avanti i suoi propositi rivoluzionari reclutando e organizzando uomini. Il nuovo protagonista è Nikolaj Stavrogin, personaggio che incarna un'altra tipologia di giovane odiata dall'autore: quello del viziato annoiato e immorale. Eppure Dostoevskij sembra nutrire per lui un affetto maggiore che per gli altri. Fa nascere il cognome del personaggio dalla parola greca σταυρός (stauròs) che significa "croce", volendo dare elementi religiosi a un personaggio che a prima vista non sembra averne.
Stavrogin porta fino al suicidio la bimba che ha sedotto e ne considera con cinico distacco e morbosità tutte le ansie e le sofferenze prodotte dalla sua violenza. E come Ivàn Karamazov si mostra indifferente alla morte di chi lo circonda e al delitto in virtù di un arbitrio luciferino così anche in Stavrogin, come si chiarisce nella confessione al Vescovo Tichon:
«Anche nel contenuto. Vi ucciderà la bruttezza,» sussurrò Tichon, abbassando gli occhi.
«La bruttezza! Quale bruttezza?»
«Del delitto. Ci sono dei delitti veramente brutti. I delitti, qualunque siano, quanto più c'è sangue, quanto più c'è orrore, tanto più sono suggestivi, per così dire, pittoreschi; ma ci sono delitti vergognosi, ignominiosi, oltre a qualsiasi orrore, per così dire, anche troppo poco eleganti.» Tichon non finì la frase.
«Cioè,» riprese Stavrogin con agitazione, «voi trovate abbastanza ridicola la mia figura, quando baciavo le mani della sudicia bambina... Vi capisco perfettamente e vi disperate per me proprio perché è brutto, disgustoso, no, non è che sia disgustoso, è vergognoso, ridicolo, e credete che sia questo che piuttosto io non sia in grado di sopportare.» Tichon taceva. […]
«Non siete preparato, non siete temprato,» sussurrò timidamente Tichon abbassando gli occhi, «siete sradicato dal suolo, non avete la fede.»
«Sentite, padre Tichon: voglio perdonare io stesso a me stesso, ed ecco il mio scopo principale, tutto il mio scopo!» disse a un tratto Stavrogin con un tetro entusiasmo negli occhi. «So che soltanto allora scomparirà il fantasma. Ecco perché cerco un'infinita sofferenza, la cerco da me. Non spaventatemi, se no mi perderò nella rabbia.» (Dostoevskij, I Demoni, 19814 p. 460).
Eppure sarà l'unico dei tanti "peccatori" del romanzo che prenderà pienamente coscienza dei propri peccati e che pagherà spontaneamente per questi.
La vicenda, frantumata in una serie di episodi minori che non è facile riassumere brevemente, si dipana da un’idea centrale: lo sconvolgimento portato, nella media e piccola borghesia di una cittadina di provincia, da una organizzazione di delitti con il quale un capo fanatico, Stavrogin, cerca di legare con patto ferreo i cospiratori. Un demone, lo spettro della stessa rivoluzione, semina ovunque assassini, incendi, sommosse, di cui l’esecutore materiale, sorretto dalla diabolica mente ispiratrice di Stavrogin, è Verchovenskij. Kirillov e Satov rappresentano invece gli ideali allo stato puro, gli estremismi darammatici della fede, pagati di persona con la vita, l’uno uccidendosi (la lotta), l’altro venendo ucciso (la colpa).
Kirillov, la figura forse meglio delineata del romanzo, costruisce sul proprio suicidio una vera teoria: la negazione dell’esistenza divina. Persuaso che il significato universale della storia sia nella continua invenzione di dio per sopravvivere, per non uccidersi, egli al contrario consacra nel proprio gesto, sacrificio volontario di sé a profitto degli altri, il culmine del libero arbitrio.
Qualcosa vagamente ci riporta allo stravagante disegno di Raskolnikov (Delitto e castigo), nel quale però il profitto, il bene altrui era perseguito attraverso l’eliminazione degli empi o degli inetti, vittoria della ragione sul sentimento. E’ chiaro che il significato ultimo della vita umana dovette essere per Dostoevskij eccessivamente problemizzato in funzione della negazione o affermazione di Dio, quasi che paradossalmente lo scrittore, creando personaggi che negano con recisione Dio, ne volesse affermare e dimostrare l’effettiva, inconoscibile essenza.
Sotto questo aspetto il personaggio di Kirillov rassomiglia da vicino forse più a Ivan (I fratelli Karamazov), il quale rifiuta l’esistenza divina e nega il mondo medesimo in nome della sofferenza, in particolare la sofferenza inflitta ai bambini innocenti (da un episodio realmente accaduto ebbe spunto il romanzo).
Ma il loro ateismo scivola verso due opposte concezioni, le stesse che agitarono la coscienza di Dostoevskij: Dio è necessario per Ivan, in quanto esiste appunto il male; Dio è necessario per Kirillov, poiché ogni uomo è potenzialmente Dio, come dimostra poco prima della superba scena del suicidio, rappresentata nelle ultime pagine di questo stupendo romanzo. Non a caso l’epilessia di Kirillov, come quella di Myskin (L'idiota), di Smerdjakov (I fratelli Karamazov), e dello stesso Dostoevskij, contiene in sé una oscura componente superumana.
«Che cosa, dunque, trattiene gli uomini, secondo voi, dal suicidio?» domandai. Mi guardò distrattamente, come se cercasse di ricordare di che cosa si parlasse.
«Io... io lo so ancora poco... due pregiudizi li trattengono, due cose; due soltanto; una molto piccola, l'altra molto grande. Ma anche la piccola è molto grande.»
«Qual è, dunque, quella piccola?»
«Il dolore.»
«Il dolore? Possibile che sia così importante... in questo caso?»
«É la primissima cosa. Vi sono due categorie: quelli che si uccidono o per una gran tristezza, o per la rabbia, o sono pazzi, o che so io... quelli si uccidono di colpo. Quelli pensano poco al dolore, ma si uccidono di colpo. Mentre quelli che lo fanno a mente lucida, quelli pensano molto.»
«Vi sono, forse, di quelli che lo fanno a mente lucida?»
«Moltissimi. Se non ci fosse il pregiudizio, sarebbero di più; moltissimi; tutti.»
«Ora anche tutti?» Non rispose.
«Ma non vi sono, forse, dei mezzi di morire senza dolore?»
«Immaginate,» si fermò davanti a me, «immaginate un masso d'una grandezza, come una gran casa; vi pende sul capo; se vi cade addosso, sulla testa, vi farà male?»
«Un masso come una casa? Certo, fa paura.»
«Non parlo della paura; vi farà male?»
«Un masso come una montagna, un milione di pud? Si intende, nessun male.»
«Ma mettetevi davvero sotto, e mentre pende, avrete molta paura che vi faccia male. Ogni primo scienziato, ogni primo dottore, tutti, tutti avrebbero molta paura. Ognuno saprebbe che non fa male, ed ognuno avrebbe paura che faccia male.»
«Bene, e l'altra causa, quella grande?»
«L'altro mondo!»
«Cioè, il castigo?»
«Questo è indifferente. L'altro mondo, solo l'altro mondo.»
«Non vi sono forse degli atei che non credono affatto nell'altro mondo?» Di nuovo non rispose.
«Giudicate forse secondo voi stesso?»
«Ognuno non può giudicare che secondo se stesso,» disse arrossendo. «La piena libertà ci sarà allora, quando sarà indifferente vivere o non vivere. Ecco lo scopo di tutto.»
«Lo scopo? Ma allora nessuno, forse, vorrà più vivere?»
«Nessuno,» disse risolutamente.
«L'uomo ha paura della morte, perché ama la vita, ecco come la intendo io,» osservai «e così ha ordinato la natura.»
«É vile, e sta qui tutto l'inganno!» scintillarono i suoi occhi. «La vita è dolore, la vita è paura, e l'uomo è infelice. Ora tutto è dolore e paura. Ora l'uomo ama la vita, perché ama il dolore e la paura. E così hanno fatto. La vita si concede a prezzo di dolore e di paura, e sta qui tutto l'inganno. Ora l'uomo non è ancora quell'uomo. Vi sarà l'uomo nuovo, felice e superbo. A chi sarà indifferente vivere o non vivere, quello sarà l'uomo nuovo! Chi vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio. Mentre l'altro Dio non vi sarà.»
«Dunque, l'altro Dio c'è pure, secondo voi?»
«Non c'è, ma c'è. Nel masso non c'è il dolore, ma nella paura del masso c'è il dolore. Dio è il dolore della paura della morte. Chi vincerà il dolore e la paura, quello diverrà Dio. Allora vi sarà la vita nuova, l'uomo nuovo, tutto sarà nuovo... Allora la storia sarà divisa in due parti: dal gorilla alla distruzione di Dio, e dalla distruzione di Dio al...»
«Al gorilla?»
«... alla trasformazione fisica dell'uomo e della terra. L'uomo sarà Dio e si trasformerà fisicamente. Ed anche il mondo si trasformerà, e le azioni si trasformeranno, e i pensieri, e tutti i sentimenti. Che cosa ne pensate voi, si trasformerà allora l'uomo fisicamente?»
«Se sarà indifferente vivere o non vivere, tutti si uccideranno, ed ecco in che cosa forse consisterà la trasformazione.»
«Questo è indifferente. Uccideranno l'inganno. Chiunque voglia la libertà essenziale, deve avere il coraggio d'uccidersi. Chi ha il coraggio d'uccidersi, ha conosciuto il segreto dell'inganno. Più in là non c'è libertà; qui è tutto, e più in là non c'è nulla. Chi ha il coraggio d'uccidersi, quello è Dio. Ora ognuno può fare che non ci sia più Dio e che non ci sia più nulla. Ma nessuno l'ha ancora mai fatto.»
«Vi sono stati milioni di suicidi.»
«Ma sempre non per questo, sempre con la paura e non per questo. Non per uccidere la paura. Chi si ucciderà soltanto per uccider la paura, quello diverrà subito Dio.»
«Non ne avrà forse il tempo,» osservai.
«Questo è indifferente,» rispose piano, con pacato orgoglio, quasi con disprezzo. «Mi dispiace che voi par che ridiate,» aggiunse dopo un mezzo minuto.
«E a me riesce strano che dianzi voi foste irritabile, mentre ora siete così tranquillo, anche se parlate con calore.»
«Dianzi? Dianzi era da ridere,» rispose con un sorriso; «io non amo ingiuriare e non rido mai,» soggiunse tristemente.
«Sì, non le passate allegramente le vostre notti bevendo il tè.» M'alzai e presi il berretto.
«Lo credete » sorrise con una certa meraviglia. «E perché? No io... io non so,» si confuse a un tratto, «non so come succeda agli altri, ed anch'io sento così che non posso fare come tutti. Ognuno pensa, e subito dopo pensa a un'altra cosa. Io non posso pensare ad altro, io penso tutta la vita alla stessa cosa. Dio mi ha tormentato tutta la vita,» concluse a un tratto con sorprendente espansione» (Dostoevskij, I Demoni, pp. 115-118).