La storia ha inizio con Rieux che accompagna la moglie, gravemente malata, alla stazione di Orano, dove prenderà un treno per raggiungere la montagna in una non meglio precisata località per curarsi.Il romanzo è ambientato nella città algerina di Orano, in un imprecisato momento degli anni '40 («un giorno d'aprile 194...», recita l'incipit), quando il luogo è ancora sotto la dominazione francese. Orano è descritta come una città mercantile senza alberi, senza giardini, senza piccioni. Qui l'arrivo della primavera si avverte solo perché al mercato si vendono fiori arrivati da fuori. Tutti i cittadini si dedicano al lavoro e agli affari molto intensamente. Lasciati gli uffici si va al caffè, si passeggia lungo il viale o si sta affacciati sui balconi. In questa città è difficile essere malati o moribondi perché non si possono avere le attenzioni né la tenerezza che si devono ad un malato. La città è inserita in un paesaggio stupendo di colline e una baia: peccato, però, che la città sia di spalle a questo magnifico paesaggio. Protagonista è Bernard Rieux, medico francese residente a Orano, e il romanzo è condotto come cronaca scritta in terza persona dallo stesso Rieux.Poco dopo la partenza della donna scoppia un'improvvisa moria di ratti. Gli animali vengono trovati morti a migliaia ma nessuno vi presta più di un ragionevole stupore. È in realtà la prima avvisaglia del terribile flagello che sta per abbattersi su Orano. Dopo la sospetta morte di Michel, anziano portiere del condominio ove risiede Rieux, in città si diffondono casi analoghi: i malati presentano febbre alta, noduli e rigonfiamenti agli inguini e alle ascelle, macchie scure sul corpo e muoiono dopo una delirante, ma breve agonia. Rieux e l'anziano collega Castel riconoscono i sintomi della peste bubbonica. Nessuno inizialmente vuol prendere in considerazione i sospetti dei due medici, neppure le autorità che temono crisi di panico presso la popolazione. Quando però l'epidemia esplode in tutta la sua violenza devastatrice, da Parigi viene ordinato di chiudere la città con un cordone sanitario, al fine di limitare il contagio.
Nonostante il pensiero per la moglie malata, Rieux non si tira indietro dal prestare le cure ai malati. Viene aiutato da Jean Tarrou, co-protagonista del romanzo. Figlio di un avvocato francese, destinato, secondo le intenzioni del padre, ad intraprendere anch'egli la professione forense. Un giorno il padre lo aveva invitato ad assistere ad un processo penale, nel quale era riuscito ad ottenere la condanna a morte dell'imputato. Il giovane Jean, colpito dalla freddezza con cui il padre aveva chiesto e ottenuto l'esecuzione di un uomo, ne era rimasto inorridito e aveva deciso di lasciare la Francia e di girare per il mondo. Con sé porta sempre dei taccuini, che redige meticolosamente e sui quali, ad Orano, descrive l'evolversi dell'epidemia. Tarrou istituisce, altresì, un corpo di volontari per il trasporto dei malati e dei morti.
Dietro ai due protagonisti principali si snodano le storie di altri personaggi: Joseph Grand, impiegato comunale impegnato nella stesura di un'opera letteraria di cui non riesce a convincersi sulla prima frase; Cottard, un commerciante che, dopo aver tentato il suicidio, si arricchisce lucrando sulla carenza di generi di prima necessità; il padre gesuita Paneloux, figura fortemente simbolica, che in una solenne predica dopo il primo mese di peste, in una fase di recrudescenza del morbo, parla della peste come una punizione mandata da Dio per le colpe degli uomini.
C'è, infine, Raymond Rambert, un giovane giornalista francese che cerca disperatamente da Rieux un aiuto per tornare in Francia e ricongiungersi alla donna che ama. L'occasione per fuggire gli si presenta con la complicità della rete del contrabbando in cui è inserito anche Cottard, ma Tarrou lo ammonisce severamente, facendogli notare come Rieux, nonostante la moglie sia lontana e, per giunta, gravemente malata, presti instancabilmente le sue cure agli ammalati. Colpito dalle parole di Tarrou, Rambert decide di restare e si unisce al corpo dei volontari.
L'epidemia intanto dilaga. Da aprile si giunge all'estate e la peste degenera dalla forma bubbonica a quella polmonare, molto più grave e altamente contagiosa. Nelle scuole, attrezzate provvisoriamente a ospedali, i malati aumentano in numero esponenziale. E cresce sempre di più anche il numero dei morti: centinaia di persone periscono ogni giorno e le autorità cittadine devono cercare nuovi siti ove scavare fosse comuni.
In autunno si accende una speranza: dalla Francia giunge un siero che potrebbe contrastare il morbo e guarire gli ammalati. Rieux lo sperimenta sul figlioletto del giudice Othon, colpito dalla peste in maniera assai grave: la cura, tuttavia, non ha effetto e il bambino, al cui capezzale si stringono Rieux, Tarrou e padre Paneloux, che invoca l'aiuto divino per salvarlo, muore dopo atroci sofferenze. Camus tocca in queste pagine una delle vette di tutto il romanzo e riecheggia con forza viva le pagine intensissime e non meno drammatiche de I fratelli Karamazov di Dostoevskij, in particolare il contatto e l’influsso del capitolo “La rivolta” , nel V libro. Il tema della sofferenza inutile e della responsabilità divina vigoreggia con la stessa intensità del grande narratore russo. Ma il testo di Camus si pone in termini più drammatici rispetto al dialogo di Dostoevskij. La forte propensione teatrale del nostro crea una scena molto più intensa. Qui non si parla della sofferenza dei bambini ma la si mette direttamente e crudamente in scena:
Il ragazzo, uscito dal torpore, si rotolava convulsamente nelle lenzuola. Il dottore, Castel e Tarrou, dalle quattro della mattina gli stavano accanto, seguendo passo passo i progressi o le pause della malattia. A capo del letto, il corpo massiccio di Tarrou era un po' curvo; in fondo al letto, seduto vicino a Rieux in piedi, Castel leggeva, con aria del tutto calma, un vecchio libro. A poco a poco, via via che il giorno cresceva nella ex-aula scolastica, arrivavano gli altri. Paneloux, prima, che si mise dall'altra parte del letto, relativamente a Tarrou, e addossato alla parete. Un'espressione dolorosa gli si leggeva sul volto e la stanchezza di tutti quei giorni, in cui aveva pagato di persona, gli aveva tracciato rughe sulla fronte congestionata. A sua volta, giunse Joseph Grand; erano le sette, e l'impiegato si scusò di esser senza fiato: non sarebbe rimasto che un attimo, forse si sapeva ormai qualcosa di preciso. Senza una parola, Rieux gli indicò il ragazzo, che con gli occhi chiusi nella faccia scomposta, coi denti stretti sino al limite delle forze, immobile nel corpo, girava e rigirava la testa da dritta a manca, sul capezzale senza lenzuola. Quando fu poi abbastanza chiaro da poter distinguere, sulla lavagna in fondo all'aula, le tracce' di vecchie formule d'equazioni, giunse Rambert. Si appoggiò ai piedi del letto contiguo, cavando fuori un pacchetto di sigarette; ma dopo uno sguardo al ragazzo, si rimise il pacchetto in tasca.
Castel, sempre seduto, guardava Rieux al disopra degli occhiali:
"Ha notizie di suo padre?"
"No," disse Rieux, "è nel campo d'isolamento."
Il dottore stringeva con forza la sbarra del letto in cui gemeva il ragazzo; non lasciava con gli occhi il piccolo malato, che s'irrigidì all'improvviso e, coi denti di nuovo stretti, s'incavò un poco all'altezza della vita, aprendo lentamente le braccia e le gambe. Dal corpicino, nudo sotto la coperta militare, saliva un odore di lana e d'acre sudore. Il ragazzo si stese a poco a poco, ricondusse braccia e gambe verso il centro del letto e, sempre cieco e muto, sembrò respirare più in fretta. Rieux incontrò lo sguardo di Tarrou, che distolse gli occhi.
Di bambini, ne avevano ormai veduti morire: il terrore, da mesi, non sceglieva affatto; ma non avevano ancora seguito le loro sofferenze minuto per minuto, come stavano facendo dalla mattina. E, beninteso, il dolore inflitto a quegli innocenti non aveva mai finito di sembrargli quello che in verità era, ossia uno scandalo. Ma sino ad allora si erano scandalizzati astrattamente, in qualche modo: mai avevano guardato in faccia, così a lungo, l'agonia d'un innocente.
Proprio allora il ragazzo, come morso allo stomaco, si piegava di nuovo, con un flebile gemito. Restò incavato per lunghi attimi, scosso da brividi e da tremiti convulsi, come se la sua fragile carcassa piegasse sotto il vento furioso della peste e scricchiolasse sotto i ripetuti soffi della febbre. Passata la burrasca, si stese un poco, la febbre sembrò. ritirarsi, e abbandonarlo, ansante, su un greto umido e avvelenato, dove il riposo ormai somigliava alla morte. Quando il flutto ardente lo raggiunse di nuovo, per la terza volta, e lo sollevò un poco, il ragazzo si accartocciò, si rifugiò in fondo al letto nello spavento della fiamma che lo bruciava e agitò follemente la testa, buttando via la coperta. Grosse lacrime, spuntando dalle palpebre infiammate, cominciarono a scorrere sul volto plumbeo, e alla fine della crisi, esausto, contraendo le gambe ossute e le braccia, la cui carne si era dissolta in quarantott'ore, il ragazzo prese, nel letto devastato, una grottesca posa di crocifisso.
Tarrou, chinandosi, asciugò con la greve mano il piccolo volto intriso di lacrime e di sudore. Da un momento Castel aveva chiuso il libro e guardava il malato. Cominciò una frase, ma fu costretto a tossire per poterla terminare: la sua voce improvvisamente stonava.
"Non ha avuto la tregua mattutina, nevvero, Rieux?" Rieux disse di no, ma che il ragazzo resisteva da più tempo che se fosse stato normale. Paneloux, che sembrava un po' accasciato contro la parete, disse allora sordamente:
"Se ha da morire, avrà sofferto più a lungo."
Rieux si voltò vivamente verso di lui e aprì la bocca per parlare, ma tacque, fece uno sforzo visibile per dominarsi e ricondusse lo sguardo sul ragazzo. .
La luce aumentava nella sala. Sugli altri cinque letti, delle forme si agitavano e gemevano, ma con una discrezione che sembrava concertata. Il solo che gridasse, all'altro capo della sala, a intervalli regolari gettava piccole esclamazioni che sembrava significassero più stupore che dolore. Anche per i malati, sembrava che non fosse il terrore del principio; vi era persino, ora, una sorta di consenso nella loro maniera di prendere la malattia. Soltanto il ragazzo si dibatteva con tutte le sue forze. Rieux, che di tanto in tanto gli prendeva il polso, senza necessità, d'altronde, e piuttosto per uscire dall'immobilità impotente in cui era, sentiva, chiudendo gli occhi, quell'agitazione unirsi al tumulto del proprio sangue. Si confondeva allora col ragazzo suppliziato e tentava di sostenerlo con tutta la sua forza ancora intatta. Ma riunite per un attimo, le pulsazioni dei due cuori discordavano, il ragazzo gli sfuggiva, e il suo sforzo cadeva nel vuoto. Lasciava l'esile polso per tornare al suo posto. Lungo le pareti a calce la luce passava dal rosa al giallo.
Dietro i vetri una mattina di caldo cominciava a crepitare. Appena si sentì Grand che se ne andava, dicendo che sarebbe tornato; tutti aspettavano. Il ragazzo, con gli occhi chiusi, sembrava calmarsi un poco. Le mani, divenute simili ad artigli, tormentavano adagio le sponde del letto; risalivano, grattavano la coperta presso le ginocchia, e all'improvviso il ragazzo piegò le gambe, si portò le cosce sul ventre, rimanendo immobile. Allora .aprì gli occhi per la prima volta e guardò ·Rieux che si trovava davanti a lui. Nel cavo del volto ora rappreso in un'argilla grigia la bocca si aprì e quasi subito ne uscì un solo grido continuo, graduato appena dalla respirazione, che colmò immediatamente la sala d'una protesta monotona, discorde, e così poco umana che sembrava provenisse da tutti gli uomini in una volta. Rieux stringeva i denti e Tarrou si voltò da una parte. Rambert si avvicinò al letto, accanto a Castel che chiuse il libro, rimasto aperto sulle sue ginocchia. Paneloux guardò quella bocca infantile, insozzata dalla malattia, piena d'un grido di tutti gli evi; si lasciò scivolare in ginocchio e tutti trovarono naturale sentirlo dire con voce un po' soffocata ma distinta dietro il pianto anonimo che non cessava: "Mio Dio, salva questo ragazzo."
Ma il ragazzo continuava a gridare, e tutt'intorno a lui i malati si agitarono. Quello le cui esclamazioni non erano cessate, all'altro capo della stanza, precipitò il ritmo del suo lamento sino a farne, anche lui, un vero grido, mentre gli altri gemevano sempre più forte. Una marea di singulti traboccò nella sala, coprendo la preghiera di Paneloux, e Rieux, sempre aggrappato alla sbarra del letto, chiuse gli occhi, ubriaco di stanchezza e di disgusto. Quando li riaprì, si trovò vicino Tarrou.
"Bisogna che me ne vada", disse Rieux. "Non posso più sopportarli."
Ma improvvisamente gli altri malati tacquero; il dottore riconobbe allora che il grido del ragazzo s'era indebolito, che scemava ancora e che stava per finire. Intorno a lui i lamenti riprendevano, ma sordamente, e come un'eco lontana della lotta appena conclusa. Si era conclusa infatti. Castel era passato dall'altra parte del letto, e disse ch'era finita. Con la bocca aperta, ma muta, il ragazzo riposava nella buca delle coperte in disordine, rimpicciolito di colpo, con resti di lacrime sul viso.
Avvicinatosi al letto, Paneloux fece i gesti della benedizione. Poi raccolse le sue vesti e uscì dal corridoio centrale.
"Bisogna ricominciare tutto?" domandò Tarrou a Castel.
Il vecchio dottore scuoteva la testa.
"Forse" disse con un sorriso contratto. "Dopo tutto ha resistito più a lungo."
La scena è stata consumata e solo ora il dialogo subitanemanete si apre alla ricerca intensa di un perchè. Sembra di rivedere, almeno parzialmente, Ivan e Aljoŝa Karamazov. La non completa sovrapponibilità dei personaggi è data dalla differenza tra questo dialogo e quello tra il prete e Meursault ne Lo straniero. Nel romanzo precedente non c’è mai un dialogo perchè manca un punto di incontro. Non c’è alcuna amicizia tra il superuomo Mersault e il prete. Qui si crea uno spazio dialettico nuovo che supera anche lo scambio tra Ivan Aljoŝa Karamazov. Qui nessuno vuole rendere il biglietto d’ingresso e tutti convivono nella solidale esperienza dello scandalo del male:
Ma Rieux lasciava ormai la sala, con un passo così precipitoso e con una tale aria, che quando oltrepassò Paneloux, questi tese un braccio per trattenerlo.
"Andiamo, dottore," gli disse.
Con lo stesso agitato trasporto, Rieux, voltandosi gli buttò con violenza:
"Questo qui, almeno, era innocente, lei lo sa bene!" Poi si voltò e passando le porte della sala prima di Paneloux, raggiunse il fondo del cortile scolastico. Sedette su una panca, tra gli alberelli polverosi, e si asciugò il sudore che ormai gli colava negli occhi. Aveva voglia di gridare ancora, per sciogliere, infine, il nodo violento che gli ingombrava il cuore. Il caldo pioveva lentamente tra i rami delle agavi; il cielo azzurro della mattina si copriva rapidamente d'una coltre biancastra che rendeva l'aria più soffocante. Rieux si lasciò andare sulla panca; guardava i rami, il cielo, ritrovando a poco a poco il respiro, eliminando a poco a poco la stanchezza.
"Perché avermi parlato con tanta collera?" disse una voce dietro di lui. "Anche per me, lo spettacolo era insopportabile. "
Rìeux si voltò verso Paneloux:
"È vero," disse, "mi scusi. Ma la stanchezza fa impazzire. Ci sono ore, in questa città, che non sento se non la mia rivolta."
"Capisco," mormorò Paneloux. "È rivoltante in quanto supera la nostra misura. Ma forse dobbiamo amare quello che non possiamo capire."
Rieux si alzò di scatto; guardava Paneloux con tutta la forza e la passione di cui era capace, e scuoteva la testa.
"No, Padre," disse, "io mi faccio un'altra idea dell’amore; e mi rifiuterò sino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati."
Sul viso di Paneloux passò un'ombra di turbamento. "Dottore," fece con tristezza, "ora ho capito quello che chiamano la grazia."
Ma Rieux si era di nuovo lasciato andare sulla panca.
Dal fondo della sua ritornata stanchezza, rispose più dolcemente:
"È quello che non ho, lo so bene. Ma non voglio discuterne con lei. Noi lavoriamo insieme per qualcosa che riunisce oltre le bestemmie e le preghiere. Questo solo è importante."
Paneloux sedette vicino a Rieux, aveva un'aria commossa.
"Sì," disse, "sì, anche lei lavora per la salvezza dell'uomo."
Rieux tentava di sorridere.
"La salvezza dell'uomo è un'espressione troppo grande per me. lo non vado così lontano. La sua salute m'interessa, prima di tutto la sua salute."
Paneloux esitò. "Dottore," disse.
Ma si fermò, anche sulla sua fronte cominciava a scorrere il sudore. Mormorò "arrivederci", e gli occhi gli brillarono, mentre si alzava. Stava per allontanarsi, quando Rieux, ch'era pensieroso, si alzò e con un passo lo raggiunse.
"Mi scusi ancora," disse, "il mio scatto non si ripeterà."
Paneloux gli tese la mano dicendo con tristezza:
"E tuttavia non sono riuscito a persuaderla!"
"Che importa?" disse Rieux. "Quello che odio, è la morte e il male, lei lo sa. E che lei lo voglia o no, noi siamo insieme per sopportarli e combatterli."
Rieux trattenne la mano di Paneloux.
"Lei vede," disse evitando di guardarlo, "Dio stesso ora non ci può separare."
L’amicizia è la cifra che supera in un colpo solo sia l’egocentrico superomismo del Meursault de Lo straniero sia la divisione delle strade imposta da Ivan Karamazov al fratello Aljoŝa dopo il dialogo drammatico del V libro. Dio qui non separa, come nei Karamazov, sebben il dramma dell’uomo sia crudamente descritto nella sua nuda realtà di sofferenza. Quellla frase sibillina di p. Paneloux sulla grazia implica la vicinanza e solidarietà nella condizione umana che può essere descritta in termini comuni sebbene la si afferri e la si risolva con modalità differenti: Paneloux, Rieux ma anche Tarrou e gli altri vivono la stessa condizione. Dopo questa morte straziante P. Paneloux tiene una seconda predica in Duomo, meno affollata della prima, nella quale il tenore delle sue precedenti argomentazioni sfuma per lasciare posto a quelle che il narratore Rieux definirà un “fatalismo attivo”. Qui si conclude il lungo capitolo sulla sofferenza innocente e si manifesta il senso delle nuove argomentazioni di padre Paneloux, soprattuto prende corpo quella presenza della grazia timidamente accennata nel dialogo con Rieux:
Quest'ultimo parlò con un tono più dolce e più riflessivo della prima volta, e a parecchie riprese gli astanti notarono una certa esitazione nel suo discorso. Altra cosa curiosa, egli non diceva più "voi," ma "noi".
Ciononostante, la sua voce a poco a poco diventò ferma. Cominciò col ricordare che da lunghi mesi la peste era in mezzo a noi e che ora, conoscendola noi meglio per averla veduta tante volte sedersi alla nostra tavola o al capezzale dei nostri cari, camminarci accanto e aspettare la nostra venuta nei luoghi del lavoro, proprio ora forse avremmo potuto accogliere meglio quello che ci diceva senza tregua e che, nella prima sorpresa, era possibile non avessimo ben ascoltato. Quanto Padre Paneloux aveva ormai predicato, nello stesso luogo, rimaneva vero, o almeno tale era la sua persuasione; ma fors'anche, come capitava a tutti, e se ne batteva il petto, egli lo. aveva pensato e detto senza carità. Quello che· rimaneva vero, tuttavia, era che in ogni cosa, sempre c'era da imparare; la prova più crudele era ancora benefica per il cristiano; e giust'appunto quello che il cristiano, nella fattispecie, doveva cercare, era il suo beneficio; e di che il beneficio era fatto, e come si poteva trovarlo
In questo momento gli ascoltatori 'sembrarono raccogliersi tra gli appoggiatoi dei banchi e disporvisi comodamente quanto potevano. Una delle imbottite porte d'ingresso sbattè, piano; qualcuno si mosse per fermarla. E Rieux, distratto da quest'agitazione, sentÌ appena Paneloux riprendere la predica. Egli diceva press'a poco che non bisognava tentare di spiegarsi lo spettacolo della peste, ma cercar d'imparare quello che si poteva impararne. Rieux capì confusamente che, secondo il padre, non c'ero nulla da spiegare. Il suo interesse si destò quando Paneloux disse fortemente esservi cose che si potevano spiegare riguardo a Dio e altre che non si potevano. Certamente vi erano il bene e il male e, in generale, ci si spiegava agevolmente quello che li separava; ma nell'àmbir del male cominciava la difficoltà. C'erano, a esempio, il male apparentemente necessario e il male apparentemente inutile. C'erano Don Giovanni sprofondato agli Inferi e la morte d'un bambino. Se infatti è giusto che il libertino sia fulminato, non si capisce la sofferenza dell'innocente. E in verità non c'era nulla sulla terra di più importante della sofferenza d'un bambino e dell'orrore che tale sofferenza si porta con sé e delle ragioni che bisogna trovarle. Nel resto della vita Dio ci facilitava tutto, e sino a lì la religione era senza meriti; ma qui, invece, ci metteva ai piedi d'un muro. Noi eravamo sotto le muraglie della peste e alla loro mortifera ombra bisognava che trovassimo il nostro beneficio. Padre Paneloux rifiutava anche di concedersi i facili vantaggi che gli avrebbero consentito di scalare il muro. Gli sarebbe stato facile dire che l'eternità di delizie che aspettavano il bambino potevano compensarlo della sofferenza, ma, in verità, lui non ne sapeva niente. Chi poteva affermare, infatti, che l'eternità d'una gioia possa compensare un attimo del dolore umano? Non sarebbe sicuramente un cristiano, il cui Maestro ha conosciuto il dolore nelle membra e nell'anima. No, il Padre sarebbe rimasto ai piedi del muro, fedele al supplizio di cui la croce è il simbolo, di fronte alla sofferenza d'un bambino. E avrebbe detto senza paura a coloro che in quel giorno lo ascoltavano: "Fratelli miei, il momento è venuto. Bisogna tutto credere o tutto negare. E chi mai, tra di voi, oserebbe tutto negare?"
Rieux ebbe appena il tempo di pensare che il Padre rasentava l'eresia, e l'altro ormai riprendeva, con forza, che tale ingiunzione, tale pura esigenza, era il beneficio del cristiano. Era anche la sua virtù. Il Padre sapeva che quanto vi era d'eccessivo nella virtù di cui stava parlando avrebbe urtato molti spiriti; abituati a una morale più indulgente e più classica; ma la religione del tempo di peste non poteva essere la religione di tutti i giorni, e se Dio poteva ammettere, e anche desiderare, che l'anima riposi e si allieti nei tempi felici, egli la voleva eccessiva negli eccessi della sventura. Dio, oggi, dava alle sue creature il vantaggio di metterle in una sventura tale da dover ritrovare o assumere la più grande virtù, quella del Tutto o Nulla.
Uno scrittore profano, un secolo prima, aveva preteso di rivelare il segreto della Chiesa affermando che non vi era Purgatorio. Con questo, egli sottintendeva che non c'erano mezze misure, che non c'erano se non il Paradiso e l'Inferno e che non si poteva essere che salvati o dannati, secondo ciò che si era scelto. Era, a credere in Paneloux, un'eresia quale non poteva nascere che in seno a un'anima libertina. Un Purgatorio c'era; ma di certo vi erano epoche in cui questo Purgatorio non doveva essere troppo sperato, c'erano epoche in cui non si poteva parlare di peccato veniale. Ogni peccato era mortale e ogni indifferenza delittuosa. Era tutto o non era nulla.
Essendosi fermato Paneloux, Rieux sentì meglio, sotto le porte,i lamenti del vento che sembrava raddoppiare, di fuori. Il Padre in quell'attimo diceva che la virtù d'accettazione totale, di cui parlava, non poteva essere intesa nel significato ristretto che le si dà di solito, che non si trattava della comune rassegnazione, e nemmeno della difficile umiltà. Si trattava d'umiliazione, ma d'una umiliazione in cui l'umiliato era consenziente. Certo, la sofferenza di un bambino era umiliante per lo spirito e per il cuore; ma per questo bisognava entrarci; ma per questo, e Paneloux assicurò l'uditorio che quello che stava per dire non era facile da dire, bisognava volerla in quanto Dio la voleva. Soltanto per tal via il cristiano non avrebbe risparmiato nulla e, chiuse tutte le uscite, avrebbe toccato il fondo della scelta sostanziale. Avrebbe scelto di tutto credere per non essere ridotto a tutto negare. E come le donnette che in quel momento nelle chiese, dopo aver saputo che i bubboni, formandosi, erano la via naturale traverso cui il corpo si liberava dell'infezione, invocavano: "Dio mio, fagli spuntare i bubboni", il cristiano avrebbe saputo abbandonarsi alla volontà divina, anche se incomprensibile. Non si poteva dire: "Capisco questo, ma è inaccettabile." Bisognava slanciarsi al cuore di quest'inaccettabile che ci era offerto, e proprio per stabilire la nostra scelta.
La sofferenza dei bambini era pane nostro amaro, ma senza questo pane la nostra anima sarebbe perita di fame spirituale.
Qui il sordo tramestio che accompagnava di solito le pause di Padre Paneloux cominciava a farsi sentire, quando, inopinatamente, il predicatore riprese con forza, fingendo di domandare, al posto degli ascoltatori, quale fosse, insomma, la condotta da tenere. Egli non ne dubitava, si stava per pronunciare la tremenda parola fatalismo. Ebbene, lui non avrebbe respinto quel termine se gli si consentiva soltanto di unirvi l'aggettivo "attivo". Certo, e ancora una volta, non bisognava imitare i cristiani d'Abissinia, di cui egli aveva parlato. Nemmeno bisognava pensare di emulare quegli appestati persiani che buttavano i loro stracci sulle pattuglie sanitarie cristiane, invocando ad alta voce dal cielo di mandar la peste agli infedeli che volevano combattere il male inviato da Dio. Ma, al contrario, nemmeno bisognava imitare i monaci del Cairo che nelle epidemie del secolo passato davano la comunione prendendo la particola con le pinze, per evitare il contatto delle bocche umide e calde in cui poteva dormire l:infezione. Gli appestati persiani e i monaci peccavano ugualmente. Per i primi, infatti, la sofferenza d'un bambino non contava, e per i secondi, invece, la paura ben umana del dolore aveva tutto travolto. Nei due casi, il problema era evitato; tutti restavano sordi alla voce di Dio. Ma c'erano altri esempi che Paneloux voleva portare; se si crede al cronista della grande pestilenza di Marsiglia, degli ottantun religiosi del convento della Mercy quattro soltanto sopravvissero alla peste; e di questi quattro tre fuggirono. Questo dicevano i cronisti, e non era affar loro dirne di più. Ma leggendoli, tutti i pensieri di Padre Paneloux andavano a colui che era rimasto solo, nonostante i settantasette cadaveri, e, soprattutto, nonostante l'esempio' dei tre confratelli. E il Padre, battendo col pugno sull'orlo del pulpito, gridò: "Fratelli miei, bisogna esser colui che resta!"
Non si trattava di rifiutare le precauzioni, l'ordine intelligente che una società introduceva nel disordine d'un flagello; non bisognava ascoltare i moralisti che dicevano: bisogna mettersi in ginocchio e abbandonare ogni cosa. Bisognava soltanto cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po' alla cieca, e tentar di fare del bene. Ma per il resto bisognava restare, e accettare di rimettersene a Dio, anche per la morte dei bambini, e senza cercare un personale ausilio.
Qui Padre Paneloux evocò la grande figura del vescovo Belzunce durante la peste di Marsiglia. Ricordò che verso la fine dell'epidemia il vescovo, avendo fatto tutto quello che doveva fare, credendo che non ci fosse più rimedio, si chiuse con dei viveri nella sua casa, che fece murare; che gli abitanti di cui era l'idolo, per uno di quei ritorni di sentimento non rari nell'eccesso del dolore, si adirarono contro di lui, circondarono la casa di cadaveri per infettarla, e gettarono persino dei corpi al disopra dei muri, per farlo perire più sicuramente. In tal modo il vescovo, per un'ultima debolezza, aveva creduto d'isolarsi dal mondo della morte e i morti gli cadevano dal cielo sulla testa; e sarebbe accaduto anche a noi, che ci dovevamo persuadere che non vi è isola nella peste. No, non c'era via di mezzo; bisognava ammettere lo scandalo, in quanto ci era necessario scegliere di odiare Dio o di amarlo. E chi oserebbe scegliere l'odio verso Dio?
"Fratelli miei," disse infine Paneloux, annunciando che stava per concludere, "l'amore di Dio è un amore difficile: suppone un totale abbandono di se stessi e il disprezzo per la propria persona. Ma lui solo può cancellare la sofferenza e la morte dei bambini, lui solo in ogni caso può renderla necessaria, in quanto è impossibile capirla e non si può che volerla. Ecco la difficile lezione che volevo dividere con voi; ecco la fede, crudele agli occhi degli uomini, decisiva agli occhi di Dio, a cui bisogna avvicinarsi. A questa terribile immagine bisogna che ci adeguiamo; in cima, tutto si confonderà e si eguaglierà, la verità sorgerà dall'ingiustizia apparente. "