Nell'economia del basso Medioevo, assunse un’importanza crescente la produzione di beni non agricoli. Sebbene non fosse sconosciuta in ambiente rurale, dove operavano, per esempio, il fabbro di villaggio e il tessitore, è indubbio che essa venne progressivamente concentrandosi nelle città. Le forme in cui tale attività si manifestò non furono, peraltro, sempre le stesse. Secondo i luoghi e i momenti, si ebbero una produzione domestica e una imperniata sulla bottega, una produzione svolta da liberi artigiani ed una effettuata prevalentemente da manodopera salariata; una produzione promossa da privati ed una organizzata dallo stato, e, infine, una produzione su scala limitata ed una di grandi dimensioni. Spesso i diversi sistemi di organizzazione del lavoro finirono per convivere e sovrapporsi.
Nei secoli XI e XII, si assisté ad un forte risveglio delle attività artigianali e industriali, che, pur interessando anche le campagne, si rese particolarmente evidente in città. Tale espansione riguardò innanzitutto alcuni settori fondamentali. Un grande slancio ebbe la metallurgia, alimentata dalla ripresa dell'estrazione di minerali in varie regioni europee, nonché stimolata dall'iniziativa di monasteri, signori e città. In Italia, furono molto attivi i comuni lombardi, i cui articoli metallici di qualità trovavano, nell'esistenza di un'importante piazza commerciale come Milano, la possibilità di essere esportati nel resto della penisola e anche all’estero. Un altro settore che, a partire dal 950, risultava in decisa espansione era quello delle costruzioni. I progressi qualitativi sono i più evidenti, soprattutto se consideriamo la struttura degli edifici monumentali e delle grosse infrastrutture come i castelli, le mura cittadine, i ponti e, naturalmente, le chiese. Un terzo settore in espansione era quello tessile. Nel periodo compreso fra i primi decenni dell’XI secolo e la metà del XII, stimolata dall’esistenza di una tradizione artigianale risalente all’epoca romana, dalla disponibilità di lana e da innovazioni tecnologiche, come la messa a punto del telaio "orizzontale", si affermò, nelle Fiandre e nell’Artois, un’industria dei panni di lana decisamente orientata verso l’esportazione. In Italia, gli inizi della produzione tessile cittadina sembrano invece legati al cotone. Laboratori per la produzione dei fustagni, alimentati dalla materia prima che Venezia importava dal Levante, esistevano a Pavia, Cremona e Piacenza già nell’XI secolo. Quanto alla lana, la fabbricazione di panni leggeri è menzionata a Genova, Lucca e Pisa negli anni 1120-1130 e, in Lombardia, verso la metà del secolo.
Dalla fine del XII secolo, la produzione di beni non agricoli si inserì più decisamente nelle economie urbane, allora in pieno rigoglio, organizzandosi in corporazioni. Ogni centro, piccolo o grande che fosse, vide la crescita di attività simili, tese a soddisfare, con un’articolata varietà di beni e di servizi, la domanda del mercato locale, cosicché, nelle città maggiori, si arrivarono a contare anche 100-150 differenti mestieri. Nello stesso tempo, tuttavia, alcune città intrapresero o perfezionarono produzioni più specializzate, i cui articoli erano destinati ad alimentare un commercio di raggio più vasto. Milano, per esempio, esportava le sue armature in tutta Europa e Pisa era una vera e propria capitale della lavorazione del cuoio. Il settore, in cui l’orientamento verso il mercato esterno era più deciso, restava comunque quello tessile. Se nei secoli XI e XII si era costituita la grande regione laniera fiamminga, il Duecento vide la crescita di una seconda importante area tessile: quella dell’Italia centro-settentrionale, imperniata sulle città padane (Milano, Como e Verona innanzitutto) e, dalla fine del secolo, su Firenze. Alla base di tale decollo, vi furono la disponibilità di capitali accumulati grazie all’attività commerciale e all’esistenza di una rete di rapporti economici con l’Europa continentale e mediterranea. Ciò consentiva un facile reperimento della lana e la possibilità di vendere i panni su mercati anche lontani. L’importanza del vestiario nella scala dei bisogni fondamentali dell’uomo medievale determinò anche il rafforzamento di altre industrie tessili, prima fra tutte, quella del cotone. Nel XIII secolo, essa era quasi un’esclusività dell’Italia settentrionale e, solo a partire dai primi decenni del Trecento, si diffuse nell’Europa centrale e soprattutto in Germania. Molto più lenta fu invece l’affermazione della seta, che, sebbene già introdotta dagli Arabi in Sicilia e in Spagna, nel XIII secolo trovava la sua principale capitale occidentale in Lucca, da dove si irradiò più tardi nelle città del Nord-Italia.
Il mondo della produzione urbana appare indissolubilmente legato all’artigiano e alla sua bottega. L’artigianato può essere definito come la forma di organizzazione industriale nella quale un lavoratore specializzato, dotato cioè di uno specifico sapere tecnico, produceva beni di consumo destinati ad una clientela più o meno vasta. La sua caratteristica principale era quella di fornire sia la propria capacità di lavoro sia il capitale necessario allo svolgimento della sua attività, per quanto modesto esso fosse in taluni mestieri. Tale era il fabbro, il calzolaio, il sarto, il tessitore, l’orafo, il fornaio. Nella bottega artigiana, lavorava talvolta qualche membro della famiglia e, non raramente, almeno un aiutante esterno. Il reclutamento e l’addestramento di questo personale avvenivano principalmente attraverso il peculiare sistema dell’apprendistato, un periodo di formazione, alla fine del quale il discepolo era pronto per diventare a sua volta "maestro". In base ad un contratto stipulato fra l’artigiano e il padre dell’apprendista, quello che spesso era poco più di un bambino si trasferiva alle dipendenze della bottega per un numero di anni variabile in rapporto ai mestieri, ai luoghi e alle epoche. La sostanza dell’accordo stava, da un lato, nell’impegno dell’artigiano a insegnare lealmente al discepolo i segreti dell’arte e a mantenerlo, dall’altro, nella promessa di quest’ultimo di apprendere volenterosamente, di risiedere regolarmente con il maestro e di obbedirgli eseguendo ogni compito da lui stabilito. In linea di massima, l’apprendista non percepiva nessun compenso, anzi, non era raro il caso, soprattutto nel XIII secolo, che fosse il padre a dover sborsare una somma affinché il figlio fosse ammesso nella bottega. Al di là di queste differenze, il periodo di discepolato era sempre più lungo di quanto sarebbe stato effettivamente necessario: era interesse dell’artigiano, infatti, prolungare la permanenza dell’apprendista nella bottega, perché, una volta completata la sua formazione, questi era un valido aiutante a basso costo.
Nei secoli XIII-XIV, vi erano in Europa regioni nelle quali esistevano vere e proprie costellazioni di città tessili: tali erano l’area fiammingo-brabantese, l’Italia centro-settentrionale e l’Inghilterra. Qui la produzione avveniva su grande scala e impegnava migliaia di lavoratori. A Bruges, nel 1340, i tessili costituivano quasi il 40% di tutti gli occupati, e questa percentuale saliva ad oltre il 50% nella vicina Ypres all’inizio del XV secolo; a Firenze, verso la fine del Trecento, la sola manifattura laniera assorbiva il 35-40% dell’intera popolazione attiva. In queste città dalla spiccata fisionomia industriale, dove la fabbricazione di stoffe di qualità medio-alta implicava l’esistenza di un processo tecnologico lungo e complesso ed era essenzialmente finalizzata all’esportazione, aveva preso piede un modello di organizzazione del lavoro distinto dall’artigianato tradizionale: la cosiddetta "industria disseminata". Come indica la stessa espressione, le diverse operazioni del ciclo tessile (variamente articolate secondo la natura delle fibre) non si svolgevano in un’unica sede di produzione, ma in tutta una serie di botteghe, abitazioni e laboratori, gestiti ognuno da un artigiano. L'elemento di raccordo era costituito dal mercante-imprenditore, che gestiva il processo di trasformazione in tutti i suoi momenti. È evidente che in questo sistema l’autonomia degli artigiani veniva ad essere seriamente limitata. In contrasto con quanto accadeva per esempio ai fornai, ai fabbri, ai calzolai, proprietari dei loro strumenti e del prodotto della propria fatica, liberi di crearsi una propria clientela e di riunirsi in corporazioni autonome, i lavoratori "a fase" del settore tessile erano costretti a prestare la loro opera essenzialmente per il mercante-imprenditore e ad obbedire alle associazioni da questi create. Per quanto trovasse il suo luogo di elezione nelle attività tessili, l’industria disseminata interessava anche settori come la lavorazione dei pellami e dei metalli: era il caso della fabbricazione dei coltelli, dei chiodi, delle ferramenta in Normandia e nella Champagne o della produzione di strumenti di precisione a Colonia.
Con la seconda metà del XII secolo e, più ancora, nel XIII, la maggior parte dei mestieri presenti nelle città dell’Europa occidentale si riunì in corporazioni. La nascita di queste organizzazioni (dette Arti in Italia, Metiers o Guilde in Francia e nelle Fiandre, Guilds in Inghilterra, Gremios in Spagna) deve essere inquadrata nella più generale tendenza alla creazione di strutture associative che aveva trovato la sua massima espressione nella formazione dei comuni. Come i comuni, infatti, le corporazioni erano il risultato di patti giurati, stipulati fra individui che esercitavano lo stesso mestiere e che sentivano l’esigenza di unirsi per tutelare i propri interessi. Pur con differenze notevoli secondo i tempi e i luoghi, si trattava di organismi che vantavano una loro sfera di autonomia: possedevano, infatti, beni propri e svolgevano una loro attività legislativa; inoltre, esercitavano la loro giurisdizione sugli iscritti, i quali erano tenuti a sottoporvisi e ad accettare le sentenze di appositi magistrati. Organismi apparentemente egualitari, le corporazioni accettavano come membri effettivi esclusivamente gli artigiani propriamente detti, mentre apprendisti e lavoranti ne restavano esclusi; fra gli stessi "maestri", naturalmente, erano i più facoltosi a monopolizzare le cariche di effettiva responsabilità. Nonostante questo, la politica corporativa tendeva a difendere il complesso degli associati su un punto fondamentale: l’affermazione del monopolio nell'esercizio del mestiere contro i produttori esterni. Altri obiettivi della politica corporativa erano quelli di regolare e ridurre la concorrenza fra i diversi maestri e di controllare, attraverso il disciplinamento dell’istituto dell’apprendistato, la formazione dei nuovi artigiani. Non bisogna, inoltre, dimenticare che le corporazioni non erano istituzioni di carattere puramente economico, ma associazioni che promuovevano anche la solidarietà e l’assistenza fra i propri membri, nonché la realizzazione di opere di carità collettiva e l’organizzazione del culto religioso.