Gli stati regionali in Italia

Signorie e principati

Anche se si usa collocare il sorgere della signoria nel tardo Trecento, in realtà, proprio per le caratteristiche stesse dell’istituzione comunale, l’ascesa al potere di signori più o meno effimeri inizia assai prima, sin dal Duecento. Il comune non è un’istituzione democratica, ma l’espressione organizzata del potere di gruppi costituiti, che spesso si identificano con le corporazioni artigiane e commerciali, su altre componenti della cittadinanza. Di rado la sua esistenza si basa su fondamenti giuridici certi: al contrario, al momento della crisi, l’instaurarsi di poteri di fatto sarà facilitato proprio dall’informalità della costituzione comunale, che rende facile aggirarne i vincoli.

In effetti, i comuni, che sono riusciti a battere l’impero e i feudatari che ne volevano soffocare l’esistenza, trovano il proprio peggior nemico in se stessi: rivalità reciproche e lotte interne, culminate nella sanguinosa contesa fra guelfi e ghibellini, li dilaniano in permanenza, ingenerando l’insicurezza politica e la paralisi delle attività economiche. Per ripristinare la normalità, nascono signorie di fatto, tacitamente avallate dalle parti, affidate a esponenti di famiglie prestigiose o ad abili avventurieri.

I nuovi signori, finché i tempi lo rendono necessario, s’affrettano a cercare il riconoscimento imperiale o papale della propria investitura, mentre in seguito ne faranno tranquillamente a meno. I nuovi poteri si consolidano: l’intervenuta pacificazione favorisce la ripresa dei traffici e delle industrie cittadine. L’ambizione dei signori d’imporre la propria egemonia sulle città vicine fa nascere stati di dimensione regionale: la signoria si trasforma allora in principato.

Genova e il Piemonte

Antica repubblica marinara, tradizionale rivale di Venezia, Genova prospera grazie ai traffici col vicino Oriente, assicurati e potenziati da una capillare rete commerciale. Nel Trecento però inizia per la città un lento declino: la repubblica è lacerata dalle lotte fra popolo grasso e aristocrazia, a sua volta divisa in guelfi (Fieschi e Grimaldi) e ghibellini (Doria e Spinola), che, a differenza di quanto accade in altre città italiane, è legata anch’essa al commercio e ai traffici. Il malcontento popolare antipatrizio esplode nel 1339, con l’acclamazione a "doge" di Simon Boccanegra, il primo di una serie di "dogi perpetui" protrattasi sino al 1528.

Il perdurare dell’instabilità politica, acuita dalle pressioni francesi e viscontee (Filippo Maria Visconti riuscirà ad impadronirsi della città per un breve periodo), finirà per favorire l’ascesa di Andrea Doria (1468-1560), che instaura un regime rigidamente aristocratico, che dura sino al 1528.

Analogamente a quanto accade in altre regioni dell’Italia settentrionale, in Piemonte, coi conti di Savoia e i marchesi del Monferrato, si afferma la signoria di carattere feudale: un feudatario conquista (o riacquista) il controllo di un territorio in cui in precedenza alcune città si erano temporaneamente emancipate (l’unica che riesca a mantenersi autonoma è Asti).

La dinastia dei Savoia, di origine borgognona, inizia nel XIII secolo con Amedeo V (1285-1323), detto il Conte grande: tuttavia solo nel Trecento essa comincia ad ingrandire i propri domini, grazie ad Amedeo V (1285-1323), il conte Verde, che ottiene, nel 1365, il titolo di vicario imperiale. Il figlio Amedeo VII (1383-1391), il conte Rosso, riesce ad espandere ulteriormente i propri possedimenti, annettendosi Nizza e guadagnando così uno sbocco sul mare.

Amedeo VIII (1391-1451) riesce a far suo gran parte del Piemonte e ottiene dall’imperatore Sigismondo il titolo di duca di Savoia (1416) e quindi di Piemonte (1418). Dopo la sua morte, però, lo stato conosce un lungo periodo di crisi e decadenza, sino alla metà del XVI secolo.

Venezia

Annidata nella sua laguna, Venezia non conosce il travaglio che accompagna il passaggio dai comuni alle signorie. Sin dal Duecento, la Serenissima si è data una costituzione oligarchica che riserva a una ristretta cerchia di facoltose famiglie, come i Bembo, i Contarini, i Donà, i Foscari, i Loredan e i Mocenigo, gelose dei propri privilegi, il diritto d’accedere al Maggior Consiglio, supremo organo di governo che elegge il doge.

Il popolo non ha voce nel governo della Serenissima: i rari tentativi di modificare questa situazione vengono brutalmente repressi. Oltre a sviluppare i commerci col Levante, occupando la costa dalmata e fondando avamposti e colonie dall’arcipelago greco al Mar Nero, la repubblica, ottenuta Treviso nel 1339, prende a formare nell’entroterra — la terraferma — un potente stato, che nel giro d’un secolo assumerà dimensioni considerevoli, grazie soprattutto alla politica intrapresa dal doge Francesco Foscari.

La competizione con Genova per il dominio sui traffici marittimi sfocia in aperta ostilità (1351-55), seguita da un secondo conflitto, detto la "guerra di Chioggia" dal nome della cittadina lagunare caduta in mano dei genovesi, alleati dei Da Carrara di Padova, dei re d’Ungheria e di Napoli e del patriarca d’Aquileia.

Venezia, pur provata, riesce a trarsi d’impaccio grazie all’abilità del vecchio ammiraglio Vettor Pisani (1324-1380), che impone ai genovesi la pace di Torino, sottoscritta grazie alla mediazione di Amedeo d’Aosta. Pur perdendo la Dalmazia, Treviso, Belluno e Feltre, in breve la repubblica può riprendere la propria politica d’espansione, mentre Genova esce malconcia dal conflitto.

L’aggressiva politica di Gian Galeazzo Visconti, che dilaga nella pianura padana e oltre l’Appennino, impensierisce la Serenissima, che con Firenze s’erge a contrastare le mire del duca di Milano. Alla sua morte, nel 1402, Venezia approfitta per accentuare la propria penetrazione nell’entroterra: conquistate Padova e Verona nel 1405, torna ad occupare tutto il Veneto, sottraendo il Friuli al patriarca di Aquileia: riconquistata la Dalmazia, sottrae all’Austria anche l’Istria e il Cadore.

Francesco Foscari e l'espansionismo veneziano

Il più deciso sostenitore dell’espansione di Venezia nella terraferma è il doge Francesco Foscari, eletto nel 1423. Avversario dell’aristocrazia mercantile, capo del partito dei "nobili poveri", estromessi dal potere come dai lucrosi traffici marittimi e affamati di conquiste nell’entroterra, porterà l’anello dogarile sino al 1457, conoscendo trionfi e amarezze.

Una volta eletto, a scapito dell’ammiraglio Loredan, della cui famiglia s’attira l’implacabile odio, instaura un potere di tipo personale, abbagliando i cittadini con feste e spettacoli di straordinaria magnificenza ed erigendo nuovi monumenti, fra cui la sala del Maggior consiglio ed il ponte di Rialto. Profittando dei servigi di Francesco di Bussone, l’abile condottiero noto come il Carmagnola, muove guerra ai Visconti con l’aiuto di Firenze: nel 1426 gli eserciti veneziani riportano la vittoria di Maclodio, seguita, nel 1428, dalla pace di Ferrara che costringe Filippo Maria Visconti a cedere Bergamo e Brescia.

Le ostilità però si trascinano e il Carmagnola pare esitare nel portare il colpo finale: i veneziani, temendone il tradimento, lo eliminano nel 1432. Nel frattempo la minaccia ottomana si fa pressante. Il doge è accusato di non adoperarsi per impedire lo sfacelo dell’impero romano d’Oriente sotto i colpi dei turchi: osteggiato dagli aristocratici, Foscari offre le proprie dimissioni, ma queste sono respinte.

I suoi nemici, sostenitori della politica del Levante, cercano di minarne la risolutezza colpendolo negli affetti familiari: il figlio Jacopo, falsamente accusato di tradimento dall’onnipotente consiglio dei Dieci, avverso al Foscari, è esiliato a Creta, dove morirà gettando il vecchio padre, impotente, nello strazio.

Frattanto le conquiste nell’entroterra hanno irrobustito Venezia, trasformandola nello stato che può sostituirsi a quello visconteo nell’ambire alla signoria sull’Italia intera: ciò spinge, dopo il 1450, Firenze a passare in campo milanese, sostenendo la signoria sforzesca sino alla pace di Lodi del 1454, con cui l’annosa guerra si conclude per sfinimento, mentre Venezia ospita i patrizi e gli studiosi scampati l’anno precedente alla caduta di Costantinopoli.

Nel 1457 Francesco Foscari è costretto ad abdicare: una settimana dopo la propria deposizione muore fra il cordoglio dei veneziani, onorato con solenni funerali di stato proprio dagli avversari che ne hanno determinato la caduta.

La pianura padana e il centro

Nella pianura padana e nelle regioni orientali dell’arco appenninico prevalgono le signorie d’origine comunale, ossia originatesi come naturale sbocco della crisi del comune: i Torriani e poi i Visconti a Milano, gli Scaligeri a Verona, i Da Carrara, o Carraresi, a Padova, i Da Camino a Treviso, i Bonacolsi e quindi i Gonzaga a Mantova. L’Emilia vede affermarsi i Pepoli e i Bentivoglio a Bologna, gli Estensi a Ferrara, i Da Polenta a Ravenna; la Romagna gli Ordelaffi a Forlì e Imola, i Malatesta a Rimini; le Marche infine i Montefeltro a Urbino e i Da Varano a Camerino.

La signoria degli Scaligeri a Verona, affermatasi fra le seconda metà del XIII secolo e la prima metà del successivo, esprime in Cangrande della Scala (1311-1329) uno dei più potenti capi ghibellini d’Italia, cui Dante dedica il Paradiso. Coi successori la potenza scaligera s’estende su Brescia, Parma, Piacenza e Lucca: una lega animata da Milano e Firenze, cui aderiscono Mantova e Venezia, ridimensiona però fortemente i possedimenti di Mastino II, riducendoli alle sole Verona e Vicenza (1341). In seguito, Verona cadrà sotto il dominio di Venezia (1405).

Gli Estensi, dal canto loro, sono padroni di Ferrara dal XIII al XV secolo: Azzo d’Este è acclamato signore dai ferraresi nel 1208 e dà vita alla dinastia che avrà nel marchese Obizzo (1264-93) colui che estenderà i domini dello stato estense sino a Modena e Reggio. Stretta fra Venezia e Milano, insidiata dalle mire dei pontefici, Ferrara diverrà comunque una delle capitali del Rinascimento, centro d’una cultura letteraria e artistica di primo piano. Borso d’Este, del quale parliamo anche a proposito delle capitali del Rinascimento, trasforma la signoria in principato: gli Estensi riceveranno una doppia investitura, da parte dell’imperatore, quali duchi di Modena e Reggio (1452), da parte del papa, quali duchi di Ferrara (1471). Dalla nomina papale dipendono anche i Bentivoglio di Bologna, i Montefeltro d’Urbino, i Malatesta di Rimini e i Baglioni di Perugia.

A Ferrara, la corte di Borso è illuminata dalla presenza di Guarino Veronese (1374-1460), del quale parleremo anche a proposito della pedagogia dell’Umanesimo. Lo stesso accade alla corte di Mantova grazie a Vittorino da Feltre (1378-1446), maestro insuperabile e vero lustro della città, ove concorrono sapienti e studiosi. Il potere dei Gonzaga su Mantova data dal 1328, quando il ghibellino Luigi I, con l’aiuto di Cangrande della Scala, s’impadronisce del potere ai danni dei rivali Bonacolsi: nel 1433 l’imperatore Sigismondo li nomina marchesi.

Lo Stato pontificio e il Meridione

I pontefici cattolici, come abbiamo visto a proposito della fine della cattività avignonese (1377) e delle imprese del cardinale Albornoz, sono impegnati sul duplice fronte politico e teologico, lottando per consolidare definitivamente nei territori del "Patrimonio di Pietro" il proprio potere, minato dallo scisma d’Occidente, quando due o persino tre papi si contendono le chiavi di Pietro.

Il concilio di Costanza riporta la concordia con l’elezione di Martino V (1418-31): né lui né i successori riusciranno però a metter freno alle intemperanze dei baroni romani e all’irrequietezza dei signorotti delle Marche e della Romagna, dovendosi scontrare inoltre con le mire viscontee e le ambizioni fiorentine. A sud del Volturno, a cavallo tra Duecento e Trecento, gli angioini tengono il regno di Napoli, mentre la Sicilia è degli aragonesi.

Lo stato forte e centralizzato dei normanni ha lasciato il posto ad uno stato neofeudale, a causa delle ampie concessioni fatte da Carlo I d’Angiò ai gentiluomini che l’hanno seguito nella sua discesa in Italia. Nel Mezzogiorno i privilegi di un’aristocrazia latifondista che tiene sotto ricatto la corona impedisce il decollo d’una forte borghesia manifatturiera e finanziaria, sul modello delle regioni centrosettentrionali. L’amministrazione del regno angioino è per lungo tempo in mano ai banchieri fiorentini: analoga è la sorte, quanto ad arretratezza economica e sociale, della Sicilia.

Dopo la morte di Roberto d’Angiò, capo del partito guelfo in Italia, si scatena una lunga lotta per la successione, in cui s’afferma Carlo III d’Angiò Durazzo (1381-1386). L’anarchia feudale giunge al massimo sotto il regno di Giovanna d’Angiò-Durazzo (1416-1435), morta senza eredi legittimi. La lotta per la successione vede Renato d’Angiò-Valois, della famiglia reale di Francia, appoggiato dagli stati italiani, affrontare Alfonso I il Magnanimo (1416-1458), re d’Aragona, di Sicilia e Sardegna, figlio adottivo della regina defunta, in una lunga guerra (1435-1441).

In un primo tempo, Filippo Maria Visconti interviene a sostegno degli angioini, battendo Alfonso nel 1435 presso Ponza e portandolo sotto scorta a Milano. Arriva però il voltafaccia: nel 1442 Filippo Maria, che teme un’alleanza franco-angioina ai propri danni, pone Alfonso sul trono di Napoli, riunificando l’antico regno del Mezzogiorno e di Sicilia sotto la corona aragonese. L’avvento di Francesco Sforza al ducato di Milano (1450), cui ambiva anche Alfonso d’Aragona, ha l’effetto di legare Napoli a Venezia, mentre Firenze passa dalla parte dello Sforza. La pace di Lodi del 1454 pone fine alla guerra, instaurando un equilibrio fra le potenze italiane.

L'equilibrio italiano

La pace di Lodi del 1454 segna la fine del conflitto tra Venezia, il duca Lodovico di Savoia e Alfonso d’Aragona re di Napoli contro Francesco Sforza, sostenuto dalla Francia e, in una seconda fase, da Firenze. Lo Sforza è riconosciuto di fatto, in cambio di alcune concessioni territoriali, successore dei Visconti quale duca di Milano.

La pace giunge a un anno dalla fine della guerra dei Cent’anni, quando il grande potenziale bellico della monarchia francese comincia a diventare una minaccia incombente sulla penisola, e dalla caduta di Costantinopoli, quando Venezia ha bisogno di pace per poter fronteggiare la minaccia turca ai propri commerci.

Uno dei principali artefici della pace è Cosimo de’ Medici che nel 1455 riesce a promuovere la Lega italica, sottoscritta da Milano, Venezia, Firenze e Napoli e sanzionata dall’approvazione del papa. I principali stati regionali, cui gravitano intorno staterelli minori, preso atto dell’incapacità di ciascuno di essi di assumere per proprio conto il ruolo di centro d’unificazione nazionale, adottano una politica di equilibrio che garantisce lo statu quo; ognuno rinuncia a tentare di espandersi ai danni degli altri e s’impegna ad agire solidalmente con essi nei confronti delle potenze straniere, oltre a preparare la lotta contro i turchi.

Nella seconda metà del Quattrocento l’Italia godrà così di un periodo di relativa tranquillità (rafforzato nel 1480 dal rinnovo della Lega, cui aderiscono anche gli stati minori) che favorisce una prosperità economica e una fioritura culturale senza precedenti; anche se sussistono fattori perturbanti d’instabilità e di crisi, come il nepotismo papale, le insoddisfatte mire di Venezia sull’entroterra padano, la precarietà istituzionale del ducato milanese.

Garante e pernio dell’equilibrio politico sarà Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, che saprà al momento opportuno sacrificare persino l’orgoglio personale e rischiare la vita per mantenerlo; la responsabilità di romperlo toccherà invece a Ludovico il Moro, signore di Milano, che aprira le porte d’Italia a Carlo VIII nel 1494. L’invasione francese, oltre a infrangere l’equilibrio politico italiano, mette fine all’impulso vitale del Rinascimento e della sua civiltà.

Ma nei cinquant’anni in cui la pace di Lodi ha fatto sentire i propri effetti benefici la cultura e l’arte italiane hanno fatto passi da gigante; c’è maggior distanza fra l’Italia di Lorenzo il Magnifico e quella medievale che fra questa e quella romana.

Le compagnie di ventura

Anche gli eserciti medievali ricorrono all’impiego di truppe mercenarie: le prime compagnie di ventura battono l’Italia già nella seconda metà del Duecento,mentre altre valicano le Alpi nel Trecento, al seguito di Ludovico il Bavaro. Alle soglie del Rinascimento il loro impiego diviene però pressoché universale. D’altronde, per i signori italiani assoldare un esercito e un comandante mercenario ha i suoi vantaggi, dato che tiene lontani i cittadini dall’esercizio e dall’uso delle armi.

La condotta, fenomeno tipico del Quattrocento, prevede che un gruppo di armati o un singolo mercenario presti servizio a contratto per un committente, sia esso uno stato, un signore o un comandante a sua volta mercenario. L’unità basilare di combattimento è la "lancia", comprendente un armato corazzato a cavallo, l’uomo d’arme, un tiratore di balestra o d’archibugio, anch’egli a cavallo, un cavallo "leggero", vale a dire un combattente equipaggiato con un’armatura meno completa e costosa, e infine un paggio, anch’egli montato. Più lance servono sotto uno stesso capitano "di ventura", mentre questi a sua volta milita sotto l’insegna d’un comandante generale che, non di rado, è anch’egli assoldato.

Questi prende il nome di "condottiero", guadagnando spesso fama, onori e ricchezza a seconda delle sue capacità militari, ma anche di gestione economica e finanziaria. La cultura dei condottieri influenza in misura notevole strategie e tattiche militari. Sul finire del Rinascimento, l’ombra della dominazione straniera sugli stati italiani farà riflettere sull’indebolimento delle milizie cittadine, dovuto all’abuso di truppe mercenarie, nonché sulla loro efficacia.

Un soldato a pagamento è un traditore in potenza, come sottolinea il Machiavelli: non è raro il caso d’un condottiere che si rivolti contro chi l’aveva assoldato. D’altronde, fra committenti e mercenari il tradimento e il ricatto reciproco sono tacita norma.

I condottieri

Capitani coraggiosi? Forse, ma soprattutto scaltri avventurieri, abili nel profittare dell’instabilità dell’Italia dei cento stati e delle mille città, dove la guerra è all’ordine del giorno.

Anche il Medioevo dei comuni è punteggiato da un’infinità di guerre e faide: ma l’esercito civico è sovente un’accozzaglia più o meno disciplinata di cittadini improvvisatisi soldati e la guerra si risolve in scontri brevi quanto cruenti.

Col nascere delle signorie rinascimentali, man mano che gli stati divengono più vasti e ricchi, i conflitti si fanno più frequenti, prolungati e complessi: alle milizie d’artigiani e contadini subentrano soldati di professione, riuniti in compagnie di ventura, ben armati e addestrati alle nuove tattiche imposte dal progresso tecnologico, pronti a vendersi al miglior offerente, talvolta anche a guerra iniziata.

Alla loro testa, sia perché in possesso della necessaria competenza militare, sia per non affidare ad un concittadino un potere che potrebbe usare a proprio vantaggio, comandanti anch'essi assoldati, i condottieri, più o meno audaci, più o meno spietati, ma tutti uniti da un comune obiettivo: trarre il maggior profitto possibile dalla situazione.

I più celebri fra i condottieri, dai nomi tristemente famosi, sono Guarnieri di Urslingen, Montreal d’Alborno, detto Fra Moriale, e Giovanni Acuto, ossia l’inglese John Hawkwood con la sua famosa Compagnia Bianca, immortalato da Paolo Uccello nel duomo di Firenze, accanto al Niccolò da Tolentino di Andrea del Castagno.

Il primo condottiere italiano è Alberico da Barbiano, maestro di Jacopo dal Verme, cui seguono Braccio da Montone, divenuto anche signore di Perugia, Niccolò Piccinino, Muzio Attendolo Sforza, antenato di Lodovico il Moro, Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, cui Donatello dedica un celebre monumento equestre, e Francesco da Bussone, detto il Carmagnola, protagonista dell’omonima tragedia manzoniana.

Condottieri di vaglia sono i Gonzaga: fra i generali più noti, una citazione particolare merita Bartolomeo Colleoni, immortalato dal bronzo dal Verrocchio nel campo dei Santi Giovanni e Paolo in Venezia (il monumento equestre è realizzato fra il 1479 e il 1488). Questi, nato nel 1400, combatte alternativamente al soldo di Filippo Maria Visconti, di Venezia e degli Sforza.

Conquistato alla causa veneziana da un ingaggio principesco (1448), conduce campagne vittoriose nel bresciano e nel bergamasco. Dopo la pace di Lodi, i veneziani lo giubilano accordandogli una vera fortuna a mo’ di pensione: il Colleoni finirà i propri giorni mordendo il freno nel suo castello di Malpaga. Pregevole il suo monumento funebre, la cappella del Filarete eretta sul fianco destro della chiesa di Bergamo alta (1470-1475).

Del grande Federigo di Montefeltro, avversario e vincitore del Colleoni, arricchitosi ponendo se stesso e il proprio popolo al servizio del miglior offerente, parliamo diffusamente trattando delle capitali del Rinascimento. Fra i condottieri non mancano fortunati capitani: Francesco Sforza, passato disinvoltamente da un padrone all’altro, accumula sostanze e titoli, sino a impossessarsi del ducato di Milano.