In Francia, durante il Settecento, furono create nuove forme di mobilio, destinate a sopravvivere ancora oggi per tipologia e caratteristiche di uso. Non a caso, i nomi che designano molti mobili sono francesi: dalla console, tavolo da muro con alzata a specchio, al sécretaire, mobile con cassetti nascosti sul quale scrivere, dalla chaise-longue, poltrona sulla quale distendere le gambe, alla bergère, sedia con cuscino e braccioli imbottiti.
Anche nel designare il tipo ed il gusto del mobilio, è diffusa l’abitudine di ricorrere al nome del sovrano di Francia regnante all’epoca della creazione di quello stile.
Fantasiose decorazioni in bronzo cesellato, dall’andamento curvilineo ed irregolare, caratterizzano lo stile del periodo della Reggenza di Filippo d’Orléans (1715-1723) e del regno di Luigi XV, imbevuto di gusto rococò.
Alle ornamentazioni bronzee si uniscono spesso intarsi in legni pregiati, ottone, madreperla e tartaruga e non di rado si notano applicazioni in porcellana dipinta.
André-Charles Boulle (1642-1732), attivo per il Re Sole, aveva creato, alla fine del Seicento, un laboratorio di mobili che si avvaleva di un repertorio decorativo al quale si ispirò la produzione mobiliera francese della prima metà del XVIII sec., seppure semplificando il sovraccarico decorativo e apportando una maggiore libertà formale.
In pieno clima rococò, si diffusero le pubblicazioni di raccolte di disegni di mobili e di motivi ornamentali, quasi
tutte edite in Francia, nazione che per tutto il secolo restò all’avanguardia nell’evoluzione dell’arredo. Parigi fu il centro vitale della produzione del mobile. Qui era sorta la corporazione dei menuisiers-ébénistes, specializzati i primi nel lavorare il legno, i secondi nell’intarsiarlo e nell’impiallacciarlo.
Dal 1743, questi maestri artigiani erano obbligati ad imprimere il loro nome sugli oggetti prodotti.
Allo stile Luigi XV fornirono spunti decorativi le incisioni di Gilles-Marie Oppenordt (1672-1742) e di Juste-Aurèle Meissonier, esuberanti di ornamenti e pieni di congegni meccanici celati all’interno, che dovevano stupire gli amici del proprietario del mobile.
Ad esso seguirono, nel corso del secolo, lo stile Luigi XVI, che dominò dal 1775 all’età della rivoluzione, lo stile Direttorio, dal 1785 fino al 1810 e, infine, lo stile Impero, collegato al precedente, che terminò attorno al 1830.
Fondata nel 1667 col nome di Manifacture Royale des Meubles de la Couronne, la celebre arazzeria fu detta poi Gobelins dal nome di una dinastia di tintori, che fin dal Quattrocento produceva stoffe di color scarlatto e che, sotto il regno di Enrico IV, aveva iniziato a realizzare arazzi. Essa deve la sua nascita al Primo Ministro del Re Sole, Jean-Baptiste Colbert, che qui aveva voluto riunire le varie fabbriche di Parigi e di Vaux-le-Vicomte.
Inizialmente affidata alla direzione del pittore di corte Charles Le Brun, che aveva fatto trasporre in tessuto le più belle composizioni pittoriche celebranti la gloria di Luigi XIV, l’arazzeria, dopo una breve interruzione di attività, seguita alla morte di Le Brun, conobbe un nuovo momento di splendore all’inizio del Settecento.
La fabbrica si adeguò rapidamente alle esigenze ed al gusto dell’epoca, che, cessate le grandi commissioni reali, richiedevano tessuti raffinati e di forte impatto decorativo, per adornare le pareti di palazzi privati di
nobili e ricchi borghesi parigini. Eroi della mitologia, pastori dell’Arcadia e divinità olimpiche costituivano i soggetti prediletti dalla committenza, che non disdegnava pure storie bibliche e temi esotici, sull’onda della scoperta di nuove terre lontane.
Alla scelta dei temi dei cartoni da fare realizzare ai maggiori talenti pittorici del tempo, non era estraneo il gusto dei direttori dell’arazzeria, incarico nel quale si avvicendarono, tra gli altri, Jean Baptiste Oudry (1686-1756) e Boucher, che già aveva guidato la celebre manifattura di arazzi di Beauvais.
Verso la fine del secolo, i soggetti storici e didascalici della pittura furono affrontati anche negli arazzi, che tuttavia non interruppero mai la produzione di paesaggi, ritratti e scene di genere. Durante la Rivoluzione francese i Gobelins furono nominati Manifattura Nazionale.
Dal 1709, anno in cui l’alchimista Johann Friedrich Böttger ne scoprì i segreti dell’impasto, la porcellana conobbe in Europa un’epoca di straordinaria fioritura. Non vi era aristocratico che rinunciasse a possedere un piccolo oggetto di questo prezioso materiale, costosissimo ma estremamente decorativo per la brillantezza dei colori e la molteplicità delle forme in cui poteva essere modellato. Quasi tutti gli stati si dotarono di una propria manifattura di porcellane, che divenne il simbolo del potere e della sensibilità artistica di ciascun principe. Furono proprio i sovrani a promuovere inizialmente l’istituzione di queste fabbriche, a causa degli alti costi di produzione della porcellana, un composto ceramico a pasta bianca, traslucida. Nacquero così le manifatture di Meissen in Germania, di Sèvres in Francia, di Capodimonte a Napoli, di Doccia a Firenze. Più tardi si diffusero vere e proprie industrie private, come quella inglese di Wedgwood, che, grazie all’utilizzo di macchine, portarono ad una riduzione dei costi e ad una diffusione più ampia del prezioso vasellame, senza tuttavia andare a scapito della qualità artistica delle decorazioni.
Le porcellane tedesche di Meissen
Intorno al 1709, l’alchimista tedesco Johann Friedrich Böttger, gioielliere al servizio di Augusto il Forte di Sassonia, scoprì il segreto chimico della composizione della porcellana, ritenuta fin dal medioevo uno dei materiali di maggior lusso e pertanto oggetto di scambio al pari dell’oro, delle pietre preziose, delle spezie e delle sete orientali. Utilizzando il caolino sassone di Colditz, Böttger offrì al suo sovrano la possibilità di vedere realizzate creazioni ceramiche simili a quelle tanto ammirate provenienti dal lontano Oriente e acquistate, fino ad allora, a prezzi altissimi. Solo un anno più tardi, nel 1710, Augusto inaugurò, nell’Albrecthsburg, la manifattura di Meissen, la prima fabbrica europea di porcellana, scatenando una vera e propria competizione con gli altri regnanti d’Europa. Furono realizzati in questo materiale non soltanto oggetti di vasellame, ma anche intere decorazioni di sale dove, accanto a statue e vasi, comparivano mobili, specchiere, candelieri e rivestimenti di porcellana, decorata a vari colori e con un’infinità di motivi. A Meissen, lavorarono artisti come Johann Gregor Höroldt, Johann Heintze e Adam Friedrich Löwenflinck, i quali realizzarono decori di ispirazione cinese, scene di paesaggio e vedute marine nei toni dominanti dell’oro e del rosso, sostituite più tardi da vivaci scene di genere ispirate alla coeva pittura francese di Watteau e di Boucher. Lo scultore Johann Joachim Kändler modellò statuine ispirate alla vita quotidiana dalla vivace cromia, facilitato, in questo, dalla risoluzione dei problemi chimici e tecnici legati alla resa del colore nella cottura in forno ad altissima temperatura. A dispetto della segretezza che obbligava tutti i manufattori impegnati a Meissen a non divulgare la composizione della porcellana, il mistero sul materiale trapelò presto, tanto che già nel 1718 anche a Vienna veniva impiantata una fabbrica, seguita, nel corso del secolo, dalla manifattura di Berlino, di Nymphenburg in Baviera, di Höchst presso Magonza, di Ludwigsburg nel Württemberg, di Frankenthal nell’Elettorato Palatino.
La Real Fabbrica di Capodimonte
Al momento del suo arrivo a Napoli, nel 1734, Carlo di Borbone trovò una città attiva, avviata all’espansione economica e demografica e pervasa da un clima di rinnovamento culturale e artistico di respiro internazionale. Le Manifatture reali europee erano nate sulla scia delle esperienze maturate nella Francia del primo ministro Colbert, gestite con i fondi e il personale intervento del re. Le vicende della Reale Fabbrica di Porcellane si legano strettamente a queste esperienze. Fondata nel 1743, a questa data, l’organismo manifatturiero era già delineato con chiarezza e dalla fase sperimentale si poté passare a quella produttiva in un edificio nei pressi del bosco di Capodimonte. Ognuno dei diciotto artigiani ebbe il proprio compito, distribuito su sei ambiti di lavorazione: la composizione della pasta, il modellato, l’intaglio, la pittura, la cottura e la verniciatura. Un economo sovrintendeva il lavoro, regolato rigidamente, mentre una scuola di modellatura forniva mano d’opera specializzata. I sedici anni di attività della Manifattura, aperta dal 1743 al 1759, costituiscono il breve arco di tempo nel quale si esaurì una delle più importanti fabbriche italiane di porcellane, prodotto divenuto in Europa sempre più costoso a causa del monopolio delle importazioni dall’Oriente da parte dell’Olanda. Quello che oggi resta della produzione di Capodimonte è disseminato tra collezioni pubbliche e raccolte private e testimonia l’intenso fervore lavorativo di quei pochi anni. Furono realizzati interi servizi di piatti, serviti da tè e da caffè, statuine, vasi, tabacchiere, perfino lampadari e specchiere, composti di vari pezzi assemblati tra loro. Un’attività che era quindi in grado di soddisfare le più diverse esigenze della clientela e che rivela una varietà e una creatività che in Italia può confrontarsi soltanto con la Manifattura Ginori di Doccia. Le forme del vasellame, sebbene ispirate alle produzioni francesi e tedesche, assunsero caratteristiche proprie, che le resero inconfondibili dai prototipi, sapendo unire spunti dall’argenteria e dalla scultura contemporanea. Tra i maggiori plasticatori si annovera il fiorentino Giuseppe Gricci, attivo nella manifattura fin dalla sua fondazione. Fu lui che per primo approntò un modello di quelle statuette che grande fama hanno dato a Capodimonte. Soggetti sacri, profani, mitologici e letterari si uniscono ai temi galanti e tratti dalla Commedia dell’Arte, che rappresentarono i prodotti più richiesti. Nel 1759, quando ripartì per la Spagna, Carlo condusse con sé tutto l’organico della manifattura. Cessò così l’attività di Capodimonte, proseguita a Madrid nella fabbrica di porcellane del Buen Retiro.
La manifattura Ginori a Doccia
Nel 1735 il marchese Carlo Ginori, esponente di una delle famiglie nobili più illustri di Firenze, fondò a Doccia, presso Sesto Fiorentino, una manifattura di porcellane, che, di lì a pochi anni, sarebbe divenuta una delle più celebri d’Europa. Dopo anni di esperimenti, grazie anche all’esperienza del pittore Wandelein, che già lavorava nella fabbrica viennese diretta da Claudius du Paquier, il Ginori riuscì a produrre una porcellana composta da una pasta ibrida di colore grigio-azzurro, denominata "masso bastardo". Il modellatore Gaspare Bruschi realizzò complesse composizioni a tutto tondo per sontuosi servizi da tavola, a volte ispirate a note statue del passato. La produzione Ginori si allargò nel corso degli anni, comprendendo sculture di piccolo formato e un’infinita varietà di oggetti decorativi. Alla morte di Carlo Ginori, sopraggiunta nel 1757, l’attività manifatturiera fu proseguita dal figlio Lorenzo, sotto la cui direzione vennero create specchiere, cornici, capitelli, mascheroni e forme ornamentali sempre più elaborate e complesse. La moda per l’Oriente, allora dilagante, portò alla realizzazione di motivi decorativi ispirati alla Cina e al Giappone, con una preponderanza di elementi floreali e paesaggistici, impiegati soprattutto per il vasellame da tavola. Per fronteggiare la concorrenza della ceramica inglese di Wedgwood, realizzata con una terraglia assai più conveniente della porcellana, anche lo stabilimento Ginori produsse simili oggetti a buon mercato. Nel 1819 Leopoldo Carlo Ginori inventò un nuovo tipo di forno a quattro piani, che permetteva la cottura simultanea di vasellame a varie temperature, dando così un nuovo impulso alla produzione di Doccia, che continua ancora oggi la sua attività, rinomata soprattutto per gli esclusivi prodotti in porcellana decorata a mano. Il Museo attiguo allo stabilimento, oggi situato nel centro di Sesto Fiorentino, a pochi chilometri da Firenze, permette di ripercorrere la storia della manifattura attraverso gli oggetti più significativi da essa prodotti nel corso di oltre due secoli.
La manifattura di Wedgwood
Con intraprendenza e spirito imprenditoriale non comune per l’epoca, l’inglese Josiah Wedgwood (1730-1795), nato da una famiglia di vasai dello Staffordshire, avviò una produzione su scala industriale di vasellame in un materiale ceramico affine alla porcellana. Dopo avere perfezionato la durezza e la resistenza al fuoco della terraglia, costituita da una pasta bianca ricoperta di vernice piombifera, nel 1759 cominciò a produrre servizi da tavola di colore avorio, decorati con l’uso di lastre di rame per imprimere l’ornato. Dalla prima fabbrica, impiantata ad Ivy House, si trasferì presso Newcastle-under-Lyme, dove aprì la Manifattura Etruria, la cui produzione presentò per la prima volta elementi decorativi di gusto neoclassico. Le forme delle stoviglie si semplificarono, divenendo più lineari e prive spesso dell’ornamentazione dipinta. Insieme al socio Thomas Bentley, grande appassionato di arte antica e rinascimentale, nel 1774, Wedgwood ideò un nuovo impasto colorato, che denominò "diaspro", iniziando con esso a realizzare il celebre vasellame di sobria eleganza, celeste con decori in bianco, ispirato ai modelli dell’antichità. Il tentativo di emulare il vasellame greco in ceramica nera lo portò a creare i cosiddetti "basalti neri", con cui copiò vasi e cammei classici. Per Wedgwood lavorarono artisti del calibro di John Flaxman (1755-1826), raffinato interprete del neoclassicismo inglese, il quale, assieme ad altri scultori, modellò figurine e disegnò rilievi da applicare sulle superfici dei vasi, ispirati a modelli non soltanto greci e romani, ma anche egizi e etruschi.