L’unione della corona d’Italia alla corona imperiale (951) risale ai tempi di Ottone I Hohenzollern, restauratore del Sacro Romano Impero nel 962. Dopo la fine della lotta delle investiture (1125), con l’ascesa al trono imperiale di Federico I Hohenstaufen di Svevia (1152), detto il Barbarossa, inizia l’annosa vicenda che si concluderà, nella seconda metà del XIV sec., col riconoscimento da parte dell’impero dell’impossibilità d’affermare la propria autorità sulle terre italiane.
I comuni italiani, spalleggiati dal papa e da sovrani stranieri bramosi di spartirsi il Mezzogiorno, riescono ad affermare, con la forza e la perseveranza, la propria autonomia, malgrado le ripetute spedizioni del Barbarossa e lo sforzo del nipote Federico II, che riunisce temporaneamente lo scettro imperiale e la corona di Sicilia, di ovviare costruttivamente alla crisi del feudalesimo, innescata dall’affermarsi nelle città di un’economia imprenditoriale e mercantile. Dopo la cacciata degli svevi e la crisi del ghibellinismo italiano, fallisce, soprattutto per l’ostilità della guelfa Firenze, il tentativo d’Enrico del Lussemburgo (l’Arrigo VII di Dante) di restaurare l’autorità imperiale sull’Italia. Alla sua morte, nel 1313, il re di Napoli, Roberto d’Angiò, dichiarando solennemente che si può fare a meno dell’impero, registra un’opinione assai diffusa e annunzia il declino dell’universalismo feudale.
La successione ad Enrico VII segna un’ulteriore indebolimento dell’impero, insanguinato per otto anni dal conflitto che oppone i due pretendenti, Federico d’Asburgo e Ludovico il Bavaro, che trionfa nella battaglia di Muhldorf (1322). Nel frattempo, da Avignone, il pontefice Giovanni XXII si adopera affinché la crisi imperiale si protragga più a lungo possibile: lo scopo è aver mano libera in Italia e restaurare lo Stato della Chiesa per mezzo del nipote, Bertrando dal Poggetto.
Contro i disegni pontifici, accanto ai comuni marchigiani, umbri, emiliani e romagnoli, si battono i Pepoli di Bologna, i Da Polenta di Ravenna, i Montefeltro d’Urbino, gli Ordelaffi di Forlì e i Da Varano di Camerino, nonché la nobiltà romana.
Nel 1327 Ludovico il Bavaro, scomunicato dal Papa, scende a sua volta in Italia per farvisi incoronare, con l’avallo ideologico di Marsilio da Padova che gli dedica il Defensor Pacis: ma, affrontato dalle armate guelfe comandate da Roberto d’Angiò, è costretto a rientrare in Germania. Anche Giovanni di Boemia, figlio d’Enrico VII, scende in Italia verso il 1330, chiamatovi da alcune città in odio ad altre, ed è nominato da Giovanni XXII vicario imperiale: ma è scacciato da signori e comuni uniti nella Lega di Castelbaldo (1331).
Di lì a poco, fallito il tentativo di restaurare il potere temporale dei papi, anche Bertrando del Poggetto, scacciato da un’insurrezione generale, lascia l’Italia per riparare presso la corte pontificia d’Avignone.
Allo scopo di sottrarre l’autorità imperiale all’arbitrio dei pontefici, vassalli del re di Francia, la dieta di Rense (1338) stabilisce che la nomina dell’imperatore spetti solo ai principi tedeschi, senza bisogno del consenso del papa: la dieta di Francoforte ribadisce poi che l’autorità imperiale deriva direttamente da Dio e non ha bisogno di ratifica papale.
L’impero inizia ad assumere connotazioni esclusivamente germaniche e rinunzia di fatto ai propri diritti feudali sull’Italia, limitandosi ad esercitarli per arricchirsi, vendendo la carica di vicario imperiale ai signori italiani, fra i quali gli Estensi, i Visconti e il duca di Lucca, Castruccio Castracani.
Infine, alla morte di Ludovico il Bavaro (1347), sale al trono Carlo IV di Lussemburgo: dopo essere disceso in Italia nel 1355, constatata la definitiva impossibilità di restaurarvi il potere imperiale, promulga, nel 1356, nelle diete di Norimberga e Metz la Bolla d’Oro, così detta dal sigillo aureo che il documento reca in calce. Essa definisce le nuove modalità dell’elezione imperiale, coordinata dall’arcivescovo di Magonza: gli elettori sono sette, tre religiosi (arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia) e quattro laici (conte di Renania, duca di Sassonia, marchese di Brandeburgo e re di Boemia).
L’autorità pontificia non è più necessaria per legittimare l’imperatore: l’impero muta natura, riconoscendo diritti speciali a sette principi e assume caratteristiche orientate decisamente in senso nazionale tedesco. Questo passaggio istituzionale segna la fine dell’universalismo medievale.
L’impero ha perduto il proprio giardino: per due secoli ha lottato invano per imporre ai comuni d’Italia la propria potestà, ulteriormente minata dalla politica teocratica del papato che, affermando il primato del pontefice romano, massima autorità spirituale, su qualsiasi altro potere temporale, ha preteso di farne l’arbitro dell’incoronazione imperiale.
Così, alla metà del Trecento, dopo decenni di guerre e di sanguinose lotte per la successione, approfittando della crisi del papato e della cattività avignonese, Carlo IV riforma la procedura dell’elezione imperiale, codificandola nella Bolla d’oro che esclude la necessità dell’avallo papale quale sanzione della legittimità dell’incoronazione.
Nel contempo però, preso atto del fallimento delle discese in Italia dei predecessori Enrico VII e Ludovico il Bavaro, rinunzia a ripristinare un dominio effettivo a sud delle Alpi: l’impero abdica di fatto alla propria originaria vocazione d’autorità universale e sovranazionale, pur mantenendo formalmente un diritto feudale sulle terre italiane.
La germanizzazione dell’impero, il cui potere reale si limita ai territori tedeschi e limitrofi, favorisce così il nascere e il consolidarsi in Italia di signorie e principati.
L’ideologia teocratica, facendo prevalere gl’interessi materiali e mondani sui fini spirituali della Chiesa, è foriera di funeste conseguenze. La grave crisi del papato, culminata nella cattività avignonese, inizia nel 1302: Filippo il Bello, re di Francia, si sostituisce all’impero vacillante nel contrastare il potere dei papi e rifiuta ogni subordinazione all’autorità pontificia.
Bonifacio VIII, fiero assertore della supremazia papale, in un estremo tentativo di rivitalizzare la politica teocratica d’Innocenzo III, si trova ad affrontare un avversario di tipo nuovo: non l’imperatore, soggetto agli umori dei propri elettori, ma il sovrano d’uno stato forte che ambisce ad assumere dimensione nazionale, pronto a difendere ad ogni costo la propria autonomia, anche mettendo in discussione i principi del sistema feudale, tra cui le prerogative ecclesiastiche.
Filippo il Bello, infatti, impone tasse ai religiosi, violandone i privilegi e provocando la reazione del pontefice. Lo scontro si fa sempre più aspro, riflettendosi anche in campo ideologico: alle tesi d’Egidio Romano, sostenitore della supremazia pontificia, si contrappone la dottrina di Giovanni da Parigi, fautore dell’indipendenza del potere regio dalla sanzione papale.
La situazione culmina nel sequestro di Bonifacio VIII ad Anagni da parte di Guglielmo di Nogaret, a capo d’un manipolo di francesi, e di Sciarra Colonna (7 settembre 1303): di lì a poco, prostrato dall’affronto, Bonifacio muore (12 ottobre 1303). Dopo il brevissimo pontificato di Benedetto XI, al termine di contrasti protrattisi per mesi, il conclave elegge Clemente V (1305-1314), al secolo Bertrand de Got, arcivescovo di Bordeaux, che dalla sua sede non intende trasferirsi a Roma, malgrado gli appelli dei vescovi italiani.
Dal 1305 il papato è di fatto sotto il controllo della corona francese: una situazione sanzionata da Giovanni XXII (1316-1334) col trasferimento della sede papale da Roma ad Avignone, in Provenza, nello splendido palazzo dei papi. Inizia la "cattività avignonese", così detta in ricordo della biblica cattività di Babilonia del popolo ebraico.
Gli intrighi e i complotti che avviliscono la corte papale fanno tuonare il Petrarca: "Fontana di dolore, albergo d’ira/ scòla d’errori e templo d’eresia/ già Roma, or Babilonia falsa e ria,/ per cui tanto si piange e si sospira;/ o fucina d’inganni o pregion dira,/ ove 'l ben mòre e 'l mal si nutre e cria,/ di vivi inferno, un gran miracol fia/ se Cristo teco al fine non s’adira." Nel frattempo, in Italia, molti comuni delle regioni appartenenti al cosiddetto "Patrimonio di Pietro" si proclamano autonomi, al pari d’alcuni signori locali, bramosi di profittare della situazione per affermare il proprio potere personale.
Roma stessa è dilaniata dalla lotta fra le fazioni capeggiate dalle nobili famiglie degli Orsini e dei Colonna: del malcontento popolare si fa interprete Cola di Rienzo, attuando uno sfortunato tentativo d’instaurare la repubblica. Eletto nel 1352, Innocenzo VI è deciso a restaurare il potere della Chiesa sui territori italiani, mentre personalità come il Petrarca stesso e santa Caterina da Siena lo incitano a riprender possesso della cattedra romana. Grazie all’abilità e alla forza dell’Albornoz, Innocenzo intraprende la riconquista dei domini ecclesiastici, rintuzzando l’espansionismo visconteo e le ambizioni dei signorotti locali.
A contrastare le mire pontificie v’è anche Firenze, alleata coi Visconti di Milano, sulla quale il papa non nasconde le proprie mire: scoppia la guerra detta "degli Otto Santi" (1375-78). Preoccupato per l’andamento del conflitto, il successore d’Innocenzo, Gregorio XI, decide nel 1377 di riportare la sede pontificia a Roma, data anche la situazione critica in cui versa il regno di Francia a causa della guerra dei Cent’anni.
L’inevitabile contrasto scoppiato alla morte di Gregorio fra i cardinali francesi e quelli d’altre nazioni sfocia nello scisma d’Occidente, sanato solo dopo decenni di lacerazioni e reciproche scomuniche. Pur avendo riguadagnato la propria sede naturale, a causa dello scisma la Chiesa perde anch’essa definitivamente, al pari dell’impero, ogni credibilità quale istituzione universale.
La vicenda di Cola di Rienzo è la dimostrazione della forza del mito di Roma antica anche nel tramonto del Medioevo. Nicola di Lorenzo vede la luce nel 1313 nell’Urbe abbandonata dal papa, in cattività ad Avignone, e dilaniata dalle lotte fra Orsini e Colonna, nominalmente avversari in quanto rispettivamente guelfi e ghibellini, in realtà desiderosi di signoreggiare indisturbati sulla città.
Infatuato di storia antica, nel maggio del 1347, con l’assenso del popolo stremato e del pontefice Clemente VI, il giovane popolano riesce a instaurare nella città eterna un regime di stampo comunale e di tendenza antiaristocratica, facendosene nominare "tribuno" con poteri dittatoriali.
Cola osteggia lo strapotere delle grandi consorterie, esilia i più turbolenti fra Orsini e Colonna, fa abbattere le fortificazioni private e ristabilisce l’ordine e la sicurezza, improntando a maggior equità l’amministrazione della giustizia e l’esazione fiscale. Le sue ambizioni autonomistiche, nutrite del sogno di ripristinare le antiche virtù latine e la grandezza di Roma, col quale pare precorrere il culto umanistico per l’antichità classica, si scontrano però coi disegni del papa, del re di Francia e dell’impero: perduto il consenso popolare per le macchinazioni dei potenti, Cola è costretto alla fuga, spingendosi sino a Praga per indurre l’imperatore Carlo IV a intervenire in Italia.
Arrestato, è tradotto ad Avignone, dove subisce un trattamento mite grazie anche all’interessamento di Francesco Petrarca, suo sostenitore e convinto ammiratore anch’egli della passata grandezza romana: in Cola alcuni vogliono vedere il destinatario della famosa canzone patriottica petrarchesca Spirto gentil.
Il poeta lo incoraggia come il solo che possa restituire alla città guerriera e imperiale la passata dignità: "che se .‘l popol di Marte/ devesse al proprio onore alzar mai gli occhi/ parmi pur ch’a’ tuoi dì la grazia tocchi". Nel 1354 il pontefice Innocenzo VI nomina Cola senatore di Roma, nella speranza che il popolano gli spiani la via per la restaurazione della propria autorità in Italia.
Cola, rientrato a Roma il 1° agosto, urta contro l’opposizione feroce dei Colonna, degli Orsini e degli altri aristocratici, mentre il popolo si mostra tiepido: i sentimenti della plebe romana si raffreddano vieppiù allorché Cola impone pesanti tasse per finanziare il reclutamento di mercenari necessari a contrastare le bande armate degli aristocratici.
Una rivolta popolare, istigata dai nobili, sancisce la sua fine: l’8 ottobre del 1354, mentre tenta la fuga, Cola è raggiunto e ucciso ai piedi della scalinata del Campidoglio. Il suo corpo è arso nel Campo Marzio e le ceneri disperse al vento.
La cattività avignonese dei pontefici romani rappresenta il culmine della gravissima crisi attraversata nel Trecento dal papato, perdente nel secolare conflitto per la supremazia fra potere laico e potere religioso.
I vicari di Pietro sono costretti ad inchinarsi al volere di Filippo il Bello, re di Francia, e dei suoi successori, che mirano ad unificare il paese e a rafforzare la corona, prefigurando la formazione d’uno stato nazionale, e che non tollerano quindi interferenze di sorta alla propria autorità.
La crisi del papato, contemporanea a quella, altrettanto profonda, attraversata dall’impero, oltre a lederne il potere temporale, ne incrina l’immagine di suprema potestà spirituale della cristianità.
La permanenza del pontefice e della curia in terra francese dura oltre settant’anni: iniziata di fatto con Clemente V, è ufficializzata da Giovanni XXII col trasferimento della sede pontificia in Avignone.
Toccherà a Gregorio XI, preoccupato soprattutto di non perdere il controllo sui domini ecclesiastici in Italia, il cosiddetto Stato della Chiesa, riacquisito dal predecessore Innocenzo VI, grazie al cardinale Albornoz, porre fine alla cattività avignonese: col ritorno a Roma, la Chiesa pare recuperare la propria autonomia e la propria dignità sovrana.
Tuttavia la decisione di Gregorio, dividendo i cardinali francesi e italiani, scatena lo scisma d’Occidente, che per circa quarant’anni lacererà il mondo cattolico.