I brani inseriti tra le due righe con un carattere più piccolo sono tratti dall'intervista su Aristotele rilasciata alla Rai da Hans Georg Gadamer, uno dei massimi filosofi del '900.
Aristotele nacque nel 384 a Stagira. Il padre Nicomaco era stato medico personale del re Aminta II di Macedonia.
Rimasto orfano di padre in giovane età, Aristotele entrò nel 367 nell'Accademia di Platone. Aveva allora diciassette anni.
Quando nel 347 muore Platone, Aristotele ha trentasette anni.
Speusippo diviene scolarca dell'Accademia e Aristotele insieme a Senocrate (che otto anni dopo succederà a Speusippo) lascia Atene e si dirige ad Asso, ove esiste un'altra scuola e comunità platonica.
È probabile che questa defezione sia segno delle spaccature già evidenti nell'Accademia.
I principali esponenti della scuola erano infatti in disaccordo tra loro e forse Aristotele e Senocrate si sentirono tra loro più vicini rispetto a Speusippo, sotto la cui guida non intendevano rimanere.
Ad Asso Aristotele rimane tre anni, divenendo intimo amico di Ermia, tiranno di Atarneo, del quale sposa la nipote Pizia.
Ermia aveva concesso ai suoi sudditi una costituzione ispirata alle idee politiche dell' Accademia di Platone, ottenendo molto successo e suscitando le gelosie dei vicini persiani, ai quali era invisa l'accresciuta potenza e fama di Atarneo.
Nel 343 Aristotele rompe definitivamente con gli accademici e apre una sua scuola a Lesbo, nell'isola di Mitilene.
È già al suo fianco il fedele discepolo Teofrasto.
L'anno seguente, il 342, Filippo II re di Macedonia chiama Aristotele alla sua corte per affidargli l'educazione del giovane Alessandro, suo figlio ed erede al trono.
Giunto in Macedonia, Aristotele apprende che Ermia, attirato in un tranello, è stato torturato e ucciso dai persiani.
Anche a seguito di questa dolorosa sventura, Aristotele educherà Alessandro incitandolo alla causa panellenica, cioè a realizzare l'unione politica di tutta la Grecia come base di una grande campagna di conquista rivolta all'impero persiano.
Nel 335, dopo dodici anni di assenza, Aristotele torna ad Atene.
È sui cinquant'anni. Tre anni prima Filippo II aveva sottomesso la Grecia, definitivamente sconfitta nella battaglia di Cheronea.
Ma due anni dopo Filippo II muore assassinato per una congiura privata.
Sale allora al trono il giovane Alessandro, l'allievo di Aristotele.
In segno di omaggio al maestro, egli fece ricostruire Stagira, la patria di Aristotele, distrutta nel corso della guerra.
Alessandro offre inoltre un pieno appoggio finanziario per la creazione ad Atene di una nuova scuola.
La scuola di Aristotele viene edificata nel ginnasio dedicato ad Apollo Licio e prende il nome di Liceo.
Viene però chiamata anche Peripato, sia per i suoi bellissimi giardini nei quali si poteva piacevolmente passeggiare, sia forse per l'abitudine di Aristotele di tener lezione passeggiando.
Peripatetici («passeggiatori») vennero detti perciò i discepoli e gli esponenti del Liceo.
La scuola era organizzata come un vero e proprio istituto scientifico, con una grande biblioteca che costituirà il modello di tutte le biblioteche successive del mondo antico.
Vi erano inoltre un museo di scienze naturali, ricco anche di fossili, un orto botanico ecc.
I peripatetici si dividevano il lavoro secondo le competenze scientifiche, come una vera e propria équipe di ricercatori.
Nel 323, dopo aver conquistato la Persia con un'impresa leggendaria, Alessandro muore improvvisamente.
Negli ultimi anni i suoi rapporti con Aristotele si erano però raffreddati, probabilmente perché l'anziano maestro non approvava i ben noti eccessi di vita dell'ex discepolo e, soprattutto, non condivideva la sua politica.
Essa era volta ad un'integrazione tra la cultura greca e le tradizioni, le credenze e i costumi dei persiani.
Di fatto Alessandro si comportava sempre più come un grande sovrano orientale di origine divina, tradendo agli occhi di Aristotele lo spirito greco della sua impresa.
La morte di Alessandro favorisce il risorgere della fazione antimacedone ad Atene.
Il grande oratore Demostene, nemico di Filippo II (contro il quale aveva pronunciato le celebri «filippiche») e di Alessandro, viene richiamato in patria.
La posizione di Aristotele, notoriamente filomacedone, si fa delicata.
Egli viene infatti accusato di empietà, accusa che è solo un pretesto per la vendetta politica.
Aristotele si rifugia allora a Calcide, patria di sua madre, «per impedire - disse che gli Ateniesi commettessero un altro crimine contro la filosofia».
Nel 322 Aristotele muore a Calcide, a seguito di una malattia allo stomaco.
Nello stesso anno i macedoni sconfiggono nuovamente i greci.
Demostene si suicida. L'età delle libere città greche è definitivamente tramontata. Comincia l'età dell'Ellenismo.
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" Tra i membri dell’Accademia fondata da Platone c’erano molti personaggi di rilievo,… soprattutto giovani, che, grazie al dialogo educativo condotto da Platone con i suoi allievi per tutta la vita, maturarono straordinarie conoscenze e capacità. Uno di questi giovani fu Aristotele. Era figlio di un medico macedone… e studiò nell’Accademia. Di lui si racconta che un giorno, essendo malato, non prese parte a una piccola discussione di gruppo; e allora Platone avrebbe detto: «Oggi è mancato lo spirito».… In effetti, i due ebbero fin dall’inizio… un legame profondo. In seguito Aristotele diverrà celebre come critico della dottrina delle idee, anche se la principale obiezione mossa a Platone sarà introdotta da un’affermazione diventata a sua volta famosa:… «Sono amico di Platone, ma più ancora sono amico della verità». Chi fu dunque Aristotele? Dotato fin da giovane di eccellenti qualità intellettuali, iniziò presto a insegnare nell’Accademia, occupandosi soprattutto di retorica. Egli proseguì in tal modo l’opera di rivalutazione e riabilitazione della retorica avviata da Platone nel Fedro; senza dubbio, questo suo interesse particolare, testimoniato anche dalle lezioni sulla retorica e da altri scritti, diede vita a una vera e propria antropologia, a una sorta di dottrina filosofica dell’uomo, e non a un semplice manuale tecnico di eloquenza. Egli realizzò il vecchio programma del Fedro, secondo il quale chi vuole tenere un buon discorso deve aver di mira innanzitutto gli individui ai quali si rivolge e sui quali vuole far presa." (Hans Georg Gadamer)
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Nei suoi primi anni all'Accademia, Aristotele, come Platone, si servì regolarmente della forma argomentativa del dialogo.
In questa forma scrisse le opere cosiddette "esoteriche", rivolte cioè a un pubblico di allievi selezionati: questi scritti non ci sono pervenuti.
Possediamo, tuttavia, alcuni appunti di cui Aristotele si servì per le lezioni e che fanno riferimento a insegnamenti aventi come oggetto quasi ogni campo del sapere.
I testi ai quali Aristotele deve la sua fama si basano in larga misura su questi appunti, che il curatore Andronico di Rodi dispose in un'edizione il cui ordine rimase quello noto fino a oggi.
Platone fece dell'Accademia un grande centro di studi e di dibattiti culturali.
Nel 368, per esempio, il celebre matematico e astronomo Eudosso di Cnido si trasferì per un certo tempo, con tutti i suoi scolari, nell'Accademia, ove ebbe scambi di idee con gli accademici su vari argomenti.
Tra gli accademici emergevano Speusippo (parente di Platone e suo successore designato alla guida della scuola), Senocrate e il giovane Aristotele.
In quel tempo Platone scrisse il dialogo Filebo, che fu occasione di un dibattito con Eudosso sul piacere e la morale edonistica, dibattito cui partecipò anche Aristotele.
Il confronto con Eudosso spaziava dunque a tutto campo dall' astronomia alla filosofia.
Ad Atene, in concorrenza con l'Accademia, era sorta allora la scuola di Isocrate, che fondava il suo insegnamento sulla retorica e sulla poesia.
Il dibattito doveva essere acceso se, come si tramanda, a proposito di un argomento trattato nel corso di una sua lezione, Aristotele disse: «Sarebbe vergogna tacere noi e lasciar parlare Isocrate».
In polemica con Isocrate il giovane Aristotele scrisse il dialogo Grillo o sulla retorica, che non ci è stato conservato.
Sappiamo che in esso Aristotele esaltava l'educazione basata sulla filosofia, cioè sulla ricerca scientifica, di cui era strumento la dialettica di Platone.
Successivamente Aristotele scrisse il Protrepiico, o «discorso esortativo», in cui si dimostrava che l'uomo non può fare a meno di filosofare poiché, anche per decidere di non filosofare, bisogna filosofare.
Il letterato Isocrate, che mostrava vacuo disprezzo per la filosofia, era così servito.
Altri dibattiti nell'Accademia concernevano la dottrina dell'immortalità dell'anima, esposta da Platone nel Fedone.
Nel dialogo Eudemo, anch'esso perduto, Aristotele sosteneva che il corpo è come una tomba per l'anima e ricordava in proposito il supplizio etrusco, consistente nel seppellire, legati insieme, un uomo vivo e uno morto.
La vera patria dell'uomo è l'iperuranio, al quale l'anima è destinata a tornare dopo la morte.
Come si vede, il giovane Aristotele manifesta una piena adesione alle dottrine pitagoriche e orfiche alle quali Platone si era ampiamente ispirato.
I dibattiti più accesi riguardavano però la dottrina delle idee.
I discepoli di Platone svilupparono entusiasticamente la dialettica platonica, applicandola alla classificazione delle piante, degli animali, delle stesse forme del discorso.
Questo impulso alla ricerca logica e scientifica era stato avviato da Platone in persona e ora egli non poteva certo arrestarlo.
In tal modo la filosofia, che si era presentata dapprima sostanzialmente come un modo di vita, un atteggiamento pratico prima ancora che conoscitivo (come mostra la personalità di Socrate, posta da Platone al centro della maggior parte dei suoi Dialoghi), si trasforma in una dottrina teorica di tipo sistematico.
Ben presto infatti Aristotele avrebbe abbandonato la forma platonica del dialogo letterario per dar vita ai primi veri e propri trattati scientifici e filosofici della storia dell'Occidente.
Questo impulso razionalistico si rivolse inevitabilmente verso i punti deboli del pensiero di Platone e i discepoli cominciarono a chiedersi cosa fossero propriamente le idee, quale fosse la loro realtà e la loro esatta funzione, e ancora come fosse da intendere il rapporto tra il mondo delle idee e quello degli individui materiali.
Ogni ricorso al mito, alla poesia o all'immaginazione letteraria era ormai fuori questione.
Speusippo e Senocrate tentarono in vario modo di salvare la dottrina delle idee, aggiungendovi un'abbastanza oscura teoria delle idee numeri di derivazione pitagorica.
Il punto essenziale, per quel che si può dire sulla base delle scarse notizie rimasteci, era questo: come dall'unità (il «parimpari») deriva la molteplicità dei numeri, così dall'unità essenziale dell'idea deriverebbe la molteplicità degli individui empirici.
Aristotele invece, nello scritto Sulle idee e nel dialogo Sulla filosofia (dei quali ci rimangono alcuni frammenti), ruppe decisamente i ponti con la dottrina delle idee, che sottopose a critica spietata.
Le obiezioni, sia giovanili sia mature, di Aristotele alla teoria delle idee possono così sintetizzarsi:
1. Platone per spiegare gli individui ricorre alle idee. Così però egli non fa che raddoppiare, o moltiplicare, il numero degli enti; ciò peraltro non equivale a spiegarli.
2. Le idee, poi, sono assai più numerose degli individui. Se infatti diciamo che «l'uomo è un animale razionale», ecco che in ogni individuo umano troviamo almeno tre idee («uomo», «animale», «razionale»). Ciò complica ulteriormente i nostri problemi anziché risolverli.
3. Per di più, poiché l'idea di «animale» dovrà trovarsi sia nell'«animale razionale» sia in quello «non razionale», o concludiamo che vi sono anche due idee di animale diverse tra loro (il che da un lato è incomprensibile, d'altro lato produce un'ulteriore moltiplicazione delle idee); oppure ammettiamo che l'idea di animale contiene due parti, una razionale e una, ad essa opposta, di non razionale.
Ma così va perduta l'unità dell'idea, la sua coerenza essenziale, la sua consistenza d'essere, in quanto l'idea si scinde assurdamente in due parti tra loro contraddittorie.
4. Se ogni cosa sensibile rimanda all'idea per sussistere ed essere ciò che è, dobbiamo ammettere che, dal punto di vista delle idee, un individuo (per esempio un «uomo») e una qualità (per esempio «bianco») hanno eguale realtà («uomo in sé», «bianco in sé»).
Il bianco però non sussiste come realtà separata, ma solo come qualità di un individuo e sussistente in un individuo.
Similmente dovremmo avere anche idee negative («non-bello», «non-buono» e simili) e idee di relazione (come «più-grande-di», «più-piccolo-di» ecc.), il che è assurdo.
5. Delle idee si dice che sono causa degli individui. Ma esse non producono movimento né cambiamento alcuno, né alcuna generazione.
In realtà vediamo che gli individui nascono da altri individui e non dalle idee.
Un cavallo nasce da un altro cavallo e non dall'idea del cavallo o dal «cavallo in sé».
6. Inoltre le idee, in quanto realtà a sé stanti, cioè separate dagli individui, non possono contribuire in alcun modo a regolare l'esistenza e il divenire degli individui medesimi.
7. Se poi si dice che le idee sono «modelli», non si fa altro che ricorrere a frasi vuote o a metafore poetiche, le quali non suggeriscono alcuna spiegazione reale circa il rapporto fra idee e individui.
8. Similmente se si afferma che gli individui «partecipano» dell'idea: come però vi partecipano? Ognuno forse se ne prende un pezzetto?
Oppure vi partecipano allo stesso modo tutti insieme? In verità il concetto di partecipazione non è, anch'esso, che un'oscura metafora.
9. Infine, se si dice che gli individui sono «simili» all'idea, si va incontro (come già osservava lo stesso Platone) a difficoltà insormontabili.
L'individuo (per esempio «questo uomo») e l'idea («l'uomo in sé») non sono simili di per sé; infatti l'individuo, in quanto è tale, non possiede l'universalità dell'idea: è un individuo e non l'uomo in sé.
Allora essi devono essere simili in virtù di un «terzo uomo» che per sua natura sia simile da un lato all'idea e dall'altro all'individuo.
Ma per poter far ciò, il terzo uomo ne esige un quarto, che faccia da mediatore tra le due spaccature di universale e individuale che ora il terzo uomo alberga in sé.
Ma questo quarto ne esige un quinto e così via all'infinito, sicché il solco tra idee ed individui risulta incolmabile.
Questo «argomento del terzo uomo» era stato sollevato da Platone in persona; e in effetti nelle sue critiche Aristotele, più che rivolgersi al maestro (del resto già scomparso), si rivolge ai suoi condiscepoli, per convincerli della necessità di riformare la dottrina accademica. Iniziativa che non avrà successo.
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"Quando leggo i dialoghi di Platone, so che si tratta di poesia pensante, grazie alla quale ci viene offerto, come per incantesimo, un dialogo con tutti gli aspetti imponderabili della comunicazione, della comprensione, del fraintendimento, dell’incontro reciproco nel consenso; di fronte, invece, al Corpus Aristotelicum, alla gran massa degli scritti di Aristotele (2000 pagine nella editio maior del Becker), la nostra cultura ermeneutica dovrebbe indurci a domandare: che cosa abbiamo davanti a noi? Libri da acquistare in libreria, come facciamo noi, oggi, andando a comprare le opere di Aristotele? No di certo: erano appunti, sulla base dei quali Aristotele faceva lezione; era una retorica vivente, di cui dobbiamo sempre percepire la presenza quando leggiamo le argomentazioni e le analisi aristoteliche. Questo non significa che debbano essere argomentazioni coerenti, nel senso attuale del termine. Tutto è invece incentrato sulla ripetizione, che nella retorica rappresenta un principio fondamentale dell’arte di persuadere. Intendo dire che dobbiamo renderci conto di quanto siano diverse le modalità della conversazione e del colloquio adottate nello stile dialogico, poeticamente raffinato di Platone, rispetto alle bozze di lavoro che ci ha lasciato Aristotele. A dire il vero, Aristotele ha scritto anche dialoghi, che però non conosciamo; ma sappiamo, da Cicerone, che furono celebri nell’antichità per il «flumen aureum orationis», per quell’«aureo fluire dell’eloquenza» che vi si trovava. (Dall’imitazione ciceroniana dei dialoghi aristotelici, ancora famosi all’epoca, sappiamo che erano dibattiti scritti, nei quali due personaggi – di regola due soltanto – discutevano tra di loro, e poi interveniva un terzo personaggio che assisteva al colloquio, con il compito di proporre una qualche soluzione mediatrice: nello stesso modo è strutturata la Politica di Cicerone, al pari di altri suoi scritti. Da questi testi possiamo immaginare approssimativamente come fossero i dialoghi aristotelici. Ma non è questo che ci interessa, ora.)
L’ importante, adesso, è imparare a far proprie le intenzioni sottese ai diversi stili, traducendole nel rispettivo pensiero; solo così emergono i punti di reciproco contatto, anche fra Platone ed Aristotele, come accade in ogni dialogo fecondo. Chi, nel corso di una disputa, concentra la sua attenzione nel chiedersi «che cosa posso obiettare?», non presta ascolto come dovrebbe. Se invece si pensa: «che cosa intende dire l’altro? Perché non mi convince?», «Che cosa mi sfugge?» (e l’interlocutore, adottando a sua volta lo stesso atteggiamento, chiede: «che cosa vuole propriamente dire?») si ottiene che i due partner in gioco siano già molto vicini a una possibile comprensione reciproca. Bisogna essere consapevoli di questa essenza del dialogo, della vera discussione, e del contenuto di verità che può celarsi nel pensiero filosofico. Una volta Platone commentò: «Il pensiero è il dialogo interiore dell’anima con se stessa»; – e aveva pienamente ragione: anche in questo modo possiamo approssimarci alla verità: immaginando delle obiezioni, così da mirare, grazie al loro esame, a un nuovo possibile punto di accordo. Questa è la via del pensiero" (Hans Georg Gadamer)
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Alla base dell'originale cammino di pensiero di Aristotele stanno alcuni convincimenti maturati nella polemica con gli accademici.
Essi possono sintetizzarsi in quattro punti.
1. La filosofia platonica è affetta da un insanabile dualismo tra forma e materia, idee ed individui.
Per sanare tale dualismo bisogna capovolgere la prospettiva di Platone e dichiarare che pienamente reali sono proprio gli individui, e non quelle entità invisibili, astratte o immaginarie che sono per esempio l'essere di Parmenide, i numeri dei pitagorici o infine le idee.
È invece nelle cose visibili che va cercata la causa stessa della realtà, cioè degli individui e del loro divenire.
2. I primi filosofi presocratici (Talete, Anassimandro, Anassimene, Eraclito) ebbero il merito di tentare una spiegazione del divenire, senza rinnegare il divenire medesimo, come fecero invece gli eleati e come in parte fa ancora Platone.
Essi meritano perciò il nome di «primi fisici», benché le loro analisi e soluzioni fossero ancora insufficienti e ingenue.
3. Così come bisogna rivalutare la realtà degli individui e del divenire, altrettanto bisogna fare circa la conoscenza sensibile e l'opinione (doxa), che Platone tendeva invece a svalutare.
4. Se Platone ha avuto il merito di opporre al relativismo retorico dei sofìsti l'esigenza di un sapere rigorosamente scientifico, si è però poi fermato a mezza via.
La sua «dialettica» è infatti un metodo largamente imperfetto per conseguire il sapere; essa è ancora legata al dibattito dei discorsi, al mero confronto delle opinioni soggettive, anziché basarsi sulla verità oggettiva delle cose.
Occorre dunque elaborare un nuovo strumento, un nuovo metodo del sapere.
Alla luce di queste esigenze Aristotele avviò una ricerca indipendente, che conservava molti aspetti dell'ideale battaglia di Platone in favore della filosofia, ma ne trasformava profondamente i concetti basilari e ne capovolgeva l'indirizzo ispiratore.
Probabilmente anche a causa degli insegnamenti del padre, che fu medico alla corte del re macedone Aminta III, la filosofia di Aristotele dà rilievo alla biologia e alle ricerche di filosofia naturale in contrapposizione all'importanza attribuita da Platone alla matematica.
Aristotele considerò il mondo come costituito da individui (sostanze) che appartengono a determinati generi naturali (specie).
Ogni individuo ha inscritto in se stesso un preciso modello di sviluppo e cresce cercando di realizzare convenientemente il proprio fine naturale: sviluppo, fine e direzione risultano così intrinseci alla natura di ciascuno.
Secondo Aristotele, anche se la scienza è dedita all'identificazione dei generi fondamentali, questi generi si possono cogliere nell'esperienza solo studiando le sostanze individuali; scienza e filosofia pertanto devono bilanciare le pretese dell'empirismo (osservazione ed esperienza sensibile) e quelle del formalismo (idealismo platonico).
Uno dei contributi più caratteristici della filosofia aristotelica fu la nozione di causalità.
Secondo Aristotele, a ogni ente o evento si deve assegnare più di una "ragione" in grado di spiegare che cosa, perché e dove esso sia.
Gli antichi pensatori greci erano inclini a supporre che un solo genere di causa potesse rendere conto delle cose; Aristotele ne propose quattro. (Il termine da lui usato, aítion, «un fattore di spiegazione responsabile della condizione di qualcosa», non è sinonimo del termine causa nel suo significato moderno).
Queste quattro cause sono la causa materiale, la materia di cui è costituito un oggetto; la causa efficiente, il principio del movimento, della nascita, o del mutamento; la causa formale, che coincide con la specie, il genere o il tipo; e la causa finale, il fine, il pieno sviluppo di un individuo o la funzione propria di una costruzione o invenzione.
In ogni ambito della ricerca, Aristotele insiste sul fatto che si può comprendere meglio qualunque cosa quando è possibile stabilire le cause che la riguardano in termini specifici piuttosto che in termini generali.
Così, è più preciso sapere che una statua è stata cesellata da uno scultore piuttosto che da un artista; ed è ancora più preciso sapere che l'ha cesellata Policleto piuttosto che, semplicemente, uno scultore non meglio identificato.
Aristotele divide le scienze in tre gruppi: le scienze teoretiche (la filosofia prima o metafisica, la fisica e la matematica), le quali ricercano la conoscenza disinteressata della realtà e si occupano dell'essere necessario (Dio, mondo, numero), mentre le altre si occuperanno dell'essere possibile (ogni altra cosa che esiste); le scienze pratiche, che comprendono l'etica e la politica, le quali ricercano il sapere per raggiungere la perfezione morale e sono di guida alla condotta umana; e infine le scienze poietiche o produttive (le arti e le tecniche), che ricercano il sapere in vista del fare, per produrre i vari oggetti.
Gli scritti di Aristotele si dividono in essoterici (rivolti all'esterno, cioè a un vasto pubblico di lettori) ed esoterici (rivolti all'interno, cioè destinati alla scuola; essi sono detti anche acroamatici, cioè lezioni per «uditori»).
Ai primi appartengono le opere giovanili composte in forma di dialogo.
Ce ne rimangono solo frammenti (Grillo o della retorica, Eudemo, Proireptico, Sulle idee, Sulla filosofia).
Le opere esoteriche sono invece in gran parte conservate, sebbene esse abbiano attraversato varie peripezie dalle quali deriva il loro stato a tratti lacunoso, frammentario, non privo di oscurità e di dubbi testuali.
La prima edizione dell'intero corpus delle opere aristoteliche venne compiuta da Andronico di Rodi, undicesimo scolarca del Liceo, nel I secolo dopo Cristo.
Tradizionalmente le opere di Aristotele sono divise in quattro gruppi.
I Scritti di Logica. Essi costituiscono l'Organon, ovvero lo «strumento», il metodo del sapere. Comprendono: Categorie, Sull'interpretazione, Analitici primi, Analitici secondi, Topici, Confutazioni sofistiche.
II Scritti di Fisica. Comprendono la Fisica (in otto libri: nei primi quattro si studiano i princìpi generali della natura; nei rimanenti le varie forme del movimento);
scritti di argomento astronomico (Sul cielo, Sulle meteore, Sulla generazione e la corruzione); scritti di scienza naturale (Storia degli animali, Sulle parti degli animali, Sulla generazione degli animali, Sul movimento degli animali);
scritti di psicologia (Sull'anima e i cosiddetti Parva naturalia comprendenti: Sensazione e sensibili, Memoria e reminiscenza, Il sonno, I sogni, La divinazione mediante i sogni, Lunghezza e brevità della vita, Giovinezza e vecchiaia, La respirazione).
III Scritti di metafisica. Vennero così chiamati perché Andronico inserì tali scritti nel suo catalogo «dopo quelli di fisica», cioè «metà tà physikà».
Tale espressione («metafisica») è divenuta tradizionale per indicare ciò che Aristotele chiama «filosofia prima», ovvero la filosofia in senso stretto, distinta dalle altre scienze teoretiche, come la matematica e la fisica, chiamate «filosofie seconde».
La Metafisica comprende quattordici libri che trattano la teoria della sostanza, la scienza di Dio o teologia e vari altri argomenti.
La Metafisica non è però un'opera unitaria, ma una successione e giustapposizione di trattati o corsi di lezioni redatti in epoche diverse.
IV Scritti poietici. Aristotele distingueva le scienze teoretiche (matematica, fisica, metafisica) dalle scienze poietiche (da poiéin, che significa "fare"), ovvero pratiche.
Le prime concernono il vero e il necessario; le seconde il possibile e il probabile.
L'Organon costituisce invece un'introduzione metodica a tutto il sapere, teoretico e pratico.
L'insieme disegna una complessa esposizione enciclopedia, sistematica e unitaria del sapere.
Gli scritti poietici comprendono l'Etica nicomachea, l'Etica eudemia e la Grande etica: esse svolgono la dottrina morale del Liceo.
Poi abbiamo la Politica, che tratta l'organizzazione sociale, l'economia, le varie forme di governo; la Costituzione di Atene, unica rimastaci da uno studio condotto sulla costituzione di 158 città greche e «barbare», cioè non greche; la Retorica, analisi delle varie forme e funzioni del discorso atto a persuadere; la Poetica, giuntaci incompleta, che esamina le diverse forme della poesia e in particolare la tragedia.
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"Aristotele fu ben presto incaricato di occuparsi anche delle lezioni di logica. Questo è il secondo aspetto che di lui tutti conoscono, che cioè fu il fondatore della logica formale, e più precisamente di una certa parte di quel complesso edificio che è la logica formale, vale a dire la dottrina della corretta deduzione, la cosiddetta sillogistica aristotelica. Spieghiamo che cosa significa: si trattava, per così dire, dell’analisi logica dei procedimenti in uso nella matematica del tempo. La logica formale è la dottrina della conoscenza, in forma un po’ ampliata; è la dimostrazione di cui si faceva uso in matematica. Come è noto, la filosofia come tale non è riducibile a questa logica formale. Anche Aristotele, ovviamente, ne era consapevole: infatti, subito dopo i suoi scritti di logica, c’è un capitolo nel quale descrive come avvenga, propriamente, l’atto del filosofare umano. In questa sede egli illustra anzitutto come certe impressioni fugaci si fissino nella memoria, e come, da queste, si formi in seguito un ricordo unitario di ciò che sappiamo… e infine come questo sapere… venga comunicato agli altri. Egli spiega, insomma, in che modo si produca il sapere delle archài (questa è l’espressione greca che noi traduciamo con «princìpi», «inizi»). Qual è il punto cruciale? La dimostrazione è sempre dimostrazione che muove da premesse, cosicché la conclusione, cui si perviene, risulta valida. Non vi è dubbio, perciò, che debbano già esservi dei presupposti, quelli che in logica vengono chiamati «premessa maggiore» e «premessa minore». Ma quando si tratta dei princìpi, non si può presupporre qualcosa che sta ancor prima del principio. Quindi la filosofia non può coincidere con la logica della dimostrazione. Essa deve consistere piuttosto in una induzione che risale all’origine, ai presupposti primi. Il termine greco è epagoghè, «induzione». E Aristotele – un maestro nelle immagini forti – ne offre appunto un drastico paragone. Come nasce in realtà questa universalità della nozione di principio? – Ecco – egli dice – è come quando un esercito fugge davanti al nemico; e finalmente uno si gira a guardare se il nemico incalza, fermandosi. Gli altri intanto continuano a correre; poi un altro si guarda intorno e vede quel soldato che ha smesso di scappare perché il nemico è già lontano, e così – uno dopo l’altro – si voltano tutti quanti, fino a che le milizie obbediscono di nuovo al comando di uno solo. Per «comando», la parola greca è ancora archè: «ciò che è primo,… e che domina». Questa è dunque l’analisi logica di che cos’è filosofia, secondo la descrizione di Aristotele. E in un certo senso questa induzione, che conduce all’universale, è proprio la stessa via percorsa dai dialoghi platonici, che muovono dal non-sapere alla visione di ciò da cui tutto dipende. Non ho intenzione di raccontare qui la vita di Aristotele. Non è molto importante, in effetti. Quello che conta, invece, è che Aristotele fondò una propria scuola – anzi la prima vera scuola – che si è poi sviluppata e ha fatto storia nel corso dei secoli, grazie anche ai commenti delle opere aristoteliche. Ed eccoci all’opera fondamentale!" (Hans Georg Gadamer)
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Nelle sue opere logiche Aristotele distinse tra dialettica e analitica.
L'analitica procede deduttivamente a partire da principi che si fondano sull'esperienza e su una scrupolosa osservazione.
Per comprendere la deduzione e i suoi caratteri Aristotele enunciò regole di inferenza che, se rispettate, non avrebbero mai condotto da premesse vere a conclusioni false (regole di validità).
Gli elementi fondamentali dell'inferenza si ritrovano nei sillogismi: proposizioni che, se considerate una in relazione all'altra, generano necessariamente una determinata conclusione.
Esso si compone di tre giudizi, di cui i primi due sono detti premesse ed il terzo è la conclusione.
Ad esempio «Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è uomo; quindi Socrate è mortale».
Si noti inoltre che nelle due premesse è inserito il cosiddetto termine medio, che consente l'affermazione della conclusione (in questo caso è 'uomo'), usandolo prima come soggetto e poi come predicato.
La teoria del sillogismo di Aristotele presenta anche le regole per dedurre in modo corretto una conclusione vera, date naturalmente certe premesse.
Pensate che Aristotele classificò 19 modi validi (su 64 modi teoricamente possibili) di esprimere una proposizione qualunque, ai quali i logici medievali diedero delle sigle particolari per ricordarli più facilmente.
Ad esempio ad una frase o proposizione 'universale affermativa' (= tutti gli uomini sono mortali) essi diedero la lettera A; ad una universale negativa, diedero la E; ad una particolare affermativa diedero la I e ad una particolare negativa attribuirono la lettera O.
In più, per ricordare in sintesi che un sillogismo, ad esempio, era composto da tre frasi o proposizioni tutte universali affermative, i logici medievali inventarono delle parole come ad esempio BARBARA, che indica appunto un tale tipo di sillogismo (Se volete esercitarvi, provate a scoprire altri tipi di sillogismo scomponendo le seguenti parole: CELARENT, DARII, CESARE, CAMESTRES...).
Il sillogismo per Aristotele è valido quando le regole di concatenazione tra le due premesse e la conclusione sono considerate corrette.
Anche se le premesse in questione affermassero cose false o assurde il sillogismo resterebbe valido per la forma corretta della sua concatenazione.
Il silogismo diventa scientifico quando le sue premesse non solo deducono correttamente la conclusione ma asseriscono delle verità.
GIUDIZI RELAZIONI TRA LE PROPOSIZIONI
A universale affermativo A-O e E-I contraddittorie
E universale negativo A - E contrarie
I particolare affermativo I - O subcontrarie
O particolare negativo A-I e E-O subalterne
Egli sostenne che la dialettica esamina gli argomenti unicamente in merito ai criteri di coerenza.
L'analitica procede invece deduttivamente a partire da principi che si fondano sull'esperienza e su una scrupolosa osservazione.
Alla base di ogni ragionamento vi sono alcuni principi intuitivamente veri o assiomi, che non possono a loro volta essere dimostrati, ma fondano la possibilità stessa di ogni dimostrazione.
Tali sono i tre principi di identità, non contraddizione e del terzo escluso.
Essi non sono appunto dimostrabili perché sono alla base di ogni dimostrazione; al massimo si possono illustrare e la loro dimostrazione è solo per assurdo o elenchica.
Il principio di identità sostiene che A è uguale ad Aristotele Ciò è immediatamente evidente: ma se volessimo chiarirlo meglio, potremmo dire che è impossibile che A non sia A in quanto... si darebbero due significati diversi del termine, ovvero sarebbero vere sia l'affermazione che la negazione.
Il principio di non contraddizione viene espresso in diversi modi da Aristotele.
Una delle formulazioni è la seguente:
«È impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non convenga ad una stessa cosa e per il medesimo rispetto» (Metaf., IV, 3, 1005 b).
Ovvero: «È impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia» (Ibid., IV, 4).
Con un esempio: «È impossibile che un uomo sia insieme animale bipede e non animale bipede».
Tale principio è importantissimo per Aristotele perché, se lo si nega, ne segue che ogni affermazione può essere insieme vera e falsa, il che escluderebbe la possibilità di distinguere il vero dal falso, conducendo verso il relativismo e lo scetticismo.
Contro un rischio così grave, Aristotele si impegna a fondo nell'affermare la validità del principio di non contraddizione.
All'avversario del principio di non contraddizione, per confutarlo, Aristotele chiede di pronunciare una parola qualsiasi, basta che abbia un significato.
Se rinuncia a parlare, rivela l'assurdità della sua posizione; ma se parla e dice qualcosa, ad esempio «sì», oppure «uomo» ecc., la negazione del principio di non contraddizione ne risulta confutata.
Infatti, ammettendo che una parola significhi qualcosa, si esclude nello stesso tempo che una tale parola possa significare qualcos'altro: ad esempio dire «sì» equivale ad escludere il «no», come pure dire «uomo» vuol dire intendere «animale razionale» e non «animale irrazionale».
In sintesi, se ogni parola ha un significato, è impossibile che A sia insieme B e non-B, cioè che 'uomo' sia insieme 'animale bipede' e 'non animale bipede'.
Infine, col principio del terzo escluso, Aristotele sostiene che «non è possibile che ci sia qualcosa di intermedio tra due enunciati contrari, bensì di un'unica cosa è necessario affermare o negare un unico predicato».
Detto in altri termini, A è B oppure non è B, non c'è una terza possibilità. Insomma, ogni frase, ogni proposizione dotata di senso o è vera o è falsa.
Date quindi due proposizioni contrarie, una di esse è necessariamente falsa.
Tra due tesi che si escludono a vicenda, non è possibile enunciarne una terza.
Con un esempio: o l'uomo è un animale razionale o non è un animale razionale, non è possibile vi sia una terza possibilità.
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"Si dice in genere che Aristotele sia il fondatore della metafisica. È vero, ma innanzitutto dobbiamo prestare ascolto a questo termine. Che cosa fondò? La metafisica? Allora è il fondatore di una scienza che fonda la fisica? Che razza di scienza è mai questa, come è possibile che essa si dia? E come può essere nata dall’ispirazione platonica? In effetti, si è soliti affermare: «È metafisica tutto ciò che ha avuto inizio con Parmenide, e poi con Eraclito e con Platone» –Ma tutte queste sono interpretazioni successive! Se si dovesse definire Platone, si dovrebbe dire, in realtà, che fu innanzitutto un metamatematico: il mistero dei numeri, questo fu, da buon pitagorico, il suo punto di partenza. Fu il rigore scientifico della geometria euclidea a stimolarlo, come ho potuto mostrare analizzando il Teeteto, in cui Platone convince a poco a poco un giovane e geniale matematico del fatto che, al di là della matematica, vi è anche una conoscenza argomentativa, dialogica. Qui riecheggia, in parte, un innegabile spirito agonistico: bisogna ammettere che la filosofia è dialettica; è cioè nei lògoi, nello scambio di domanda e risposta,… nell’alternarsi di critiche e riformulazioni… è insomma attraverso questo processo che le discussioni tra gli uomini pervengono infine a risultati, magari non tangibili, ma pur sempre significativi e fecondi. Una discussione è valida anche quando si capisce di essere approdati a qualcosa, benché gli interlocutori non sappiano esattamente a che cosa, e si tratta in realtà di una prospettiva comune, che è venuta formandosi.
Una cosa, comunque, è chiara. Metafisica significa questo: che Aristotele cominciò con la fisica. Egli ha attuato il programma espresso da Socrate nel Fedro: posso cogliere un ordine della natura, solo se capisco che tutto è conforme a una certa finalità. In tal senso si parla di «teleologia», cioè mirare a uno scopo: questo è un principio unitario che spiega tutto ciò che incontriamo."
"Aristotele cerca soprattutto di comprendere che cosa sia il movimento. Ma già nel pronunciare questo termine,… il nostro pensiero corre subito al movimento da un luogo a un altro; però, come è ovvio, si finisce per concepirlo, immediatamente, con i concetti della meccanica galileiana: pensiamo alla caduta dei gravi, pensiamo all’accelerazione, al rapporto fra tempo e spazio percorso – insomma alle ben note leggi della meccanica galileiana. Si cadrebbe ovviamente in errore, se per la fisica aristotelica si ricorresse a un sistema di elementi astratti: un tempo vuoto, un corpo qualsiasi, indefinito, che percorre un certo spazio in un determinato tempo a una velocità data. Questo sarebbe già il nuovo edificio della meccanica, assurta al rango di scienza fondamentale fra le discipline scientifiche moderne. Quando Aristotele parla del movimento, intende l’essenza di ciò che è mosso:… da grande biologo, qual era – come spesso accade ai figli di medici – si è sempre molto interessato, per esempio, ai diversi movimenti degli animali, quelli che strisciano, che volano, che corrono, eccetera, descrivendone tutte le infinite varietà. In altri termini, rispetto ai presupposti fondamentali della scienza moderna, ha operato scelte differenti: non la compagine astratta di spazio, tempo e velocità, nella quale i punti-massa sono concepiti del tutto astrattamente, bensì proprio la diversità degli enti, che partecipano del movimento… questo è l’elemento essenziale. Tutti ricordano dai tempi della scuola l’esperimento in cui si mostra che, nel vuoto, un pezzo di piombo e una piuma cadono più o meno alla stessa velocità. Galilei lo sapeva già, prima ancora di aver potuto creare il vuoto, e poi l’esperimento lo ha confermato: effettivamente, il peso non influisce sulla caduta.… Con Aristotele siamo ancora in un mondo tutto pieno, nel quale ci sono enti di diverso tipo, ciascuno con un movimento differente. Ma che cos’è, in generale, il movimento? Non è, semplicemente, un non-essere-qui. Ma non è nemmeno, soltanto, un essere-qui. Infatti, se di movimento si tratta, è insieme qualcosa che è qui – e non è più qui. Queste sono le aporie a partire dalle quali Agostino ha successivamente affrontato il mistero del tempo: di nessun istante si può dire: «è adesso»; non appena lo si nomina, infatti, l’istante è già passato. Lo stesso vale, ovviamente, anche per il movimento, ad esempio il «percorrere una via». (Il tedesco «Bewegung» – movimento – è ancora strettamente connesso a «Weg», la «via» che esso percorre)."
"Aristotele si è posto il seguente problema: questa presenza dell’essere – che già Parmenide conosceva e che Platone ha descritto come l’immutabile presenzialità dell’idea – come si concilia con la motilità degli eventi del mondo e della natura che vi prendono parte? Quando Platone dice: «ogni ente prende parte dell’idea» – che tipo di partecipazione è questa?, chiede Aristotele: che cosa significa? «Partecipazione» traduce il greco métexis. Precisiamo, allora, questo concetto di «partecipare»: possiamo anche dire «prendere parte»; e sappiamo bene che «prendere parte» non significa prendere soltanto una parte. Ugualmente, quando diciamo «partecipare», non intendiamo dire che abbiamo soltanto una parte di ciò di cui partecipiamo: si partecipa di tutto! Questo è “prender parte”, questa è partecipazione! Che cosa ne consegue? Che Platone ne ha parlato solo per immagini: ecco perché ha detto «ogni ente prende parte dell’idea». Aristotele si chiede: che cosa significa attribuire l’essere allo spazio e al tempo (il primo come luogo in cui si trova un ente, l’altro come il tempo in cui esso si muove)? Che tipo di essere è mai questo? … In generale, spazio e tempo sono pur qualcosa – qualcosa di effettivamente reale. L’espressione greca che Aristotele ha coniato per dire questo è enèrgheia. Vi risuona per noi la parola «energia»: ovvero qualcosa che non è semplicemente presente, ma che è in grado di provocare certi effetti, e perciò è davvero «effettiva», «reale». Ebbene, Aristotele ha individuato qualcosa come un «essere all’opera», un «essere in opera», o, come potremmo anche dire, il «compiersi» di qualcosa. Che cos’è il compiersi del movimento? Il movimento si compie non quando l’ho già compiuto: se sono già arrivato, il movimento è terminato, non c’è più moto, ma quiete. Che cos’è invece il movimento in quanto movimento?… Il movimento come tale! – questo dobbiamo descrivere, esso è due cose: adesso è all’opera, e al tempo stesso già non è più, è l’istante dopo. In altre parole: il movimento dev’essere descritto come intreccio di dynamis ed enèrgheia. Dynamis – noi conosciamo il termine «dinamica», vale a dire «forza efficiente». È un’espressione frequente nella lingua greca: anche Platone la usa, in passi importanti,… per mostrare che, quando parla dell’essere, intende appunto… la realtà effettiva, e non solo un insieme di rapporti numerici e di relazioni tra figure. Nel Sofista Platone parla della dynamis, di questa capacità di produrre effetti. Aristotele, con l’incredibile acume che lo contraddistingue, ha poi osservato che, pensando insieme le due cose, il non-ancora, che produrrà effetti, e l’essere di ciò che è effettivo – in altri termini il «non-ancora» e l’«essere già» – si arriverà a cogliere appieno la natura di ciò che è in movimento."
"Tornando alla Metafisica: non posso certo tralasciare di dire che essa non consiste della sola dottrina dell’enèrgheia e della dìnamis. Ci si aspetta, ovviamente, che io parli della dottrina delle categorie: quella parte della Metafisica sulla quale Kant ha espresso il celebre verdetto: «Aristotele è stato solo rapsodico… ma non sistematico nell’elaborare la tavola delle categorie». Certo: solo rapsodico! – cioè solo retorico! Egli le raccolse dall’esempio vivo delle lezioni e delle spiegazioni che teneva nella sua scuola. In realtà, che cosa ha fatto Aristotele? Innanzitutto ha elaborato ciò che, nella nostra proposta interpretativa, avevamo intravisto già nel tardo Platone, ricavandone concetti. Che cos’è l’essere? L’essere non è mai soltanto l’universale; l’essere è sempre anche «questo essere qui». Entrambi sono essere: l’universale, e il «determinato». Questo è un altro modo di descrivere quella che ci appare come l’intenzione della dottrina platonica: l’idea del bene si mostra nella forma del bello. Il bello, infatti, è sempre un tóde ti, è sempre un «questo qui». Il bello deve apparire. Non serve a niente pensare una bellezza che non compare affatto: non avrebbe «sostanza». Con questo concetto… cominciamo a esplorare il significato della dottrina delle categorie; quest’ultima esercita, in effetti, una ben precisa funzione di raccolta, visto che l’essere dell’ente si diversifica in altre forme, inseparabili da esso, che si trovano già prefigurate in Platone: il poión, (il «come è fatto»), il posón, (il «quanto», il «quanto grande»),… e soprattutto il prós ti,… ovvero ciò che pensiamo «in relazione con», «in riferimento a» qualcosa. Queste sono dunque le categorie fondamentali che Aristotele ha sviluppato, e che sono rimaste un saldo punto di riferimento nella storia della Stoà e nella tradizione della metafisica successiva. Queste quattro categorie comportano naturalmente anche dei problemi: Che ne è, in loro, dell’essere? Prendiamo la «relazione»: chi è diventato padre, è con ciò in relazione con il figlio che è nato. Ricordo qui un passo geniale di Eraclito, che ho ricostruito io stesso: il padre non ha generato soltanto il figlio, ma anche se stesso, in quanto padre. Queste sono le misteriose strutture della relazione! E altrettanto può dirsi per la «qualità» e la «quantità» (per usare i nomi latinizzati delle categorie). E infine abbiamo l’enigmatica struttura della sostanza, unitaria e determinata."
"Ebbene, la Metafisica ha cercato di mostrare, su questa base, che c’è una sorta di ordine nella totalità dell’essere, la cui espressione più alta è – ancora una volta – una realtà eterna – nella quale non si ha più alcun movimento: il primo motore, il concetto filosofico di Dio, nel quale sembra trovare coronamento la metafisica aristotelica. Certamente oggi, dopo tutte le ricerche e gli studi che si sono occupati della Metafisica aristotelica, si sono fatti dei progressi interpretativi e perciò diremmo che questa è una delle possibilità che Aristotele ha maturato: la enèrgheia suprema, un essere che è sempre in sé e presso di sé, oggetto di amore cui tutto aspira, e quindi causa del movimento di tutte le cose. Questa è soltanto una delle possibilità. Ma oggi la mia convinzione è questa: sono state le metafisiche del tardo Medioevo e soprattutto della Controriforma – penso a Suàrez – a fare di tutto ciò un sistema. Metafisica non significa sistema: in Aristotele essa connota tutto ciò che non si poteva includere nella fisica. Vi si affrontano, perciò, ambiti diversissimi, come il «principio di non contraddizione» (la bebaiotàte archè, il principio più sicuro, secondo Aristotele, per garantire correttezza al pensiero) o appunto i concetti di sostanza, o di potenza, e molte altre cose che vi possiamo incontrare e che procedono in direzioni assai differenti, nelle quali forse, al di là della fisica, possono maturare princìpi fondamentali." (Hans Georg Gadamer)
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In metafisica, Aristotele affermò l'esistenza di un essere divino, definito «motore immobile», che è causa dell'unità e del fine che si prefigge la natura. Questa entità è perfetta ed è perciò l'aspirazione di tutte le cose del mondo, poiché tutti gli enti desiderano essere partecipi della perfezione.
Esistono anche altri motori - le intelligenze motrici dei pianeti e delle stelle; tuttavia, il motore immobile, che nella tradizione filosofica medievale è stato identificato senza alcun dubbio con Dio, nella descrizione di Aristotele non è suscettibile di interpretazioni religiose, come hanno osservato molti filosofi e teologi più recenti. Il motore immobile, ad esempio, non è interessato a ciò che accade nel mondo, né ha creato il mondo.
Aristotele limitò, comunque, la sua «teologia», a ciò che la scienza, a suo parere, richiede e può dimostrare.
La metafisica (che in realtà lui chiamava filosofia prima e, più tardi, verrà anche detta ontologia, cioè studio dell'essere), è per Aristotele la scienza più alta e viene definita in quattro modi: scienza che studia le cause e i principi primi, studia l'essere in quanto essere; studia la sostanza; studia Dio e la sostanza immobile.
Dire che la metafisica studia l'essere in quanto essere significa che essa non ha per oggetto una realtà in particolare, bensì la realtà in generale, cioè gli aspetti fondamentali e comuni di tutta al realtà.
In altri termini, la matematica studia l'essere come quantità, la fisica studia l'essere come movimento, solo la metafisica studia l'essere in quanto tale, considerando le caratteristiche universali di ogni essere (ecco perché è chiamata filosofia prima mentre la altre scienze sono filosofie seconde), ed è dunque il presupposto indispensabile di ogni ricerca.
Se la metafisica è la scienza dell'ente in quanto tale, che cosa caratterizza l'essere dell'ente?
In altri termini: qual è la struttura ultima di ogni cosa, in quanto ogni cosa è appunto un ente, ovvero qualcosa di esistente?
Aristotele dice che l'essere dell'ente è la sua ousìa. Con questo termine Platone indicava l'«essenza», cioè la realtà delle idee, che egli riteneva più reali degli individui.
Sappiamo che Aristotele considera invece reali proprio e solo gli individui, il cui «essere» nomina con lo stesso termine di Platone: ousìa.
Per distinguere la sua posizione da quella di Platone, si è soliti allora tradurre ousìa, nel suo caso, con il termine «sostanza»,
Secondo Aristotele, come abbiamo visto, Platone commetteva l'errore di «raddoppiare» gli enti per spiegarli: ogni aspetto della realtà veniva ricondotto a un'idea corrispondente, cioè alla sua «essenza» (ousìa) specifica.
Aristotele invece, muovendo dal principio secondo il quale reali sono solo gli individui, nomina come ousìa quella «sostanza» che li fa «essere» reali.
Questo loro essere è appunto la loro «natura sostanziale».
Ma a questo punto diventa evidente che non tutti gli aspetti che gli enti, gli individui, rivestono sono «sostanza»: l'essere sostanziale dell'individuo, ciò per cui esso è anzitutto un ente in quanto ente, qualcosa di esistente, deve distinguersi dai modi d'essere non sostanziali, ma accidentali, che l'individuo presenta.
Per esempio: un conto è la sostanza che fa di un uomo un uomo, o di un cavallo un cavallo; un altro il fatto che l'uomo sia greco o persiano, il cavallo bianco o nero e così via.
Aristotele dice che l'essere ha molteplici aspetti e significati (noi diciamo ad esempio che l'uomo è, la neve è sui monti, Dio è...).
Esso viene perciò diviso da Aristotele in quattro gruppi principali: l'essere come categoria; l'essere come potenza e atto; l'essere come accidente; l'essere come vero (e il non essere come falso). Noi vedremo brevemente i primi tre aspetti.
Col termine «categorie» Aristotele intende le caratteristiche fondamentali che ogni essere possiede.
Esse sono dieci: sostanza, qualità, quantità, relazione, agire, subire, dove (luogo), quando (tempo), avere e giacere.
La prima di esse, la sostanza, è la più importante perché è il riferimento comune alle altre categorie che, in qualche modo, la presuppongono (la qualità ecc. è sempre riferita a qualcosa che esiste di già: l'uomo, ovvero la sostanza, è alto, uno, padre, cammina ecc.).
Il che ci porta a concludere che, se l'essere si identifica con le sue categorie e le categorie si riferiscono alla sostanza, la domanda su «che cos'è l'essere ?» si trasforma in «che cos'è la sostanza?».
La sostanza è in primo luogo ogni individuo concreto (uomo, cavallo, albero, tavolo ecc.) a cui si riferiscono delle proprietà che lo caratterizzano.
E' quindi un sinolo, unione di due elementi che Aristotele chiama materia (hyle) e forma (eidos, morphé).
La forma è la natura propria di una cosa, è ciò che la rende quella che è e la distingue dalle altre; è dunque la sua essenza, il suo significato fondamentale, il suo «essere dell'essere».
La materia è invece ciò di cui una cosa è fatta, ciò di cui è composta (ad esempio un uomo è fatto di carne ed ossa; una sfera è fatta di bronzo ecc.), ed è dunque un elemento passivo, che viene 'strutturato', dalla forma, nel senso che è la forma che rende ad esempio l’uomo 'animale razionale', mentre la materia sarà il corpo dell'uomo.
Entrambe però, la materia e la forma, sono necessarie per fare una sostanza: non può esistere un uomo senza il corpo (materia), né l'anima (forma) senza il corpo.
Se la forma è l'essenza necessaria, è ciò per cui ogni essere è necessariamente quello che è, allora essa è anche la risposta che possiamo dare circa il che cos'è? di una cosa, in quanto definire un essere vuol dire chiarirne l'essenza (che cos'è questo? è un uomo; cos'è un uomo? un animale razionale).
Ciò significa che tutti gli esseri, prima di qualunque altro valore, hanno questo che li accomuna: il fatto di essere delle sostanze.
Il che implica che, per Aristotele, tutte le scienze, in quanto sono tutte rivolte alla ricerca e alla definizione delle sostanze, abbiano la stessa dignità.
Con questa idea Aristotele ha ulteriormente abbandonato il Platonismo, giacché per Platone valeva la pena di indagare solo ciò che era ottimo e perfetto e le scienze della natura non erano in fondo delle 'scienze' ma solo delle opinioni probabili.
Per Aristotele invece ogni scienza ha valore di per sé.
Egli ha quindi giustificato il valore della ricerca scientifica nel suo senso più ampio (ed ecco perché si è occupato di ogni ramo dello scibile) ed ha eliminato il pregiudizio platonico contro l'indagine della natura.
Se la forma è l'essenza necessaria, da essa si distinguono gli accidenti, i quali sono le varie qualità che si possono avere o non avere senza per questo influire sulla sostanza stessa.
Ad esempio Socrate non cessa di essere uomo mentre può essere allegro, triste, sano, malato, ecc.
Per cui mentre l'accidente cambia nel tempo, la sostanza rimane la stessa, identica, pur nel mutare delle varie qualità.
Aristotele afferma, come già Platone, che la conoscenza nasce dalla meraviglia nei confronti della realtà e consiste nel chiedersi il perché delle cose.
Ma chiedersi perché una cosa esista o perché sia così e non altrimenti, equivale a chiedersi qual è la causa (= condizione, fondamento, ragione) della cosa stessa, e quindi vi potranno essere diversi tipi di cause.
Aristotele elenca quattro cause: materiale, formale, efficiente, finale.
La causa materiale è appunto la materia, ciò di cui una cosa è fatta (il bronzo è la cosa materiale della statua).
La causa formale è la forma o essenza della cosa (la 'ragione' è la forma o essenza dell'uomo).
La causa efficiente è ciò che dà origine, inizio a qualcosa (il padre è la causa efficiente del figlio).
La causa finale è il fine, lo scopo a cui una cosa tende (il diventare adulto è la causa finale del bambino).
La teoria delle cause è legata al problema del mutamento o, meglio, del divenire.
Che vi siano delle cose che mutano è una esperienza quotidiana.
Ma come poter definire il divenire il generale? Per Aristotele il divenire è il passaggio da un tipo di essere ad un altro.
In breve, l'unica realtà è l'essere, ed il divenire è soltanto uno dei modi dell'essere.
Approfondendo la questione Aristotele elabora i concetti di essere in potenza e di essere in atto.
La potenza (dynamis) è in generale la possibilità, da parte di qualcosa, di cambiare, assumere dunque una certa 'forma'.
L'atto (energheia) è la realizzazione di quel cambiamento, è la cosa esistente che si ottiene in seguito al cambiamento.
Ad esempio un pulcino è in potenza un gallo, come il gallo è il pulcino in atto (l'atto viene anche chiamato entelecheia, cioè realizzazione o perfezione attuata).
L'atto è per Aristotele superiore alla potenza poiché è la causa, il senso, il fine di ciò che è in potenza.
Alla domanda se è nato prima l'uovo o la gallina, Aristotele risponderebbe 'la gallina', proprio perché la gallina è la realizzazione compiuta di ciò che è solo in potenza, che potrebbe avvenire ma non è ancora, mentre solo ciò che è in atto ci permette di conoscere quello che è in potenza.
Sviluppando un argomento già presente negli ultimi dialoghi platonici, Aristotele sostiene che la materia non può avere in se stessa la causa del proprio movimento.
Dunque tutto ciò che si muove, è necessariamente messo in moto da qualcos'altro.
Questo qualcos'altro, poi, se è anch'esso in movimento, è mosso da altro ancora (come la pietra è mossa dal bastone, che è mosso dalla mano, che è mossa dall'uomo).
Orbene, in questo processo di rimandi non si può procedere all'infinito perché altrimenti rimarrebbe inspiegato il movimento iniziale, dalla cui constatazione siamo partiti.
Non potendo così andare all'infinito, vi devono essere dei principi, ovvero dei motori immobili a cui fanno capo i vari movimenti e, a maggior ragione, vi deve essere un principio primo e immobile, un Primo Motore Immobile, a cui fa capo tutto il movimento.
Per Aristotele questo Motore Immobile è Dio stesso, a cui il filosofo attribuisce anche altre caratteristiche.
Prima di tutto Dio deve essere un atto puro, cioè un atto senza potenza, giacché la potenza è la possibilità di cambiamento mentre Dio, se è Motore Immobile, non può essere sottoposto al mutamento.
Inoltre Dio deve anche essere forma pura o sostanza incorporea perché è appunto privo di materia.
Alla domanda: come può il Primo Motore muovere restando immobile? Aristotele dice che esso non muove come una causa efficiente, dando un impulso, ma muove come causa finale, cioè come 'un oggetto d'amore'.
In altre parole, il Primo Motore muove come l'oggetto d'amore attrae l'amante, pur restando immobile.
Dio è la Perfezione che, come una calamita, attira e quindi muove il mondo.
Di conseguenza, l'universo è una sorta di sforzo della materia verso Dio e quindi, in pratica, un desiderio incessante di prendere 'forma'.
Non è tanto Dio che dà forma al mondo, ma è piuttosto il mondo che, aspirando a Dio, si autoordina (non si dimentichi che per i Greci l'universo non è creato, non ha avuto origine, sussiste da sempre).
Un'altra caratteristica del Dio aristotelico è che è vivente. Ma di quale tipo di vita?
Quella che per Aristotele è la più perfetta, quella che all'uomo è possibile solo per breve tempo, e cioè la vita del puro pensiero, della contemplazione (theoria).
E che cosa contempla Dio? Non può che contemplare la cosa più perfetta e quindi... contempla se stesso: egli pensa se stesso, è 'pensiero di pensiero'.
Si noti che Dio non è però unico.
Per i Greci era 'divino' tutto ciò a cui si può attribuire l'eternità e l'incorruttibilità, per cui sono divine molte cose, come le sostanze soprasensibili, l'anima razionale dell'uomo e anche i motori dei cieli.
Aristotele pensava infatti che il cielo fosse in realtà costituito da moltissime (da 47 a 55) sfere celesti, ognuna delle quali veniva mossa da una intelligenza motrice, che era dunque divina, analoga al Primo Motore ma inferiore a lui, anzi inferiori le une alle altre, come sono gerarchicamente inferiori le sfere che, una dopo l'altra, sono tra le stelle fisse e la terra.
E si ricordi, in ultimo, che il Dio di Aristotele non è né creatore e né provvidenza.
Esso non crea il mondo dal nulla (questa è una concezione ebraico-cristiana) visto che il mondo è eterno; non conosce e non ama il mondo giacché l'amore è visto come una imperfezione, in quanto è la tendenza a ricercare ciò di cui abbiamo bisogno (ricordate Platone?) mentre, se Dio è perfetto, non può avere bisogno di nulla e quindi non può amare.
Il Dio di Aristotele è insomma una statica perfezione che si bea eternamente di se stessa.
Secondo Aristotele, esistono il mondo celeste ed il mondo sublunare, in cui è situata la Terra.
Le sostanze del mondo sublunare sono costituite da quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco.
Ogni elemento si muove in una direzione determinata dal suo peso; ciascuno di essi ha quindi un luogo naturale a cui tende (per Aristotele non c'è il vuoto perché in uno spazio vuoto nulla offrirebbe resistenza e quindi non ci sarebbe differenza di velocità tra corpi pesanti e corpi leggeri).
La terra, in quanto corpo più pesante, occupa il centro dell'universo.
Al di sopra della Terra vi sono la Luna, il Sole, i pianeti e le stelle.
I corpi celesti sono legati ad una serie di sfere concentriche, che si muovono in cerchio (perché è il moto perfetto) intorno alla Terra.
Il movimento circolare è eterno, così come è eterno il mondo nel suo complesso ed eterne le specie animali e vegetali che lo popolano (bisognerà aspettare Darwin per contestare questo aspetto).
Il moto circolare è proprio delle sostanze incorruttibili ossia dei corpi celesti.
Essi sono composti da una quinta essenza o etere.
I processi di generazione e corruzione sono propri solo delle singole sostanze del mondo sublunare.
Dunque gli enti sensibili sono continuamente soggetti al divenire (e quindi al corrompersi e al morire) e al movimento, Aristotele si occupa del movimento, del tempo e dei fenomeni fisici in generale.
I concetti cardine della Fisica sono: sostrato, privazione e forma.
Il sostrato è ciò che permane nonostante il mutare.
Un essere umano, per esempio, da essere giovane diventa vecchio.
Dunque ha subito una mutazione, ma sempre dello stesso essere umano stiamo parlando che quindi possiamo definire come sostrato.
La privazione e la forma descrivono la trasformazione di un ente che prima mancava di una caratteristica (privazione) e in seguito l'acquista diventando forma.
Il divenire non è il passaggio dal non-essere all'essere poiché dal nulla, nulla può venir fuori così come non è il passaggio dall'essere al non essere perché l'essere non può cadere nel nulla.
Esistono quatro tipi di movimento:
sostanziale (generazione e corruzione dell'ente);
qualitativo (alterazione dell'essere);
quantitativo (aumento e diminuzione: la quantità dell'essere);
locale (lo spostamento, la traslazione di un essere da un posto ad un altro).
Il movimento locale è fondamentale, sta alla base di tutti gli altri moti che lo presuppongono, e si distingue in moto circolare, sempre identico a se stesso, che caratterizza il movimento dei cieli e moto rettilineo, dal basso in alto e dall'alto in basso, proprio dei quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco.
Se si toglie uno dei quattro elementi dal suo ambiente, dal suo luogo, questi tende a tornarvi: come dimostra un sasso gettato nell'acqua che affondando tende ad andare verso la sua sfera, quella della terra, mentre le bolle d'aria che si liberano nell'acqua tendono ad andare verso l'alto, ossia verso la sfera dell'aria.
In zoologia, Aristotele si riferì a un determinato sistema di generi naturali (specie), ciascuno dei quali si riproduce in conformità al proprio tipo, tranne nel caso di alcune eccezioni.
I cicli tipici di vita sono epicicloidali: si ripete il medesimo modello, ma attraverso una successione lineare di individui.
Questi processi sono dunque collocati a metà tra il movimento circolare e costante dei cieli e il semplice movimento lineare degli elementi terrestri.
Le specie costituiscono una scala graduata che si estende dal semplice (vermi e mosche al gradino più basso) al complesso (esseri umani al gradino più alto), pur nell'impossibilità di qualsiasi evoluzione.
Per Aristotele, la psicologia era lo studio delle funzioni dell'anima.
Ogni forma vivente è costituita da un principio organizzativo interno che Aristotele chiama «anima» (psyché).
La dottrina dell'anima coglie i gradi di complessità degli esseri viventi in ragione delle differenze nelle loro funzioni vitali.
L'anima, secondo Aristotele, non può esistere indipendentemente dal corpo: essa è l'atto perfetto o entelecheia di un corpo che ha la vita in potenza; mentre il corpo è la 'materia' di quel sinolo (composto) che è l'essere vivente.
L'anima rappresenta, rispetto alla dottrina delle quattro cause, l'insieme di causa formale, efficiente e finale.
In virtù del fatto che essa sia entelechia. L'anima ha diverse funzioni:
l'anima vegetativa, comune anche alle piante e agli animali, che attiene ai processi nutritivi e riproduttivi;
l'anima sensitiva, solo degli animali e degli uomini che attiene alle passioni e ai desideri (si ricordi che per Aristotele è il cuore e non il cervello il centro delle funzioni percettive e fisiologiche);
l'anima razionale, che appartiene soltanto all'uomo, e consiste nell'esercizio dell'intelletto che non ha bisogno di un supporto corporeo per svolgere il suo compito (ad esempio giudicare il vero dal falso, ciò che è da desiderare o da fuggire ecc.).
Come si vede, Aristotele, che da giovane mostrava di condividere le concezioni platoniche relative all'anima, nelle opere mature se ne stacca completamente, avviando uno studio completamente naturalistico dell'anima, intesa come principio vitale e forma in atto del corpo.
Movimento e sensazione sono le espressioni "psichiche" essenziali del mondo animale, al quale anche l'uomo partecipa, sebbene se ne differenzi poi per l'uso del linguaggio e dell'intelletto.
Ogni grado superiore ingloba le funzioni vitali del grado inferiore.
L'anima razionale contiene al suo interno anche le funzioni vitali della vegetativa e della sensitiva ma le sviluppa su un piano originale caratterizzato dalla capacità intellettuale.
L'uomo deve saper sviluppare e assecondare armonicamente tutte e tre le potenzialità dell'anima che contraddistinguono il proprio essere o entelechia.
La dottrina di Aristotele è una sintesi tra la concezione più arcaica secondo la quale l'anima non può esistere indipendentemente dal corpo e la concezione platonica dell'anima come entità separata e immateriale.
Quest'ultimo aspetto è accentuato dalla concezione dell'intelletto come immortale, così come mostrato dalla struttura della conoscenza umana.
Il tratto più originale dell'anima razionale è dato dalla facoltà conoscitiva.
Aristotele, nella sua rivalutazione complessiva dell'esperienza empirica, considera in modo totalmente positivo anche la sensazione, che non è una visione offuscata delle cose, ma anzi l'insostituibile strumento rivelativo delle loro qualità.
La conoscenza inizia dunque dalla sensazione, la quale imprime sull'intelletto quelle immagini senza le quali l'intelletto stesso sarebbe come una tavoletta di cera intatta, priva di qualsiasi contenuto.
Aristotele compie la prima analisi ampia e dettagliata della conoscenza sensibile.
La sensazione (De anima, De sensu et sensibilibus, De memoria et reminiscentia) è una funzione dell'anima sensitiva che consiste nella ricezione, da parte del senso, delle forme sensibili senza la materia, «come la cera accoglie l'impronta dell'anello senza il ferro o l'oro» (De anima, II, 12, 424a).
Oltre ai sensibili propri di ciascun senso (ad esempio, per la vista la luce e il colore), vi sono i sensibili comuni (il movimento, la quiete, il numero, la figura e la grandezza), oggetto di tutti e cinque i sensi, ma di nessuno in particolare; il senso comune è una sorta di sesto senso che, oltre a percepire i sensibili comuni, è autocosciente, cioè sente di sentire.
La sensazione contiene in potenza le forme intelligibili, che l'intelletto incorporeo trasformerà in concetti.
E Aristotele era convinto che la conoscenza in atto si identificasse con l'oggetto conosciuto; ciò sia relativamente al senso (l'oggetto sensibile diventa sentito quando il soggetto sensitivo diventa senziente: l'uno e l'altro si attuano contemporaneamente incontrandosi), sia relativamente all'intelletto.
Infatti per Aristotele l'intellezione corrisponde all'intelligibile in atto, il che in altre parole significa che quando riesco a intendere qualcosa, ne ho colto la sua sostanza.
Evidentemente secondo questa prospettiva la sostanza della cosa, anche di una cosa materiale come un albero o un cavallo, sta nella sua natura specifica, nella forma "albero" o "cavallo": quindi l'identificazione con la cosa è identificazione con la forma, la quale non esiste materialmente, perché materialmente esistono solo concreti alberi o cavalli, ma esiste come forma eterna del mondo e nella mente dell'uomo, che riesce ad “astrarla” da quell'albero e da quel cavallo.
In senso proprio, astrarre può voler dire due cose; secondo un primo, più generico significato, sta per isolare, prescindere da, considerare qualche cosa o un suo aspetto indipendentemente dal resto.
In un secondo senso l'astrazione consiste nel procedimento mediante il quale si ottiene il concetto a partire dagli oggetti individuali; la parola "albero", per esempio, fa riferimento a qualcosa di universale, le cui proprietà sono comuni a tutti gli oggetti che possono essere catalogati sotto quell'etichetta.
Per ottenere il concetto di "albero" devo escludere, astrarre da, aspetti o note che sono propri di questo o quell'albero oppure delle diverse famiglie di alberi.
A questo punto interviene l'intelletto, la cui funzione specifica è quella di cogliere in un'immagine particolare (per esempio l'immagine di questo albero) la sua forma universale, comune cioè a tutte le immagini di albero.
Questa forma comune è il concetto.
Nel nostro esempio il concetto mentale di albero, espresso dalla corrispondente parola.
Tale procedimento conoscitivo, che va dalla conoscenza dei casi particolari all'universale, prende il nome di induzione.
Partendo dai dati dei sensi, prima si astrae la forma sensibile della materia, «come la cera assume l'impronta del sigillo senza il ferro o l'oro di cui esso è composto» (De anima, II, 12), quindi da tale immagine (fantasma) l'intelletto ricava il concetto o specie intelligibile, facendo astrazione dagli aspetti spazio-temporali dell'immagine.
Le specie non sono altro che le forme, come è forma l'universale "albero", forma nel senso di essenza necessaria.
L'anima intellettiva, facoltà che presiede all'intuizione del concetto nelle immagini sensibili, ha dunque in sé, allo stato potenziale, tutti i possibili concetti, cioè tutte le possibili forme universali delle cose.
Ecco perché Aristotele può sostenere che «la scienza in atto è identica con il suo oggetto» e «l'anima è, in un certo modo, tutti gli enti» (De anima, III, 6).
Tuttavia l'anima non può compiere a partire da sé il passaggio dalla potenzialità del concetto, insita già nell'immagine sensibile e conservata dalla memoria, all'attualità dispiegata della conoscenza concettuale.
Come sappiamo, infatti, nulla passa dalla potenza all'atto se non in virtù di qualcosa che è già in atto.
Atto che costituisce dunque sia il fine dell'intero processo conoscitivo (che è quello appunto di pervenire alla conoscenza concettuale), sia il suo primo motore o causa prima.
Pertanto Aristotele definisce «passivo» l'intelletto dell'uomo.
Ad esso sovraimpone un universale intelletto «attivo» nel quale sono contenuti in atto tutti i concetti, ovvero tutte le forme della realtà.
Questo intelletto attrae a sé l'intelletto passivo rendendolo capace di conoscere.
È la sua permanente illuminazione, cioè, che attiva l'intelletto passivo: «lume naturale» che Aristotele attribuisce a Dio, l'intelletto eternamente e compiutamente in atto.
L'intelletto umano invece, legato al corpo del quale è forma, non è né sempre in atto né immortale.
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" Ma ora devo trattare anche dell’altro versante del pensiero di Aristotele,… e cioè di quell’aspetto per cui, a partire da Socrate, il discorso su Dio non deve allontanarci dal mondo. Si tratta del problema della vita etica, dello Stato e della società: su tutto ciò Aristotele ha svolto, in effetti, una riflessione consapevole, collocandosi, certo, anche nel solco dei dialoghi platonici della vecchiaia, come il Filebo e il Politico. Si tratta cioè della filosofia pratica, un pensiero che intende cogliere la vita effettiva dell’uomo, la sua prassi. Il termine «prassi» ci è ben noto, anche e soprattutto nei suoi significati secondari, derivati, che richiamiamo sempre alla memoria quando, per esempio, parliamo di prassi amministrativa o della prassi abituale di un ufficio. Che cos’è, nel nostro caso, la «prassi»? Certo, non è un agire, no, no! E che cosa dovrebbe essere, allora? Un certo modo di stare?! Così già va meglio, a patto che si intenda uno stare là dove si agisce! Dunque: prassi non è affatto l’applicazione della teoria; essa è piuttosto un modo particolare… di sapere e di essere, un modo di stare nelle situazioni. – I Greci concludevano le lettere con la formula: «èu prátein», che si può rendere con «ti auguro di star bene». Noi stessi non diciamo: «agisci bene», bensì auspichiamo: «stammi bene!» Prátein si usa anche per significare che le cose vanno bene, oppure vanno male. Insomma: la filosofia pratica non è semplicemente una dottrina dell’azione; essa tratta di come l’uomo si muove e si situa nella vita, in quanto essere che agisce e patisce. E così Aristotele, distinguendo opportunamente i concetti e seguendo il proprio metodo didattico, ha scoperto innanzitutto che la vita umana è caratterizzabile attraverso l’èthos e la frònesis,… cioè quell’impronta data dall’abitudine e dall’educazione… che si riflette nella scelta responsabile e consapevole del meglio e del giusto, che orienta il comportamento nelle diverse situazioni. In altre parole, l’«etica». Questo nome è diventato familiare solo con Aristotele, sebbene esistesse già come sostantivo, usato però nel senso di «stile di vita», riferito agli animali,… o anche agli uomini. Ma qui sopravvive la lezione di Socrate. Se il socratismo comincia con Platone, Aristotele è il secondo grande socratico, e ha tentato di mostrare che qui tutto dipende da questo intreccio di èthos, di educazione e di abitudine che diventa come una seconda natura, un secondo «essere». È quello che intendiamo – più o meno – quando diciamo che uno ha «carattere»,… oppure che ha «un suo essere», e con questo vogliamo appunto sostenere che qualcosa è entrato a far parte della sua natura grazie all’educazione, all’istruzione ricevuta, alle influenze sociali, ma anche (come oggi ben sappiamo) in larga misura, a causa della natura stessa, del patrimonio genetico. Tutto ciò rappresenta un presupposto affinché si possieda un certo sapere, che non è però lo stesso della scienza. Per la scienza non deve avere importanza il fatto che uno abbia certe inclinazioni e un altro ne abbia certe altre, che uno sia stato educato in un modo e un altro diversamente, che ci sia chi abbia un certo temperamento e chi ne mostri uno differente; tutto ciò è invece decisivo per la vita pratica e per l’azione consapevole, per sapere come comportarci di fronte a ciò che consideriamo giusto. Voglio dire, in definitiva, che Aristotele, nel tener fede all’eredità socratica, e cioè ammettendo che non c’è solo imitazione, ma anche libera scelta… e responsabilità consapevole, ha proposto, in realtà, quello che già era stato descritto, seppur con immagini mitiche, nella Repubblica di Platone: uno Stato nel quale non si può agire scorrettamente, e un sapere che governi questo Stato. La vita umana è queste due cose insieme: filosofia teoretica e filosofia pratica. E il divino sta in entrambe." (Hans Georg Gadamer)
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L'etica (dal greco ethos) tratta del comportamento da tenere per poter vivere un'esistenza felice.
E appunto nella felicità consiste il bene più alto per Aristotele.
Il bene non è più, come in Platone, l'Idea o la realtà più alta ma, molto più concretamente, "ciò a cui ogni cosa tende".
Da questo punto di vista, vi è una molteplicità di fini e quindi di beni, anche se vi è una gerarchia di desiderabilità tra tutti i beni.
La felicità comprende molte cose: una buona vita, una attività coronata da successo, un gruppo di amici con cui condividere le esperienze, il possesso di un minimo di beni, insomma oggi diremmo una 'esistenza realizzata'.
Non per nulla il termine greco per 'felicità' è eudaimonia, che vuol dire letteralmente essere accompagnati 'da un buon demone', quindi da una sorte propizia.
Aristotele si riferisce comunque ad una felicità esclusivamente umana e, del resto, per lui non è neppure concepibile una felicità ad esempio degli animali; non solo, ma per Aristotele l'uomo potenzialmente felice è il membro giusto, agiato, della polis, per cui ne sono esclusi schiavi, artigiani ecc.
Comunque Aristotele riconosce la fragilità della felicità concessa agli uomini: il virtuoso sarà però capace di fronteggiare con serenità le varie vicissitudini della sorte (tyché).
La via maestra per la virtù è l'abitudine alla condotta virtuosa.
In altri termini, si diventa giusti abituandosi a compiere azioni giuste.
La formazione morale si attua cioè attraverso l'abitudine e finisce per consolidarsi in una sorta di 'seconda natura' del soggetto.
Il criterio effettivo a cui paragonare il nostro comportamento non è, per Aristotele il riferimento ad un bene più o meno astratto, ma è costituito dal riferimento alla tripartizione dell'anima.
Sulla base di questa tripartizione, Aristotele individua il piacere e la salute come scopo finale dell'anima vegetativa, risultante dall'equilibrio tra gli eccessi opposti, evitando ad esempio di mangiare troppo, o troppo poco.
L'etica di Aristotele segue da vicino i dettami della scienza medica greca, basata sull'equilibrio e la moderazione.
All'anima sensitiva egli assegna invece le cosiddette virtù etiche, che sono abitudini di comportamento acquisite allenando la ragione a dominare sugli impulsi, attraverso la ricerca del giusto mezzo fra estreme passioni:ad esempio il coraggio è l'atteggiamento mediano da preferire tra la viltà e la temerarietà.
Le diverse virtù etiche sono quindi tutte riassunte dalla virtù della giustizia.
Aristotele è convinto che né la spinta della passione (al contrario di quanto sostenevano i tragici del pensiero arcaico) né l'attrazione del piacevole esercitano su di noi una vera e propria costrizione.
Resta sempre in noi la possibilità di resistere, di esercitare quel potere interiore (enkrateia) che distingue il virtuoso dall'intemperante.
In altri termini, per Aristotele le passioni non costituiscono in loro stesse il male morale: occorre solo incanalare le passioni quando e come si deve, verso chi e per il fine che si deve, seguendo la regola del giusto mezzo.
A parte ancora vi è pure l'amicizia (philia) a cui Aristotele dedica due libri dell'Etica nicomachea (l'8° e il 9°).
La felicità è perfetta se, oltre alla contemplazione, l'uomo possiede un certo numero di beni ed in più ha degli amici.
L'amicizia è strettamente collegata alla virtù, ed è la cosa "più necessaria" alla vita.
L'amicizia, quando è fondata appunto sul bene e sulla virtù, è perfetta, ed è quindi stabile e ferma.
"L'uomo virtuoso si comporta verso l'amico come si comporta verso se stesso, perché l'amico è un altro se stesso" (Et. nic.,9,9,1170 b 5).
All'anima razionale infine Aristotele assegna le cosiddette virtù dianoetiche, suddivise in calcolative e scientifiche.
Le facoltà calcolative hanno una finalità pratica, sono strumenti in vista di qualcos'altro: la saggezza o prudenza (phrònesis) serve a dirigere le virtù etiche, oltre a guidare l'azione politica.
Se queste virtù vanno perseguite in vista di un bene più alto, alla fine tuttavia deve pur sussistere un bene da perseguire per se stesso.
Le facoltà scientifiche, mirando alla conoscenza disinteressata della verità, non si prefiggono appunto nessun altro obiettivo al di fuori della sapienza in sè (sophìa).
A questa virtù suprema concorrono le due facoltà della conoscenza: la scienza (epistème), che è la capacità della logica di compiere dimostrazioni; e l'intelligenza (noùs), che fornisce i princìpi primi da cui scaturiscono quelle dimostrazioni.
ristotele introduce così una concezione della sapienza intesa come "stile di vita" slegato da ogni finalità pratica, e che solo i filosofi realizzano pienamente.
La contemplazione della verità è quindi un'attività fine a se stessa, nella quale consiste propriamente la felicità (eudaimonìa), ed è quella che distingue l'uomo dagli altri animali rendendolo più simile a Dio, già definito da Aristotele come «pensiero di pensiero», pura riflessione autosufficiente che nulla deve ricercare al di fuori di sé.
Aristotele dedica un libro alla politica.
Il punto di partenza è la frase famosa «l'uomo è per natura un animale politico».
Aristotele dice che non sono politici nè gli animali nè gli dei: solo l'uomo lo è.
Dire che l'uomo per natura è un animale politico significa affermare che è un'attitudine naturale.
Il fatto di vivere insieme non è solo dettato da esigenze materiali: anche se l'uomo avesse tutto ciò di cui ha bisogno e fosse autonomo tenderebbe lo stesso a vivere insieme ad altri.
L'uomo tende quindi ad aggregarsi in modo naturale ha una spontanea voglia di stare insieme.
Aristotele vede nella polis l'ultima gradino del bisogno sociale umano.
Al primo posto c'è la famiglia.
Passando all'analisi politica vera e propria, bisogna dire che anche lui ha una classificazione delle forme di governo, abbastanza simile a quella di Platone nel "Politico".
Aristotele considera tre forme di governo che risultano giuste o ingiuste in relazione al fatto che chi governa governi per l'interesse pubblico o personale.
La monarchia è la forma di governo dove il singolo governa per il bene di tutti; la tirannide quella dove il singolo governa per il proprio bene.
L'aristocrazia è il governo dei migliori mentre l'oligarchia è il governo di pochi che perseguono i loro interessi.
E lo stesso discorso vale anche per la democrazia e la politeia.
La collettività può governare negli interessi di tutti (politeia) o in quelli della maggioranza che governa (democrazia).
Aristotele condanna la democrazia perché è il governo della maggioranza popolare, socialmente inferiore, che tende a governare per il proprio interesse.
Per Aristotele la miglior forma di governo è la politeia, la democrazia positiva, quando i più governano bene.
Aristotele dice che tutti accetteremmo che fosse uno solo a governare se egli avesse più virtù di tutti gli altri messi insieme: sarebbe il miglior governo, ma è puramente astratto.
Nella politeia, per quanto la maggior parte delle persone abbia virtù mediocri, mettendole insieme riusciranno a far funzionare il governo.
La famiglia è la società naturale e primordiale: è nata prima e autonomamente e quindi ha dei suoi diritti.
Quando Aristotele parla della famiglia la chiama oikos (casa).
La famiglia è il nucleo primario non solo sul piano degli affetti, ma anche sul piano economico.
Economia, oikos nomos, significa regolamentazione della casa; è il processo con cui si procurano i beni per far funzionare bene la casa.
Tutto questo avviene attraverso l’attività di scambio commerciale.
L'uso del denaro è legittimo se viene usato per fare acquisti, ma diventa illegittimo se lo si usa non come mezzo ma come fine, quando cioè non lo uso più per fare acquisti ma per accumularlo.
E' un uso contro natura del denaro.
Quando Aristotele parla della famiglia cita 4 figure: padre, madre, figli e schiavi, che svolgevano attività agricole e di servizio per la casa.
Anche nella famiglia si formano diversi rapporti di autorità: il padre (il pater familias latino) ha diversi rapporti di autorità sulla moglie, sui figli e sugli schiavi.
Il rapporto nei confronti dei figli è temporaneo e dura finché essi non crescono; il rapporto nei confronti degli schiavi è permanente.
Dice che la schiavitù è naturale e necessaria.
Esistono individui per natura liberi ed altri per natura schiavi.
Aristotele sostiene che c'è una parte dell'umanità capace di mettere in pratica le sue capacità mentali (in potenza le abbiamo tutti, si tratta di farle passare in atto) e una parte che non è capace: non sa fare scelte razionali.
Per questo, secondo Aristotele, è meglio, non solo per i padroni ma anche per gli schiavi stessi, essere schiavi: una persona incapace di governarsi autonomamente trae solo benefici dall'essere governata da qualcun altro.
Aristotele arriva a definire lo schiavo strumento inanimato.
Il vero problema è che in concreto non si diventa schiavi per il fatto che non si è in grado di pensare.
Si diventa schiavi con le guerre: chi perde diventa schiavo, chi vince diventa padrone.
Bisogna ricordare che Platone stesso aveva rischiato di diventare schiavo.
Aristotele definisce la retorica come «la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto» (I, 2, 1355b).
Tale capacità è sua peculiare, e la differenzia dalle altre technai, le quali si occupano sì di persuadere un pubblico, ma unicamente riguardo agli argomenti specifici di cui trattano.
Diversamente da quanto affermava Platone nel Gorgia, Aristotele dunque attribuisce alla retorica il titolo di techne, più precisamente l'unica techne in grado di produrre persuasione (pythanon) riguardo a qual si voglia argomento proposto.
Oggetto della retorica non è la verità (aletheia), ma il verosimile (eikós), ovvero ciò che è valido nella maggior parte dei casi, relativamente a tutto ciò che ammette una situazione differente dalla tesi sostenuta (1357b).
Ciò rende la retorica «analoga alla dialettica» (I, 1, 1354 a): entrambe infatti si occupano di argomenti la cui conoscenza è patrimonio condiviso di tutti gli uomini, e non appartenenti ad una scienza specifica.
In questo senso, è comprensibile l'importanza che Aristotele conferisce all'entimema (enthyméma), il sillogismo retorico, basato su premesse probabili (éndoxa): la dialettica si occupa di sillogismi, la retorica di entimemi (I, 1, 1355a).
L’entimema parte infatti da quegli assunti la cui validità viene riconosciuta dall’uditorio o dal giudice che si ha di fronte, in modo che abbiano coscienza dell’evidenza degli argomenti.
Quattro sono i tipi di premesse per da ognuno dei quali deriva un tipo diverso di entimema: dalla prova (tekmerion) l’entimema apodittico, dall’esempio l’entimema induttivo, dal verisimile l’entimema anapodittico e dal segno l’entimema asillogico.
Di questi, l’entimema anapodittico e quello asillogico sono entimemi apparenti, poiché non hanno carattere di necessità.
Esempi: «È italiano, dunque ha buon gusto», in cui è taciuta la premessa, «Tutti gli italiani hanno buongusto». «È svizzero, quindi è preciso», in cui è taciuta la premessa «Tutti gli svizzeri sono precisi».
La retorica, attraverso l'entimema, è in grado di indagare le verità scientifiche, confutare gli avversari o difendere se stessi da accuse e critiche.
Diverso è invece il caso dell'esempio (paradeigma), definito da Aristotele una «induzione retorica» (I, 2, 1356b).
Quest'ultimo, infatti, mira a dimostrare la tesi attraverso casi analoghi ai fatti trattati - la medesima cosa che fa la dialettica attraverso l'induzione.
Gli esempi, possono essere inventati dall’autore (è il caso delle favole o degli apologhi) oppure essere tratti dalla realtà (avvenimenti realmente accaduti, fatti storici e così via); l’importante è però che abbiano qualche analogia con l’oggetto del discorso.
Si spiega così il motivo per cui la Retorica fu talvolta inserita (insieme alla Poetica) tra le opere di logica nella versione estesa dell’Organon.
Legato all’entimema e all’argomentazione logica è anche la teoria dei luoghi (topoi), descritta nel cap. 2 del Libro I.
I luoghi, che caratterizzano i sillogismi e gli entimemi, possono essere comuni o propri: i primi, comuni, riguardano cause di carattere generale, mentre quelli propri sono relativi a una determinata specie o un determinato genere.
I luoghi comuni possono a loro volta suddividersi tra quelli degli entimemi reali e quelli degli entimemi apparenti, per ciascuno dei quali sono riportati degli esempi al cap. 18.
Infine, Aristotele parla dell’importanza delle massime, intese come affermazioni «di carattere universale» riguardanti ciò che può essere scelto in relazione ad una azione.
Esse hanno un certa efficacia sul pubblico, soprattutto se si rifanno a concetti generalmente bene accettati da chi sta ascoltando; nel caso contrario, bisogna ricorrere all’entimema, la cui conclusione sarà, appunto, una massima (II, 21, 1394a).
La qualità della retorica sta nel trovare, per qualsiasi argomento, i mezzi di persuasione (reali o apparenti) più utili al proprio fine.
Aristotele passa così in rassegna i vari tipi di argomentazione (pisteis), suddividendole in «tecniche» (entechnoi) e «non tecniche» (atechnoi).
Le argomentazioni non tecniche sono quelle che non vengono fornite dal retore, ma che sono preesistenti - come le testimonianze, le confessioni sotto tortura, i documenti scritti (I, 2, 1355b).
Le argomentazioni tecniche, invece, dipendono dal retore e si possono ottenere applicando un metodo.
Queste ultime sono così classificate (I, 2, 1356a1-20):
Argomentazioni che realizzano la persuasione grazie al carattere dell'oratore.
L'ascoltatore accorda maggiore fiducia ad un oratore che dimostra di conoscere prontamente l'argomento di cui sta parlando; diversamente, risulta poco credibile chi propone varie opinioni su un argomento, piuttosto che una certezza assoluta.
Il carattere dell'oratore rappresenta quindi l'argomento più forte.
Argomentazioni che realizzano la persuasione predisponendo l'ascoltatore in un dato modo.
Il retore che voglia riuscire a persuadere il proprio pubblico deve anche tenere conto dei sentimenti e delle emozioni che il suo discorso genera negli ascoltatori, poiché i sentimenti influenzano inevitabilmente i giudizi.
Argomentazioni che realizzano la persuasione unicamente grazie al discorso.
È il caso dei discorsi che dimostrano la verità (reale o apparente) di una tesi mediante gli opportuni mezzi di persuasione.
Tali considerazioni, afferma Aristotele, dimostrano ancora una volta che la retorica è una techne comprensibile solo da chi è in grado di ragionare logicamente, e di riflettere attorno a caratteri, virtù ed emozioni.
Per questo ribadisce che la retorica è una ramificazione della dialettica, nonché una filiazione dell'etica e della politica.
Aristotele analizza i tre tipi di discorso retorico.
Deliberativo (γένος συμβουλευτικόν).
Di questo tipo di retorica fanno parte i discorsi di esortazione e dissuasione, siano essi privati (consigli o rimproveri) o pubblici (è il caso di leggi e costituzioni).
Un discorso deliberativo tratterà dunque temi politici o morali, e i suoi fini saranno la felicità e il bene; inoltre, avendo per oggetto decisioni in vista dell’avvenire, il suo tempo di riferimento è il futuro (capp. 4-8).
Epidittico (γένος ἐπιδεικτικόν). Il genere inventato da Gorgia, ha come scopo la lode e il biasimo.
La retorica epidittica mira infatti a dimostrare la virtù e l'eccellenza di una persona, attraverso le varie forme di elogio, e per questo si riferisce al presente (cap. 9).
Giudiziario (γένος δικανικόν). È il tipo di retorica utilizzato nei tribunali, per difendere o accusare un imputato.
Fa largo uso di argomentazioni non tecniche (leggi scritte e non scritte, testimonianze, contratti), e cerca di indagare la causa di un’azione delittuosa, tentando anche di determinare se un’azione è peggiore di un’altra.
Il suo tempo di riferimento è il passato (capp. 10-15).
Per ricorrere a queste tre tipologie è necessario conoscere le premesse proprie della retorica (prove, probabilità e segni), e le caratteristiche specifiche del genere utilizzato (ovvero il tempo verbale da impiegare, i tipi di argomentazione e via dicendo).
La retorica esiste in funzione di un giudizio: ogni deliberazione deve essere giudicata, e in ciò svolgono un ruolo fondamentale sia l’atteggiamento del retore (ethos), sia la disposizione d’animo di chi ascolta (pathos).
La retorica infatti mira a persuadere un uditorio della bontà di certe affermazioni, e per fare ciò è necessario non solo curare i discorsi, ma anche il modo in cui l’oratore si presenta, così da adattare gli argomenti ai sentimenti del pubblico che si ha di fronte (II, 1, 1377b).
Le emozioni infatti alterano le opinioni degli uomini, e sono in grado di modificare i giudizi in base a piacere o dolore (1378a).
Più nello specifico, lo Stagirita afferma che nella retorica deliberativa è più importante il carattere dell’oratore, mentre i sentimenti del pubblico sono centrali nel genere giudiziario.
Per quanto riguarda l’oratore, questi deve possedere essenzialmente tre doti: saggezza (phronesis), virtù (areté) e benevolenza (eunoia).
Un oratore che non abbia opinioni corrette riguardo l’argomento di cui sta trattando, o che per malvagità nasconda certi particolari o non sia in grado di dare buoni consigli, non riuscirà ad essere persuasivo.
D’altra parte, il buon oratore deve anche saper sfruttare le emozioni a proprio vantaggio, riuscendo a suscitare nel pubblico quelle più adatte ai suoi scopi.
È interessante notare che, rivolgendosi qui allo studio delle passioni, Aristotele si rifà alla lezione dei sofisti e dei pitagorici, per i quali era centrale il tema della psicagogia.
Aristotele analizza anche le parti dell’orazione.
In ogni discorso vi sono sempre due momenti fondamentali, l’enunciazione della tesi (prothesis) e la sua dimostrazione mediante argomentazioni (pisteis). Le altre parti che vengono indicate sono valide a seconda dei casi e dei generi di discorsi:
Esordio (prooimion): l’incipit del discorso, deve indicare chiaramente, qualora non lo si sappia già, quale sarà l’argomento di cui intende parlare.
Narrazione (diegesis): la parte centrale dell’orazione, non deve essere particolarmente lunga né troppo breve, ma deve esporre l’argomento secondo misura.
Dimostrazione (apodeixis): deve elencare le varie argomentazioni, proponendo le prove a sostegno della propria tesi e cercando di confutare quelle contrarie.
Epilogo (epilogos): la parte finale deve disporre l’ascoltatore favorevolmente nei confronti dell’oratore, aumentare la pregnanza delle tesi, suscitare reazioni emotive e infine ricapitolare quando si è detto.
La Poetica, di cui possediamo un solo libro rispetto ai due di cui si componeva originariamente, presenta la visione dell’arte che è considerata un'imitazione della natura secondo verosimiglianza (mimesi) che arreca diletto e nel contempo trasmette conoscenza.
L'arte tragica, in particolare, mette in scena le passioni umane, lasciando comunque trapelare un ordine razionale nel susseguirsi degli eventi.
Segue poi l'elenco dei sei elementi costitutivi della tragedia, che in ordine di importanza sono: favola, caratteri, pensiero, linguaggio, melopea e spettacolo.
I primi tre sono gli obbiettivi della mimesi, il quarto ed il quinto i mezzi e l'ultimo il modo.
La favola (μυθος) è la “composizione di una serie di atti o di fatti”; è il costituente più importante perché la tragedia è “mimesi di uomini, bensì di azioni e di vita”, e perché senza di essa non ci può essere tragedia.
Non a caso infatti i mezzi più efficaci per trascinare l'animo degli spettatori (peripezie e riconoscimenti) sono parte della favola.
Il carattere (ηθη) è l'elemento da cui risultano le intenzioni morali di un personaggio, che lo portano a preferire e rifiutare certe cose; esso non è l'obiettivo primario della tragedia, bensì va a sussidio dell'azione.
Per spiegare meglio questo concetto Aristotele fa l'esempio di un quadro dipinto senza disegno ma pieno di colori (carattere), il quale diletta molto di meno di una tela bianca con i soli contorni di una figura (favola).
Il pensiero (διάνοια) è ciò che i personaggi dimostrano parlando o enunciando una massima generale, ed è espresso dal quarto elemento, il linguaggio (λέξις).
Infine abbiamo la melopea (μελοποιία) e lo spettacolo (οψις): il primo abbellisce la scena, il secondo è utile a far animo sugli spettatori, sebbene non sia vincolante per il fine della tragedia in quanto è raggiungibile anche “senza rappresentazione scenica e senza attori” (ανευ αγωνος και υποκριτων).
Lo spettatore, per via della verosimiglianza del materiale tragico, è spinto a immedesimarsi nella vicenda fino a ottenere la catarsi, un liberatorio distacco dalle passioni rappresentate, che interviene nel momento in cui si coglie la razionalità celata negli eventi.
La pietà (ελεος) ed il terrore (φοβος) sono il veicolo principale della catarsi tragica.
Ancora una volta, il senso e le caratteristiche di queste due emozioni vengono chiarite nel libro II della Retorica.
Il terrore viene definito come la sofferenza per un male imminente ed ineludibile; ad esempio si ha paura della morte solo quando è prossima, mentre prima di allora non la si teme.
L'uomo nella disposizione d'animo di provare terrore è colui che teme che quell'accadimento porterà rovina; di conseguenza, coloro che vivono nella prosperità o hanno provato grandi mali hanno meno paura.
Nella tragedia, gli spettatori sono portati a provare terrore giacché conoscono sin dall'inizio la conclusione del mito ed i suoi eventi rovinosi (ironia tragica).
La pietà, invece, è una forma di sofferenza nei confronti di chi ha subito un male senza meritarlo; non la provano coloro che sono caduti in rovina o le persone arroganti, mentre la provano i vecchi, i deboli, i timidi e le persone colte.
Il termine catarsi ricorre frequentemente in Aristotele, in particolar modo nelle opere biologiche.
Aristotele concepisce compassione e paura come emozioni simili a quelle purificate, ma allo stesso tempo diverse nella forma, sia per qualità che quantità, con il risultato che esiste tra due estremi opposti una virtù di mezzo.
Ad esempio tra l'essere paurosi e la tracotanza vi è il coraggio.
Richiamando così la concezione delle virtù etiche espresse nell’Etica Nicomachea.
Proprio per questo valore conoscitivo la poesia è "più filosofica" della storia.
Aristotele è anche noto per aver formulato la dottrina delle tre unità della tragedia (di luogo, di tempo e di azione) che hanno dominato incontrastate la storia della drammaturgia fino al nostro secolo.
In realtà, nel testo l'unica unità presente è l'azione.
Le altre due - tempo e luogo - non si riscontrano nel trattato, anche se, nella distinzione tra tragedia ed epopea, Aristotele dice che "la tragedia fa tutto il possibile per svolgersi in un giro di sole o poco più, mentre l'epopea è illimitata nel tempo" e da questo sembra far intendere che l'unità di tempo sia preferibile.
In effetti, la concezione delle unità aristoteliche, così come è stata considerata tradizionalmente, è di molto posteriore ad Aristotele stesso e risale ai commenti inseriti nelle traduzioni latine dell'umanesimo del cinquecento.
(schemi a cura di Valentina Carta)