La Critica della ragione pura, esaminando l'attività conoscitiva della ragione, ha mostrato come essa incorra in un inevitabile fallimento quando tenti di varcare i limiti dell'esperienza fenomenica. Nella Critica della ragione pratica (pubblicata nel 1788), conducendo un esame critico della volontà, ossia della ragione nella sua attività pratica, Kant mostrerà che per una fondazione dell'azione morale è invece necessario prescindere da quegli stessi limiti che in campo conoscitivo erano vincolo e garanzia di scientificità.
Già nel 1785, con la Fondazione della metafisica dei costumi, Kant aveva affrontato una prima volta il problema morale, ma la sua trattazione nella Critica della ragione pratica, oltre a rivelare lievi divergenze di prospettiva rispetto all'opera del '75, si pone in esplicita continuità con la prima Critica e, quanto al metodo e ai fini, svolge la ricerca con un andamento parallelo ad essa.
Anzitutto Kant cerca di stabilire se la volontà umana sia unicamente determinata a posteriori dalle inclinazioni sensibili (che sono, in sede morale, il corrispettivo dei dati della sensibilità in sede conoscitiva), oppure se essa obbedisca a forme a priori dell'agire che siano il fondamento costitutivo dell'azione morale. Per fare chiarezza su questo primo punto, Kant afferma che la volontà si esprime in imperativi, ossia in regole di azione.
Un primo genere di imperativi è quello ipotetico, in quanto determina regole di azione coordinate ad un fine: gli imperativi ipotetici, infatti, possono ridursi alla formula «se vuoi A fai B», fornendo indicazioni di prudenza e di avvedutezza per conseguire una felicità desiderata. Essi formulano un'ipotesi che è evidentemente legata alle inclinazioni sensibili dell'individuo cui si rivolgono, il «voler A» equivalendo ad una «inclinazione a desiderare A».
È dunque evidente che gli imperativi di questo tipo non sono mai a priori e mancano perciò di qualsiasi universalità e necessità, cosicché risulta impossibile determinare sulla base di essi una legge morale dotata del senso di obbligazione sopraindividuale che da una legge deve appunto derivare.
La volontà si esprime però anche in imperativi categorici i quali comandano semplicemente «fai ciò che devi», senza precisare ulteriormente la circostanza e la modalità del fare o l'oggetto del dovere. Tali imperativi sono puramente "formali" poiché non badano al contenuto dell'azione, ma soltanto al modo, che prescrivono debba essere conforme al dovere e unicamente determinato dalla ragione.
L’imperativo categorico può quindi dirsi sia a priori (in quanto non tiene conto delle inclinazioni sensibili dell'individuo), sia universale e necessario (in quanto valido per tutti senza eccezione).
Vediamo dunque come Kant distingue gli imperativi ipotetici da quelli categorici, e come sottolinei la necessità per questi ultimi di fondarsi esclusivamente sulla «vera facoltà superiore di desiderare», ossia sulla ragione libera da qualsiasi condizionamento particolare.
«La regola pratica è sempre un prodotto della ragione, perché prescrive l’azione come mezzo all'effetto come fine. Ma per un essere, per cui il motivo determinante della volontà non è unicamente la ragione, questa regola non è un imperativo, cioè una regola che viene caratterizzata mediante un dovere esprimente la necessità oggettiva dell'azione. Essa significa che, se la ragione determinasse interamente la volontà, l'azione avverrebbe immancabilmente secondo questa regola. Gli imperativi hanno dunque valore oggettivo, e sono affatto differenti dalle massime, in quanto queste sono princìpi soggettivi. Quelli invece, o determinano le condizioni della causalità dell'essere razionale, come causa efficiente, semplicemente riguardo all'effetto e alla sufficienza ad esso, o determinano soltanto la volontà, sia questa sufficiente o no all'effetto. I primi sarebbero imperativi ipotetici, e conterrebbero semplici precetti dell'abilità; i secondi invece sarebbero imperativi categorici e soltanto leggi pratiche. Dunque le massime sono bensì princìpi, ma non imperativi. Ma gli stessi imperativi, se sono condizionati, cioè se determinano la volontà non semplicemente come volontà, ma soltanto relativamente a un effetto desiderato, cioè se sono imperativi ipotetici, sono bensì precetti pratici, ma non leggi. Queste ultime devono determinare sufficientemente la volontà come volontà, ancor prima che io domandi se ho il potere necessario a un effetto desiderato, o che cosa debba fare per produrlo. Quindi esse devono essere categoriche, altrimenti non sono leggi, perché manca loro la necessità che, se deve essere pratica, deve essere indipendente da condizioni patologiche, quindi da condizioni che aderiscano accidentalmente alla volontà. [...]
Affinché la ragione possa dare leggi, si richiede che essa abbia bisogno di presupporre semplicemente se stessa, perché la regola è oggettiva e universalmente valida solo quando vale senza condizioni accidentali e soggettive, che distinguono un essere razionale da un altro. [...]
TEOREMA I
Tutti i princìpi pratici, che presuppongono un oggetto (materia) della facoltà di desiderare come motivo determinante della volontà, sono empirici e non possono fornire leggi pratiche. [...]
TEOREMA II
Tutti i princìpi pratici materiali, come tali, sono di una sola e medesima specie, e appartengono al principio universale dell'amor proprio, ossia della propria felicità. [...]
COROLLARIO
Tutte le regole pratiche materiali ripongono il motivo determinante della volontà nella facoltà di desiderare inferiore; e, se non vi fossero leggi semplicemente formali di essa che determinassero sufficientemente la volontà, non si potrebbe neanche ammettere una facoltà di desiderare superiore.
SCOLlO I
C'è da meravigliarsi che uomini, per altro acuti, possano credere di trovarla differenza tra la facoltà di desiderare inferiore e quella superiore nell'aver le rappresentazioni che sono legate col sentimento del piacere la loro origine nei sensi o nell'intelletto. Infatti, quando si ricercano i motivi determinanti del desiderio, e si ripongono in un diletto che si aspetta da qualcosa, non importa donde provenga la rappresentazione di quest'oggetto che piace, ma importa solo quanto esso piace. [...]
Il principio della propria felicità, per quanto possano essere usati in esso anche l'intelletto e la ragione, non conterrebbe tuttavia altri motivi determinanti per la volontà se non quelli che sono adeguati alla facoltà inferiore di desiderare, e perciò, o non vi è affatto facoltà superiore di desiderare, o la ragione pura dev'essere per sé sola pratica, ossia deve poter determinare la volontà mediante la semplice forma delle regole pratiche senza la presupposizione di un sentimento, e quindi senza le rappresentazioni del piacevole o dello spiacevole come materia della facoltà di desiderare, la quale materia è sempre una condizione empirica dei princìpi. Soltanto la ragione quindi, in quanto determina per se stessa la volontà (non in servigio delle inclinazioni), è una vera facoltà superiore di desiderare, a cui è subordinata quella patologicamente determinabile. La ragione differisce realmente, anzi specificamente, da questa facoltà, in modo che anche la minima mescolanza degli impulsi di quest'ultima nuoce alla sua forza e preminenza, allo stesso modo che il minimo elemento empirico, come condizione, in una dimostrazione matematica, diminuisce e annulla il suo valore e la sua efficacia. La ragione in una legge pratica determina la volontà immediatamente, non mediante l'intervento di un sentimento di piacere o dispiacere, neanche di un sentimento per questa legge; e solo il fatto che essa come ragion pura può essere pratica, le rende possibile di essere legislatrice».
L’imperativo categorico può essere determinato in massime di comportamento, purché esse non ne contraddicano il carattere puramente formale e a priori. «Agisci in modo da trattare l'umanità, nella tua come nell' altrui persona, sempre come fine e mai come semplice mezzo»; «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale»; «Agisci come se tu potessi volere che la massima della tua azione divenisse legge universale della natura»: sono, queste, tutte massime che mostrano bene la peculiarità dell'imperativo categorico, il quale consiste infine nell'agire in modo universale, al di là di qualsiasi particolarità individuale. La presenza in noi dell'imperativo categorico e della connessa legge morale indipendente da ogni inclinazione sensibile è definita da Kant un fatto della ragione, fatto che non necessita né di deduzione né di spiegazione in quanto proprio esso rende possibile la deduzione di una volontà pura a priori, la coscienza in noi del dovere e la possibilità stessa di formulare giudizi morali sulle nostre azioni. La ragione pura, in tal senso, è di per sé pratica, cioè originariamente legislativa, come Kant ben spiega nel brano che segue:
«LEGGE FONDAMENTALE DELLA RAGION PURA PRATICA
Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale.
SCOLlO
La regola pratica è dunque incondizionata, e quindi rappresentata a priori come una proposizione pratica categorica, mediante la quale la volontà viene assolutamente e immediatamente (per la regola pratica stessa, la quale qui è dunque legge) determinata oggettivamente. Poiché qui la ragion pura pratica in sé è immediatamente legislativa. La volontà è concepita come indipendente dalle condizioni empiriche, e quindi come volontà pura, determinata mediante la semplice forma della legge, e questo motivo determinante è considerato come la condizione suprema di tutte le massime. La \ cosa è abbastanza singolare, e non ha l'uguale in tutta la conoscenza pratica rimanente. Poiché il pensiero a priori di una legislazione universale possibile, il quale dunque è semplicemente problematico, vien presentato incondizionatamente come legge, senza prendere in prestito qualcosa dall' esperienza o da una volontà esterna. Ma esso non è neanche un precetto secondo il quale deve avvenire un'azione per cui è possibile un effetto desiderato (poiché allora la regola sarebbe sempre condizionata fisicamente), ma è una regola che determina a priori semplicemente la volontà rispetto alla forma delle sue massime; e allora una legge, la quale serve semplicemente allo scopo della forma soggettiva dei princìpi, non è impossibile, almeno a concepirsi, come motivo determinante mediante la forma oggettiva di una legge in generale. La coscienza di questa legge fondamentale si può chiamare un fatto della ragione, non perché si possa dedurre per ragionamento da dati precedenti della ragione, per esempio dalla coscienza della libertà (perché questa coscienza non ci è data prima), ma perché essa ci si impone per se stessa come proposizione sintetica a priori, la quale non è fondata su nessuna intuizione, né pura né empirica [...]. Per riguardare senza falsa interpretazione questa legge come data, si deve ben notare che essa non è empirica, ma è il fatto particolare della ragion pura, la quale per esso si manifesta come originariamente legislativa (sic volo, sic iubeo).
COROLLARIO
La ragion pura è per sé sola pratica, e dà (all'uomo) una legge universale che noi chiamiamo legge morale.
SCOLlO
Il fatto sovracitato è innegabile. Occorre soltanto analizzare il giudizio che gli uomini fanno sulla conformità delle loro azioni alla legge, e si vedrà sempre che, qualunque cosa l'inclinazione possa dire in contrario, pure la loro ragione, incorruttibile e obbligata mediante se stessa, tiene sempre, in un'azione, la massima della volontà salda nella volontà pura, cioè in se stessa, in quanto si considera come pratica a priori».
Dal fatto della ragione è perciò possibile dedurre anzitutto la libertà del volere, in quanto non può esservi obbligazione ove non sia anche la possibilità, cioè la libertà, di ottemperarvi. Se infatti nell'imperativo categorico la volontà è determinata immediatamente dalla pura ragione, la formulazione stessa della legge morale "tu devi" implica necessariamente e a priori la libertà di adempiere a quel dovere: "tu devi" dunque "tu puoi". Procede così Kant:
«L'autonomia della. volontà è l'unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri che loro corrispondono: invece ogni eteronomia del libero arbitrio, non solo non è la base di alcun obbligo, ma piuttosto è contraria al principio di questo e alla moralità della volontà. Cioè il principio unico della moralità consiste nell'indipendenza da ogni materia della legge (ossia da un oggetto desiderato), e nello stesso tempo nella determinazione del libero arbitrio mediante la semplice forma legislativa universale di cui una massima deve essere capace. Ma quell'indipendenza è la libertà nel senso negativo; invece questa legislazione propria della ragion pura e, come tale, pratica, è la libertà nel senso positivo. Dunque la legge morale non esprime nient'altro che l'autonomia della ragion pura pratica, cioè della libertà; e questa è anche la condizione formale di tutte le massime, alla quale condizione soltanto esse possono accordarsi con la legge pratica suprema».
In questa deduzione della libertà resa possibile dalla presenza nell'uomo della legge morale, ovvero della coscienza del dovere come fatto di ragione, risiede il significato più profondo della seconda Critica kantiana, nonché il suo nodo problematico.
La ragione infatti pretende e comanda che l'uomo sia praticamente libero, pur avendo essa teoreticamente limitato le sue conoscenze all'esperienza fenomenica che è deterministica, soggetta alla ferrea legge della causalità naturale e perciò non libera. L'uomo, in altre parole, pur non essendo libero nelle sue inclinazioni naturali, deve esserlo nella sua volontà, ossia nei principi che regolano le sue azioni: fenomeno dal punto di vista dell'intelletto, egli sarebbe dunque noumeno dal punto di vista del volere.
Kant è ben consapevole della paradossalità della situazione, ma è appunto da tale inevitabile contrasto che può secondo lui scaturire qualcosa che meriti il nome di moralità: se le inclinazioni sensibili fossero infatti già da sé conformi alla legge morale, se per naturale inclinazione l'uomo agisse in modo universale e puro, non avrebbero allora senso alcuno né la legge morale, né l'obbligazione, né il comando della ragione, né i giudizi sulla moralità delle sue azioni effettive, giudizi che possono compiersi solo in relazione al dovere assoluto come principio a priori di valutazione.
È proprio perché l'uomo non è soltanto ragione, ma anche sensibilità deterministicamente condizionata, che può avere per lui senso una scelta morale che imponga il rispetto della legge: possibilità di scelta che verrebbe meno in un essere che non dovesse confrontarsi con i vincoli della sensibilità, i quali sono perciò condizione essenziale della libertà umana.
Tale libertà inoltre non ha carattere solo negativo (in quanto si oppone alle inclinazioni sensibili e al determinismo naturale), ma anche positivo, in quanto consente l'autonomia della legge morale dai contenuti predeterminati che un'eventuale inclinazione sensibile alla moralità inevitabilmente imporrebbe dall'esterno, in base alle inclinazioni e alle circostanze.
Il carattere "formale", cioè privo di contenuti predeterminati, dell'imperativo categorico è così garanzia della libertà del volere, la quale si manifesta nell'intenzione con cui si compie un'azione più che nell'azione stessa, di qualunque genere essa sia. Così, per esempio, neppure la più scrupolosa obbedienza ai precetti della religione rivelata è di per sé atto morale, in quanto manca di autonomia e obbedisce, in ultima analisi, a un imperativo ipotetico e non categorico (per esempio, «se vuoi essere un buon cristiano, agisci come prescrive il Vangelo»); buona in senso morale non è di per sé l'azione conforme al Vangelo, ma la volontà che riconosce il Vangelo conforme al proprio dovere morale. La "rivoluzione copernicana" della ragione pura trova qui, come si vede, il suo corrispettivo nella ragione pratica, in quanto la ragione stessa si pone come legislatrice e autonoma.
Da questa impostazione del problema deriva anche il rifiuto kantiano di qualsiasi morale del sentimento e dell'umana simpatia, con particolare riferimento ai "sentimentalisti" inglesi e a Rousseau: nel sentimento non può essere ricercata la radice della moralità poiché esso segue inclinazioni individuali e accidentali.
Né Kant può essere d'accordo con quanti sostengono che un particolare piacere accompagnerebbe l'azione morale: essa non può in generale procurare piacere, dal momento che l'imperativo categorico è per essenza in contrasto con le nostre inclinazioni sensibili e cioè con la nostra naturale tendenza alla ricerca del piacere egoistico; il piacere, eventualmente, può seguire l'esercizio della volontà buona, ma mai precederla e tanto meno motivarla.
Unico fine della volontà morale è ciò che Kant chiama sommo bene, nel perseguire il quale la volontà si trova a sperimentare quella contraddizione, che è alla base di tutto l'atteggiamento morale, tra uomo fenomenico dell'intelletto e uomo noumenico della volontà: uomo che non può non desiderare secondo le inclinazioni sensibili e non può fare a meno di volere il "sommo bene" prescrittogli dalla sua interiore legge morale.
Sommo bene è per Kant perfetta unione di moralità e felicità, perfetta unione che «noi abbiamo il dovere di cercare di promuovere» e che «dunque deve pur essere possibile». Tuttavia esso, per le ragioni che abbiamo visto, è di fatto inconseguibile sul piano fenomenico e pone perciò l'uomo di fronte al paradosso costitutivo che abita il profondo della sua natura. Proprio da tale paradosso derivano però, per necessità interna alla stessa formulazione dell'imperativo categorico, dei postulati della ragione pratica che chiariscono in quale senso l'uomo partecipi - e non possa non partecipare - della realtà noumenica. Scrive dunque Kant:
«Essi [i postulati] partono tutti dal principio della moralità, il quale non è un postulato, ma una legge per mezzo di cui la ragione determina immediatamente la volontà. La volontà, per ciò stesso che viene determinata così, come volontà pura richiede queste condizioni necessarie all'osservanza dei suoi precetti. Questi postulati non sono dogmi teoretici, ma supposizioni da un punto di vista necessariamente pratico, e quindi non estendono la conoscenza speculativa, ma danno alle idee della ragione speculativa in genere (mediante la loro relazione con ciò che è pratico) realtà oggettiva, e le giustificano come concetti, la cui possibilità altrimenti essa non potrebbe neanche soltanto presumere di affermare.
Questi postulati sono quelli dell'immortalità, della libertà positivamente considerata (come causalità di un essere in quanto questo appartiene al mondo intelligibile), e dell'esistenza di Dio. Il primo deriva dalla condizione praticamente necessaria di una durata corrispondente all'adempimento della legge morale; il secondo dalla supposizione necessaria dell'indipendenza dal mondo sensibile e del potere della determinazione della propria volontà, secondo la legge di un mondo intelligibile, cioè della libertà; il terzo dalla necessità della condizione di un mondo intelligibile per l'esistenza del sommo bene, mediante la supposizione del sommo bene indipendente, cioè dell' esistenza di Dio».
Come potrei essere sottoposto al rispetto della legge morale a priori, per puro dovere, del tutto indipendentemente da qualsiasi circostanza esterna o interna relativa al mondo sensibile e secondo princìpi assolutamente intelligibili, se non potessi in qualche modo riconoscermi positivamente libero? Come potrei, condizionato come sono dalle inclinazioni sensibili legate alla mia corporeità fenomenica, conseguire la perfezione morale del sommo bene, la compiuta conformità all'imperativo categorico, se la mia anima non fosse immortale, se non disponessi cioè del tempo necessario alla piena realizzazione dell' azione morale, ossia dell' eternità?
Come potrei, infine, attingere l'universalità del mondo intelligibile interamente rivolto al sommo bene, se non si desse una causa suprema, in grado di garantire non solo il sussistere di tale sommo bene, ma anche l'accordo ultimo del mondo intelligibile con la natura? Ecco che allora, conclude Kant, libertà, immortalità ed esistenza di Dio emergono quali condizioni interne alla realizzabilità del sommo bene, postulati che è moralmente necessario ammettere per l'adempimento della legge morale.
Non dobbiamo però equivocare sulla natura dei postulati della ragione pratica, i quali, ovviamente, non sono né conoscenze né dogmi teoretici, ma pure supposizioni pratiche che devono essere accolte per esigenza interna alla formulazione del "tu devi" e che hanno quindi a che fare con la volontà dell'uomo e non con la sua attività speculativa.
Essi non estendono perciò i limiti conoscitivi tracciati nella Critica della ragione pura, non fanno in alcun modo varcare all'intelletto la soglia del mondo noumenico, ma, come Kant sottolinea, «danno alle idee della ragione speculativa in genere (mediante la loro relazione con ciò che è pratico) realtà oggettiva, e le giustificano come concetti, la cui possibilità altrimenti essa non potrebbe neanche soltanto presumere di affermare».
In tal modo però, la ragione pratica rivela non solo una relazione con la ragione pura, ma addirittura una chiara superiorità rispetto ad essa: ciò che Kant esprime parlando di un primato della ragione pratica.
Se infatti in sede teoretica le idee trascendenti, benché riconosciute in quanto esigenze insopprimibili della ragione, potevano solo venir pensate in senso negativo (come limiti regolativi della conoscenza intellettuale), in sede pratica esse non solo vengono confermate (in quanto oggetti soprasensibili e, certo, come concetti di uso esclusivamente pratico), ma vengono anche assunte come ideali regolativi positivi, condizioni di possibilità dell'azione morale stessa. La ragione pratica dunque, nel conferire valore alle idee, non ne fornisce un'intuizione (senza della quale non si dà per l'uomo conoscenza), ma indubbiamente riesce ad un uso concreto di tali idee.
In questa prospettiva, si trova ampiamente confermato il carattere problematico della natura umana, già emerso nella Critica della ragione pura. Mediante la supposizione resa necessaria dalla presenza in me della legge morale come fatto della ragione, io riesco infatti a gettare uno sguardo al di là del mondo fenomenico e del suo determinismo meccanicistico e a trovare una conferma e una spiegazione pratica alla mia esigenza che la realtà non si riduca al fenomenico, alla mia speranza in un mondo noumenico della libertà e della finalità (verso il sommo bene); ma tutto questo non è più di una speranza, di un' oscura congettura, di un incerto segno: nulla di simile, in ogni caso, a una certezza. La quale certezza d'altronde, se vi fosse, toglierebbe qualsiasi senso alla scelta morale.
La morale kantiana riafferma così il suo carattere di fondo, che è improntato alla complessità della natura umana, divisa tra i condizionamenti fenomenici e le aspirazioni noumeniche, incapace di santità, ma anche impossibilitata a ignorare la voce della coscienza morale e a evitare di giudicarsi di conseguenza. La conclusione della Critica della ragione pratica, che ora leggeremo, ribadisce un altro concetto che, seppure in forma diversa, era già stato proposto in sede di ragione pura. Kant aveva scritto di aver dovuto sopprimere la scienza (ossia la pretesa scienza metafisica) per salvare la fede; qui egli afferma che la scienza critica applicata alle realtà noumeniche del mondo morale (libertà, immortalità dell'anima, esistenza di Dio) è condizione della saggezza.
In altri termini, dimostrando impossibile la metafisica come scienza dell'intelletto, ma salvaguardandone i contenuti come esigenze della volontà, la nuova scienza critica inaugurata da Kant, la nuova scienza dei limiti e delle proprietà della ragione apre la via a una giusta collocazione dell'uomo nella vita, proprio come Newton ha aperto la via alla giusta comprensione del posto occupato dall'uomo nell'infinito universo dei mondi stellari.
«Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell'oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo, a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io invisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l'intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto nell'universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile, almeno per quanto si può inferire dalla determinazione conforme a fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all'infinito.
Ma l'ammirazione e il rispetto possono bensì eccitare alla ricerca, ma non compensano la sua mancanza. Ora, che c'è da fare per intraprendere questa ricerca in un modo utile e conveniente alla sublimità dell'oggetto? Gli esempi a questo proposito possono servire all'esortazione, ma anche all'imitazione. La considerazione del mondo cominciò dallo spettacolo più bello che i sensi umani possano mai presentare, e che il nostro intelletto possa mai sostenere di perseguire nella sua grande estensione, e finì con l'astrologia. La morale cominciò con la proprietà più nobile della natura umana, il cui sviluppo e la cui cultura mirano ad una utilità infinita, e finì col fanatismo e con la superstizione. Così avviene di tutti i tentativi ancora rozzi, in cui la parte principale dell'impresa dipende dall'uso della ragione, che non si trova spontaneamente come l'uso dei piedi mediante l'esercizio frequente, specialmente se riguarda proprietà che non si possono manifestare così immediatamente nell'esperienza comune. Ma, dopo che, quantunque tardi, venne in uso la massima di riflettere bene, prima, a tutti i passi che la ragione intende fare, e di non lasciarla procedere altrimenti che per il sentiero di un metodo prima ben esaminato, allora il giudizio sull'universo ricevette tutt'altro indirizzo e, insieme con questo, un esito, senza paragone, più felice. La caduta di una pietra, il movimento di una pianta, risolti nei loro elementi e nelle forze che vi si manifestano, e trattati matematicamente, produssero infine quella cognizione del sistema del mondo chiara e immutabile per tutto l'avvenire, la quale, col progresso dell'osservazione, può sperare sempre soltanto di estendersi, ma non può mai temere di dover ritornare indietro. Ora, questo esempio ci può consigliare a seguire la stessa via nella trattazione delle disposizioni morali della nostra natura, e ci può dare la speranza di un simile buon risultato. Noi abbiamo sotto mano gli esempi del giudizio morale della ragione. Ora, analizzare questi esempi nei loro concetti elementari, e in mancanza della matematica adottare un procedimento simile a quello della chimica, della separazione dell'empirico dal razionale che si potrebbe trovare in essi, con ripetuti tentativi sull'intelletto umano ordinario, ci può far conoscere con certezza entrambi gli elementi puri, e ciò che ognuno per sé solo può fare; e così si può impedire in parte l'errore di un giudizio ancora rozzo e non esercitato, e in parte (cosa molto più necessaria) le stravaganze geniali, mediante le quali, come suole avvenire negli adepti della pietra filosofale, si promettono, senza alcuna ricerca metodica e cognizione della natura, tesori immaginari mentre si sprecano quelli veri. In una parola, la scienza (criticamente cercata e metodicamente avviata) è la porta stretta che conduce alla dottrina della saggezza, se per questa non si intende semplicemente ciò che si deve fare, ma ciò che deve servire di regola ai maestri per spianare bene e fare conoscere la via della saggezza, che ciascuno deve seguire, e assicurare gli altri dagli errori; una scienza, custode della quale deve sempre restare la filosofia, alla cui sottile ricerca il pubblico non ha da prendere nessuna parte, dovendo bensì partecipare delle dottrine che soltanto dopo una tale elaborazione gli possono riuscire affatto chiare».