La cosiddetta "reazione al positivismo", di cui abbiamo parlato nell'introduzione a questa Unità, deve essere inquadrata in un contesto più ampio: una critica della modernità nel suo insieme. Anche romanzieri, poeti, artisti, uomini politici, sociologi, medici, scienziati a cavallo fra Ottocento e Novecento diedero voce a un malcontento così generale che il termine "crisi della civiltà" divenne ben presto una specie di luogo comune.
Che cosa era in crisi, secondo questi autori? Il mondo moderno, nato dalla rivoluzione industriale e dalla Rivoluzione francese, e caratterizzato dalla diffusione del capitalismo e dall'importanza crescente della scienza e della tecnica. Quali erano i segni della crisi? Molti e diversi, e ovviamente non tutti condivisi dai critici. Si può provare a fame un elenco (che ha tutti i difetti degli elenchi): riduzione dei rapporti umani a rapporti economici, culto dell'arricchimento materiale, onnipotenza del denaro, perdita della dimensione spirituale e del senso dei veri valori, impoverimento culturale, predominio delle macchine, effetti disumanizzanti della tecnica, frenesia, nevrosi, smarrimento, atomizzazione della vita sociale, massificazione e spersonalizzazione ... O, per usare termini più astratti: economicismo, edonismo, materialismo, utilitarismo, scientismo, meccanicismo, macchinismo. Molti di questi temi ricordano da vicino quelli che abbiamo trattato a proposito delle reazioni alla rivoluzione industriale. C'è a volte una somiglianza impressionante nel linguaggio e negli argomenti usati nei due casi. Che cosa c'è di nuovo, allora? Innanzitutto il contesto: sono passati cento anni o più, e le scienze hanno conosciuto una crescita straordinaria. Poi l'ampiezza di queste critiche e la pluralità delle voci in cui si esprimono, sia prima della Grande guerra sia soprattutto fra questa e la seconda guerra mondiale.
Non dimentichiamo il quadro storico: le difficoltà del dopoguerra, i conflitti sociali, la paura della rivoluzione comunista, la crisi economica senza precedenti, la costituzione dei regimi totalitari, l'irruzione sulla scena mondiale delle masse extraeuropee che minacciano la supremazia dei bianchi ...
Alcuni si abbandonarono a un cupo pessimismo, altri auspicarono un recupero dei valori spirituali dimenticati, altri ancora guardarono con nostalgia a epoche passate: il rimpianto per «il mondo di ieri» (titolo di un famoso libro del 1941 dello scrittore austriaco Stefan Zweig, 1881-1942) accomuna molti critici della modernità ai primi critici della rivoluzione industriale. È qualcosa su cui riflettere, tanto più che oggi, dopo decenni di crescita economica iniziata negli anni Cinquanta-Sessanta, nel mondo occidentale si levano voci critiche non solo su aspetti particolari della modernità, ma sulla modernità in quanto tale. Non a caso il suo aspetto più appariscente, la tecnica, è oggetto di critiche ora come allora, e come agli inizi dell'Ottocento. In questo capitolo troveremo anticipati molti temi e argomentazioni che caratterizzano il dibattito attuale.
L'immagine di una cultura positivistica tutta trionfalismo ed entusiasmo superficiale per la scienza e il progresso è falsa. La stessa cultura che identificava evoluzione e progresso era anche angosciata dalla paura della degenerazione fisica e morale e della «sopravvivenza dei meno adatti», cioè dell'aumento di individui ritenuti inferiori biologicamente, moralmente e culturalmente. Questa angoscia aveva molte cause: il timore delle classi dirigenti per la perdita del controllo sulle masse, fra le quali si diffondevano ideologie socialiste e rivoluzionarie; l'insicurezza delle élites sociali e culturali di fronte all'emergere nella società di «tipi umani inferiori», poco istruiti, ostili alla cultura, conformisti e gretti, insomma quelli che Nietzsche aveva definito, senza mezzi termini, «plebei»; la paura che la propria nazione, piena ormai di individui di qualità scadente, perdesse vigore e non fosse più in grado di reggere la concorrenza internazionale (il crollo della natalità in paesi come la Francia e l'Inghilterra era generalmente interpretato come l'effetto di una "perdita di vigore" della popolazione); l'affievolirsi dei valori culturali e politici che avevano accompagnato l'affermazione dell'ideologia liberale; l'insicurezza di fronte a un mondo in crescita convulsa e pieno di conflitti.
II concetto di "degenerazione" era nato in ambiente medico nella Francia della Restaurazione, ma era stato subito usato in senso morale, sociale e politico. Degenerato è definito l'alcolizzato, il folle, l'idiota, la vittima di malattie ereditarie (il "tarato"), il criminale nato, la prostituta. Ma è anche il rivoluzionario nichilista, l'agitatore socialista, l'intellettuale con strane idee in testa, l'artista scapigliato, il dissoluto, il nevrotico, l'eccentrico, l'incapace di applicazione e concentrazione prolungata: insomma, chiunque non rientri nei canoni della "normalità".
La degenerazione è una tara non solo fisica, ma anche intellettuale. Nel libro più famoso su questo tema. Degenerazione (Entartung, 1892-1893), il medico ungherese di origine ebraica Max Nordau (in realtà Simon Maximilian Stidfeld, 1849-1923, uno dei promotori del movimento sionistico che avrebbe portato alla nascita dello Stato di Israele) considera come fenomeni patologici e psichiatrici anche scrittori e artisti e movimenti culturali che oggi ci sembrano non solo non patologici, ma di grande valore: il romanzo naturalista francese (fin dagli inizi accusato di immoralità), il decadentismo, il simbolismo, l'estetismo di Oscar Wilde (lo scrittore inglese che subì un processo per oscenità e scontò una pena carceraria) ...
Inevitabilmente, a una diagnosi medica fece seguito la proposta di una terapia medica: l'eugenetica. Il suo scopo era il miglioramento della razza umana mediante lo studio dell'eredità e provvedimenti che favorissero la riproduzione degli individui ritenuti migliori e ostacolassero la riproduzione degli individui ritenuti inferiori, o comunque tali da trasmettere ai loro discendenti malattie, difetti, tendenze e caratteristiche che, diffondendosi, avrebbero peggiorato la qualità generale della popolazione. Era una risposta medico-biologica a problemi che sembravano avere cause medico-biologiche, ma che a noi sembrano oggi essere innanzi tutto sociali e culturali. La diffusione enorme dell'eugenetica rivela l'ampiezza e l'intensità dell'angoscia che pervase l'Europa.
È difficile dare in poco spazio un'idea di quella che divenne una vera e propria "letteratura della crisi", nella quale trovò espressione questa sensazione di malessere profondo. A costo di essere un po' schematici, isoleremo alcuni motivi dominanti.
Il mondo tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento appariva a molti come un mondo senz'anima. Al grande sviluppo della produzione di beni materiali non era corrisposta una crescita equivalente della moralità e della cultura. Il progresso era stato quantitativo, non qualitativo. Ad esempio, la produzione in serie aveva reso possibile il consumo di massa, ma aveva reso i prodotti tutti uguali e livellato i gusti; inoltre, aveva soppiantato l'artigianato, che aveva pur sempre in sé qualcosa della creazione artistica. Ma la perdita dei valori estetici era solo un aspetto di un decadimento generale. Il dominio del denaro, la riduzione della vita a vita economica, la corsa alla ricchezza, al consumo e al godimento avevano generato un tipo umano che viveva freneticamente, non era mai contento, non si fermava mai per riflettere, era vittima - diremmo oggi - di stress. Qualcuno, già negli anni Venti, cominciò a parlare di "americanizzazione" del mondo: l'America era la dimostrazione di come avrebbe finito con l'essere tutta la civiltà moderna.
L'uomo moderno, dissero altri, ha smarrito il rapporto con se stesso perché ha smarrito il rapporto con Dio e il senso del trascendente. Il mondo moderno è "desacralizzato": nato dal Rinascimento con l'inizio dell'umanismo laico, cresciuto con il sorgere della scienza moderna e l'ascesa della borghesia, ha raggiunto il culmine con lo sviluppo gigantesco dell'industria. È un mondo, scrisse ad esempio nel 1935 il filosofo cattolico francese Emmanuel Mounier (1905-1950), figlio delle «tre erre»: Rinascimento, Riforma, Rivoluzione [francese]. In molti intellettuali di questo periodo si sente una sorta di nostalgia per il Medioevo, epoca religiosa e "organica" (una parola chiave che abbiamo incontrate nei capitoli sulla Rivoluzione francese e sulla rivoluzione industriale), in cui l'individuo sentiva di avere un posto e un significato in un mondo spirituale stabile.
L'esistenza di una cultura, scrive nel 1935 lo storico olandese Johan Huizinga (1872-1945), autore di importanti studi sulla civiltà tardomedievale, è possibile se c'è equilibrio fra i valori materiali e i valori intellettuali, morali, estetici, e se la comunità indirizza i suoi sforzi verso un ideale condiviso e unificante.
Queste condizioni mancano nella società attuale, caratterizzata da decadenza delle norme morali, culto vitalistico della lotta per la lotta, predominio del fare sul pensare, affermazione della ragion di Stato, esaltazione dell'eroismo, ritorno alla superstizione, irrazionalismo. Nemmeno la scienza, «profanata» dalla volontà di potenza, ha saputo offrire una concezione armonica del mondo. «Scienza e tecnica non bastano a costituire la base di una vita culturale». La volontà di potenza è a fondamento dell'ideologia nazista e minaccia un «ritorno alla barbarie». La salvezza dalle «ombre del domani» è possibile solo attraverso una «purificazione interiore», il recupero di un principio etico e il riconoscimento di valori assoluti. Huizinga si spegnerà nell'Olanda occupata dai tedeschi.
Con il positivismo, dicono molti, la filosofia ha rinunciato ad affrontare i problemi globali dell'uomo e si è appiattita sulla scienza. Sposando la religione del progresso automatico e materiale, è diventata dogmatica. Questa immagine della filosofia scientifica della seconda metà dell'Ottocento è, come abbiamo detto, semplicistica, se non falsa. Eppure fu diffusissima e alimentò non solo una critica di aspetti particolari delle filosofie e delle teorie scientifiche dell'epoca, ma della scienza nel suo insieme. A sua volta, il predominio della scienza sulla vita culturale fu attribuito a una sorta di "ipertrofia" dell'intelletto, che si era sviluppato soffocando le altre facoltà: l'immaginazione, l'intuizione, il sentimento, il senso estetico e morale. Il trionfo dello spirito analitico - si disse -, che analizza freddamente la realtà scomponendola nei suoi elementi per poi ricostruirla e manipolarla mediante la scienza e la tecnica, ha reso il mondo meno interessante, più prosaico, e l'uomo più arido. Il principio del calcolo razionale si è esteso a tutti gli aspetti dell'esistenza.
Quando aveva avuto inizio tutto questo? La risposta quasi unanime è: con la nascita del capitalismo. Il capitalismo ha operato una razionalizzazione non solo della vita economica, ma della vita in generale: unisce calcolo economico, scienza esatta e applicazione tecnica; sostituisce ai rapporti personali e affettivi rapporti oggettivi basati sull'interesse e l'utile; istituisce forme di potere e una disciplina sociale in cui non contano più il valore del singolo e la sua capacità di imporsi sugli altri per la forza della sua personalità, ma l'impersonalità dei ruoli sociali.
Ma il capitalismo, aggiungono altri, è esso stesso il prodotto di un mutamento di mentalità avvenuto in coincidenza con la nascita della scienza e della tecnica moderne. Questo mutamento, afferma il filosofo tedesco Max Scheler, consistette nell'abbandono dell'ideale contemplativo del sapere tipico della società gerarchica medievale e nella sua sostituzione con un sapere orientato al dominio e alla trasformazione pratica della natura. Mutamento sociale, economico e intellettuale sono inscindibili; è impossibile dire quale abbia causato gli altri. Sta di fatto che tutti e tre caratterizzano il nuovo «ethos» dell'uomo moderno: i suoi valori, il suo modo di vivere, di pensare, di essere. Influenzato da Nietzsche, Scheler vede nel trionfo del meccanicismo scientifico e filosofico, dell'industrialismo e dello spirito borghese la prova della vittoria dei deboli sui forti (nel senso nicciano), dei mediocri sui creatori, degli inferiori sui superiori spiritualmente, insomma di un capovolgimento dei valori. Chi, infatti, può riporre tanta fiducia negli strumenti, nelle macchine, nella tecnica e nell'organizzazione se non gli uomini deboli e conformisti, coloro che, privi di vera personalità, sono incapaci di sopportare disciplina e sacrifici in nome dei valori dello spirito?
La stessa considerazione vale per gli ideali religiosi e politici dell'uomo moderno: idee astratte (umanità, democrazia, uguaglianza, socialismo) e valori materialistici (il profitto, il lavoro come fonte di ogni virtù) hanno preso il posto di ideali e valori veri, concreti, «vitali»: la persona singola, la comunità, la patria, la superiorità spirituale, l'organizzazione gerarchica della società. I valori dell'uomo moderno sono quelli dell'«uomo del risentimento» (altro concetto che Scheler riprende da Nietzsche): l'individuo debole, meschino, poco «vitale», insicuro, invidioso della superiorità altrui, alla ricerca della sicurezza nel conformismo e nella tranquillità borghese. È un uomo incapace di creare e per questo deciso a impedire che altri creino; vuole una organizzazione sociale impersonale in cui non deve rischiare, in cui tutto funzioni e lui non debba fare nulla, in cui possa illudersi di essere uguale agli altri, in cui il benessere materiale lo ricompensi della sua pochezza spirituale. L'influenza di Nietzsche su tutto ciò è evidente.
Ma c'è una differenza importante: Nietzsche aveva dato la colpa di questa corruzione al cristianesimo; Scheler invece sostiene che la morale cristiana è l'opposto della morale borghese, così come la società gerarchica medievale, in cui ognuno e ogni cosa avevano il loro posto in una scala oggettiva di valori, è l'opposto della società borghese in cui tutti sono uguali nella mediocrità. Successivamente, però, Scheler (il cui pensiero è in continuo mutare) rivede questo giudizio: lo stesso cristianesimo ha favorito l'affermazione dell'ideologia del dominio tecnico dell'uomo sulla natura. Infatti ha elevato l'uomo, come essere spirituale, al di sopra della natura, ridotta a mera materia, quindi manipolabile a piacimento. Bisogna invece recuperare il senso della «simpatia cosmica», dell'«unipatia», dell’immedesimazione con la natura: bisogna cioè vedere in essa lo stesso valore spirituale che riconosciamo all'uomo, quindi trattarla non con distacco né con interesse pratico ma con partecipazione e rispetto. A questo riorientamento del modo di vedere possono contribuire le filosofie orientali, che, immuni dall'ethos produttivistico, insegnano il valore della vita contemplativa. Anche altri guarderanno alle filosofie orientali come a un antidoto o a un complemento dell'inaridita spiritualità occidentale.
Scheler non è l'unico a sottolineare i pericoli dello sviluppo unilaterale dell’intelligenza pratica. L'intelligenza - scrive il filosofo francese Henri Bergson, critico del meccanicismo scientifico ma conoscitore profondo delle scienze del suo tempo - è un organo, uno strumento con cui l'uomo si inserisce nel mondo naturale per adattarvisi e adattarlo a sé. Di per sé è orientata a «fabbricare»: per questo deve scomporre, analizzare, calcolare, in modo da rendere possibile la manipolazione della realtà. Per sua natura, vede solo quantità anche dove vi è qualità, matematizza la realtà, vede schemi geometrici astratti anche dove vi è il fluire continuo e concreto della vita che si evolve senza interruzione; vede tappe, fasi, intervalli anche dove vi è la durata dell'esperienza interiore; divide il soggetto dall'oggetto mentre i due fanno parte di un tutto continuo.
Mossa da esigenze vitali, la tecnica, esito inevitabile dell'attività dell'intelligenza (e quindi della scienza), ha come accresciuto e potenziato il corpo dell'uomo; di conseguenza, ha favorito lo sviluppo del modo di pensare meccanicistico. Nel mondo moderno questo sviluppo è diventato sempre più unilaterale e ha raggiunto il culmine nella «guerra industriale» che ha dilaniato l'Europa. Ma l'uomo non è solo intelligenza, non è solo natura; è soprattutto spirito. È ora necessario, scrive Bergson nelle Due fonti della morale e della religione (Les deux sources de la morale et de la religion, 1932), un «supplemento di anima», uno «scatto in avanti» di misticismo, per riaprire una società chiusa, per integrare e vivificare con lo spirito della libertà e dei grandi ideali (quelli concepiti dai grandi uomini, religiosi e no) il mondo meccanico costruito dall'intelligenza. Il pendolo della vita deve muoversi ora nella direzione opposta a quella della vita puramente materiale. Sarà allora possibile un «ritorno alla semplicità», dopo che la civiltà ha pensato troppo al superfluo.
Il tema del predominio della «ragione calcolante» nell'età moderna, anticipato già da Nietzsche, percorre tutto il Novecento e attraversa filosofie molto diverse fra loro e da quella di Bergson. Lo ritroveremo al centro della riflessione della Scuola di Francoforte.
Un altro motivo ricorrente nella "letteratura della crisi" è quello secondo cui l'età contemporanea è l'era delle masse: masse operaie, folle metropolitane, masse extraeuropee coinvolte nella guerra mondiale e ora in rivolta contro l'uomo bianco. Questo suscitava paure vecchie e nuove: da una parte, il timore che la personalità individuale venisse soffocata nell'anonimato della metropoli e in un mondo insensibile ai valori dello spirito; dall'altra, il pericolo della tirannia della maggioranza, una maggioranza composta da una massa indifferenziata, livellata e conformista. Il timore che la democrazia degenerasse in dittatura della maggioranza era stato già espresso dal liberale francese Alexis de Tocqueville (1825-1859), in un classico del pensiero politico, La democrazia in America (La démocratie en Amérique, 1835-1840).
«Ogni persona - scrive nel 1935 il già citato Mounier - si è poco per volta abbandonata all'anonimato del mondo impersonale. Il mondo moderno è un afflosciamento collettivo, una spersonalizzazione in massa». Non era un lamento nuovo. La società conformista di massa sembrava segnare l'avvento, profetizzato da Nietzsche, dell'«ultimo uomo», l'uomo impersonale, anonimo, nascosto nella massa indifferenziata. Riprendendo questo tema, Heidegger parlerà del «si» (in tedesco man, il soggetto impersonale: si dice, si fa ecc.) ): l'uomo incapace di esistenza autentica, l'«odierno uomo mediocre e filisteo». La critica della massificazione diventava spesso una critica della modernità e della democrazia.
Per quanto possa sembrare strano oggi, nel periodo che stiamo considerando era diffusa l'opinione che America e Unione Sovietica fossero due facce della stessa malattia: l'economicizzazione, la meccanizzazione della vita sociale, il materialismo che prevarica sui valori si esprimevano in America nell'individualismo esasperato, in Unione Sovietica nel collettivismo comunista e nella burocratizzazione totale. In entrambi i paesi, il risultato era lo stesso: l'anonimato e la scomparsa delle élites spirituali che devono dirigere le masse. Sull'importanza decisiva delle élites - e del loro ricambio costante mediante la cooptazione degli individui migliori - avevano insistito sociologi e politologi come Vilfredo Pareto (1848-1923) e Gaetano Mosca (1858-1941).
Un paese in cui le masse non sono organizzate dagli individui migliori, scrive nel 1921 il liberale conservatore José Ortega y Gasset (1883-1955) riferendosi alla sua Spagna, è senza spina dorsale; è «invertebrato». In un'opera famosa, La ribellione delle masse (La rebeliòn de Las masas, 1930), Ortega conia il concetto di «uomo-massa» per definire il nuovo tipo umano che è stato prodotto dall'avvento delle masse sulla scena della storia e dal livellamento che ne è derivato: è l'individuo anonimo, non più persona; la sua vita «manca di programma e corre alla deriva». In lui cultura e gusti sono ridotti al minimo; è succube della pubblicità, vuole solo consumare.
Beneficia delle conquiste della cultura, della politica, della scienza e della tecnica fatte faticosamente da altri nei secoli precedenti, ma non si rende conto né di quanto siano costate, né di quanto siano preziose, né degli ideali che le hanno rese possibili, né del loro valore morale e spirituale. È un primitivo che vive in un mondo civilizzato che non apprezza e che non merita. Crede di avervi diritto e basta; vuole tutto e subito: è un «signorino viziato». È il tipo umano su cui sono stati costruiti sia il bolscevismo sia il fascismo.
La discussione su tutti questi temi assunse un carattere particolare in Germania. Qui si coagulò intorno alla contrapposizione fra Kultur e Zivilisation. Questo contrasto era emerso già alla fine del Settecento e si era radicalizzato in conseguenza di due momenti decisivi della storia tedesca: l) la reazione romantica alla modernità e al mondo uscito dalla Rivoluzione francese e dalla rivoluzione industriale; 2) le guerre di liberazione dall'invasione napoleonica, che furono in seguito interpretate come l'inizio della riscossa nazionale e dell'unificazione. Entrambe le parole possono essere tradotte con "civiltà", ma conconnotazioni da tenere ben distinte.
La Kultur non è solo la "cultura" nel senso che diamo noi al termine, ma è l'insieme organico dei valori, delle forme culturali, delle istituzioni, insomma dello spirito vivente che si incarna in tutte le manifestazioni superiori dell'anima e della civiltà di un popolo; è un processo interiore, un patrimonio spirituale. La Zivilisation (dal francese civilisation) è qualcosa di estraneo all'anima e alla Kultur tedesche: è il complesso dei valori negativi che caratterizzano il modo di vivere e le istituzioni di quei paesi (Francia e Inghilterra in primo luogo, poi anche gli Stati Uniti) in cui la modernità nata dalla rivoluzione industriale e dalla Rivoluzione francese ha raggiunto la sua espressione più compiuta. Questi disvalori sono: il razionalismo, il sistema liberale e democratico, l'industrialismo che ha sconvolto il paesaggio, l'urbanizzazione a danno della campagna, i rapporti umani basati sullo scambio monetario, la scienza meccanicistica, l'individualismo, la ricerca della felicità a scapito dei valori morali e dell'idealità, lo spirito mercantile e borghese.
I valori della Kultur consistono, per contro, nel senso dell'appartenenza alla comunità, nello spirito di servizio esemplificato dalla dedizione del militare, nella preminenza data alla realizzazione di ideali rispetto alla ricerca dell'utile e del piacere, nella ricerca dell'autenticità. I tedeschi sono il popolo dell'«interiorità», della profondità e della filosofia, in contrapposizione alla "superficialità" dei latini e al "pragmatismo" cinico degli anglosassoni.
La stragrande maggioranza degli intellettuali tedeschi andò in guerra nel 1914 convinta di difendere il diritto all'esistenza della Kultur accerchiata dalla Zivilisation. Per citare solo un nome illustre fra i tanti, Thomas Mann (1875-1955), futuro premio Nobel per la letteratura, scrisse pagine su pagine in cui la Zivilisation veniva presentata come un gigantesco meccanismo che impoverisce l'animo umano: essa poteva piacere ai francesi imbevuti di vuota retorica, di spirito falsamente democratico e umanitario, e inclini all'individualismo; era invece estranea e ostile allo spirito comunitario e al senso della tradizione che sono l'essenza dell'anima tedesca.
Il tedesco, scrive Mann, non è militarista perché vuole la guerra, ma perché solo con le armi può difendere quel patrimonio spirituale che si esprime nelle virtù dell'obbedienza, della lealtà, della disciplina, dell'onore, della dedizione all'ideale, del sacrificio per la comunità. La guerra non era solo una «necessità morale», ma l'occasione epocale offerta al popolo tedesco di rivelare la sua essenza, recidendo ogni legame con l'ideale borghese della sicurezza. Il pacifismo era sintomo di debolezza e di crisi spirituale. Costretto anche lui a emigrare negli Stati Uniti dopo l'avvento del nazismo, Mann avrebbe riveduto radicalmente molte di queste idee.
Bisogna dire, tuttavia, che la maggior parte degli intellettuali europei non fu da meno: a favore del primo conflitto mondiale vi fu una vera e propria mobilitazione. Le motivazioni individuali furono le più diverse, ma per molti la guerra rappresentò l'occasione di dare una scossa al vecchio mondo decrepito e privo di valori morali, un richiamo alla serietà tragica dell'esistenza, un antidoto all'individualismo egoista.
Il contrasto fra Kultur e Zivilisation assume un significato particolare in un'opera che fece arricciare il naso a molti accademici ma ebbe un successo straordinario, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia universale (Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, 1918-1922) del filosofo tedesco Oswald Spengler (1880-1936), che guardò con favore al fascismo e alla rinascita della germanicità nel nazismo (pur senza mai aderire al partito, al quale anzi mosse critiche). Spengler vi espone una filosofia della storia e una riflessione pessimistica sul mondo contemporaneo.
Le civiltà nascono, crescono, raggiungono la maturità, declinano e muoiono come gli organismi. Una civiltà, infatti, non è solo un tutto coerente, «organico», ma un vero e proprio organismo. Tutte le sue espressioni (arte, scienza, filosofia, economia, diritto, politica ecc.) portano la sua impronta unitaria inconfondibile. Una civiltà è un modo particolare, unico di vedere il mondo, ha un suo linguaggio e una sua «anima»; uomini appartenenti a civiltà diverse vedono il mondo in modo diverso, sono diversi. Le civiltà sono mondi non comunicanti fra loro, sono «incommensurabili». Non trapassano l'una nell'altra; non ci sono forme intermedie. Sorgono misteriosamente dal fondo oscuro della natura e altrettanto misteriosamente vi ritornano quando il ciclo si è compiuto, per essere sostituite da nuove civiltà.
Il progresso, nel senso di una crescita unilineare e unitaria dell'umanità, non esiste: la storia è una successione di cicli (le diverse civiltà) indipendenti l'uno dall'altro. All'origine di una civiltà vi sono forze potenti, che gli uomini non possono controllare e la ragione non può spiegare. La successione delle civiltà non ha dunque una spiegazione razionale. Le forme essenziali che fanno di una civiltà quella che è possono essere colte solo mediante un' esperienza interiore (Erlebnis), cioè "vissute" dall'interno, con l'intuizione e l'«immedesimazione», come avviene con l'opera d'arte.
Come si è detto, tutte le manifestazioni umane sono imbevute dello spirito peculiare della civiltà che le produce e ne portano il segno inconfondibile. Ciò vale anche per i prodotti apparentemente più neutri o oggettivi: i numeri, ad esempio, non sono la stessa cosa per un arabo e un occidentale. I segni che li rappresentano incarnano mondi spirituali completamente diversi. L'arabo e l'occidentale vivono i numeri in modo diverso. Lo stesso vale per gli oggetti materiali, per la tecnica: la tecnica occidentale porta impressa in tutti i suoi aspetti l'impronta dell'anima occidentale; le altre civiltà possono impossessarsi dei suoi prodotti, mai dell'anima che li ha generati. Spengler sostiene quindi un relativismo culturale estremo, in cui, però, le culture non sono quelle studiate dagli antropologi, ma le grandi civiltà. Sulla scena del mondo se ne sono succedute otto: egizia, babilonese, indiana, cinese, greco-romana, araba, messicana, occidentale.
La civiltà occidentale, che ebbe inizio nel XII secolo, è detta da Spengler «faustiana», dal nome del protagonista della tragedia di Goethe Faust (1831-1832), l'uomo tormentato e insoddisfatto che vende l'anima al diavolo pur di acquistare la sapienza e la potenza. L'uomo occidentale è faustiano perché è mosso da una tensione verso l'illimitato e l'infinito: il suo simbolo sono le cattedrali gotiche che si slanciano verso l'alto. È sempre assetato di conoscenza e mosso da un insaziabile impulso ad acquisire, possedere, dominare. Conoscere, per lui, vuol dire dominare. È questa la sua vocazione e la sua maledizione: dominio sulle cose, sui suoi simili, su se stesso.
Per questo ha creato la scienza e la tecnica. La sua cultura, a differenza di quella contemplativa del mondo antico, è orientata per natura all'intervento pratico, alla manipolazione, alla trasformazione. Questa tendenza inarrestabile ha raggiunto il culmine nella fase finale della civiltà di cui facciamo parte, la «civilizzazione» (Zivilisation). Il termine viene usato da Spengler in un senso un po' particolare: per indicare la fase finale, precedente la morte, di ogni civiltà. Spengler le attribuisce tutte le caratteristiche negative che abbiamo elencato: dominio del denaro, della metropoli, della tecnica, del razionalismo sterile, della massa informe ecc.
La Zivilisation è dunque l'epoca che la civiltà occidentale sta vivendo ora. Proprio quando l'uomo faustiano sembra aver raggiunto il massimo della sua potenza, ecco, ha in realtà raggiunto il massimo della distruttività (e autodistruttività). Lo slancio si è esaurito; la civiltà ha perso l'anima, si è irrigidita in un immenso meccanismo privo di forza: si arresterà fatalmente. La sua fine - afferma Spengler in una celebre conferenza del 1931, L’uomo e la tecnica (Der Mensch und die Technik) - sarà probabilmente opera delle «razze» extraeuropee, che stanno già impossessandosi dei mezzi tecnici e delle armi prodotti dalla civiltà europea, ma senza condividere i valori che in quei mezzi si sono incarnati: se ne serviranno come di meri strumenti di distruzione, contro la civiltà che li ha creati.
Le tesi di Spengler, pensatore fuori del mondo accademico, esposte in modo a volte eloquente, a volte oscuro, furono criticate da molti (l'opera era piena di generalizzazioni eccessive e di affermazioni ingenue, paradossali, poco documentate o semplicemente sbagliate, come soprattutto gli storici misero in evidenza), ma ebbero una grande diffusione. Il tramonto dell'Occidente fu forse l'opera in lingua tedesca più letta del suo tempo. Dava espressione catastrofica a un pessimismo sulle sorti della civiltà (in tedesco, Kulturpessimismus) diffuso, come abbiamo visto, non solo in Germania.
Con lo sviluppo dell'industria, la tecnica diventa l'aspetto più evidente della modernità, il suo emblema, il bersaglio principale delle critiche. La tecnica, si ammette, consente all'uomo di dominare la natura e vivere più comodamente, ma sotto questi vantaggi materiali si celano gravi pericoli morali. La tecnica, infatti, stravolge il rapporto dell'uomo con la natura, ridotta a qualcosa di cui impossessarsi; impone un modo di vivere contrario alle esigenze superiori dell'uomo; alimenta il consumo di massa e l'edonismo; induce a privilegiare: valori materiali su quelli spirituali; crea oggetti freddi, impersonali, uguali l'uno all'altro. privi del calore umano che è proprio delle opere d'arte; invece di liberare l'uomo dalla schiavitù del lavoro, lo asservisce alla macchina (a tutti è nota l'immagine di Charlot che nel film del 1936 T empi moderni è costretto ad avvitare un bullone dopo l'altro e, perdendo il ritmo, finisce con l'essere risucchiato nell'ingranaggio). Vi è un nesso indissolubile fra tecnica, denaro e spersonalizzazione.
È difficile dare un'idea dell'ampiezza, della complessità e anche della drammaticità (non sembri un'esagerazione) del dibattito che si svolse, soprattutto in Germania e soprattutto negli anni 1920-1930, sulla «questione della tecnica». Vi parteciparono filosofi, sociologi, economisti, scrittori, ingegneri. Il dibattito - è importante sottolinearlo - non riguardò tanto gli usi della tecnica, ma le ragioni di quello che sembrava essere, per così dire, il suo peccato originale.
Nella letteratura della crisi è presente, esplicita o implicita, un'immagine negativa della scienza: non di questa o quella scienza particolare, ma della scienza in generale e della razionalità scientifica in quanto tale. La scienza, si dice, non ha risposto alle grandi domande (sull'uomo, sul senso della vita, sulla libertà ecc.). Non solo: ha allontanato la possibilità di offrire una risposta; anzi, ha fatto credere che quelle domande non avessero più senso.
La formulazione estrema di questo giudizio la darà Heidegger: «Nasce la scienza, scompare il pensiero». Certo, la scienza progredisce, fa conoscere sempre meglio la natura, ma - dicono voci sempre più numerose e insistenti - la crescita cumulativa e illimitata delle conoscenze non sembra comportare di per sé il miglioramento morale dell'umanità. Su questo pessimismo diffuso esercitò un peso decisivo l'esperienza della guerra mondiale e degli effetti terrificanti di esplosivi, gas asfissianti, bombardamenti aerei.
Ma l'idea che la scienza arricchisca l'uomo sembrava a molti incontrare smentite anche in tempo di pace.
La scienza è un'attività collettiva e infinita, in cui anche i risultati più importanti sono continuamente rimessi in discussione e sono destinati a essere superati. Il contributo del singolo è solo un mattone nella costruzione di un edificio mai terminato. Perché, si chiedono alcuni, l'individuo dovrebbe impegnarsi in un'attività che non ha nessuna prospettiva di compimento?
La scienza, in quanto attività razionale, produce quello che il sociologo ed economista Max Weber chiamò «disincantamento del mondo», spoglia cioè la realtà di ogni aura mitica, distrugge le tradizioni e le credenze popolari, espelle gli dei, mette l'uomo di fronte alla prosaicità del mondo. Dà un contributo decisivo alla costruzione di quella che lo stesso Weber (poco incline - bisogna sottolinearlo - a tentazioni irrazionalistiche) chiamava la «gabbia d'acciaio» del capitalismo.
Il progresso della scienza, e del sapere in generale, produce inevitabilmente una crescente specializzazione. Ma così la vita intellettuale viene frammentata in tante imprese particolari fra le quali la comunicazione diventa sempre più difficile. L'uomo di cultura è dunque condannato a non sapere mai nulla pur conoscendo sempre di più? Pochi hanno analizzato con la profondità del filosofo e sociologo tedesco Georg Simmel (1858-1918) lo smarrimento dell'intellettuale di fronte alla ricchezza straordinaria dei prodotti della cultura (e dell'uomo contemporaneo sottoposto a un bombardamento incessante di informazioni, stimoli e sollecitazioni). L'arricchimento dello spirito, dice Simmel, è come un viaggio che parte dal soggetto e al soggetto ritorna dopo aver percorso le molteplici forme dello «spirito oggettivo» (termine coniato da Hegel), cioè i prodotti dello spirito umano oggettivati in opere d'arte, lavori scientifici, libri ecc. Ma ogni tappa di questo viaggio impone soste e deviazioni, apre nuove strade, perché questi prodotti richiedono approfondimenti e stimolano ulteriori incontri, in ognuno dei quali si cela una promessa di arricchimento spirituale, ma anche il pericolo dello smarrimento. Inoltre, lo spirito oggettivo cresce a perdita d'occhio, e la sproporzione rispetto alle forze dell'individuo aumenta sempre più.
È la «tragedia della cultura» (scrive Simmel in un saggio del 1907 intitolato Concetto e tragedia della cultura), in cui consiste la vita dello spirito. L'epoca attuale, «sovraccarica» di prodotti culturali, minaccia di soffocare e deprimere gli individui. Costoro spesso reagiscono con la fuga o con un atteggiamento simile a quello di tanti abitanti delle moderne metropoli: sottoposti a stimoli incessanti, impossibilitati a selezionarli, per risparmiare energie spirituali e non perdersi si chiudono in se stessi, come se tutto fosse indifferente, superfluo, già visto. Secondo Simmel, la dimensione tragica della cultura va accettata e vissuta fino in fondo: il viaggio va compiuto; l'anima umana si forma e sviluppa proprio grazie al conflitto fra individualità e molteplicità. Diversamente da Simmel, però, molti credettero che il viaggio non meritasse nemmeno di essere iniziato.
La letteratura europea di questo periodo mostra infatti quanto fossero diffusi i tentativi di trovare la "salvezza" in soluzioni personali: nel disimpegno, nel ripiegamento su se stessi o nello sforzo individuale verso un ideale etico di perfezionamento interiore, oppure nella ricerca della vita "autentica" dell'io oltre le «maschere» - avrebbe detto Luigi Pirandello - costruite dai ruoli sociali e le apparenze rappresentate dalle immagini che gli altri hanno di noi e che fanno di ogni individuo «uno, nessuno e centomila» (come recita il titolo di uno dei romanzi più famosi di Pirandello, pubblicato nel 1925).Vi è poi chi dalla banalità e dalle miserie quotidiane cercava di sottrarsi, magari trovando rifugio nell'estetismo tipico di certe espressioni del decadentismo letterario (basti pensare a certi personaggi di D'Annunzio).
Altri si volsero a un recupero della la tradizione cristiana e alla riscoperta del senso comunitario dell'esistenza (contrapponendo cioè la comunità, costituita da legami spirituali personali e affettivi alla società, costituita dai rapporti economici). Sul piano filosofico, si ebbe, soprattutto in Francia, una forte ripresa di dottrine spiritualistiche: la rivendicazione della libertà, della creatività e dei valori dello spirito offrivano un'alternativa alle filosofie deterministiche e meccanicistiche responsabili di dare un'immagine impoverita della vita umana.
Di fronte al diffuso senso di crisi il filosofo doveva restare "al di sopra della mischia", e rifugiandosi, per usare un'espressione di Benedetto Croce di fronte alla catastrofe della prima guerra mondiale, nelle «olimpiche regioni della filosofia»?
Oppure avrebbe dovuto calarsi nella mischia e diventare in qualche modo uomo d'azione, come volevano, ad esempio i futuristi italiani?
Oppure, ancora, si doveva riflettere sulla crisi stessa, rimettendo la filosofia a fondamento della cultura e delle scienze particolari, sia umane sia naturali. Quest'ultima proposta ispirò uno dei testi più complessi, influenti e controversi del Novecento filosofico, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phanomenologie, 1954), una raccolta postuma di scritti del 1935-1936 di uno dei maggiori filosofi tedeschi di questo periodo, Edmund Husserl (1859-1938) .
Secondo Husserl, uno di coloro che più intensamente e rigorosamente rifletterono sul senso e sulle sorti della cultura europea, le scienze erano in crisi perché avevano rinunciato a rispondere alle domande fondamentali sul senso dell'esistenza umana. Anzi, proprio su questa rinuncia avevano costruito i loro trionfi, i quali a loro volta le avevano ulteriormente allontanate dal «mondo della vita», il mondo dell'esperienza quotidiana.
Da Galileo in poi, scrive Husserl, le scienze hanno matematizzato e quantificato la natura, ma hanno finito col credere che il mondo obiettivo e «idealizzato», cioè ridotto a schemi matematici e a entità astratte e misurabili, sia il mondo reale. Per un «falso razionalismo», si sono illuse di avere in se stesse il loro fondamento; ma questo sta invece nel soggetto, nella sua «intuizione spirituale del mondo». Lo spirito può comprendere il fondamento della razionalità scientifica solo se cessa di rivolgersi esclusivamente all'esterno e «ritorna a sé». A differenza di molti critici della scienza, Husserl proponeva la filosofia non come alternativa alle scienze, ma come loro base razionale, anche se intesa in modo molto diverso dalla tradizione positivistica. Sulla posizione di Husserl torneremo in seguito.
Nel frattempo, però, la scienza e il pensiero scientifico non erano rimasti immobili. Avevano conosciuto sviluppi straordinari, di cui intellettuali privi della statura e dell'apertura culturale di Bergson, Scheler o Husserl non sapevano nulla. Proprio negli anni in cui era messa sotto accusa, l'immagine scientifica del mondo veniva modificata radicalmente dalla fisica quantistica, dalla teoria della relatività, dalla genetica e dalla riflessione sulla logica e sui fondamenti della matematica. Ne derivavano una revisione e un rilancio del programma del positivismo scientifico, ovviamente aggiornato alla luce di questi sviluppi, e un rafforzamento dell'immagine scientifica del mondo. Le accuse, dunque, riguardavano per lo più un'immagine vecchia, stereotipata e semplificata della scienza.
In generale, si può dire che molti discorsi sulla crisi della civiltà contenevano un'ambiguità di fondo: non era sempre chiara la distinzione fra la denuncia dei mali particolari della civiltà attuale, la condanna della modernità in generale e la riflessione pessimistica sulla condizione umana in quanto tale. Questo portò nella maggior parte dei casi alla rinuncia a calarsi nel proprio tempo per compiere analisi specifiche e per impegnarsi concretamente nel modificare la realtà. Favorì invece la tendenza a giudicare la realtà presente da un punto di vista superiore, sovrastorico, secondo esigenze e modelli ideali ed eterni.
Quanto alle critiche rivolte alle scienze, possiamo osservare tre cose.
Il fatto che la scienza riveda continuamente le proprie acquisizioni, cambi le prospettive, si corregga, apra nuovi problemi è una dimostrazione di forza, non di debolezza (così come risulta essere una dimostrazione di forza il fatto che le istituzioni democratiche correggano le imperfezioni della democrazia stessa).
La specializzazione crescente è certo un problema molto grave, ma una soluzione era stata indicata già da Bacone e dai padri seicenteschi della scienza moderna: la collaborazione e la comunicazione. Se queste non avvengono, la colpa è degli uomini che coltivano le scienze e delle situazioni concrete che lo impediscono, non della scienza in quanto tale.
L'immagine della scienza e della tecnica come attività aride e meccaniche, che escludono il pensiero e mortificano la ricchezza dello spirito, è semplicemente falsa. Entrambe sono imprese umane e presentano tutti gli aspetti di ogni esperienza umana: dal dubbio all'entusiasmo, dal piacere estetico alla fatica oscura, dal lavoro minuzioso alla riflessione teorica più astratta. Basta leggere un po' di storia della scienza o la biografia di uno scienziato importante per rendersene conto e per non inventarsi nemici che non esistono.