Nei primi decenni del Novecento, in Germania, avviene un incontro particolarmente fecondo tra filosofia ed ebraismo, che darà frutti lungo tutto il corso del secolo. Alcuni pensatori di origine ebraica rielaborano in modo innovativo elementi della tradizione filosofica ebraica nel confronto con il neokantismo, la fenomenologia, il pensiero di Heidegger e l'esistenzialismo.
Hermann Cohen (1842-1918), guida della scuola neokantiana di Marburgo tra il 1873 e il 1912, si riavvicinò all'ebraismo nel 1880 e pose le basi del pensiero ebraico novecentesco. Secondo Cohen il giudaismo può sopravvivere nella modernità soltanto se abbandona il concetto di un Dio «nazionale», cioè proprio del solo popolo ebraico. Deve anche abbandonare l'idea di un Dio che si contrappone all'uomo e al mondo, per abbracciare un Dio universale, che si pone in «correlazione» con l'uomo, ossia in una relazione reciproca fondata sull'amore. Dell'ebraismo Cohen valorizza soprattutto il profetismo messianico, che interpreta in termini kantiani come l'aspirazione a un futuro etico dell'umanità. Nella linea aperta da Cohen si pongono, ognuno in maniera originale, il tedesco Franz Rosenzweig (1886-1929), l'austriaco Martin Buber (1878-1965) e il francese di origine lituana Emmanuel Lévinas (1905-1995).
Franz Rosenzweig
Rosenzweig muove da una ripresa del tema kierkegaardiano dell'angoscia davanti alla morte- ripresa che precede di qualche anno quella operata da Heidegger -, ed elabora un pensiero attento alla concretezza dell'esperienza umana. Sebbene incentrato sull'unione di filosofia e teologia, questo pensiero non va ridotto, a suo dire, a una filosofia della religione o a una filosofia religiosa. Rosenzweig rifiuta il logicismo e l'astrattezza totalizzante della filosofia speculativa e «pagana», per porre al centro dell'interrogazione umana tre «elementi» fondamentali: «mondo», «Dio» e «uomo», da cogliere nelle loro reciproche connessioni. Cosi facendo, si serve dei concetti teologici di "creazione" (legame tra mondo e Dio), "rivelazione" (legame tra Dio e uomo) e "redenzione" (legame tra uomo e mondo) per pensare la struttura dell'essere, facendone quindi anche concetti "ontologici". Nella parte conclusiva della sua opera principale, la Stella della redenzione (Der Stern der Erlosung, 1921), Rosenzweig espone la sua gnoseologia messianica, secondo la quale la verità è meta di un cammino storico a tappe non ancora compiuto;ebrei e cristiani sono in possesso solo di una parte della verità: ebraismo e cristianesimo sono il risultato della «scissione» dell'«assolutamente vero».
Al dialogo tra ebraismo e mondo occidentale è improntato il pensiero di Buber, fondato sul riconoscimento dell'alterità dell'altro e dunque sull'esigenza etica e politica del dialogo e della relazione tra gli individui. In continuità con l'iniziatore dell'ermeneutica, Schleiermacher, nel fondamentale saggio lo e Tu (lch und Du, 1923) Buber ha incentrato la sua riflessione filosofica sul rapporto lo-Tu e sul dialogo. Buber contrappone all'«lo-Esso» l'«lo-Tu»; contrappone cioè alla dimensione dell'«esperienza», caratterizzata dall'impersonalità e dalla strumentalità, quella della «relazione», fondata sull'incontro tra le persone e sul disinteresse. Per Buber il dialogo che si instaura fra due persone è in realtà sempre un rapporto a tre: solo se Dio è sullo sfondo l'altro può essere rispettato veramente come altro, come qualcosa di sacro, che, come Dio, non può essere ridotto a un oggetto. AI centro dell'lo-Tu vi è dunque il dialogo interpersonale, che si fa canale del dialogo con Dio, il «Tu eterno» che non va confuso con il «Dio-oggetto» della teologia, ma va inteso come il «Dio vivente» della Bibbia. Buber trasferisce dunque tutta la sacralità e maestosità del Dio ebraico sull'altro uomo, sul Tu con cui io sono in rapporto. È una riscossa della religione, ma è, in un certo senso, anche l'opposto: la teologia del Dio lontano e geloso del Vecchio Testamento viene laicizzata e umanizzata; i comandamenti divini non sono più solo prescrizioni dall'alto, ma si incarnano nel rapporto fra gli uomini, rapporto che, avvenendo nell'incontro a due, è sempre concreto e singolare, mai astratto e generale. Questo Dio ha subito una temporanea «eclissi» nella modernità «perché - afferma Buber nell'Eclissi di Dio (Gottesfinsternis, 1953) - in quest'epoca è prevalso il soggettivismo individualistico». Buber ha curato, fra l'altro, la raccolta I racconti dei Chassidim (Die Erzdhlungen der Chassidim, 1950), facendo rivivere la tradizione mistica del chassidismo (dall'ebraico chasid, "devoto") dell'Europa occidentale, una tradizione popolare animata da una religiosità incarnata nella moralità e nell'azione, e imperniata sulla comunione con Dio nella gioia estatica. Costretto nel 1938 ad abbandonare la Germania, Buber emigrò in Palestina, dove restò fino alla morte e dove, coerentemente con i suoi principi, si dedicò alla promozione del dialogo tra arabi ed ebrei in vista di uno stato binazionale, che non ha ancora visto la luce.
Anche Lévinas uno dei maggiori filosofi del XX secolo, riprende il discorso di Buber sulla base di un confronto approfondito e originale con i principali esponenti della filosofia contemporanea, estendendola però a tutta la tradizione occidentale, a suo parere, rea di aver praticato una «violenza ontologica» che ha sottomesso l'«Altro», il diverso, a un «imperialismo del Medesimo».
La critica del razionalismo occidentale
Come vedremo in Jonas, anche nella filosofia di Emmanuel Lévinas (1905-95) l'indagine intorno alla giustizia e alla responsabilità «per altri» è incardinata su premesse metafisiche e precisamente su una critica dell'ontologia occidentale. I motivi fondamentali della ricerca di Lévinas - in opere come Totalità e infinito (1961), Altrimenti che essere o al di là dell'essenza (1974), Etica e infinito (1984) - sono i seguenti: il riconoscimento dell'Altro, e più precisamente dell'alterità dell'altro, la ricerca volta a dare senso al suo essere differente da me, a garantirne la «trascendenza» rispetto all'io.
La riflessione di Lévinas sul tema dell'altro può essere considerata come un'alternativa alla fenomenologia husserliana. La fenomenologia di Husserl appare a Lévinas come una «riflessione radicale», «necessaria alla verità». Lévinas critica, però, il pensiero husserliano - ricollegandolo alle grandi correnti dell'idealismo occidentale - per il primato assegnato al conoscere, al sapere come "visione" alla luce della ragione. Conoscere, secondo Lévinas, significa riportare l'altro a sé, alla propria soggettività. Nella conoscenza, quindi, l'io non supera mai i confini della sua solitudine, non incontra mai qualcosa di veramente altro. Per questo, la relazione di conoscenza, privilegiata dalla fenomenologia, non può aprire la strada al riconoscimento dell'alterità dell'altro uomo: infatti, il pensiero husserliano resta imprigionato irrimediabilmente nel solipsismo proprio per la centralità attribuita alla coscienza teoretica.
La possibilità dell'io di rinchiudere l'altro nel suo orizzonte, riportandolo all'identità e neutralizzandone l'alterità, è definita da Lévinas «il modo del Medesimo» e, proprio prendendo posizione contro «ogni imperialismo del Medesimo», l'autore sviluppa la sua critica alla filosofia occidentale. «La filosofia occidentale è stata per lo più un'ontologia: una riduzione dell'Altro al Medesimo - afferma Lévinas in Etica e infinito - [e tutta la storia della filosofia occidentale] può essere interpretata come un tentativo di sintesi universale, una riduzione di tutta l'esperienza, di tutto ciò che è sensato, a una totalità in cui la coscienza abbraccia il mondo, non lascia nient'altro fuori di sé e diviene così pensiero assoluto».
Tra le diverse espressioni di tale orientamento totalizzante della filosofia occidentale, Lévinas colloca anche il pensiero di Martin Heidegger. Lévinas riconosce a Heidegger il merito di aver riportato la riflessione sull'essere al centro dell'indagine filosofica e di aver affrontato il problema della comprensione dell'essere nel quadro dell'esistenza dell'uomo. Per il resto, la posizione lévinasiana è critica: l'interesse heideggeriano per l'esistenza dell'uomo resta subordinato all'interesse primario per la questione del senso dell'essere, studiata dall'ontologia. Affermando la priorità dell'essere rispetto all'ente, Heidegger subordina la «relazione con qualcuno che è ente» - cioè con l'Altro - alla «relazione con l'essere dell'ente» impersonale. La filosofia heideggeriana, dunque, si muove sempre nella prospettiva della riduzione dell'Altro al Medesimo: nella prospettiva che «consente il possesso, il dominio dell'ente».
La critica rivolta da Lévinas alla filosofia occidentale assume anche una valenza storica e politica. L'ontologia è «filosofia del potere», «dell'ingiustizia»: la violenza teorica con la quale l'ontologia neutralizza l'altro corrisponde «al dominio imperialista, alla tirannia», alla guerra come strumento di confronto politico. Se è questa l'ispirazione che anima la storia della filosofia occidentale, allora non stupisce l'adesione al nazismo di Heidegger - «mai scagionato» da Lévinas.
L'incontro con l'Altro
La relazione con l'alterità dell'Altro esige, secondo Lévinas, una rottura con la «totalità», cioè con la pretesa della filosofia occidentale di racchiudere l'essere nell'orizzonte unico della conoscenza. Poiché l'impostazione ontologica della filosofia occidentale riduce ogni ente solo a un momento del Medesimo, l'intera dimensione dell'essere risulta caratterizzata dall'assenza di alterità. Se c'è un Altro, deve porsi «al di là» dell'essere. Questo non significa che - a parere di Lévinas -l'Altro sia inaccessibile. L'Altro è inconoscibile, perché la conoscenza è opera di identificazione, ma non inaccessibile. La relazione con l'Altro, infatti, non è una relazione di conoscenza. È un incontro «faccia a faccia»: «il modo in cui si presenta l'Altro, che supera l'idea dell'Altro in me» è definito da Lévinas «il volto». Il volto - come concreta manifestazione dell'Altro - ha senso per sé: «il volto è significazione - scrive Lévinas in Etica e infinito - e significazione senza contesto. [ ... ] Di solito, si è un "personaggio"; si è professore alla Sorbona, vicepresidente del Consiglio di Stato, figlio di un tale, tutto ciò che è nel passaporto, il modo di vestirsi, di presentarsi. E ogni significazione, nel senso usuale del termine, è relativa al contesto: il senso di qualcosa sta nella relazione a qualcos'altro.
Qui, invece, il volto ha senso soltanto per sé. Tu sei tu. In questo senso si può dire che il volto non è "visto". Esso è ciò che non può divenire un contenuto afferrabile al pensiero; è l'incontenibile, ti conduce al di là».
Il volto è, dunque, trascendente: non può essere racchiuso in alcuna totalità; è, invece, «traccia» dell'infinito: «nell'accesso al volto c'è, certamente, anche un accesso all'idea di Dio». L'infinito - «assente» in quanto totalmente altro, ma «presente» in quanto si rivela attraverso il volto altrui - è custode dell'alterità dell'altro: l'incontro tra l'io e l'altro, passando per l'infinito, incontenibile nel pensiero, non può infatti configurarsi come relazione di possesso e di dominio, come opera di identificazione dell'altro con l'io.
Se l'ontologia è la riduzione dell'Altro all'Identico, la relazione con l'Altro - in quanto rottura della totalità e apertura all'infinito - è metafisica: «l'essere si produce come [ ... ] scisso in Medesimo e in Altro. Questa è la sua struttura ultima. È società». E poiché «la metafisica entra in gioco [ ... ] nei nostri rapporti con gli altri», vi è coincidenza tra metafisica ed etica: «la morale non è un ramo della filosofia, ma la filosofia prima».
La responsabilità per altri
Nella riflessione lévinasiana il manifestarsi dell'Altro come volto e la messa in discussione dell'io come identità non significano la negazione della soggettività, ma una sua ridefinizione in termini etici. Secondo Lévinas, infatti, è da rifiutare la soggettività solipsistica ed egoista, mentre la struttura essenziale della nuova soggettività etica va riconosciuta nella «responsabilità per altri»: «la responsabilità non è un semplice attributo della soggettività come se questa esistesse già in se stessa prima della relazione etica. La soggettività non è un per sé, ancora una volta essa è inizialmente un per altri». Nella relazione etica, quindi, il volto dell'Altro si pone come appello alla responsabilità, ma l'io non può essere negato: deve rimanere se stesso, perché nessuno può rispondere in vece sua; la sua responsabilità è inalienabile. «Il volto mi chiede e mi ordina» e «umanamente, io non posso rifiutare»: l'io si trova impegnato per l'altro senza aver assunto liberamente - con un atto di volontà - tale responsabilità. Nella visione lévinasiana, infatti, se la dimensione etica dell'incontro con l'altro fosse determinata da un atto di volontà dell'io, si instaurerebbe un rapporto di appropriazione e di dominio, caratterizzato dalla negazione dell'alterità, come è la relazione di conoscenza. Affermando il primato della responsabilità sulla libertà, invece, Lévinas si pone nella prospettiva di un io «passivo», che depone le sue pretese di sovranità sull'altro: «l'uno si espone all'altro come una pelle si espone a ciò che la ferisce, come una guancia offerta a colui che percuote». Nella relazione etica con l'altro, infatti, è piuttosto la soggettività che si trova a essere «ostaggio»: l'io si trova a essere responsabile fino alla «sostituzione» degli altri, fino a mettersi al posto degli altri, fino a espiare per gli altri: «io posso sostituirmi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a me». In questo senso, l'io è «soggezione» ad altri.
Definendo in tali termini la soggettività, Lévinas non intende però negare l'io, unendosi agli annunci di "morte del soggetto" propri delle diverse forme contemporanee di antiumanesimo. L'io è condizione per istituire una relazione di alterità; è soggetto in quanto responsabile di tutto, in quanto sostiene «il peso dell'universo». Scrive Lévinas in Totalità e infinito: «Il volto in cui si presenta l'Altro - assolutamente altro non nega il Medesimo. Questa presentazione è la non violenza per eccellenza, infatti, invece di ledere la mia libertà, la chiama alla responsabilità e la instaura». Tuttavia, pur non negando l'io, Lévinas tende a riservare all'Altro il primato.
L'impegno per la giustizia
La centralità del tema dell'Altro nella sua relazione con l'io, nella riflessione lévinasiana, non vuole indirizzare «alla complicità con l'essere preferito, all'''io-tu'' autosufficiente e dimentico dell'universo». L'io vive in un mondo in cui non c'è un solo «primo venuto»; accanto all'altro c'è sempre un «terzo», ci sono cioè tutti gli altri uomini: con il «terzo» Lévinas intende infatti alludere alle relazioni sociali, che vanno al di là del rapporto interpersonale "io-tu", "io-altro". Le relazioni sociali richiamano un impegno per la giustizia, il quale esige la ripresa dell'atteggiamento teoretico. Esige, cioè, l'esercizio della ragione per giudicare, là dove è in gioco la responsabilità, ponendo a confronto gli uomini che - per la loro unicità - non sono comparabili. Solo così è possibile assumere la difesa di un uomo, la vittima, da un altro uomo, il carnefice.
La funzione della ragione è dunque al servizio della giustizia, tanto che Lévinas chiede alla filosofia di essere «saggezza dell'amore», scostandosi dalla tradizionale definizione di "amore della sapienza".
Analogamente, l'impegno per la giustizia non mette in questione il primato della relazione etica con l'Altro. È a partire dalla possibilità di instaurare una relazione etica con l'Altro che, secondo Lévinas, si valuta la legittimità o la non legittimità di uno stato, poiché «la politica deve poter essere sempre controllata e criticata a partire dall'etica».
Lévinas ha contribuito in modo decisivo a configurare una nuova ermeneutica della rottura, incentrata suIla pratica e l'etica, sul carattere di evento e di irriducibilità che ha l'incontro con l'altro, sulla vera e propria contestazione di noi stessi che esso comporta. Non a caso Lévinas ha avuto un'influenza decisiva sul pensiero di Derrida (anch'egli di origine ebraica). Lévinas fu deportato come prigioniero di guerra ad Auschwitz in un campo separato da quello riservato agli ebrei, dal 1940 al 1945. Possiamo leggere la sua filosofia anche alla luce di una domanda: come pensare dopo Auschwitz?
A questa domanda cercarono di dare risposta anche altri pensatori e intellettuali di origine ebraica.
Con la riflessione di Hans Jonas (1903-93) lo sguardo si rivolge a un'«etica per la civiltà tecnologica», come recita il sottotitolo del suo saggio Il principio di responsabilità. Un'etica per la critica tecnologica (1979). Jonas conduce la propria analisi alla luce di un presupposto ormai che la crisi ecologica di questi decenni sembra rendere sempre più giustificato: il possibile e tragico annientamento di qualsiasi forma di vita umana futura.
Jonas riprende da Max Weber la distinzione tra l'etica della responsabilità (per cui la qualità morale di un'azione è valutabile dagli effetti che produce) e l'etica dell'intenzione (in cui viene giudicata la convinzione o l'intenzione in base alla quale si agisce); e afferma che il rischio di annientamento della vita futura esige l'elaborazione e l'applicazione politica di un'etica della responsabilità, al fine di acquisire la consapevolezza degli effetti a lungo termine prodotti dallo sviluppo tecnologico.
Tali effetti oggi non sono del tutto prevedibili, ma, con molta probabilità, si riveleranno terribili e distruttivi. Per questo Jonas fa appello all'«euristica della paura»: frutto delle conoscenze scientifiche applicate al futuro e della capacità di prevedere i possibili esiti del nostro comportamento attuale, l'euristica della paura ci deve indurre, nell'incertezza, a dare più credito alla previsione cattiva rispetto a quella buona, a moderare l'intervento dell'uomo sull'ambiente naturale, ad adottare delle moratorie nelle ricerche tecnico-scientifiche e nelle loro ricadute tecnologiche.
Principio responsabilità
Presentando la propria nozione di responsabilità, Jonas la distingue innanzitutto dal significato più comune di responsabilità, che si riferisce ad azioni passate, di cui appunto si è responsabili o - giuridicamente - imputabili.
Il filosofo chiarisce invece che egli intende la responsabilità come «il dovere di chi ha il potere» di agire per il bene di ciò (o di chi) dipende da lui. Paradigma di atteggiamento responsabile, in questo senso, è la responsabilità naturale parentale: i genitori hanno in effetti il dovere di fare tutto ciò che è nelle loro possibilità per il bene dei propri figli, assicurando loro un'infanzia felice, una buona educazione ecc. Per molti aspetti analoga è la responsabilità dell'uomo politico. Entrambe le forme di responsabilità, quella politica e quella parentale, infatti:
- vertono sull'essere umano;
- hanno la caratteristica della totalità: sia i genitori sia l'uomo di stato hanno nei confronti dei propri "oggetti" (figli e cittadini) una responsabilità che investe ogni aspetto. dalla semplice esistenza fino ai bisogni più elevati (educazione, cultura, felicità);
- sono caratterizzate dalla continuità, che è una conseguenza della totalità, nel senso che l'esercizio della responsabilità non può cessare, né concedersi vacanze;
- sono rivolte al futuro, perché il futuro dell'intera esistenza - individuale o collettiva - è oggetto di tutti gli atti di responsabilità parentale e politica.
Jonas osserva inoltre che - se sono prevedibili gli effetti dei singoli atti di responsabilità - il futuro cui essi danno luogo è invece nel suo complesso imprevedibile e sfugge al controllo del soggetto responsabile. Pertanto, il compito della responsabilità è quello di rendere possibile il futuro, non di determinarlo. Come i genitori non sanno in che modo i figli una volta raggiunta la maturità, faranno uso dell'educazione loro impartita, anche il politico non conosce tutte le conseguenze che deriveranno dalle sue scelte. Con la sua azione però è tenuto ad assicurare almeno le condizioni perché anche in futuro possa svolgersi una vita politica e possano essere prese responsabilmente decisioni riguardanti l'insieme della collettività.
Al modello della responsabilità parentale e politica deve e può ispirarsi per Jonas un'etica della responsabilità che impegni tutti gli uomini. In un'epoca di sviluppo sistematico e progressivo della tecnologia - sia nella macrodimensione (con il rischio di distruzione dell'eco sfera, l'utilizzazione dell'energia nucleare ecc.) sia nella microdimensione (ingegneria genetica) - gli uomini sono responsabili per l'esistenza, oltre che del genere umano, di ogni forma vivente e dell'ambiente naturale; e sono responsabili non solo per l'esistenza attuale, ma anche per quella delle generazioni future.
L’imperativo della responsabilità
Ne Il principio di responsabilità, Jonas propone diverse formulazioni di un imperativo etico adeguato alla nostra epoca, tra le quali la seguente (ispirata a Kant e al suo imperativo categorico, anche se l'etica kantiana era individuale, mentre quella di Jonas è prevalentemente politica perché obbliga la collettività umana): «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra».
In base all'etica della responsabilità, dunque, le nostre azioni, pur avendone le capacità, non devono compromettere le possibilità di una vita futura. E per quale motivo - qualcuno potrebbe chiedere - va garantita la vita futura? Perché non potrebbe essere giustificata la soppressione della vita futura in nome della vita presente? Della responsabilità verso le generazioni future, Jonas offre una giustificazione metafisica od ontologica: l'esigenza morale della responsabilità viene cioè desunta da una riflessione che riguarda l'essere stesso, inteso in un senso che richiama il finalismo aristotelico. Secondo Jonas, l'umanità deve esserci o dovrà esserci anche in futuro perché l'essere (non solo quello della natura umana, ma di ogni realtà vivente) ha in sé una finalità che reclama di essere svolta e attuata. L'essere è un bene in sé, è in senso assoluto migliore rispetto al non essere; vanno quindi promosse le condizioni che permettano all'essere di esistere e di realizzare le proprie finalità.
Dopo Auschwitz
Nell'opera Il concetto di Dio dopo Auschwitz: una voce ebraica (Der Gottesbegriff nach Auschwitz: eine judische Stimme, 1987) Jonas si chiede a quale idea di Dio può rivolgersi la coscienza religiosa dopo Auschwitz. È un Dio - così risponde - che ha limitato la propria onnipotenza a favore dell'uomo, affinché questi potesse salvarsi con le sue forze, riscattando la propria abiezione attraverso la compassione per il dolore altrui. Chi si chiede dov'era Dio quando i nazisti sterminavano gli ebrei nei campi e ad Auschwitz impiccavano un bambino per puro sadismo, potrà così rispondersi che Dio c'era e veniva impiccato insieme con quel bambino, e che pertanto continua a guardarci con i suoi occhi.
Altre due figure di intellettuali ebrei, costretti a lasciare la Germania con l'avvento del nazismo, hanno riflettuto sulla condizione morale dell'uomo dopo gli eventi della Seconda guerra mondiale: Gunther Anders e Hannah Arendt (per alcuni anni, tra il 1929 e il 1935, marito e moglie).
Nato a Breslavia, in Slesia, nel 1902, in una famiglia della borghesia intellettuale ebraica, laureato in filosofia nel 1923, dopo avere studiato con Husserl e Heidegger, Gunther Stern lascia la Germania poche settimane dopo l'ascesa al potere di Hitler, nel 1933. Si reca a Parigi, poi, nel 1936, negli Stati Uniti. Torna in Europa, a Vienna, nel 1950, sentendosi ormai completamente estraneo rispetto al suo passato (da qui la scelta di cambiare il cognome e di chiamarsi Anders, in tedesco "altro»). La sua vita è segnata dai due grandi traumi che la guerra ha prodotto: la Shoah e, soprattutto, il lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. Il 6 agosto del 1945, racconta Anders in uno scritto autobiografico, "piomba su di me come un fulmine l'idea che forse, o addirittura probabilmente, stavamo andando verso un non-più». Egli comincia, così, ad accettare quello che definisce «il nostro compito»: cioè «vivere senza speranza».
Lo scarto tra tecnica e pensiero
La riflessione di Anders è costituita, come scrive egli stesso, da tante variazioni su un unico tema: "quello della discrepanza di capacità delle nostre varie facoltà». Su questo tema egli costruisce «un'antropologia filosofica nell'età della tecnocrazia», che fa perno sul concetto di «dislivello prometeico», espressione con la quale egli intende «l'asincronizzazione ogni giorno crescente tra l'uomo e il mondo dei suoi prodotti».
Si tratta della frattura che si è aperta «fra la nostra capacità produttiva e la nostra capacità immaginativa», tra l'agire e il sentire, tra il conoscere e l'avere coscienza degli effetti prodotti dalla scienza applicata, tra il produrre e il saper assumere la responsabilità delle proprie azioni: «è ben vero che possiamo fare la bomba all'idrogeno - scrive Anders nel 1956 -, ma non siamo in grado di raffigurarci le conseguenze di quel che noi stessi abbiamo fatto».
È questo che segnala, oggi, lì«antiquatezza dell'uomo» (questa è la traduzione letterale del titolo dell'opera fondamentale di Anders, comparsa in italiano con il titolo L'uomo è antiquato), la decadenza di questo essere prometeico che arranca faticosamente dietro a ciò che produce. Figlio di una vistosa carenza, la mancanza di sincronizzazione tra le sue diverse facoltà, l'uomo non dispone di una forma di coscienza adeguata alla sua potenza di azione; inventa macchine che non è più in grado di guidare. Si è prodotto così uno scarto irreversibile tra la sua abilità tecnica e la sua capacità di pensare, prevedere, sentire: l'uomo non è più in grado di dominare con il pensiero gli effetti della sua creatività, e neppure di darne una valutazione morale. Autonomizzandosi, la tecnica è diventata il suo vero padrone, il suo feticcio.
Evento simbolo di questa trasformazione è stata la creazione della bomba atomica e il suo uso a Hiroshima e Nagasaki, evento con cui si è prodotto un salto epocale: l'uomo ha acquisito una sorta di onnipotenza rovesciata, «la potestas annihilationis" la capacità di ridurre l'essere al nulla, per l'impossibilità di controllare gli effetti del proprio titanismo prometeico. Gli uomini sono diventati «i signori dell'Apocalisse» «titani» e «pigmei», «onnipotenti» e «totalmente impotenti» al tempo stesso: «l'infinito siamo noi - scrive Anders -, Faust è morto», ma siamo esseri che camminano su una "terra incognita», "la nostra esistenza è sotto il segno della bomba».
La capacità tecnica ha prodotto nell'uomo un paradossale stato psicologico che, nel 1956, Anders definisce con il concetto di «vergogna prometeica». Si tratta della «vergogna che si prova di fronte all'umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi». Anders aveva utilizzato, in uno scritto del 1929 (Patologia della libertà), la categoria della vergogna per parlare del sentimento che l'uomo prova di fronte alla scoperta della sua contingenza, della sua finitezza. Nel 1956 la utilizza per parlare della consapevolezza che l'uomo ha dei suoi limiti e che lo porta a desiderare di superarli, diventando simile ai suoi nuovi dèi, le macchine. Nasce di qui la nuova pratica dello Human Engineering, dell’«ingegneria applicata all'uomo», con cui l'uomo, cerca di trascendere i suoi limiti organici, rifiutando e trasformando il corpo, segno della sua finitezza.
Il primato di Auschwitz
In questo desiderio si nasconde la matrice dell'ultima, «mostruosa», trasfigurazione, quella dell' homo faber che si trasforma in homo creator: un essere capace di alterare irreversibilmente la sua stessa natura. L'uomo è da sempre in grado di usare o alterare la natura, e si è dimostrato anche in grado di produrre qualcosa che non esisteva, come, per esempio, l'elemento 94, il plutonio. Ma ha anche dimostrato di poter trasformare se stesso in «materia prima ». Il processo è cominciato ad Auschwitz, dove i corpi degli ebrei sono stati usati per produrre beni di consumo e ha conosciuto un salto di qualità con la manipolazione genetica.
Anders parla così della terza e irreversibile rivoluzione industriale in atto. Con la prima rivoluzione sono state introdotte le macchine nei sistemi di produzione. Con la seconda le macchine sono diventate il veicolo per produrre sempre nuovi bisogni artificiali: in questo caso il «dislivello prometeico» si manifesta come scarto «tra il massimo che possiamo produrre e il massimo (vergognosamente piccolo) di ciò di cui possiamo aver bisogno»; è l'epoca della coercizione a consumare, gestita, in forma morbida, dalla pubblicità e dai mezzi di comunicazione di massa.
La terza rivoluzione è stata aperta dalla bomba atomica e dal definitivo "scarto prometeico»: viviamo gestendo «la produzione della nostra stessa distruzione». Secondo Anders non ci saranno nuove e radicali trasformazioni, ma soltanto mutamenti interni a questo terzo modello, come quello che ha portato alla nascita dell' homo creator e dell' homo materia: l'uomo è diventato capace di manipolare e, forse, di distruggere, la sua stessa specie, per via biologica.
Di fronte alle trasformazioni antropologiche, che rendono obsoleto l'imperativo kantiano, non usare l'uomo come mezzo, Anders non vede via d'uscita: fortemente critico nei confronti dei filosofi che non comprendono l'impossibilità di una svolta e continuano a pensare in termini di speranza (il riferimento è a soprattutto al filosofo Ernst Bloch), egli esprime la disperazione umana dell'impotenza.
Egli sostiene che «viviamo in un mondo di totale irrazionalità» in cui tutti, dal capitalista allo scienziato fino all'operaio, si vietano di pensare alle conseguenze di ciò che producono. Questo irrazionalismo assunto a morale di massa sostiene "l'inopportunità del pensare» e si esprime, perciò, in un preciso postulato: «Tu non devi fare alcun uso della tua ragione»; o meglio: ,Tu non devi pensare alle conseguenze del tuo fare, anche se queste sono accessibili al tuo pensiero, anzi proprio se e perché esse sono accessibili alla tua ragione!» (L'uomo è antiquato, vol. II, "Il male»).
La riflessione antropologica di Hannah Arendt 0906-1975), ebrea tedesca emigrata in Francia e poi negli Stati Uniti, ha la peculiarità di scaturire da un'esperienza storica, intellettuale e umana singolare: da un lato perché si intreccia con le più drammatiche vicende del Novecento (il nazismo, la guerra, la dispersione degli ebrei europei tra fuga e sterminio), dall'altro perché si tratta di un filosofo donna, che, per quanto il suo orientamento ideologico sia molto lontano dal femminismo, esprime emblematicamente la novità del punto di vista femminile nella riflessione sull'uomo.
Allieva di Heidegger e affettivamente legata a lui quando era una giovanissima studiosa di filosofia, Arendt condivide con il suo maestro la convinzione che la natura umana non possa essere definita: «nulla ci autorizza a ritenere che l'uomo abbia una natura o un'essenza affini a quelle delle altre cose. In altre parole, se abbiamo una natura o un'essenza, allora soltanto un dio potrebbe conoscerla e definirla e il primo requisito sarebbe che egli fosse in grado di parlare di un «chi» come se fosse un che cosa» (Vita Activa. La condizione umana, cap. I, § 1).
Un’antropologia aristotelica
Da questa premessa parte, nel 1958, la sua indagine sulla condizione umana, finalizzata a individuare le capacità che contraddistinguono la vita dell'uomo, segnalando la sua diversità rispetto agli altri organismi biologici. Ne segue una classificazione delle fondamentali attività umane, articolata su tre tipi: il lavorare, l'operare e l'agire. Se con la prima l'animale uomo si assicura la sopravvivenza immediata, con la seconda produce un mondo artificiale di oggetti durevoli, un sistema di strumenti utili all'azione e alla vita; ma è solo con la terza che entra in rapporto significativo con gli altri uomini, esprimendo se stesso nella rete delle relazioni civili e politiche.
Arendt riprende così il pensiero antropologico di Aristotele, che privilegiava la «prassi», l'agire sociale, come espressione superiore dell'uomo e campo di esercizio specifico della sua virtù, a distanza dalle bestie e dalla divinità. Guardando indietro al mondo greco, la filosofa ripropone il primato dello zòon politikòn: rispetto all'homo faber e all'animal laborans. Pur potendo, infatti, vivere benissimo senza lavorare, costringendo altri a farlo per loro, o senza operare alcuna innovazione tecnica significativa, gli uomini non possono condurre «una vita senza discorso e senza azione» se non smettendo di essere uomini.
La parola e l'azione costituiscono per la studiosa una seconda nascita, dopo quella biologica; una nascita che ci rende uomini tra gli uomini, in un modo non legato alle·necessità della sopravvivenza, ma a quelle dell'espressione propria e distintiva dell'essere umano. Riprendendo Agostino, la studiosa sostiene che nel mondo umano, nascere è accogliere l'impulso a prendere l'iniziativa, a dare vita a qualcosa di nuovo: «poiché sono initium, nuovi venuti e iniziatori grazie alla nascita, gli uomini prendono l'iniziativa, sono pronti all'azione. [….] Questo inizio non è come l'inizio del mondo, non è l'inizio di qualcosa ma di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore» (Vita Activa. La condizione Umana, cap. V, § 24).
Attraverso il discorso e l'azione si rivela il «chi è» di un individuo, la sua unicità come agente capace di dar vita all'inatteso. Per Arendt è molto importante sottolineare che parlare e agire sono attività che si svolgono soltanto in rapporto ad altri uomini; è quindi eminentemente nella «sfera pubblica», ma anche in tutte le aree di interazione non alterate da un conflitto irriducibile, che gli uomini possono esprimersi in modo autentico e personale, creando insieme uno spazio umano e la possibilità di una storia significativa comune. La grande Storia è evidentemente un intreccio di storie che riceve una particolare codificazione, ma rimanda necessariamente al flusso vitale degli attori e degli interpreti, nessuno dei quali può pretendere di essere autore del risultato complessivo.
L'immagine che Hannah Arendt dà dell'autentico agire umano si connette dunque, da un lato, con la «natalità», intesa come disposizione a nascere sempre di nuovo, dall'altro, con il porsi in relazione costruttiva con gli altri uomini, nella prospettiva di una storia comune.
La ricerca dell’autentico
Emerge su questi due punti la massima distanza dall'elaborazione di Heidegger, che poneva l'autenticità sotto il segno dell’«essere per la morte» e dell'isolamento dell'individuo rispetto al mondo del «si» e della «chiacchiera». La critica di Arendt alle forme dell'esistenza inautentica percorre altre strade.
La prima, restando all'interno di Vita activa, è la denuncia del fatto che, nel corso della storia, l'agire ha perso la sua centralità come elemento costitutivo dell'identità umana: da un lato, con Platone e poi col cristianesimo, si è imposta la vita contemplativa come modello preminente nella gerarchia delle attività umane; dall'altro, il modello dell'homo faber prima, quello dell'animaI laborans poi, hanno dato il primato alle attività strumentali dell'uomo in società, facendo della politica un semplice fatto amministrativo. Si tratta di un allontanamento progressivo e degradante dalla dimensione progettuale dell'agire politico: nella società capitalistica, il lavoro umano è in funzione del consumo e l'abbondanza quantitativa di oggetti disponibili a un rapido ricambio ha sostituito come valore ogni criterio di qualità. L'emancipazione dei lavoratori dalle «condizioni eccezionalmente inumane di sfruttamento prevalenti nelle prime fasi del capitalismo» non avrebbe, dunque, significato l'acquisizione della libertà nel senso autenticamente umano del termine, ma la generalizzazione del «sogno del povero e dell'indigente« e la chiusura dell'animal laborans nell'ottuso orizzonte del consumo indiscriminato.
Proponendo all'umanità il fine dell'emancipazione dal lavoro coatto, tipico delle classi servili, Marx: aveva posto con chiarezza, secondo Arendt, il problema della liberazione del soggetto umano, ma aveva fatto troppo affidamento sul fatto che le energie lavorative liberate andassero automaticamente a riversarsi in attività «superiori». Il pericolo, che la storia ha rivelato, è piuttosto la «futilità» in cui si muove una società «assorbita nel pieno funzionamento di un processo interminabile», lo svuotamento della dimensione progettuale della politica e il suo allineamento alle modalità e ai fini dell'azione privatistica.
Confinate nei laboratori degli scienziati, le facoltà superiori tipicamente umane sono esercitate da pochi privilegiati che agiscono «nella natura dalla prospettiva dell'universo e non del tessuto delle relazioni umane». Così, sganciato dalla possibilità di agire nella vita activa, il pensiero libero resta una speranza per l'umanità futura, ma un patrimonio largamente inutilizzato nel presente.
È un discorso che verrà ripreso, come vedremo, nel libro La vita della mente, ultima opera incompiuta della studiosa, in cui, attraverso l'analisi delle facoltà del "pensare", del "volere" e del «giudicare", emerge una precisa indicazione: in quanto nasce al mondo, l'uomo è condannato a esercitare la libertà di scelta e di giudizio, ad assumersi la responsabilità di ciò che è e di ciò che vuole essere.
La banalità del male
Una seconda prospettiva di analisi su ciò che è o non è autenticamente umano si apre per Arendt con le riflessioni elaborate nel corso del processo al criminale nazista Eichmann, svoltosi a Gerusalemme tra il 1961 e il 1962. La razionalità delirante dei campi di concentramento era apparsa alla filosofa, all'epoca del suo libro Le origini del totalitarismo (1951), una manifestazione del male radicale e assoluto.
Ma Eichmann le appare ora la dimostrazione vivente di come il male potesse emergere attraverso un attore tutt'altro che demoniaco, capace delle azioni più nefande proprio in virtù della sua mediocrità, dell'assoluta superficialità del suo pensiero. La possibilità che il male "estremo" possa "invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo" (Lettera a Scholem del 24 luglio 1963) induce Arendt a riproporre l'interrogativo sulla natura delle facoltà umane, poi sviluppato nella Vita della mente.
La figura di Eichmann, criminale per mancanza di idee, ordinario e rispettabile burocrate dello sterminio, le serve per costruire un modello negativo di vita, fondato sulla deprivazione della specifica disposizione umana a formulare giudizi e ad assumersi responsabilità. L'espressione usata nel titolo del rapporto scritto sull'argomento, La banalità del male (1963), sta a indicare la superficialità e la mancanza di moventi di questo tipo di male, contrapposto alla profondità del bene, che richiede un impegno consapevole, tipicamente umano.
I nazisti come Eichmann non sono mostri, demoni scatenati nella più orribile carneficina della storia, ma uomini normali, efficienti, ordinari e rispettabili burocrati, comuni padri di famiglia. Scrive Arendt: «Eichmann non era uno lago né un Macbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che «fare il cattivo» - come Riccardo III - per fredda determinazione. Eccezion fatta per la sua eccezionale diligenza nel pensare alla propria carriera, egli non aveva motivi per essere crudele, e anche quella diligenza non era, in sé, criminosa; è certo che non avrebbe mai ucciso un suo superiore per ereditarne il posto. Per dirla in parole povere, egli non capì mai che cosa stava facendo. [ .. .] Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità) e tale mancanza ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo»(La banalità del male, «Appendice. Le polemiche sul caso Eichmann»).
Eichmann è la dimostrazione vivente del fatto che non bisogna scavare nelle profondità della natura umana per cercare le radici del male, in quanto esso appartiene all'ordinaria natura dell'uomo e si può espandere facilmente. Da questa superficialità del male, che Arendt scopre ascoltando Eichmann, scaturisce un problema teorico che la porta a indagare la natura delle attività spirituali. Il fatto di essersi trovata di fronte a un uomo ordinario, mediocre, tutt'altro che demoniaco, un «attore» banale capace, tuttavia, di azioni mostruose la spinge, infatti, a chiedersi come sia possibile «questa assenza di pensiero», questa capacità di fare del male non solo senza motivi abietti, ma senza «moventi tout court».
L’uomo espropriato?
Alla filosofa Eichmann appare come un uomo che dichiara di aver obbedito passivamente, senza chiedersi il senso di quello che faceva, un essere capace di scindere l'azione dalla coscienza, di sospendere il giudizio intorno al bene e al male. L'uomo può essere manipolato da sistemi totalitari, ma questa manipolazione, secondo Arendt, non è mai così profonda da espropriare la coscienza individuale della capacità di giudizio e, dunque, della sua responsabilità e libertà. Di qui la domanda: cosa accade nell'uomo che pensa? In che modo egli si forma il giudizio? In che modo vi rinuncia?
La vita della mente, il libro dedicato alle tre facoltà fondamentali dello spirito, «pensare», «volere», «giudicare», ha avuto un altro stimolo, oltre al processo a Eichmann. Arendt aveva chiuso il suo primo importante libro teorico, Vita activa citando una massima cara a Catone, riportata da Cicerone: «mai un uomo è più attivo di quando non fa nulla, mai è meno solo di quando è solo con se stesso».
Se la vita activa, vissuta tra gli altri, è ciò che fa di un essere biologico un essere umano, ciò che lo fa nascere veramente al mondo, può darsi, in realtà, scrive Arendt nel 1958 a commento della massima di Catone, che il pensiero, esercitato quando siamo soltanto con noi stessi, sia la parte più attiva e produttiva di un uomo. Se le cose stanno come dice Catone, bisogna chiedersi allora cosa «facciamo» quando pensiamo, «dove siamo noi, circondati normalmente dai nostri simili, quando siamo soltanto con noi stessi».
La capacità di pensare in solitudine, ma in una sorta di relazione mentale universale con il genere umano, sarebbe dunque l'antidoto al veleno prodotto dalla nostra civiltà. Se la vita pubblica del nostro tempo spinge ad agire in modo superficiale, abbandonando la forma propriamente umana di stare al mondo, dentro la vita della mente è ancora possibile rintracciare le risorse per pensare come solo un uomo è in grado di fare: guardando a se stesso come all'inizio di un mondo nuovo, affidato alla responsabilità di coloro che lo pensano; accettando in sé la capacità di "cominciamento" che ha le sue radici nella natalità e non certo nella creatività, non in una dote o in un dono, ma nel fatto che gli esseri umani, uomini nuovi, sempre e sempre di nuovo appaiono nel mondo in virtù della nascita (La vita della mente, parte II, cap. 8).
Il tema della nascita, che unisce il ricevere e il dare la vita, imprime così un significato essenzialmente relazionale alla dimensione del pensiero e della consapevolezza esistenziale, modificando significativamente l'uso della simbologia filosofica per definire la condizione umana. Arendt considera il «giudizio» la più misteriosa delle facoltà umane, ciò che permette agli uomini di valutare ciò che è bene e ciò che è male e di orientarsi nella vita comune.
Il primato della coscienza
Colta, nel 1975, da una morte improvvisa, la filosofa non ha scritto questa terza parte del libro, e ciò ci ha privati della sua risposta definitiva ad alcune domande cruciali: in che modo ogni uomo proietta e costruisce il suo mondo di valori, giudicando gli eventi particolari? Se è certo che non esistono «norme generali per emettere giudizi infallibili, né regole generali sotto le quali sussumere i casi particolari», come si manifesta la libertà e la piena responsabilità degli uomini? In che modo un uomo è libero quando pronuncia un giudizio morale? Dopo lo sfascio delle morali tradizionali, cadute sotto i colpi dei totalitarismi, Arendt crede che valga la pena di indagare la facoltà che permette ai singoli individui di riconoscere, perlomeno, il male e di trattenersi dal farlo: se questo è possibile, là risiede qualcosa di umano.
La coscienza individuale sembra essere allora l'ultima spiaggia dell'umano. Solo dove esiste un uomo capace di pensare in solitudine, un essere pensante radicato nei suoi pensieri e nei suoi ricordi, consapevole di dover vivere con se stesso e dunque di dover fare i conti con la propria coscienza, solo là, scrive Arendt, «ci saranno limiti a ciò che si permetterà di fare, e tali limiti non gli verranno imposti dall'esterno, ma dal suo stesso io. Questi limiti possono cambiare considerevolmente da persona a persona, da Paese a Paese, di secolo in secolo; ma il male estremo e senza limiti è possibile solo quando queste radici dell'io, che crescono da sé e arginano automaticamente le possibilità dell'io, sono del tutto assenti. Quando sono assenti? Quando gli uomini pattinano sulla superficie degli eventi, quando si fanno sballottare a destra e manca senza dar prova di quella profondità di cui pur sarebbero capaci» (Alcune questioni di filosofia morale, parte III).
Se gli individui perdono la solitudine, la capacità di dialogare con se stessi, perdono anche la creatività e il metro del giudizio, che sta in ciascuno di essi: solo l'uomo che dialoga con se stesso sa, come Socrate, che è meglio essere in conflitto con il mondo intero che con se stessi e che è meglio subire il male che farlo.
Ecco il pericolo incombente, prodotto dalla nostra civiltà: «tutta la vita pubblica del nostro tempo spinge verso la superficialità. Da questa superficialità viene il male - e non dalla profondità, che abbiamo perduto», annota Arendt in uno dei suoi quaderni di appunti. Nella diagnosi della filosofa, la nostra civiltà minaccia non solo l'esistenza della sfera pubblica come teatro dell'agire», la forma propriamente umana di stare nel mondo, ma anche la possibilità di pensare, soli con se stessi, e di assumere, consapevolmente la responsabilità completa dei propri giudizi, quando diciamo che qualcosa è bene oppure è male.