Benedetto Spinoza (Baruch d'Espinoza) nacque ad Amsterdam nel 1632 da una famiglia di commercianti ebrei di origine portoghese. Da bambino frequenta la scuola ebraica, ma nel 1652, data la precoce vivacità del suo ingegno, viene avviato alla scuola umanistica di Franciscus van den Enden, che è un nascosto seguace del movimento libertino. I libertini erano pensa tori che, nel corso del Seicento, avversavano la Controriforma cattolica e in generale il fanatismo religioso di ogni genere. Essi si riunivano in circoli privati e tenevano per lo più segreti i loro scritti, che talora stampavano e diffondevano anonimi. Molti libertini erano atei e materialisti. In politica avversavano l'assolutismo e auspicavano riforme liberali e la concessione della libertà di pensiero e di espressione.
Alla scuola di van den Enden Spinoza studia i classici e i filosofi moderni: Bacone, Cartesio, Hobbes, probabilmente anche Bruno. Progressivamente egli abbandona la fede dei suoi padri e abbraccia la scienza e la libera filosofia.
Nel 1654, mortogli il padre, Spinoza continua l'attività commerciale della famiglia in società con i fratelli. Ma le sue idee lo pongono nel contempo in contrasto con la sinagoga degli ebrei portoghesi, che forse vedeva in lui un possibile futuro rabbino. Gli viene offerta una pensione annua purché si impegni a non propalare in pubblico le sue idee e a conservare un ossequio formale alla sinagoga. Spinoza rifiuta. Un fanatico tenta di pugnalarlo all'uscita del teatro; il procedimento disciplinare nei confronti del giovane filosofo (Spinoza è allora sui 23 anni) diviene intanto inevitabile.
Nel 1656 la comunità ebraica espelle Spinoza con un decreto di scomunica che lo bandisce da Amsterdam e che vieta a ogni membro della comunità di avere con lui rapporti di qualsivoglia genere. Spinoza scrive un'Apologia per giustificarsi (che è andata perduta). Scomunicato e maledetto, come vuole la tradizione, in una fosca cerimonia, Spinoza si rifugia in un villaggio presso Amsterdam, ove si dedica al mestiere di tornitore di lenti per sopravvivere. Amici e discepoli vendono di nascosto le lenti lavorate da Spinoza. Comincia infatti a formarsi un nucleo di spinoziani che diffonde il pensiero del maestro per via di contatti diretti, lettere e manoscritti.
Nel 1660 Spinoza si stabilisce nel villaggio di Rijnsburg, presso Leida. Qui compone il Breve trattato su Dio, l'uomo e la sua felicità. Lavora al Tractatus de intellectus emendatione, che rimarrà incompiuto. Nel 1663 pubblica i Princìpi della filosofia cartesiana con in appendice Pensieri metafisici.
Nel 1663 Spinoza si trasferisce a Voorburg, presso l'Aia, ove lavora all'Ethica more geometrico demonstrata, il suo capolavoro, che sarà pubblicata postuma dagli amici nel 1677. Nel contempo si lega ai circoli liberali olandesi dei fratelli De Witt. In loro sostegno compone il Tractatus theologico-politicus, che appare anonimo nel 1670. Tutti però vi riconoscono la mano di Spinoza e ne seguono attacchi violenti sia da parte dei protestanti sia dei cattolici. Spinoza deve di nuovo temere per la sua vita.
Nel 1673 rifiuta l'invito a ricoprire una cattedra di filosofia nell'Università di Heidelberg, consapevole che un incarico ufficiale avrebbe limitato la sua libertà di pensiero. Intanto i calvinisti aizzano il popolo contro i fratelli De Witt, che avevano guadagnato la preminenza politica in Olanda. In una rivoluzione di piazza essi vengono massacrati dalla folla. Questo tragico episodio e il fallimento della politica liberale convincono Spinoza a tenere nascosto il suo lavoro; perciò rinuncia a pubblicare l'Ethica (compiuta nel 1774), che però circola manoscritta tra gli studiosi e gli ammiratori. La fama di Spinoza, che da anni è anche in contatto epistolare con la prestigiosa Royal Society di Londra, si espande. Il giovane Leibniz va a visitare il filosofo nel 1676 e ne resterà durevolmente influenzato. Intanto Spinoza sta lavorando a un Tractatus politicus che resterà incompiuto.
Nel 1677 Spinoza muore all'Aia di tisi, a 45 anni di età. I discepoli pubblicano poco dopo un volume di Opere postume che contiene anche l'Ethica e una raccolta di lettere. Non si spegne però la censura e l'esecrazione contro il pensiero dell'«ateo» Spinoza.
Uno spirito realistico, coerente con quello che l'aveva guidato nella vita, pervade il pensiero politico di Spinoza che, per questo aspetto, manifesta somiglianze con il pensiero di Hobbes. Ma l'analisi obiettiva e disincantata della natura umana, delle sue virtù e dei suoi vizi, del suo conatus volto a esercitare, per quanto può, una potenza e un predominio su ogni altro essere, non conduce Spinoza a conclusioni simili a quelle di Hobbes.
Al contrario, Spinoza fu uno dei maggiori fondatori dell'idea dello Stato liberale moderno. Egli si batté con i suoi scritti per affermare sia il principio della completa libertà di pensiero, sia la totale laicità dello Stato, che deve restare indipendente da ogni credo religioso.
L'espressione del libero pensiero non deve trovare ostacoli nelle leggi dello Stato: il suo unico limite deve essere il rispetto della libertà altrui e il non recare danno alla comune convivenza. Quanto allo Stato, esso deve disinteressarsi delle credenze istituzionali delle chiese e badare solo alla corretta amministrazione della giustizia, che non è da intendersi come un sistema di premi e di castighi. Avendo abolito il concetto della responsabilità morale individuale, Spinoza vede nelle leggi un utile strumento di tutela dell'interesse comune. Il malvagio, come l'uomo ammalato, è tale per una necessità geometrica: come un triangolo ha per definizione tre angoli e non è un cerchio, dice Spinoza, così il malvagio è necessariamente preda delle passioni, che sono castigo a se stesse, così come la virtù è premio sufficiente per il virtuoso (nel che è da vedere un'eco della morale stoica). Perciò lo Stato persegue il reo non per vendetta e senza accompagnare l'intervento repressivo con una condanna morale. Esso deve agire come si suole fare con un cane rabbioso: sopprimerlo è necessario per la salute pubblica, senza che questo comporti un giudizio morale che lo ritenga in qualche modo responsabile.
Il rifiuto del dualismo cartesiano delle sostanze (pensiero ed estensione) è il punto di partenza e anche il perno di tutto il pensiero di Spinoza. Se con la parola "sostanza", egli dice, si vuole designare ciò che è "reale" (il reale "per eccellenza"), allora né il pensiero né l'estensione sono propriamente sostanze.
Sostanza, infatti, può definirsi solo ciò che sussiste per se stesso, «quod in se est et per se concipitur». Ciò significa che: 1) la sostanza ha in se stessa il suo proprio fondamento, cioè non abbisogna di altro per essere ciò che è, non rimanda ad altro, è auto sussistente; 2) la sostanza si concepisce o comprende per se stessa, cioè ha in sé la propria essenza, la propria "ragion d'essere". In sintesi: la sostanza è causa di se stessa ("causa sui"), cioè ha in se stessa la causa della sua esistenza e della sua essenza.
Ora, si vede bene che questi requisiti non appartengono né alla res cogitans né alla res extensa. Già Cartesio, infatti, le chiamava "sostanze derivate", cioè derivate da Dio, loro creatore. Ma allora è improprio e sbagliato definirle "sostanze": esse non sono sostanze, quanto invece attributi, cioè aspetti della sostanza.
Questa, che potrebbe sembrare a prima vista una semplice messa a punto terminologica, è in realtà il principio di una profonda rivoluzione filosofica, i cui effetti sono a dir poco dirompenti. Si veda infatti cosa ne consegue.
Nessuna cosa estesa, nessun "corpo" è causa di se stesso. Nessun corpo infatti riposa in sé, è sostanza e fondamento a se stesso, ma rimanda ad altri corpi come sua causa e questi ad altri ancora. La loro sostanza è unicamente in Dio. A sua volta, nessun pensiero ha in sé il proprio fondamento, cioè si concepisce di per sé, ma rimanda ad altri pensieri e, proprio come Cartesio ha mostrato, non trova pace in una verità compiuta se non uscendo da sé.
Quindi pensiero ed estensione non sono sostanze, ma attributi della sostanza che non può essere che unica. Se infatti ipotizzassimo l'esistenza di più sostanze, per esempio due, esse avrebbero i medesimi requisiti (sarebbero entrambe in sé e per sé, nel senso sopra indicato, o non sarebbero sostanze); quindi non si distinguerebbero affatto: nessun pensiero "distinto", come diceva Cartesio, potrebbe formularsi su di loro. Ciò significa che esse coincidono e sono un'unica sostanza: la sostanza che si identifica con l'essere infinito di Dio (infinito perché il "finito" appartiene ai corpi e ai pensieri, che non sono sostanze).
È quindi Dio l'unica sostanza, l'unica realtà vera. Affermazione assolutamente necessaria nella sua coerenza, ma anche preoccupante per le sue conseguenze. Stiamo dicendo infatti che, fuori di Dio, niente è davvero reale. Per esempio gli individui; per esempio le persone umane e le loro "anime": tutta la metafisica tradizionale, e in particolare tutta la metafisica cristiana, comincia allora a vacillare.
Le enormi conseguenze di una siffatta dottrina sono evidenti. Dio non può più essere concepito, biblicamente, come un essere che provvede al mondo. Dio non provvede a nulla, perché lui stesso è l'unica realtà. Ogni concezione di un Dio che intende e, in funzione di ciò che intende, vuole e ottiene ciò che vuole, è respinta da Spinoza come antropomorfica, e inadatta a caratterizzare la sostanza divina. In Dio volontà e intelletto non si distinguono (come, del resto, aveva già detto Cartesio, sebbene con tutt'altre intenzioni). Il senso in cui la natura "deriva" da Dio, secondo Spinoza, non solo non è riducibile alla creazione ebraico-cristiana, ma non è neppure avvicinabile a quello, neoplatonico, di un passaggio automatico. La natura si può dire che "derivi" da Dio, osserva Spinoza, solo nel senso in cui il valore di 180 gradi della somma degli angoli di un triangolo "deriva" dalla definizione del triangolo stesso. La natura, infatti, non è altro che il modo (o l'insieme dei modi) in cui Dio è.
Solo Dio è causa sui: esiste per se stesso, senza rinviare ad altro da sé, e solo Dio ha in se stesso la ragion d'essere della sua esistenza, cioè ha in sé la sua concepibile essenza. Questo "essere causa" da parte di Dio non può che essere infinito (niente può infatti delimitarlo dall'esterno, poiché nulla esiste o è reale fuori di lui); ma se Dio è causa infinita, le conseguenze o gli effetti di questa causa non possono che essere a loro volta infiniti.
Ciò significa che anche gli attributi di Dio sono infiniti. I due attributi di Dio che possiamo umanamente concepire, l'estensione e il pensiero, sono (come avrebbe detto Bruno) infiniti effetti dell'infinita causa. Infinità dei corpi e infinità dei pensieri.
Anche questa conclusione, in sé necessaria, è non poco inquietante. Se i corpi e i pensieri sono infiniti, Spinoza sta dicendo che il mondo stesso è infinito e coincide con Dio. Questo è ciò che verrà chiamato il "panteismo" di Spinoza, come vedremo tra breve: pensiero sommamente inaccettabile e indigesto per ogni religione o credo religioso del tempo.
L'analisi della sostanza e degli attributi, qui sintetizzata, è condotta da Spinoza secondo il modello dimostrativo della geometria di Euclide (considerato nel Seicento l'esempio perfetto del procedimento razionale e scientifico: ne abbiamo già visto un esempio in Hobbes). In questo senso l'Ethica è "more geometrico demonstrata", come dice Spinoza. L'opera infatti procede mediante definizioni, assiomi, dimostrazioni, scolii ecc.
Al di là di questo aspetto espositivo e formale, ciò che più importa osservare è come Spinoza, con la sua definizione della sostanza e degli attributi, superi di fatto il problema lasciato aperto da Cartesio e ripreso dagli occasionalisti. Infatti, in base alla sua posizione, non è più necessario chiedersi come lo spirito possa agire sulla materia e viceversa; neppure è necessario ricorrere a immaginari interventi "occasionali" di Dio, al fine di accordare le due supposte sostanze dell'estensione e del pensiero, del corpo e dello spirito.
Se pensiero ed estensione sono attributi di Dio, aspetti di un'unica sostanza (e non sostanze essi stessi), essi sono già necessariamente "accordati" in partenza. Vi è cioè un accordo di principio fra tutto ciò che accade sul piano dell'estensione e ciò che accade sul piano del pensiero. Si tratta, in altre parole, di due punti di vista diversi riferiti alla medesima e unica realtà: possiamo concepirla in base al pensiero; oppure possiamo concepirla in base all'estensione; ma la realtà cui ci riferiamo in tal modo è la medesima.
«L'ordine e la connessione delle cose, dice Spinoza, è il medesimo dell’ordine e della connessione dei pensieri». Per esempio, ciò che noi ci rappresentiamo ha già la sua corrispondenza parallela in ciò che accade sul piano delle realtà materiali. Ma ciò che accade non è in sé né rappresentazione né materia: in sé è il causare della sostanza, che può raffigurarsi dal punto di vista di quel suo attributo o aspetto che è il pensiero o di quell'attributo che è l'estensione.
Tutto ciò che accade, tutti gli accadimenti individuali dell'estensione e del pensiero Spinoza li chiama modi. I modi sono particolarizzazioni degli attributi. Per esempio una singola idea o pensiero è un modo dell'attributo "pensiero"; un singolo corpo è un modo dell'attributo "estensione".
I modi accadono dunque nell'attributo, hanno sede in esso, e l'attributo accade nella sostanza. Il che significa: tutto accade in Dio ed è perfettamente connesso e corrispondente a ogni altro accadimento.
Infatti la sostanza stessa, cioè Dio, non è altro che l'ordine e la connessione "geometrica" che si manifesta negli accadimenti dei modi negli attributi. Il dualismo cartesiano viene risolto in un rigoroso monismo geometrico. Il mondo è l'infinito accadere di ciò che accade e ciò che accade obbedisce a una rigorosa ragione necessaria e geometrica.
Il concetto spinoziano di Dio, come si vede, differisce totalmente sia dalla tradizione cristiana sia da quella ebraica. Dio non è persona: concepirlo così, dice Spinoza, sarebbe solo un'indebita "umanizzazione" superstiziosa del divino. Dio è invece l'impersonale ordine geometrico che regge l'universo; sicché Dio e l'universo si identificano. «Deus sive natura», dice Spinoza con un motto divenuto famoso. Dio è la stessa natura, il mondo nella totalità dei suoi accadimenti o modi.
Possiamo considerare la natura sotto due punti di vista: o dal punto di vista dell'infinità della sua essenza, e allora ci solleviamo al concetto della natura natùrans, della natura come causa producente universale; oppure possiamo considerare la natura dal punto di vista dell'infinità delle sue manifestazioni, e allora guardiamo la natura sotto il concetto della natura naturata, cioè degli infiniti effetti e modi del suo accadere e del suo esistere. Ma entrambe queste facce, poi, in Dio coincidono. Prese insieme, esse costituiscono l'ordine necessario del tutto, di tutto ciò che è.
L'idea di un Dio "creatore", che agisce secondo certi fini e facendo uso di certi mezzi, è così cancellata. Essa sarebbe, dice Spinoza, un indebito travestimento antropomorfico del divino. Poiché l'uomo si propone dei fini all'azione e fa uso di mezzi per conseguirli, analogamente pensa l'essenza divina. Ma Dio non ha fini da raggiungere: ciò contrasterebbe con la perfezione della sua natura, che è già in sé il fine realizzato.
Analogamente, Dio non ha da scegliere tra necessità e libertà: in lui questi aspetti coincidono, poiché la necessità geometrico-razionale che regge l'universo è l'espressione della stessa infinita essenza divina. In questo senso, la necessità divina è anche la sua libertà. Egli è la libera causa di quella necessità eterna che regola inflessibilmente il mondo in tutti i suoi accadimenti.
La credenza che possa essere libero un singolo modo (ad esempio una volizione, o un atto umano) deriva, secondo Spinoza, solo dall'ignoranza delle cause che lo determinano, e della sua connessione necessaria con tutto il resto. Anche il passaggio (sopraccennato) della mente umana dalla sua condizione di particolarità, in cui è schiava, alla identificazione con la sostanza divina, in cui è libera, non è qualcosa che l'Ethica spinoziana possa prescrivere: è solo qualcosa che può descrivere, come un passaggio naturale esso stesso. Infatti qualunque prescrizione, per aver senso, dovrebbe rivolgersi a una volontà capace di determinarsi liberamente. Ma una "libertà di scelta" non compete, né alla mente finita - che, in quanto tale, è determinata - né alla sostanza infinita, che non ha davanti a sé diverse alternative tra cui scegliere. Il senso in cui Spinoza parla di "etica" è, dunque, molto lontano da quello in cui se ne parla comunemente.
Non hanno senso pertanto, dal punto di vista di Dio (cioè dal punto di vista universale ed eterno del tutto), le umane valutazioni di bene e di male, di giusto e di ingiusto: ogni cosa è come deve essere, data la sua appartenenza alla necessaria armonia della sostanza.
Tale armonia non ha bisogno della volontà umana per attuarsi o per sussistere e non coincide certo con quelli che sono i bisogni materiali e psicologici degli uomini. I bisogni, i sentimenti e gli uomini stessi non sono che modi transeunti ed evanescenti degli attributi infiniti dell'infinita sostanza: non più che increspature dell'eterno moto delle onde dell'oceano.
Il mondo dell'al di là, i premi e i castighi futuri, le colpe e le redenzioni non sono dunque che indebite fantasie umane, superstizioni e pregiudizi che nascono dai nostri desideri, dalle nostre passioni, dai nostri timori e dal nostro bisogno di rassicurazione: tutte cose che contrastano sia con l'esperienza (che non mostra affatto una natura particolarmente sollecita per le sorti umane), sia con la ragione (per le assurdità che derivano da una concezione che immagina il divino implicato in fini, scopi e nelle contraddizioni del bene e del male).
Non essendo provvidente, Dio evidentemente non premia i buoni né punisce i malvagi. Del resto questa distinzione di "buoni" e "malvagi" perde ogni significato morale, perché non si deve pensare che gli uni e gli altri si comportino secondo una loro libera volontà. Il comportamento dell'uomo, come qualsiasi comportamento naturale, è rigorosamente necessitato, e quindi non avrebbe senso assegnargli un premio o un castigo morale.
Nell'universo di Spinoza - geometricamente concepito - non vi è nessun bene e nessun male reale. Tutto è come dev'essere; tutto scaturendo dalla divina sostanza secondo la necessità della natura di questa: "Abbiamo dimostrato [ ... ] che la natura non agisce per un fine, perché l'Ente eterno ed infinito, che chiamiamo Dio o natura, agisce con la medesima necessità con cui esiste". Di bene e di male l'uomo parla solo relativamente a se stesso; ma ciò che è bene per l'uno è male per l'altro, e nulla è bene o male in sé: "Per esempio, la musica è buona per chi è melanconico, cattiva per chi è afflitto, e né buona né cattiva per chi è sordo". L'immortalità delle anime singole, inoltre, è contraddittoria: le anime sono singole in quanto modi, cioè appunto in quanto manifestazioni transeunti dell'unica sostanza. Sono immortali, al contrario, in quanto si identificano con la sostanza divina, cioè cessino di essere singole.
È evidente che in tal modo Spinoza condanna tutte le dottrine religiose, abbassandole a mera superstizione e idolatria. Egli fu infatti il primo a leggere e a commentare criticamente la Bibbia e a metterne in luce, con un atteggiamento puramente scientifico, le contraddizioni e le assurdità, nonché la relazione dei suoi contenuti con le vicende storiche e contingenti del popolo ebraico.
Si può comprendere allora la generale esecrazione nei suoi confronti e l'accusa di "ateismo". In Spinoza c'è indubbiamente l'eco della posizione di Bruno, ancor più radicalizzata e più rigorosamente fondata. Infatti al generico copernicanesimo di Bruno si sostituisce ora il meccanicismo cartesiano e la nuova ratio geometrica della scienza moderna.
La comprensione del nesso necessario che lega la sostanza agli attributi e ai modi non riguarda però solo la sfera del conoscere intellettuale. Sollevarsi a comprendere razionalmente la sostanza è anche una via per modificare i nostri abiti pratici. La scienza è il bene più alto dell'uomo in quanto essa è anche il mezzo per conseguire l'umana saggezza. La scienza cioè, come negli antichi pitagorici, è "purificazione dalle passioni".
Le passioni nascono dagli appetiti corporei ai quali corrispondono, sul piano delle idee, le rappresentazioni sensibili e le immaginazioni. Attraverso le passioni si realizza lo sforzo, o conatus, che caratterizza ogni cosa nella sua volontà di mantenere per quanto può il proprio essere. A questo livello l'uomo è completamente catturato dai modi, cioè dalle passioni e dalle cose che considera come reali.
Ma al di sopra della sensazione e delle passioni si apre per l'uomo la possibilità della ragione. Essa mostra che i modi non sono reali, che essi rinviano alla sostanza, cioè all'ordine geometrico che governa ogni cosa, nel quale finiranno per confluire annullandovisi o mutando.
Comprendere razionalmente la sostanza significa considerare ogni fatto, ogni modo, sub specie aeternitatis, cioè contemplarlo dal punto di vista universale e necessario di Dio, nel quale l'uomo e la tigre, Nerone e Seneca sono ugualmente necessari e indifferenti. La comprensione di questa necessità universale dei modi nella loro costitutiva contingenza è al tempo stesso una "meditazione sulla vita" che culmina nell'amor Dei intellectualis: adesione dell'intelletto all'ordine divino che regge il mondo.
In tal modo l'uomo si spoglia dalle particolarità delle sue passioni, considerando la sua stessa vita transeunte sub specie aeternitatis, cioè nella divina indifferenza del tutto. Proprio la visione della necessità geometrica che si manifesta in ogni cosa e in lui stesso costituisce la sua liberazione. Egli diviene libero esercitando quell'adesione razionale alla necessità del tutto che supera l'ostinazione particolare della passione, il suo oscuro agitarsi e lottare per un effimero prevalere; sforzo destinato ogni volta a spegnersi nella sovrabbondante necessità del tutto, del quale non è che un modo in sé poco reale.
Il passaggio dalla schiavitù alla libertà non può essere, dunque, che naturale esso stesso. Perciò Spinoza dedica ogni sforzo a mostrare che il medesimo impulso naturale che muove l'uomo nella sua condizione di schiavitù, e cioè l'amore del proprio essere particolare, porta anche l'uomo a identificare il proprio essere con il tutto e quindi a liberarsi. Questo processo di liberazione comporta tre gradi, che corrispondono esattamente alle tre forme in cui la mente umana conosce.
Il primo grado è la conoscenza immaginativa. In esso, limitandoci a percepire immagini sensibili, oppure immagini "generiche" (come, occamisticamente, Spinoza intende i concetti "universali": cane, albero, ecc.), noi non cogliamo il perché del legame tra un'immagine e l'altra, e quindi sentiamo il nesso tra i vari modi come imposto da qualcosa di esterno ai modi stessi, cioè come forzato; e cogliamo ciascun modo come qualcosa di passivo, che subisce un influsso da parte di altro. Corrispondentemente a questo grado di conoscenza "inadeguata" abbiamo schiavitù e "passione": cioè "passività".
Al secondo grado troviamo la conoscenza razionale. Qui il nesso tra un modo e l'altro della natura non si presenta più come un "dato" bruto: di esso ci si "rende ragione". Allora, giunti a capire la necessità degli eventi, noi cessiamo di essere puramente passivi. Il nostro comportamento continua, bensì ad essere necessario, ma anche noi siamo partecipi di ciò che lo necessita: siamo soggetti attivi, e non solo passivi, di tale necessità.
In altri termini: nella misura in cui afferriamo e seguiamo la ragione, e otteniamo così una conoscenza "adeguata" delle cose, ci liberiamo anche della passività, cioè delle passioni. Anche psicologicamente, del resto, ci accorgiamo che capire il perché di una certa passione è già dominarla: non essere più schiavi, almeno nella misura in cui la nostra comprensione è adeguata. Intendere, poi, la necessità universale degli avvenimenti basta a liberarci da speranze, delusioni, timori: ché queste passioni hanno senso solo rispetto ad eventi incerti.
La necessità di cui si parla in questo secondo grado di conoscenza non è più una mera costrizione estrinseca di fatto, come nel primo grado; essendo fornita di razionalità, è già un certo grado di libertà. Essa implica tuttavia ancora una certa rassegnazione. Un'accettazione quindi, di un ordine riconosciuto valido sopra di sé, ma con il quale non ci si identifica ancora.
Infine, giungendo al terzo grado, noi non cogliamo più soltanto i nessi tra le cose con una conoscenza discorsiva: vediamo la totalità delle cose, con una conoscenza intuitiva, cioè immediata, di Dio. Vediamo l'universo come l'ordine eterno e immutabile dello stesso essere divino, e quindi contempliamo le cose, non più nel tempo, bensì sub specie aeternitatis (dal punto di vista del'eternità). In questo genere di conoscenza la mente si identifica con quello stesso ordine divino che conosce, e quindi viene ad essere eterna essa stessa. Per questo Spinoza afferma che "la mente umana non può andar distrutta assolutamente con il corpo, ma di essa rimane qualcosa, che è eterno" (Ethica, V, prop. 23).
Tuttavia questo "qualcosa", che rimane, non è l'individualità della persona singola (che, in quanto singola, è l'aspetto mentale che corrisponde al "modo" estensivo del corpo, e quindi non può sopravvivergli): è invece l'idea della nostra mente quale si trova in Dio; e che, essendo in Dio, è eterna. Nella "conoscenza intuitiva", dunque, la nostra mente si identifica con la propria idea, che è in Dio. Tale identificazione è possibile perché la mente, per sua natura, conosce. Per Spinoza "la potenza della mente è definita dalla sola conoscenza, mentre l'impotenza, ossia la passione, è voluta dalla sola privazione di conoscenza, vale a dire da ciò, per cui le idee si dicono inadeguate".
Del corpo, non si potrebbe dire altrettanto; per questo la nostra mente è, per un certo aspetto, eterna, e il suo corpo no.
Ma quel passaggio che Spinoza considera "naturale", dall'amore egoistico di sé all'amore intellettuale di Dio - amore che costituisce il massimo "vantaggio", per un sé allargato si fino ad abbracciare il tutto - in realtà non è un passaggio, bensì un salto qualitativo, che la natura come tale non può compiere. La conoscenza razionale (o "di secondo grado") delle cose non serve a mediarlo: perché il punto di vista dell'idea inadeguata, e quindi della passione egoistica, rimane sempre tale, finché la "conoscenza razionale" delle cose rimanga uno strumento dell'affermazione di sé. Una ragione siffatta non fa che servire alla cupiditas.
Quando, invece, si sia assunto il punto di vista della conoscenza perfettamente adeguata, cioè della "conoscenza intuitiva" come amore intellettuale di Dio, allora veramente l'egoismo è trasceso: ma questo è il punto di vista di Dio stesso, che, o c'è fin da principio, o certamente non può costituirsi attraverso il progresso, per quanto esteso, della "conoscenza di secondo genere". Vediamo allora che il tentativo spinoziano di fare a meno della provvidenza, della grazia, insomma, dell'iniziativa divina, fallisce: occorre che Dio ci assuma nel suo punto di vista, si doni, per così dire, a noi, perché giungiamo a trasformare il nostro egoismo in un amore universale.
Senza questa iniziativa, la natura rimarrà sempre nella sfera del particolare egoistico, dell'inadeguato. È vero che nell'amor Dei noi troveremo la nostra felicità suprema: ma la natura come amore di sé è incapace, nonostante qualsiasi ampliarsi della conoscenza razionale, di suggerirci qual è, veramente, la nostra felicità suprema.
Si scorge qui l'ambiguità del concetto spinoziano di "natura", che dovrebbe stringere insieme il finito e l'infinito: di una natura, cioè, che dovrebbe essere, non già il veicolo dell'azione divina, bensì Dio stesso; e che, d'altro canto dovrebbe esser capace di portare all'identità con Dio certi punti di vista inadeguati che in essa inesplicabilmente si formano. Così, simmetricamente all'impossibilità di giustificare il passaggio metafisico dalla natura naturans alla natura naturata, troviamo in Spinoza l'impossibilità di giustificare il passaggio etico dalla cupiditas, con cui ciascun modo tende a perseverare nel proprio essere, all'amor Dei, per cui certi modi (le menti umane) si fondono con Dio.
Spinoza poteva ignorare il male nella natura (nella natura umana in particolare), perché non trovava il male in se stesso, e pensava che bastasse accettare con animo sereno le avversità perché l'apparenza del male svanisse.
Tuttavia in questa costruzione monolitica, in cui l'ordine geometrico vorrebbe esprimere l'assoluta necessità con cui ogni elemento è legato al tutto, non è difficile scoprire incrinature che bastano a mettere in forse il sistema. Anzitutto, che l'essenza di Dio si esprima necessariamente nella molteplice realtà naturale, è un' assunzione che Spinoza fa perché trova la realtà naturale come un fatto, e vuole identificarla con Dio.
Se però provasse, anche solo per un istante, a dedurre effettivamente code sta realtà naturale da Dio ("come dai postulati e dalle definizioni si deducono i teoremi di geometria") si accorgerebbe immediatamente che una tale deduzione è impossibile.
Spinoza intende che l'unico modo per far sì che le determinazioni naturali siano determinazioni di Dio stesso è di ammettere che stiano, rispetto a Dio, nello stesso rapporto in cui i singoli teoremi stanno rispetto a un sistema matematico. Senonché, mentre i teoremi si dimostrano, il mondo si "mostra", ma non si può "dimostrare". La sua identità con Dio è quindi un assunto che richiederebbe una dimostrazione impossibile.
In secondo luogo, in questo sistema necessario non si vede come possano formarsi quei punti di vista "inadeguati", guardando dai quali gli uomini credono che nel mondo vi sia del male (o, comunque, qualcosa che potrebbe andare diversamente da come va). Se la natura è Dio, tale opinione è un'opinione del tutto falsa: ma il costituirsi di un'opinione falsa, in una natura che è Dio, è un enigma insolubile. Anche quella che Spinoza chiama "idea inadeguata" può essere considerata inadeguata solo da un punto di vista inadeguato a sua volta: perché, quando si giunga a intendere la necessità della natura, si capisce che tutto è esattamente come dovrebbe essere, anche ciò che vien detto "inadeguato". Ma allora il passaggio dell'etica spinoziana dalla conoscenza "inadeguata" all'"adeguata" cade interamente fuori di quel processo divino, che è adeguato in ogni sua parte: cioè la stessa filosofia di Spinoza esprimerà un punto di vista inadeguato, che non giustifica se medesimo.
Un'altra posizione spinoziana nella quale possono scorgersi risultati contraddittori è quella dell'anima come idea del corpo, ma che, nello stesso tempo, lo supera e fruisce di una certa eternità essenziale, essendo presente eternamente in Dio. Il punto più paradossale della sua dottrina è se vi siano più anime o solo una modificantesi. Senz'altro Spinoza è per l'eternità dell'anima e non delle singole anime, a differenza di Cartesio. Spinoza esclude che l'anima possa esistere come forma capace di sussistere in se stessa e, proprio per questo, capace di informare il corpo, cioè di vivificarlo e muoverlo dall'interno. Egli pretende di cancellare semplicemente un fatto di esperienza che dovrebbe essere spiegato: l'intima unione, cioè, fra elemento psichico ed elemento fisico. Egli nega il rapporto gerarchico tra l'anima e il corpo ed istituisce un parallelismo sterile.
Di qui l'impossibilità per l'anima di assurgere sopra la vita corporea senza è tuttavia negarla; l'impossibilità, inoltre di astrarre dal sensibile un intelligibile che lo oltrepassi (senza negare il sensibile, anzi manifestandolo); l'impossibilità di formarsi il concetto di un dover essere come regola all'essere (durissimo e beffardo è Spinoza nel negare ogni possibile e il dover essere). Soprattutto la vita sensibile viene considerata da Spinoza una mera apparenza, sulla scorta di un altro grande pensatore ebreo ultraspiritualista, Maimonide. È importante già qui ricordare come il pensiero di Spinoza non soltanto abbia avuto grande importanza nella filosofia idealistica tedesca e italiana, ma anche in altri due pensatori di origine ebraica - entrambi, come lui, eterodossi -, Marx e Freud.