Se si vogliono conoscere le fattezze di papa Sisto IV, si può ammirare l’affresco di Melozzo da Forlì, del 1477, staccato e conservato presso la Pinacoteca Vaticana, in cui il pontefice affida la Biblioteca apostolica, da lui cospicuamente dotata, all’umanista Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, al cospetto del suo prediletto nipote, Gerolamo Riario, del cardinale Giuliano della Rovere col fratello Giovanni, prefetto di Roma, e di Raffaello Sansoni, protonotario apostolico.
Già dall’architettura dipinta alle spalle degli illustri personaggi si possono intuire le doti illusionistiche di Melozzo degli Ambrosi, da Forlì (1438-1494), allievo di Piero della Francesca e formatosi nell’ambiente urbinate fra il 1465 e il 1475.
Se la maggior parte delle sue opere sono perdute, ci rimane il suo capolavoro, ossia gli affreschi che ornano la cupola della sagrestia di San Marco nel santuario della Santa Casa in Loreto, cui attende fra il 1484 e il 1493.
Oltre a raffigurare, con vero virtuosismo prospettico, figure di angeli e profeti che paiono sospese in aria sulla testa dell’osservatore, mostrandogli le piante dei piedi, Melozzo dipinge alle loro spalle una calotta riccamente decorata in cui si aprono finestroni dai quali traspare il cielo turchino.
Nel concepire questa complessa macchina figurativa Melozzo, che verosimilmente non conosce l’illustre precedente dell’ocello "aperto" dal Mantegna nel soffitto della mantovana Camera degli Sposi, anticipa soluzioni che saranno riprese da Raffaello e dal Correggio.
Un intento celebrativo presiede alla concezione degli affreschi coi quali Sisto IV intende ornare la propria cappella, la Sistina; la fascia mediana delle pareti accoglierà figure di papi martiri, storie di Mosè e storie di Cristo, sotto le quali saranno dipinti finti arazzi. Fra i pittori chiamati a Roma dal pontefice, oltre ai toscani, Botticelli, Rosselli e Ghirlandaio, spiccano il Perugino col suo allievo Pinturicchio e il giovane Luca Signorelli.
Pietro Vannucci, detto il Perugino, nato a Città della Pieve tra il 1445 e il 1450, morto nel 1523, allievo di Piero della Francesca a Urbino e di Andrea del Verrocchio a Firenze, è a sua volta il maestro del sommo Raffaello.
Artista colto e prolifico, pittore di celestiali madonne e di stupendi paesaggi, è titolare a Perugia di una delle più rinomate botteghe d’arte del Rinascimento, in grado di soddisfare le esigenze dei più raffinati umanisti dando forma pittorica agli eruditi programmi iconografici da loro dettati per compiacere illustri committenti, come Isabella d’Este.
Nella Sistina il Perugino lascia uno dei suoi capolavori, la celeberrima Consegna delle chiavi a san Pietro (1482), eseguita tutta di sua mano, mentre lascia al Pinturicchio il compito di dipingere il Viaggio di Mosè in Egitto e il Battesimo di Cristo; altri suoi dipinti, affreschi e una pala, saranno distrutti nel 1536 per far posto al Giudizio Universale di Michelangelo.
La padronanza del moderno linguaggio figurativo, la limpidezza della composizione, l’afflato lirico e la grazia delle figure, la struggente poesia dei paesaggi garantiscono al Perugino un enorme successo. Dopo prove eccelse, come la celebre Madonna col Bambino e san Giovannino della National Gallery, l’artista maturo raggiunge una propria "maniera" dalla quale non si distaccherà più.
Ne sono emblema gli affreschi che decorano il Collegio del Cambio a Perugia (1500), ispirati a un programma dettato dall'umanista Francesco Maturanzio che prevede la raffigurazione dei Pianeti sul soffitto, di Uomini famosi, con le Virtù cardinali, i Profeti, le Sibille e altri temi sacri sulle pareti.
Nella volta traspare il ricordo dell’esperienza romana del Perugino; la decorazione a "grottesche" ricorda il repertorio iconografico della Domus Aurea di Nerone, di recente riportata alla luce sul Palatino.
Tra gli affreschi della cappella Sistina, le scene col Testamento e la Morte di Mosè sono dipinte nel 1482 da Luca Signorelli (1445 ca.-1523), nato a Cortona e formatosi nell'Italia centrale. Certamente a conoscenza dell’opera di Piero della Francesca, ma per molti versi agli antipodi del maestro di Sansepolcro, frequenta per qualche tempo la cerchia di artisti che gravita a Firenze attorno a Lorenzo il Magnifico.
Il suo capolavoro, lo sconvolgente ciclo d’affreschi della cappella di San Brizio nel duomo di Orvieto, è un manifesto contro la predicazione di fra Girolamo Savonarola, certo venutagli all’orecchio nel soggiorno fiorentino.
Artista eclettico, assai ricettivo rispetto agli ambienti frequentati, passa dal formalismo che domina il giovanile stendardo della Flagellazione (1480 ca.), in cui sembra voler esprimere più maestria ed eleganza che dramma e sofferenza, alla pacatezza della celebre Educazione di Pan, dipinta fra il 1490 e il 1492 per Lorenzo il Magnifico, in cui esibisce una vena lirica ed ermetica che ricorda il Botticelli ed evoca lo spirito neoplatonico della corte fiorentina.
Col tempo, nella sua pittura si fa strada una sensibilità inquieta e insofferente alle regole che preannucia il superamento degli schemi quattrocenteschi. Le sue figure plastiche, dall’anatomia prorompente, nobili e austere, ma anche spasmodicamente contorte, paiono anticipare quelle di Michelangelo. Ne è testimonianza convincente il monumentale, apocalittico ciclo affrescato tra il 1499 e il 1502 nella cappella di San Brizio del Duomo di Orvieto.
La decorazione, iniziata sulla volta nel 1447 dall’Angelico, ma interrotta, dopo il rifiuto del Perugino è affidata al Signorelli che, terminate le vele, si dedica ai lunettoni delle pareti, dove effigia la Predicazione dell'Anticristo, la Fine del mondo, la Resurrezione della carne, il Giudizio Universale, gli Eletti e i Dannati.
In questo risuonare di trombe apocalittiche, tripudio di forze soprannaturali e di mostri da incubo, pare rivivere lo spirito medievale, ancor più stridente se rapportato al classico, scultoreo vigore delle figure e dei nudi, tipicamente rinascimentali; quasi che si volesse ammonire l’umanità del Rinascimento dell’incombere del Giudizio divino, anticipando di quasi quarant’anni Michelangelo.
Il significato ideologico del ciclo è più chiaro se si identifica l’Anticristo, che dal podio arringa la folla nella prima scena, col Savonarola, ossia con colui che, consigliato da Satana, ha istigato i fedeli a ribellarsi contro la Chiesa; la quale, mandato al rogo l’Anticristo con un sospiro di sollievo, vuole riconquistare i fedeli con le tradizionali armi del terrore e del giudizio finale.
Un intento pienamente raggiunto grazie alla grandiosità plastica e drammatica delle pitture del Signorelli, emblematiche d’un’età che sta per chiudersi.
A papa pagano, pittore pagano. Piena è infatti l’intesa fra Alessandro VI Borgia, pontefice dai costumi licenziosi, infatuato di lusso, di potere, ma soprattutto di se stesso, e il perugino Bernardo di Betto, detto Pinturicchio (1454-1523), allievo del Perugino e suo collaboratore nella decorazione della Sistina, dotato di una vivace fantasia di decoratore che ne decreterà il successo, valendogli numerose commesse, ma incapace di coneferire all’episodio storico o mitico la dovuta solennità.
Spirito laico, del tutto privo di devozione, ama raffigurare la varietà del mondo umano e naturale, come dimostra nei Funerali di san Bernardino (1490) di Santa Maria in Aracoeli a Roma. La sua inclinazione per composizioni lussuose, benché concettualmente gracili, ne fa il pittore più richiesto nella Roma dell’ultimo ventennio del Quattrocento, ove diviene l’artista favorito di Alessandro Vl Borgia.
Fra il 1492 al 1494 il Pinturicchio affresca i cosiddetti appartamenti Borgia, le stanze private del pontefice nei palazzi vaticani.
Nell’intimità, l’occhio di papa Alessandro ammira Profeti e Sibille, edificanti scene della vita di Cristo e di Maria, santi, virtù e quant’altro; ma si posa senza dubbio più volentieri sulle immagini dei Pianeti e dei Figli dei pianeti, potenze astrali che presiedono al destino umano, e sulla ricorrente effigie del toro, emblema di famiglia, che compare come incarnazione di Giove amante di Io, divenuta col nome di Iside regina degli egizi e sposa di Osiride, del quale sono descritte la morte e la resurrezione come Api, bue sacro degli egizi.
Una complessa macchina mitologica, finalizzata evidentemente all'esaltazione personale di Alessandro VI, il quale non esita, con una certa qual blasfema audacia, ad identificare sé e la propria dignità ponificia con divinità e miti pagani, assecondato in questo dal duttile pennello del pittore favorito.
Ben altro è il valore dell’opera che dal 1502, lasciata Roma, Pinturicchio esegue a Siena; le Storie di papa Pio II, affrescate nella libreria Piccolomini del Duomo, dove dà prova di grande maestria nell’invenzione prospettica e architettonica. Al suo fianco, il giovane Raffaello s’incarica di contribuire al ciclo con idee moderne e innovative.
Fra il 1504 e il 1508 Firenze accoglie tre sommi artisti: Leonardo, Raffaello e Michelangelo. Fra i tre, Raffaello Sanzio, nato nel 1483 nella colta e vicace Urbino dei Montefeltro, è colui che rappresenta la piena incarnazione dello stile rinascimentale maturo. Figlio del pittore Giovanni Santi, si forma nella bottega paterna ma, ansioso di apprendere, si reca presso il celebre Perugino, del quale eredita la visione lirica e armonica, senza peraltro cessare di migliorarsi. L’affrancamento dal linguaggio peruginesco si annuncia già nella celeberrima tavola con lo Sposalizio della Vergine (1504), che cita evidentemente la Consegna delle chiavi a san Pietro affrescata dal Perugino nella cappella Sistina, e lo Sposalizio della Vergine da lui dipinto per la cattedrale di Perugia intorno al 1503-1504, ora a Caen; pur riprendendo le posture dei personaggi e lo schema compositivo dei dipinti del maestro, però, Raffaello evoca i concetti di Piero della Francesca nel risalto dato all’architettura che fa da sfondo all’episodio evangelico, ma anche le ricerche sulla pianta centrale di Leonardo e Bramante.
A Firenze il giovane Raffaello ha modo di compiere la propria maturazione intellettuale e stilistica, sviluppando quella cifra di naturalezza e armonia che sarà il suo tratto peculiare. Le commissioni provengono dal patriziato mercantile fiorentino, per cui realizza ritratti come il celebre Ritratto di Agnolo Doni (1506), ma anche immagini di devozione come l’assorta Madonna del Prato (1506), la complessa Madonna Esterházy (1505-6), la Belle jardinière (1507), e la monumentale pala detta Madonna del baldacchino (1507-8). A conclusione del soggiorno toscano dipinge la pala col Trasporto di Cristo (1507), dove la meditazione dei ritmi franti di Michelangelo tenta di coniugarsi allo psicologismo leonardesco nel raffigurare una scena densa di pathos, ma priva di equilibrio compositivo.
Raffaello a Roma: tra pubblico e privato
Fra le grandi imprese artistiche di Giuliano della Rovere, eletto papa col nome di Giulio II nel 1503, vi sono la riedificazione della basilica di San Pietro, opera di Bramante, il sogno di erigere la propria monumentale sepoltura sulla perpendicolare del sepolcro dell’apostolo, impresa affidata a Michelangelo e da lui realizzata, dopo molto penare e incessanti modifiche, in San Pietro in Vincoli, la decorazione della volta della Cappella Sistina, assegnata anch’essa a Michelangelo, e l’ornamentazione dei suoi appartamenti privati, le Stanze vaticane.
Quest’ultimo incarico è affidato in un primo tempo a vari artisti fra cui il Perugino, Baldassarre Peruzzi e i settentrionali Sodoma, Bramantino e Lotto; ma nel 1508, con l’arrivo di Raffaello a Roma, il papa licenzia tutti e assegna all’urbinate, per cui questa commessa rappresenta la prima grande occasione ufficiale, l’intera responsabilità dell’opera.
Rispetto al programma suggerito dal pontefice, nella prima stanza, detta della Segnatura (1508-1511), che ha funzioni di biblioteca, Raffaello sceglie di celebrare la cultura umanistica e i grandi temi religiosi e filosofici del Rinascimento, nelle due scene della Disputa del Sacramento e della celeberrima Scuola di Atene, dando ad ognuna armonia e unità impareggiabili.
Ma a Roma Raffaello può cimentarsi anche nella pittura profana, grazie alla generosità del banchiere Agostino Chigi. Questi, profittando dell’assenza del papa impegnato nella sua velleitaria campagna militare in Italia settentrionale, gli commissiona un grande affresco di soggetto classico nella sua villa, la Farnesina progettata da Baldassarre Peruzzi, raffigurante il Trionfo di Galatea (1511).
Raffaello a Roma: tra Giulio e Leone
Ripresi i lavori in Vaticano al ritorno di Giulio II, che Raffaello effigerà in un celebre ritratto (1511-12), l’artista affresca la seconda sala degli appartamenti pontifici (1511-13), affrontando con piglio drammatico e ufficiale al tempo stesso i temi storici della Stanza di Eliodoro, dedicata alle udienze; in essa il papa vuole esaltare l'appoggio divino alla Chiesa e la propria politica universalistica.
Oltre all’episodio della Cacciata di Eliodoro dal tempio, tratto dall'Antico Testamento, qui Raffaello effigia la straordinaria scena della Liberazione di san Pietro, dove la luce è protagonista dell'immagine e impareggiabile strumento narrativo.
Nel travagliato periodo seguito al pontificato di Giulio II, Leone X (1513-1521), al secolo Giovanni de' Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, amante del lusso quanto della cultura, incarica Raffaello di affrescare la terza Stanza vaticana (1514-1517), destinata ai pranzi di cerimonia, con episodi dei regni di Leone III e Leone IV allusivi alla missione di pace e di supremazia spirituale della Chiesa cattolica.
Nella scena dell'Incendio di Borgo (1514), il papa benedicente, piccola figura sullo sfondo di una concitata azione, arresta prodigiosamente l’incendio, così come Leone X spera di arrestare le guerre che sconvolgono la cristianità.
La benevolenza del pontefice consente a Raffaello di allargare il proprio campo d’azione dedicandosi alla ricerca archeologica, all’architettura e alla creazione di celeberrimi cartoni per arazzi. L’amore per la cultura classica, assiduamente coltivato, si concretizza nel palazzo costruito a Monte Mario per il cardinale Giuliano de’ Medici, Villa Madama, che fa riferimento alla Villa Laurentiana descritta da Plinio.
La morte coglie Raffaello nel 1520, all’apice della fama e della gloria, quando ancora tanto potrebbe dare all’arte.
Rinascere in una Stanza
Platone e Aristotele dialogano sereni: li circonda una schiera di sapienti che richiama la corona di santi e profeti che attornia il Sacramento. Nelle Stanze Vaticane affrescate da Raffaello, estrema celebrazione della cultura umanistica, l’arte rinascimentale raggiunge la piena maturità e annunzia al tempo stesso il proprio superamento.
Il committente è Giulio II della Rovere, più sovrano che pastore, fautore della restaurazione della supremazia temporale del papato in virtù della missione spirituale della Chiesa. Roma deve trasformarsi a immagine della propria vocazione: perciò il pontefice assegna a Bramante il compito di celebrare l’apostolo Pietro, a Michelangelo quello di esaltare Giulio, suo degno vicario.
Anche le Stanze affidate a Raffaello debbono comporre un inno alla capitale della cristianità, dove le grandi questioni religiose e filosofiche trovano adeguata espressione intellettuale e artistica. Ne è un emblema la Stanza della Segnatura, la prima eseguita dall’urbinate: qui la Disputa del Sacramento e la Scuola d’Atene pongono a confronto e in connessione fra loro rivelazione cristiana e razionalità pagana.
La fraterna conversazione di Platone e Aristotele auspica il comporsi di una disputa che, nel Quattrocento, ha lacerato accademie e università in una superiore sintesi che, alla luce della maestà di Cristo, armonizzi l’idealismo del primo al realismo del secondo.
Nella Stanza di Eliodoro, dove purtroppo scompaiono i dipinti di Piero della Francesca, un inedito trattamento della luce crea immagini di grande drammaticità, mettendo a confronto la Cacciata di Eliodoro e la Liberazione di san Pietro.
Morto Giulio II senza aver potuto completare il proprio ambizioso programma, Raffaello lavora alla terza Stanza, detta dell’Incendio, su commissione del successore, Leone X de’ Medici, che, anche nella scena in essa raffigurata, vuole sottolineare la propria missione di pace, dopo il turbolento pontificato di Giulio della Rovere.
La pittura di Raffaello si è però già trasformata, abbandonando la strutturazione dell’immagine secondo le leggi dell’armonia e della proporzione e concentrandosi sull’espressività dei singoli elementi figurativi.
Un ciclo s’è chiuso, un altro se ne apre, un nuovo corso dell’arte che ormai non appartiene più alla cultura dell’Umanesimo.