Antonio Benci, detto il Pollaiolo (1431-1498), esordisce come orafo. Titolare di una delle più famose botteghe fiorentine d’arte al tempo di Lorenzo il Magnifico, disegnatore eccelso, è anche pittore, incisore e scultore. La sua prima opera nota è il piede di una croce d'argento (1457) in cui unisce alla tradizionale perizia orafa un senso donatelliano dello spazio.
Oltre che di Donatello, subisce l'influenza di Andrea del Castagno, spostando gradatamente il proprio interesse dallo spazio alla drammaticità della figura umana.
Il Pollaiolo concepisce l'arte quale ricerca, esperienza che cerca di afferrare, attraverso la rappresentazione del mondo, il significato delle cose; una ricerca che inizia col disegno, in cui l’artista trova il primo impulso e la fonte dell’ispirazione.
Il vigore plastico del suo tratto, corroborato da approfondite conoscenze anatomiche, gli consente vigorose rappresentazioni di esseri in movimento, rinnovando il dinamismo dell’arte classica. Così è nella Battaglia di nudi (1472 circa), disegno da cui ricava una celebre incisione, la cui forza si riflette nel piccolo gruppo bronzeo con Ercole e Anteo commissionatogli dai Medici (1475 ca.).
Se nel disegno la tensione dei corpi risalta dal marcato uso del chiaroscuro, nel gruppo plastico il dinamismo è accentuato dalle forti torsioni delle membra, anatomicamente rilevate; ogni nervo, ogni muscolo è in tensione, il volto stesso dei protagonisti mostra lo spasimo. La scultura è a tutto tondo, e non presuppone un particolare punto di vista.
Il capolavoro pittorico del Pollaiolo è il Martirio di san Sebastiano (1475) della cappella Pulci nella basilica della Santissima Annunziata di Firenze; in questo dipinto la struttura piramidale delle figure sembra contenerne i movimenti in pose controllate e bilanciate, sebbene presentate con scorci audaci, dinanzi ad un profondo paesaggio toscano cui non mancheranno di ispirarsi i maestri del Cinquecento.
Andrea di Francesco di Cione, detto il Verrocchio (1435-1488), titolare di una bottega d’arte fiorentina che al tempo di Lorenzo il Magnifico rivaleggia con quella del Pollaiolo, esordisce anch’egli come orafo, affermandosi poi come pittore e scultore.
Caro alla cerchia medicea, disegna costumi ed elementi decorativi per festeggiamenti e ricorrenze della consorteria di Lorenzo; nominato responsabile delle collezioni private dei Medici, restaura molte sculture romane.
La sua opera incarna l'idea che l'esperienza concreta, se sorretta dal disegno, sia più importante della scienza matematica; quanto di più lontano si possa immaginare dalle convinzioni di Piero della Francesca.
Il Verrocchio preferisce la ricerca alla rivelazione, la sperimentazione alla teoria, l’esperienza alla meditazione. Il suo ideale non è, come per il Pollaiolo, rappresentare personaggi che coinvolgono la natura nel proprio dinamismo, ma piuttosto l'uomo che riesce a trovare un'intesa profonda tra il fluire della propria esistenza e il divenire continuo del creato.
Nella sua bottega si formano alcuni fra i più insigni pittori del tempo, tra i quali Leonardo da Vinci, il Perugino, Domenico Ghirlandaio e il giovane Michelangelo.
La mano di Leonardo spicca, accanto a quella del maestro, nel celebre Battesimo di Cristo (1474-75) degli Uffizi, unico dipinto attribuito con certezza al Verrocchio, che mostra uno stile lineare, nervoso e realistico. In ambito plastico, la lezione donatelliana è rivissuta in modo del tutto personale da Andrea nel David bronzeo (1475 ca.) commissionatogli da Lorenzo e Giuliano de’ Medici; l’eroe biblico non è più il sensuale giovinetto di Donatello, ma un garbato paggio della corte medicea, di fattezze ghibertiane.
L'elemento che fornisce al Verrocchio una nuova chiave di lettura dell'opera è la luce che modella la figura, avvolgendola in un'atmosfera vibrante e luminosa.
Il Putto alato con delfino di Palazzo Vecchio (1478 ca.), concepito originariamente per la villa medicea di Careggi, è ispirato al dinamico naturalismo del suo maestro, Desiderio da Settignano.
Nella Dama col mazzo di fiori (1478 ca.), il taglio della figura, rappresentata sino all’ombelico, permette di mostrare il gesto pudico e aggraziato delle mani, tratteggiando la psicologia del personaggio con una sensibilità che pare anticipare quella di Leonardo.
Il capolavoro plastico del Verrocchio è frutto della committenza della repubblica veneziana, che chiede allo scultore il monumento equestre del condottiero Bartolomeo Colleoni (1480-88), in campo dei Santi Giovanni e Paolo, terminato dall’allievo Lorenzo di Credi.
Il raffronto coll’illustre precedente patavino dell’effigie donatelliana del Gattamelata è scontato: nell’opera del Verrocchio l’effetto naturalistico di movimento della statua contrasta con la classica, trattenuta compostezza dell’opera del concittadino.
Sandro Filipepi, detto Botticelli (1445-1510), è il pittore che meglio esprime, almeno sino alla crisi religiosa che ne travaglia gli ultimi anni, la cultura della cerchia medicea dominata da Lorenzo il Magnifico, in cui ha un ruolo fondamentale il culto neoplatonico della bellezza ideale.
Sandro compie l’apprendistato nella bottega di Filippo Lippi, dove rimane tre anni (1464-67) mettendo a profitto gli insegnamenti del maestro, creatore di forme piene ed eleganti; ma a formare il suo stile concorrono anche la plasticità della linea del Verrocchio e il decorativo senso del ritmo caratteristico del Pollaiolo.
Nel 1470, con l'appoggio di Tommaso Soderini, persona di fiducia dei Medici, ottiene la prima importante commissione ufficiale: la Fortezza, figura allegorica per il tribunale della Mercanzia di Firenze. La tavola lascia intravedere l'influenza del Lippi e del Pollaiolo, rivelandoci già il perspicuo calligrafismo del Botticelli, che tratta le forme con perizia da incisore.
Il 1475 è un anno importante per il Botticelli, incaricato di decorare lo stendardo di Giuliano de' Medici per la giostra di piazza Santa Croce con una raffigurazione di Pallade; la commissione segna l'ingresso nella cerchia dei Medici. Per un amico di famiglia dei signori di Firenze, Gaspare del Lama, realizza l'Adorazione dei Magi (1475 ca.), opera di composta maturità che, rinnovandone l’iconografia, trasforma la scena evangelica in un’apoteosi dell’illustre dinastia; egli stesso si ritrae, sulla destra, in compagnia di alcuni dei Medici, Cosimo il Vecchio, Giovanni, Giuliano e Lorenzo.
Al mecenatismo della cerchia medicea si debbono anche i più celebri capolavori dell’artista, la Primavera (1478 ca.) e la Nascita di Venere (1483-85 circa), commissionatigli da Lorenzo di Pierfrancesco, lontano cugino del Magnifico.
Il Vasari li interpreta come "oroscopi allegorici", ma in realtà i dipinti riflettono pienamente la cultura neoplatonica dominante a Firenze. Come il pensiero di Marsilio Ficino tende a trascendere il mondo sensibile per approdare all'idea, così il Botticelli rifugge da un approccio nauralistico per mirare alla rappresentazione di una bellezza ideale.
Ciò è manifesto nell’arcana scena della Primavera, sul cui significato intrinseco ancora si discute, e nella drammatica animazione della Nascita di Venere, dipinta dopo il soggiorno romano in cui Sandro attende agli affreschi delle pareti della Cappella Sistina.
Nell’ultimo periodo dell’attività del Botticelli si avverte l’eco della crisi mistica attraversata dal maestro sulla scia della predicazione del Savonarola, crisi che frutta opere come l’espressionistico Compianto sul Cristo morto (1490 ca.) e soprattutto la Natività mistica (1501), in cui l’inquietudine esistenziale sembra tradursi in motivi che annunziano il superamento dell’arte rinascimentale.
Accanto a quella del Botticelli spicca la figura di Filippino Lippi (1457-1504), figlio del suo maestro Filippo e a sua volta allievo di Sandro. Del Botticelli Filippino conserva lo stile lineare, esasperandolo però in opere di piglio espressionistico come l’Apparizione della Vergine a San Bernardo (1484-85), e ancor più l’affresco con Storie di san Filippo e san Giovanni della cappella Strozzi di Santa Maria Novella (1487-1503).
Fra i maggiori artisti fiorentini dell’età del Magnifico, Domenico Bigordi detto il Ghirlandaio, coetaneo di Lorenzo - nasce infatti nel 1449, morendo nel 1494, due anni dopo di lui - è quello che più fedelmente ritrae il proprio tempo, documentando e divulgando con stile personalissimo volti, costumi e usanze, come nel celeberrimo Ritratto di vecchio e nipote del Louvre.
Allievo del Verrocchio, è titolare insieme ai fratelli Davide e Benedetto e al cognato Bastiano Mainardi di una rinomata bottega che si onora delle commissioni delle più prestigiose famiglie fiorentine legate ai Medici, come i Tornabuoni e i Sassetti.
Le sue prime prove artistiche, influenzate dalla maniera di Alessio Baldovinetti, sono individuabili nelle Storie di santi della pieve di Cercina, presso Firenze, e nelle Storie di santa Fina (1475) dipinte nella collegiata di San Gimignano, cui seguono gli affreschi nella chiesa d’Ognissanti a Firenze, fra i quali spicca il celebre Cenacolo.
La raggiunta notorietà gli procura la prima importante commissione in Vaticano.
Papa Sisto IV gli affida due affreschi per la sua cappella, la Sistina; la Resurrezione, successivamente distrutto, e la Vocazione di San Pietro. In quest’occasione il Ghirlandaio ha modo di esprimere quel gusto per il ritratto dal vero che rimarrà una costante della sua produzione.
A Firenze, lascia oltre alla decorazione della Sala dei Gigli in Palazzo Vecchio, i propri capolavori: gli affreschi con Storie di san Francesco (1485) della cappella Sassetti nella chiesa di Santa Trinita e quelli con Storie della Vergine e del Battista (1486-90) nel coro di Santa Maria Novella, dipinte per i Tornabuoni, opere che dimostrano le sue qualità di insuperato e fedele cronista della società fiorentina quattrocentesca.
L'arte, infatti, non è per il Ghirlandaio (all’opposto del Botticelli, ma anche di Piero) ricerca di trascendenza, ma documento e testimonianza; una visione, la sua, che lo pone agli antipodi del neoplatonismo fiorentino, ma che assicura il suo successo presso la ricca borghesia.
Il Ghirlandaio descrive l’uomo, la natura e la realtà quali essi sono; la buona società fiorentina di fine Quattrocento non ha bisogno di vedere espressi ideali astratti, ma di rimirare se stessa in atteggiamenti nobili e solenni, consoni alla qualità della propria cultura, del proprio modo di vita e del proprio costume.