La gravità della crisi affondava le sue radici nel fatto che l’egemonia europea era uscita distrutta dal conflitto mondiale: il costo della guerra aveva prosciugato oltre il 30 per cento della ricchezza complessiva della Francia e della Gran Bretagna, e percentuali ancora maggiori toccarono i paesi sconfitti, come la Germania o la Russia.Su economie così disastrate pesavano inoltre i debiti nei confronti degli Stati uniti che, dal punto di vista economico, risultarono l'unico vero vincitore della guerra. Con solo il 9 per cento della ricchezza nazionale dissipata nella guerra e vantando oltre dieci miliardi di dollari di crediti con i paesi europei belligeranti, gli Stati uniti erano diventati la potenza egemone a livello internazionale, soprattutto perché erano gli unici in grado di sovvenzionare con prestiti la ripresa economica del vecchio continente. Si trattava di una crisi economica di enorme portata, alimentata da una netta insufficienza dei mezzi di produzione che progressivamente trasformò l'Europa in un paese dipendente dall'estero. Se nell'Ottocento l'Europa era stata la "fucina del mondo", in grado di trasformare il resto del pianeta – con solo poche eccezioni – in un unico grande mercato di approvvigionamento di materie prime e di smercio dei propri manufatti, agli inizi degli anni venti i centri del potere economico si erano trasferiti fuori del vecchio continente. La crisi economica europea fu resa ancor più acuta dall'esplodere di una lunga serie di scioperi operai e di agitazioni contadine e dei ceti medi urbani, impegnati nella difesa dei loro redditi, minacciati ed erosi dall'inflazione, e nello sforzo di ottenere quella più equa distribuzione della ricchezza sociale che costituiva la promessa fatta dalle classi dirigenti ai milioni di lavoratori chiamati alle armi. Queste lotte assunsero una radicalità e un'intensità del tutto inusitate rispetto al passato, fino a prendere in qualche caso, che vedremo meglio in seguito, i connotati di una rottura rivoluzionaria dell'ordine esistente. In questa situazione lo stato assunse un ruolo ancor più centrale di quello già ricoperto prima della grande guerra come promotore e regolatore delle attività economiche attraverso la spesa pubblica, la politica monetaria, il potenziamento del-la domanda interna, il controllo del conflitto sociale; ruolo che nei fatti aveva già ricoperto durante gli anni del conflitto. Cominciarono quindi a farsi strada tra studiosi, imprenditori e uomini politici nuove teorie economiche fondate sul principio che l'iniziativa privata, la concorrenza e il mercato, nonché il conflitto tra le classi, se lasciati al loro libero gioco, diventavano letali per lo sviluppo dell'economia nazionale. Essi dovevano invece essere subordinati allo stato, inteso come supremo regolatore della vita economica e sociale, perché espressione di una volontà superiore in grado di finalizzare lo sviluppo delle forze produttive agli interessi della nazione. Ogni branca produttiva avrebbe dovuto essere organizzata in istituzioni statali nelle quali erano rappresentati imprenditori, operai, tecnici e dirigenti che avevano il compito di potenziare la produzione in uno specifico settore, secondo direttive che provenivano dai vertici dello stato. Attraverso questo meccanismo si sarebbe sconfitta la concorrenza tra le aziende, che rappresentava una dissipazione di risorse, e definitivamente imbrigliata la lotta tra capitale e lavoro che mortificava la produzione. Queste teorie vennero sostenute soprattutto dai movimenti di destra e dai nascenti partiti fascisti in Germania e in Italia; ma si fecero strada anche nel fronte democratico come soluzione possibile all'estrema gravità della situazione.
Dopo la sconfitta militare della prima guerra mondiale, in Germania era stata proclamata la repubblica. La repubblica tedesca fu detta di Weimar perché in questa piccola città (dove era vissuto il grande poeta Wolfgang Goethe, 1749-1832) venne trasferita la capitale. Il nuovo Stato si dette una costituzione democratica, parlamentare e federale. Presidente fu eletto il socialdemocratico Friedrich Ebert. La situazione politica, economica e sociale della repubblica era tuttavia difficilissima e il paese era fortemente lacerato da conflitti e disordini. Nazionalisti e militari contestavano le punitive condizioni dei trattati di pace; altissimo era il numero dei disoccupati perché l’industria non riusciva a riprendersi; i socialisti rivoluzionari e i comunisti tentarono più volte di ribellarsi, ma le rivolte furono schiacciate dall’esercito e i loro capi, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, furono uccisi (1919). A causa delle spese affrontate per la guerra, della crisi dell’economia, delle forti somme (le "riparazioni") che la Germania era stata condannata a pagare ai paesi vincitori, crollò il valore della moneta tedesca(il marco). L’inflazione fece salire alle stelle il costo dei beni di prima necessità: una pagnotta, che nel 1915 costava un marco, si vendeva nel 1923 a circa 2 milioni di marchi. Vennero stampate miliardi di banconote che tuttavia non valevano nulla. Per fare la spesa giornaliera una famiglia tedesca spendeva nel 1923 da 2 a 3 miliardi di marchi. I moderati e i piccoli borghesi, rovinati dall’inflazione e spaventati dai disordini e dai tentativi rivoluzionari, si orientarono verso il nazionalismo e i partiti di destra, proprio mentre i governi socialdemocratici riuscivano lentamente a riprendere in mano l’economia e ad arrestare l’inflazione. Ma era ormai troppo tardi. In questo clima di grandi incertezze e di forti tensioni sociali, nel 1925 venne eletto presidente della repubblica (1925-34) il maresciallo Hindenburg, uno dei comandanti dell’esercito tedesco nella prima guerra mondiale. Egli era sostenuto dagli ambienti militaristi e nazionalisti, fautori di un governo autoritario.
In Francia e Inghilterra il sistema democratico rimase ben saldo. Tuttavia le due nazioni conobbero tra le due guerre un periodo di scarsa stabilità politica, a causa della continua alternanza fra governi socialisti e conservatori. Ciò impedì una ferma opposizione ala minaccia per la pace rappresentata dal nazismo e dal fascismo. Gli anni fra le due grandi guerre mondiali furono difficili anche per la Francia. Nel giro di 21 anni furono costituiti ben 42 governi, della durata media di sei mesi. Destra e sinistra potevano contare più o meno sullo stesso numero di elettori ma erano frammentare in diversi partiti, spesso in disaccordo tra loro. Mancava invece un partito che, stando al centro, potesse allearsi con l’una o l’altra parte e costituire un governo più stabile. Vi furono tuttavia anche dei primi ministri abili e capaci, come il conservatore Raymond Poincaré e il socialista Léon Blum, che riuscirono ad affrontare con serietà le difficoltà economiche di tale periodo. E così in Francia rimase ben saldo il sistema democratico fondato su libere elezioni: i movimenti autoritari non vi trovarono spazio.
Lo stesso si può dire dell’Inghilterra, che tenne fede alla sua tradizione democratica. Qui, nel primo dopoguerra, si affermò il Partito laburista, che si alternò con il Partito conservatore nel governo del paese. Il governo laburista favorì la diffusione delle scuole pubbliche e migliorò la legislazione sociale. L’alternarsi dei diversi governi è in generale un fatto molto positivo per la democrazia. Il partito che governa è infatti consapevole che gli elettori lo giudicano per ciò che fa e che, se non sono soddisfatti, voteranno, nelle prossime elezioni, per il partito di opposizione. Questo è un forte stimolo a governare bene, in modo da essere giudicati positivamente dagli elettori. In questo particolare caso, tuttavia, l’alternarsi dei governi di tendenze diverse in Francia e in Inghilterra ebbe anche un effetto negativo in politica estera. Infatti, nei confronti della Germania di Hitler e dell’Italia di Mussolini, Francia e Inghilterra ebbero una posizione oscillante.
In particolare, esse per molto tempo non riuscirono a respingere con decisione le pretese tedesche, a causa dei forti contrasti politici fra i governi conservatori e quelli socialisti o laburisti. E mostrarsi deboli o incerti significò lasciar proseguire Hitler nella sua politica sempre più aggressiva e non fermarlo in tempo prima che scatenasse la guerra.
Il corporativismo si combinò con l'affermazione di una nuova cultura politica che, partendo da una critica profonda dei limiti della democrazia liberale, emersi con evidenza nel crogiolo della grande guerra, si faceva sostenitrice della necessità di superare il parlamentarismo e di rifondare il sistema politico attorno alla figura di un capo, di una guida, dotata di poteri sostanzialmente autoritari, in grado di esprimere i bisogni e le aspettative delle masse. In un'opera destinata a diventare famosissima — II tramonto dell'Occidente, pubblicata tra il 1918 e il 1922 — il filosofo tedesco Oswald Spengler meglio di ogni altro intellettuale del tempo espresse i paradigmi di questa nuova cultura, di cui si alimentarono tutti i nascenti movimenti reazionari europei. Secondo Spengler la cultura occidentale è stata travolta dalla forze dei processi di modernizzazione legati al macchinismo, all'industrialismo, alla massificazione della società. In questa dissoluzione si è alimentato il «tramonto dell'Occidente», che poteva essere arrestato solo dall'azione di poteri forti, concentrati nelle mani di «grandi individualità dominanti», in grado di controllare dispoticamente gli uomini e le forze sociali di questa civiltà in dissoluzione. «Il denaro — scrive Spengler — aveva trionfato sotto forma di democrazia. Per un certo tempo, esso quasi da solo aveva determinato la politica. Ma dopo che esso ha distrutto gli antichi ordinamenti della civiltà, dal caos emerge una grandezza nuova e onnipotente che si afferma sin nelle radici più profonde del divenire: quella costituita dagli uomini di statura cesarea». Il nuovo potere "cesaristico" non avrebbe trovato la sua legittimazione nel consenso che si esprime attraverso libere elezioni, ma rispondeva solo alla capacità di mettersi in sintonia con le pulsioni profonde delle razze e dei popoli, con il pathos e le aspirazioni delle nazioni. Il totalitarismo si configura così come l'unico esito possibile della crisi delle società moderne travolte dalla guerra. L'emergere di queste nuove teorie metteva in luce come la crisi in corso nel primo dopoguerra non fosse soltanto economica. Era una crisi politica più generale, che riguardava le istituzioni liberali e democratiche, incapaci di recepire e rappresentare le novità che il conflitto mondiale aveva prodotto. La guerra aveva lasciato nelle coscienze di milioni di uomini impegnati al fronte un segno incancellabile, assieme alla speranza di evitare nel futuro una simile inutile strage. Le vicende vissute al fronte, inoltre, sia per chi aveva detenuto posizioni di comando, sia per chi era stato soldato semplice, rappresentarono spesso un bagaglio di esperienze difficili da accantonare, e crearono notevoli problemi di adattamento alla vita quotidiana del tempo di pace. Tra i reduci erano diffusi sentimenti di delusione, di insoddisfazione, di impotenza di fronte alle difficoltà di trovare lavoro, di riuscire a reinserirsi nella vita civile, mentre l'inflazione erodeva il potere d'acquisto non solo dei salari operai, ma anche degli stipendi degli impiegati e dei funzionari pubblici, della piccola borghesia urbana e dei contadini. L'insoddisfazione diffusa a livello di massa si coagulò spesso nella formazione di associazioni di ex combattenti, allo scopo di ricreare e tenere in vita quei legami di solidarietà e di cameratismo che si erano consolidati durante l'esperienza della guerra. Questa tendenza all'organizzazione esprimeva un bisogno di partecipazione alla vita civile, che si manifestò altresì nello sviluppo crescente dei sindacati e dei partiti politici, nonché nella ripresa dei movimenti femministi per il riconoscimento della parità dei diritti e l'emancipazione della donna. Questi processi di ulteriore rafforzamento del ruolo delle masse nella vita politica si sommarono alla crisi economica del dopoguerra: disoccupazione e inflazione si intrecciarono provocando un'ondata di lotte sociali e l'emergere di una conflittualità che in molti casi (in Italia, in Germania, in Gran Bretagna) rischiò di sfociare in un evento rivoluzionario. Le istituzioni liberali dei paesi europei, da una parte, non furono in grado di soddisfare i bisogni delle masse lavoratrici e la spinta alla partecipazione politica delle classi subalterne; dall'altra, non riuscirono a dominare le spinte di matrice reazionaria che si alimentavano delle promesse fatte durante la guerra dagli stessi governi e che toccarono prevalentemente la piccola e media borghesia. Si svilupparono movimenti politici e tendenze culturali ispirati al mito del numero e della forza, alla demonizzazione delle opposizioni, al disprezzo del sistema parlamentare. Tali movimenti prefiguravano una società fortemente gerarchizzata, dove la liberta del cittadino veniva sacrificata alle cosiddette esigenze superiori della nazione, e dove un nuovo rapporto tra masse e stato veniva mediato dalla figura del capo carismatico, interprete della nazione.
Le crisi economiche seguite alla prima guerra mondiale, la rinascita del nazionalismo, il timore delle rivoluzioni comuniste ebbero notevole peso anche in altre nazioni europee. In Spagna, nel 1923, si affermò un governo autoritario, controllato dai militari e presieduto dal generale Primo de Rivera. In Portogallo, Antonio de Salazar realizza un regime simile al fascismo (1932) e regimi autoritari, o vere e proprie dittature, si affermarono nelle repubbliche baltiche (Lituania, Estonia, Lettonia), in Ungheria e in Grecia. In Jugoslavia il re Alessandro prese i pieni poteri e lo stesso fece in Romania il re Carol II. In Austria, nel 1933, il cancelliere Engelbert Dollfuss, ammiratore di Mussolini, cancellò la costituzione e soppresse i partiti.