Questa ulteriore incursione spazierà in modo diametralmente opposto a quanto già fatto nelle precedenti pagine. Qui il problema principale è la dialettica, la "scienza regia" e il punto di partenza è uno sguardo ulteriore nella ricca e densa trama platonica del problema. Riprendiamo dunque i termini del problema dialettico che, in fondo, in entrambi è sinonimo di filosofia: questo è infatti il significato nel quale Kant condanna la dialettica a una necessaria disillusione mentre Platone non smette mai di considerarla come il principio ultimo del sapere e della stessa realtà che sconfina e slarga il suo sguardo nel mito.
Cominciamo dunque da Platone e riprendiamo sinteticamente la sua concezione per definire i termini nei quali la dialettica è maturata attraverso i dialoghi dialettici. Soprattutto ci sembra utile focalizzare l'attenzione sulle implicazioni, nella concezione della maturità, dei rapporti tra mondo dell'esperienza e mondo delle Idee. In che termini si pongono ragione, realtà ed esperienza nella tarda riflessione del pensatore ateniese?
L'anima possiede delle predisposizioni innate al conoscere, che non sono derivate dai sensi, ma che, a contatto dell'esperienza, risvegliano il nostro sapere latente e ci fanno rammentare la verità. Quando conosce, l'anima non deve fissare la sua attenzione sulle immagini percepite dai sensi, che possono anche trarre in inganno, ma sulla forma vera dell'oggetto che deve affiorare alla consapevolezza. La mente non deve subordinarsi ai sensi, ma servirsi piuttosto di essi, come docili strumenti. Si giunge in tal modo alla più compiuta teoria della conoscenza, esposta nella Repubblica.
Immaginazione (eikasìa) credenza (pìstis), pensiero discorsivo (diànoia) e intellezione (nòesis) costituiscono i gradi della conoscenza.
Oggetto dell'immaginazione sono le immagini sensibili. Oggetto della credenza è in generale la realtà tutta che percepiamo coi sensi: «gli animali intorno a noi e l'intero mondo della natura e dell'arte». Chi è passato dall'immaginazione alla credenza non scambia più le cose con le loro immagini, ma le coglie concretamente nella loro realtà sensibile. Platone insiste però nel chiamare questo grado "fede" o "credenza", anziché "conoscenza", perché chi si trova a questo stadio non può essere veramente certo, ma solo crede che la realtà sensibile sia la sola realtà esistente e tutta la realtà.
Finalmente, oggetto del pensiero discorsivo sono enti puramente intelligibili: i numeri, le figure geometriche, le dimostrazioni della matematica. A differenza degli oggetti sensibili, questi possiedono una maggiore universalità e certezza. Al culmine del processo conoscitivo, oggetto della pura intellezione sono le idee, ossia le forme intelligibili e universali. La matematica ci avvicina quindi e prepara all'ultimo grado della conoscenza: la visione intuitiva delle idee.
Platone designa la forma (eidos) puramente intelligibile dell'oggetto o l'idea (idèa) di esso, come il suo essere in sé: il bello in sé (l'idea di bellezza), l'uguale in sé (l'idea di uguaglianza) ecc. Si tratta di enti assolutamente universali, che non hanno che una pallida analogia con le realtà particolari corrispondenti, una certa bellezza o una data uguaglianza numerica. Le idee sono dunque enti puramente intelligibili, dotati di universalità, che l'anima conosce abbandonando le apparenze sensibili, mediante una radicale conversione dello sguardo dall'esterno all'interno.
Dietro il mondo corporeo, al di là di esso, deve esserci un "altro" mondo, di pure essenze intelligibili, verso cui questo mondo apparente tende inconsapevolmente, senza mai poterlo raggiungere o imitare perfettamente. Come questa imitazione (mìmesis), o partecipazione (mèthexis), o presenza (parusìa) possa verificarsi fra due ordini di realtà eterogenei rimane un punto di difficile interpretazione.
Ma oltre al dualismo occorre postulare una perfetta simmetria o corrispondenza tra i due mondi. La realtà sensibile è infatti copia della realtà intelligibile e, sia pure imperfettamente, la rispecchia.
Se nelle cose di questo mondo non riscontrassimo nessuna perfezione ideale (nessuna bellezza, nessuna intelligenza, nessuna uguaglianza), non avremmo motivo di sospettare dell'esistenza di un "altro" mondo migliore del nostro.
Se la loro perfezione fosse totale, i due mondi verrebbero a coincidere. Sono i diversi gradi di perfezione con cui ci si presentano le cose sensibili, che rinviano a una realtà ulteriore. Non vi è anzi nessuna cosa, per quanto umile e trascurabile, che non abbia un modello o una causa corrispondente nel mondo intelligibile.
Come si conciliano il dualismo fra mondo sensibile e intelligibile e la loro simmetrica corrispondenza? In che modo avviene la partecipazione fra i due piani della realtà? La soluzione di questi ardui problemi è demandata alla dialettica, la scienza filosofica per eccellenza. Questo termine non ha in realtà un significato univoco nei diversi contesti in cui si trova impiegato.
In un significato molto generale, essa coincide con la stessa procedura dialogica dell'indagine filosofica, è cioè sinonimo di discussione tesa al conseguimento della verità. Ma in senso più tecnico, essa corrisponde al metodo della dimostrazione scientifica. Dialettico è il tipico procedimento che assume senza preliminare dimostrazione un dato principio, e tenta di verificarlo o di confutarlo mediante l'analisi delle conseguenze logiche che discendono rispettivamente dalla sua ammissione o dalla sua negazione. Ma nella sua accezione più squisitamente platonica, dialettica è sinonimo di metodo filosofico, come tale fondato sulla teoria delle idee.
In questo senso, Platone contrappone costantemente la retorica dei sofisti al vero sapere dei filosofi, la dialettica. Il retore ci dà una descrizione meramente verbale delle cose, il suo è un sapere apparente. Solo il dialettico sa discriminare la verità dall'apparenza e condurre i propri discorsi in modo tale che alle parole corrisponda il vero essere, ossia le idee.
Nei primi dialoghi (in realtà sino alla Repubblica) Platone sembra presupporre l'esistenza di idee, piuttosto che dimostrarla o chiarirla.
In una prima fase della sua riflessione, testimoniata dalla terminologia (per la verità non sempre coerente) dei dialoghi giovanili, Platone deve aver sostenuto la teoria della partecipazione (mèthexis) dell'oggetto particolare all'idea. Nel Parmenide egli mette in bocca al grande eleate alcune gravi obiezioni contro tale teoria. Ammettendo che le cose particolari partecipano all'idea corrispondente, ci si chiede se esse partecipano all'idea intera o solo a parte di essa. Se si accetta la prima alternativa, allora l'idea, che è una, è presente interamente in ciascuno dei molti individui. Se si accoglie la seconda alternativa, l'idea è unitaria e divisibile (in quanto consta di "parti") nello stesso tempo. In ogni caso è implicita una contraddizione, che discende dall'impossibilità che ciò che è uno sia allo stesso tempo molteplice.
È la constatazione delle difficoltà insormontabili cui la dottrina della partecipazione, nella sua forma primitiva, va incontro, che induce Platone a preferirvi, in una fase più matura della sua riflessione, documentata dalla Repubblica, quella della imitazione (mìmesis). Ora si sostiene che gli oggetti particolari sono copie delle idee, le quali rappresentano i modelli o gli esemplari; la somiglianza degli oggetti particolari con l'idea costituisce il loro legame con essa. Ma anche contro questa più matura versione si appuntano le obiezioni del Parmenide.
Se due cose bianche sono simili alla bianchezza, la bianchezza è anche simile alle cose bianche. Ora, se la bianchezza tra cose bianche si può spiegare postulando l'idea della bianchezza, anche l'uguaglianza tra la bianchezza e le cose bianche si può spiegare postulando un secondo archetipo, e così via all'infinito. E questo un argomento (detto anche argomento del terzo uomo) che Aristotele riprenderà per criticare la teoria platonica delle idee.
Di più, se la teoria della mimesi fosse vera, ne deriverebbe la reale inconoscibilità delle idee. La conoscenza dell'uomo, infatti, è relativa agli oggetti di questo mondo, ossia particolari ma non dispone di una conoscenza assoluta. Dunque, anche ammesso che le idee esistano, esse sarebbero nella loro essenza inconoscibili, e quindi di nessuna utilità per la conoscenza del mondo particolare.
Le obiezioni del Parmenide non trovano una effettiva risposta. Ma nel Sofista, nel Politico e nel Filebo si assiste a uno sforzo di riformulazione della teoria. Platone ritorna anzi sulla nozione di partecipazione, non più riferita però al rapporto tra le cose particolari e le idee, bensì nei termini di una reciproca comunanza (koinonìa) tra idee. Il mondo delle idee assume ora l'aspetto di un organismo complesso, riccamente specificato e articolato, che consente di dare ragione - mediante la ricostruzione dei nessi di gerarchia tra le diverse idee - degli stessi aspetti di molteplicità e articolazione propri dell'esperienza. Più che sulla sinossi, sul momento della riconduzione unitaria del molteplice empirico, l'attenzione si sposta sull'opposto momento della divisione (diairesis), che permette di ritrovare, entro l'unità dell'idea, la molteplicità che consente di collegarla al mondo empirico.
La verità dei nostri giudizi è garantita infatti dalla capacità di ripercorrere le oggettive articolazioni o l'interna membratura del mondo delle idee. Secondo un'immagine che ricorre frequentemente nei dialoghi, possiamo raffigurarci il mondo delle idee come un organismo, le cui singole parti o membra corrispondono ai generi ottenuti mediante la diaìresis. Come l'abile macellaio sa sezionare l'animale senza spezzarne le membra, ma seguendo le naturali linee di sutura tra le parti, così l'abile dialettico sa dividere i generi più universali nelle idee più specifiche a essi subordinate, senza cadere in errore.
L'errore, un elemento che sembra minare alle basi la possibilità stessa del conoscere, si ha quando si determinano false e arbitrarie comunanze tra generi, in seguito a un'operazione di divisione difettosa (quando, per esempio, si attribuisce all'uomo il genere del volatile). In tal caso, "ciò che è" viene scambiato per "ciò che non è", e all'errore sul piano della conoscenza si fa corrispondere il non essere su quello ontologico della realtà.
Il problema è affrontato nel Sofista, dove l'analisi diairetica risale sino ai principi sommi da cui ha origine lo stesso processo di divisione. Al vertice della struttura ramificata e complessa del mondo delle idee stanno cinque generi sommi: essere, identico, diverso, stasi e movimento. Essi si possono riferire indifferentemente a qualsiasi genere subordinato, realizzando una perfetta comunanza reciproca (per esempio dell'uomo, si può dire "che è", che "è identico" a sé"che "è diverso" da ogni altro, che "è immobile" o che "è in movimento"). E il rapporto di comunanza tra il secondo e il terzo genere (identico e diverso) a suscitare entro la teoria delle idee la questione della esistenza del "non essere" e quindi dell'errore. Per determinare infatti "che cos'è" l'uomo, debbo determinare che cosa esso "non è" (il "non volatile", il "non quadrupede" ecc.). Ogni idea è identica a se stessa, in quanto diversa, altra, rispetto a quella opposta.
La determinazione che viene provvisoriamente esclusa non è un nulla (l'assoluto non essere di Parmenide), ma semplicemente un'altra idea (il non essere relativo, in quanto essere diverso, essere altro), che potrà tornare utile in un'ulteriore diaìresis (qualora per esempio cercassimo, anziché l'uomo, il cavallo). Pensare dialetticamente, afferma ironicamente Platone, implica che si vada al di là dei divieti di Parmenide e che, al limite, si commetta un "parricidio" ai suoi danni. Egli aveva infatti vietato di dire o pensare «che il non essere in qualche modo sia», laddove (secondo il Sofista) esiste un "essere del non essere": il non essere come diverso, come altro, dialetticamente correlativo all'identico.
Un ultimo problema va accennato. Sino a che punto posso spingere la divisione? Le idee, per quanto articolino la propria interna struttura in modo da "avvicinarsi", per così dire, al mondo empirico, restano trascendenti. Al termine estremo della divisione troveremo idee non ulteriormente "divisibili". Possiamo chiamarle idee-atomi: esse sussumono sotto di sé il molteplice empirico senza ulteriori specificazioni. Posso dividere l'idea di uomo fino a trovare quelle di greco, ateniese, vecchio, con la barba ecc., ma non potrò mai arrivare all'idea di questo singolo uomo: Socrate. L'individuo è (come si usa dire) "ineffabile". La realtà empirica sembra opporre un limite invalicabile al pensiero.
Pur entro questi limiti, la dialettica consente di seguire fino a un certo punto l'interna articolazione del mondo delle idee nell'inseguire le infinite e sfuggenti determinazioni del molteplice empirico.
Essa può così essere sommariamente descritta. vi è una dialettica ascendente: che si può far corrispondere a quello che nei primi dialoghi era descritto come il processo della reminiscenza. Per determinare a quali generi partecipa un dato ente, dobbiamo prima risalire, mediante un atto di intuizione (nòesis), al genere più universale nel quale esso è compreso. Segue l'opposto procedimento diairetico o divisorio, che si può descrivere come dialettica discendente. Dividendo il genere sommo escluderò via via determinazioni che sono estranee all'idea di partenza. È importante che la diaìresis non sia compiuta in modo formalistico, dimenticando l'aspetto intuitivo presente nella dialettica ascendente. Solo in tal modo potremo essere certi che il procedimento del logos, e il discorso che vi corrisponde, sia l'esatto rispecchiamento della struttura ontologica del reale, e che il mondo delle idee fornisca un modello razionale intelligibile a quello della nostra esperienza.
Kant dedica alla "dialettica" la seconda parte della logica trascendentale nella Critica della ragion pura. Essa è intesa, alla maniera dell'antica sofistica, come una logica dell'apparenza o dell'errore. Non si tratta di sofismi qualsiasi ma di un'illusione trascendentale, derivante dalla natura della stessa ragione, basata su un'esigenza insopprimibile dell'animo umano. Il terreno della dialettica, come si vedrà, è infatti quello proprio della metafisica. La dialettica concerne l'ambito specifico della "ragione pura" in quanto questa si pone al di sopra della sensibilità e dell'intelletto, avanzando esigenze sue proprie.
Se l'intelletto operava mediante le categorie l'unificazione del molteplice intuito, sussumendo i fenomeni sotto determinate regole, la ragione opera invece con idee; l'idea - termine che Kant assume esplicitamente da Platone - è definita come «un concetto necessario della ragione, al quale non può essere dato un oggetto congruente nei sensi». Delle idee non si può dare una deduzione oggettiva, come quella operata per le categorie dell'intelletto; si può tuttavia mostrare che esse non sono «escogitazioni arbitrarie», ma un prodotto necessario della ragione.
Infatti, il problema che la ragione mira a risolvere è quello della totalità. L'intelletto umano è finito, limitato; l'esperienza che è nelle sue possibilità è necessariamente circoscritta. Tuttavia, è una caratteristica costitutiva del pensiero quella di voler afferrare la totalità.
Per esempio, posta una connessione causale tra un certo numero di fenomeni, la ragione tenta di risalire a una causa ultima, a ciò che sia condizione senza essere a sua volta condizionato: perciò Kant chiama la ragione «facoltà dell'incondizionato». Ciò dipende dal fatto che i concetti con i quali noi conosciamo il mondo non sono, per la loro costituzione trascendentale, limitati in sé ai fenomeni: come è il caso, appunto, della categoria di causalità, che può venire impiegata nella ricerca, illusoria, dell'incondizionato, del principio di spiegazione ultima di una serie di fenomeni. Abbiamo detto "illusoria" perché precisamente illusioni sono per Kant i risultati di tali tentativi, nel momento in cui vengono spacciati per conoscenze vere, scambiando per proprietà delle cose in sé quelle che sono solo delle, pur fondamentali, esigenze del pensiero. Perciò Kant definisce la dialettica una "logica della parvenza": un uso reale, illusoriamente costitutivo di oggetti, dei principi formali dell'intelletto, che possono legittimamente applicarsi solo ai dati materiali dell'intuizione sensibile. La Dialettica trascendentale sarà dunque «una critica dell'intelletto e della ragione rispetto al loro uso iperfisico».
L'attività specifica della ragione si esplica attraverso sillogismi, inferenze logiche di una conclusione necessaria da due premesse. Attraverso concatenazioni di sillogismi la ragione pretende di pervenire alla totalità incondizionata. Tre sono le idee alle quali questo tentativo mette capo: l'idea dell'anima (il soggetto assoluto, incondizionato), l'idea del mondo (la totalità dei fenomeni esterni), l'idea di Dio (la condizione assoluta di ogni realtà). Bisogna osservare la corrispondenza fra le tre idee di ragione e le sezioni in cui era articolata la metaphysica specialis di Wolff: psicologia razionale, cosmologia razionale, teologia razionale; sono dunque i grandi campi di indagine della metafisica dogmatica quelli che ora Kant prende in considerazione.
Nel fare questo la ragione non si può evidentemente riferire all'esperienza (ove tutto è condizionato), ma la oltrepassa senz'altro facendo dei concetti puri dell'intelletto non un uso empirico (uso che è invece quello proprio dell'intelletto, in quanto esso li applica sempre ai fenomeni), bensì un uso trascendente. Per tale motivo l'unità intellettuale dei fenomeni si distingue nettamente dalla loro unità razionale, dove razionale equivale a dialettico, ossia illusorio.
«Ogni nostra conoscenza sorge dai sensi, indi va all'intelletto e finisce nella ragione, al di sopra della quale non c'è nulla di più alto per elaborare la materia della intuizione e sottoporla alla più alta unità del pensiero. Ora, se io debbo dare una definizione di questa suprema potenza conoscitiva, mi trovo in qualche imbarazzo. Di essa, come dell'intelletto, c'è un uso semplicemente formale, cioè logico, in cui la ragione astrae da ogni contenuto di conoscenza, ma c'è anche un uso reale, poiché essa contiene l'origine di certi concetti e di certi princìpi, che non ricava né dai sensi né dall'intelletto. [ ... ]
Noi definimmo nella prima parte della nostra Logica trascendentale l'intelletto come la facoltà delle regole; qui da esso distinguiamo la ragione, dicendola la facoltà dei princìpi. [ ... ]
Se l'intelletto può essere una facoltà dell'unità dei fenomeni mediante le regole, la ragione è la facoltà dell'unità delle regole dell'intelletto sottoposte a princìpi. Essa dunque non si indirizza mai immediatamente all'esperienza o a un oggetto qualsiasi, ma all'intelletto, per imprimere alle conoscenze molteplici di esso un'unità a priori per via di concetti; unità che può dirsi unità razionale, ed è di tutt'altra specie da quella che può essere prodotta dall'intelletto. Questo è il concetto generale della facoltà della ragione, per quanto esso s'è potuto spiegare nella mancanza assoluta di esempi (come quelli che solo in seguito potranno darsi). [ ... ]
Ora, tutti i concetti puri in generale hanno a che fare con l'unità sintetica delle rappresentazioni, ma i concetti della ragion pura (idee trascendentali) con l'unità sintetica incondizionata di tutte le condizioni in generale. Per conseguenza, tutte le idee trascendentali si possono ridurre sotto tre classi, di cui la prima comprende l'assoluta (incondizionata) unità del soggetto pensante, la seconda l'assoluta unità della serie delle condizioni del fenomeno, la terza l'assoluta unità della condizione di tutti gli oggetti del pensiero in generale.»
Esse non possono quindi fornirci alcuna conoscenza in atto, né possono in alcun modo determinare a priori la forma dei fenomeni, pretendendo di rivolgersi alla conoscenza dell'incondizionato noumenico; se non che, come sappiamo, là dove l'intuizione sensibile non lo soccorre e non gli offre il materiale sul quale esercitare la propria spontaneità di pensiero, l'uomo è incapace di conoscenza, come dimostrano e confermano i sofismi dialettici nei quali si imbatte immancabilmente la ragione ogni volta che si sforzi di definire scientificamente l'anima, l'universo e Dio.
Kant mostra perciò come la psicologia razionale inevitabilmente incappi in un paralogismo (o "ragionamento sbagliato") consistente nell'assumere l'io come qualcosa di indipendente dal mondo dei fenomeni e dalle rappresentazioni del senso interno, facendone una "sostanza" metafisica (ossia un'anima) immortale e indipendente dal corpo fenomenico.
Ora, l'Io penso è certamente indipendente dalle rappresentazioni fenomeniche, nel senso che esso è una funzione trascendentale; ma tale funzione è comunque e sempre rivolta a unificare il molteplice delle rappresentazioni date nell'esperienza, in ciò appunto espletandosi come funzione. Il paralogismo della psicologia razionale opera quindi un indebito scambio tra quella che è una funzione trascendentale e quella che sarebbe un' esistenza trascendente, sulla quale, del resto, non è possibile sapere niente, poiché ogni volta che riflettiamo sul nostro io lo troviamo impegnato nelle sue funzioni trascendentali, a contatto con il mondo fenomenico e anzitutto con le rappresentazioni interne del nostro corpo. Né ha senso applicare alla funzione trascendentale dell'io il concetto di sostanza (o, che è lo stesso, di anima), dato che la sostanza è appunto una categoria, un modo di unificazione dei fenomeni, attuato dall'Io penso mediante la sintesi a priori. È dunque chiaro che dell'io non si dà conoscenza metafisica (o incondizionata o noumenica), ma solo conoscenza fenomenica, ristretta e connessa ai limiti dell'esperienza.
La cosmologia razionale sfocia invece nelle antinomie dialettiche, ossia in dimostrazioni illusorie che prevedono sempre un'opposta dimostrazione, altrettanto legittima della prima in apparenza, altrettanto illusoria in sostanza. Tali antinomie sono la conseguenza inevitabile della pretesa della ragione di non attenersi ai limiti della fisica sperimentale e di estendere le proprie conoscenze all'universo nella sua totalità.
Così, alla tesi secondo cui «il mondo nel tempo ha un cominciamento e, per lo spazio, è chiuso dentro limiti» si contrappone l'antitesi che dimostra come «il mondo non ha né cominciamento né limiti spaziali, ma è, così rispetto al tempo come allo spazio, infinito»: è questa la prima antinomia della ragione. La seconda riguarda la contrapposizione tra la tesi secondo cui «ogni sostanza composta nel mondo consta di parti semplici, e non esiste in nessun luogo se non il semplice o ciò che ne è composto», e l'antitesi che invece nega l'esistenza di parti semplici.
Nella terza antinomia la tesi afferma l'insufficienza, per spiegare i fenomeni del mondo, del principio di causalità secondo le leggi di natura, e pone invece la necessità di ammettere una «causalità per libertà»; l'antitesi nega l'esistenza di qualsiasi tipo di libertà. La tesi della quarta antinomia afferma che «nel mondo c'è qualcosa che, o come sua parte o come sua causa, è un essere assolutamente necessario»; l'antitesi che «in nessun luogo esiste un essere assolutamente necessario, né nel mondo, né fuori del mondo, come sua causa».
La radice dell'antinomia sta proprio nell'illegittimità dell'idea di mondo come totalità esistente in sé, cioè nell'applicazione delle categorie al di là dell'esperienza. Il fatto che la ragione, così operando, entri in contraddizione con se stessa non è che un'ulteriore conferma del punto di vista critico, che esclude la possibilità di conoscere le cose in sé. Al tempo stesso, tuttavia, queste affermazioni antitetiche sono altrettanti tentativi di risolvere «quattro naturali e inevitabili problemi della ragione»: ha il mondo un inizio e un limite nel tempo e nello spazio? esiste qualche cosa di assolutamente semplice, non ulteriormente divisibile, e perciò indistruttibile? è possibile la libertà, o tutto ciò che avviene è causalmente determinato? esiste una causa ultima, necessaria dei fenomeni? Il punto di vista del criticismo nega che si possa dare risposta a queste domande, che non hanno un riscontro possibile nell'esperienza, ma non può sottrarsi al compito di tentare una soluzione delle questioni razionali che la metafisica ha aperto al riguardo.
Risolvere criticamente le antinomie vorrà dire mostrare che la contraddizione fra tesi e antitesi è soltanto apparente. Nel caso delle prime due antinomie (che Kant chiama "matematiche", perché considerano il mondo dal punto di vista quantitativo e non qualitativo), questo risultato si ottiene osservando -che sia la tesi sia l'antitesi sono false, in quanto derivate da un principio intimamente contraddittorio, e cioè l'esistenza del mondo come totalità in sé. In realtà, ciò che possiamo dire del mondo è che esso non è né finito né infinito - quanto allo spazio, al tempo e alla divisibilità - ma è un insieme di fenomeni attualmente finito e potenzialmente indefinito.
Nel caso della terza e quarta antinomia (chiamate "dinamiche", perché riguardano la regressione all'incondizionato) Kant osserva che la soluzione sta nel pensare che la tesi e l'antitesi possano essere (non siano necessariamente) entrambe vere, e tuttavia non in contraddizione fra loro, perché riferite ad ambiti diversi: le antitesi al mondo dell'esperienza, le tesi al mondo intellegibile, quel mondo che è sempre possibile pensare, pur senza poterlo mai conoscere. Per esempio, rispetto ai fenomeni possiamo ritenere vero che tutto ciò che avviene sia determinato assolutamente entro leggi causali: proprio questo rende possibile l'indagine scientifica. Ma rispetto al noumeno, è possibile invece pensare la libertà, ovvero la possibilità di agire secondo volontà: è questo anzi, come vedremo, un presupposto ineliminabile della vita morale. Di fronte alle questioni poste dalla terza e quarta antinomia, quindi, si può operare una distinzione tra ciò che è oggetto della scienza e ciò che è oggetto della moralità: ciò che non può essere affermato nel primo campo, può esserlo nel secondo. La condizione è che non si pretenda di attribuire legittimità, contenuto, valore conoscitivo a concetti privi di un oggetto corrispondente nell'esperienza: in questo caso, si cade nell'arbitrio della metafisica dogmatica, inevitabilmente dialettica.
Il supremo sforzo della ragione si esprime infine nella teologia razionale, che pretende di dimostrare l'esistenza dell' essere supremo. Kant esamina la prova fisico-teologica dell' esistenza di Dio, la quale muove dall'ordine e dall' armonia del mondo per inferire l'esistenza necessaria di un artefice intelligente; ma è di fatto impossibile ricavare dal così detto ordine della natura un'adeguata concezione di Dio come onnisciente, onnipotente ecc., perché la natura non ci suggerisce niente di simile.
D'altro canto, la prova cosmologica, che muove dall' esistenza contingente delle cose per risalire all'esistenza dell'essere necessario, abbisogna per sostenersi della preventiva dimostrazione che all'essere necessario competa a priori l'esistenza; a tal fine però, l'unica prova concludente e autosufficiente che può essere addotta è la cosiddetta prova ontologica di Anselmo d'Aosta (e poi, moderatamente, di Cartesio), da Kant così riassunta: «Il concetto dell' essere realissimo contiene in sé ogni realtà; ora, nella realtà è compresa anche l'esistenza; quindi l'esistenza è compresa nel concetto d'un tale essere realissimo, e se la si nega si cade in contraddizione». Con questa argomentazione la dimostrazione ontologica tratta il predicato dell'esistenza come qualcosa di analitico, cioè di ricavabile a priori dall'analisi del concetto: il concetto di Dio in quanto essere perfettissimo non può infatti mancare di alcuna "perfezione", dal che deriva che ad esso pertiene anche il predicato dell'esistenza.
Ma, come Kant aveva già sottolineato in uno scritto precritico (l’unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio, del 1763), l'esistenza non è una qualità che arricchisce il significato di un concetto, non è il predicabile di un concetto "logico", ma qualcosa che indica la "posizione reale" di quel concetto, non riguardando la sua essenza bensì il suo modo di sussistere come esistente o non esistente. Ogni giudizio di esistenza è un giudizio sintetico e comporta perciò un ricorso all'esperienza. Negare il predicato dell'esistenza ad un concetto (per esempio al concetto di "essere realissimo" o "necessario") non può mai implicare contraddizione, poiché questa riguarda soltanto i giudizi analitici e i predicati logici, e l'esistenza non è tra questi, dato che «sia quale e quanto si voglia il nostro concetto di un oggetto, noi dobbiamo sempre uscire da esso per conferire a questo oggetto l'esistenza», dobbiamo cioè ricorrere alle sintesi dell' esperienza. In altri termini, si potrebbe dunque dire che l'esistenza si mostra e non si dimostra, sicché io posso giudicare dell' esistenza non mediante un ragionamento a priori, ma solo in virtù di un'intuizione spazio-temporale. «Tutta la fatica e lo studio - conclude Kant - posto nel tanto famoso argomento antologico dell' esistenza di un essere supremo sono stati dunque perduti, e un uomo, mediante semplici idee, potrebbe arricchirsi di conoscenze né più né meno di guanto un mercante potrebbe arricchirsi di quattrini se egli, per migliorare la propria condizione, volesse aggiungere alcuni zeri alla sua situazione di cassa». La medesima valutazione vale per tutta la metafisica: con la sua pretesa di conoscere qualcosa a priori e in riferimento alle pure idee della ragione, essa aggiunge all'effettiva scienza umana soltanto degli zeri.
La Dialettica trascendentale giunge così a formulare un verdetto chiaramente negativo intorno alle pretese conoscitive della metafisica dogmatica: le domande, pur naturali e inevitabili, circa l'immortalità dell'anima, la libertà e l'esistenza di Dio non possono avere una risposta scientificamente fondata. Non è data la possibilità di alcuna conoscenza se non nel perimetro dell'esperienza. Una metafisica come scienza potrà dunque aversi solo come critica dei limiti della conoscenza e come indagine sulle modalità di costituzione del mondo dell'esperienza. Tuttavia, la conclusione della Dialettica non è puramente negativa; in primo luogo, come abbiamo già accennato, il ridimensionamento delle pretese della ragione speculativa apre in un certo senso la strada a un diverso approccio ai medesimi problemi: sul tronco della dialettica della ragion pura si innesta dunque la problematica morale della Critica della ragion pratica.
In secondo luogo, Kant precisa, concludendo la sua analisi, che le illusioni e le fallacie messe a nudo dalla Dialettica trascendentale derivano dall'uso scorretto delle idee di ragione: un uso trascendente, o costitutivo, che porta a ipostatizzare resistenza di oggetti in corrispondenza di puri concetti. Al contrario, è possibile e anzi necessario un uso corretto delle idee di ragione, un uso regolativo: qui la ragione opera, attraverso le idee, per estendere il più possibile il campo dell' esperienza - pur nella consapevolezza di non poter mai attingere la totalità - e per conferire al sistema delle conoscenze il massimo di unità e di coerenza. Sotto questa luce, le idee della ragione si rivelano uno stimolo e una componente essenziale della conoscenza scientifica.
Se dunque la scienza è possibile in quanto fondata sull'uso empirico delle facoltà trascendentali della sensibilità e dell'intelletto, la metafisica non è né sarà mai possibile come scienza, in quanto fondata sull'uso trascendente delle categorie dell'intelletto, arbitrariamente assunte dalle idee della ragione per operare sintesi impossibili perché senza oggetto.
Ciò non significa tuttavia che le idee della ragione non abbiano alcuna funzione positiva. Esse infatti danno anzitutto luogo a un'illusione che, come abbiamo più volte sottolineato, non è estirpabile dalla natura umana; in secondo luogo, proprio in quanto espressione di problemi irrinunciabili per l'uomo, le idee della ragione, pur non svolgendo una funzione costitutiva di conoscenza, possono svolgere una funzione regolativa fondamentale ai fini delle conoscenze dell'intelletto, spronando l'uomo a coordinarle ed estenderle secondo un "ideale", appunto, di totalità e incondizionatezza. Essendo stato chiarito lo scambio dogmatico operato dalla metafisica, che pretende di assumere l'oggetto delle idee come una realtà, tale oggetto rivela finalmente il suo autentico significato: esso è infatti il fine problematico, ovvero l'ideale della ragione umana.
A conclusione della Dialettica trascendentale Kant colloca una lunga e importante Appendice in cui sviluppa il versante "positivo" della dialettica della ragione. La disposizione naturale del pensiero umano a trascendere i limiti dell'esperienza per pervenire alla totalità, quale si esprime nelle costruzioni teoriche della metafisica, non conduce solo e necessariamente allo scacco e ai fallimenti rivelati dalla dialettica: essa può assolvere, invece, una essenziale funzione conoscitiva. La conoscenza, infatti, è estensiva e unificatrice: la regola che spinge la ragione a risalire lungo la serie delle condizioni alla ricerca di leggi sempre più comprensive e generali sotto le quali unificare il mondo dell'esperienza conduce all'ampliamento del sapere scientifico. Essa fallisce là dove pretende di afferrare la totalità, e qui interviene l'opera limitatrice della critica, che mostra l'illegittimità di un uso costitutivo, ma anche la fecondità dell'uso regolativo delle idee.
Schematicamente, utilizzando i quattro gradi della conoscenza della Repubblica platonica si potrebbe individuare un percorso analogo nelle modalità di impostazione del rapporto tra tra opinione e scienza. Ma si tratta di un percorso che individua anche le differenze salienti tra i due grandi pensatori. Ecco dunque lo schema che accomuna le due visioni della filosofia:
Demiurgo
Opinione Vera
Platone Eikasia Pistis Dianoia Noesis
____________|_____________ ________________|______________________
Doxa Episteme
Kant immaginazione | giudizio sint. Io penso+ | ?
riproduttiva | a posteriori categorie |
Schematismo Trascendentale
Scienziato (demiurgo?)
lo schema riproduce passo passo il rapporto tra i gradi della conoscenza di Platone e i punti paralleli in Kant. Il primo grado dell'apparenza è l'immaginazione riproduttiva che è parallela all'eikasia. L'immaginazione riproduttiva nella classificazione kantiana rappresenta in realtà l'immaginazione psicologica, il normale processo della nostra fantasia, distinto da quella che Kant chiama immaginazione produttiva e della quale parleremo tra poco. Alla pistis corrispondono i giudizi sintetici a posteriori. Platone considera la pistis conoscenza vera e propria ma priva di quella necessità razionale propria dei gradi successivi. Esattamente come Kant che considera il giudizio sintetico a posteriori un giudizio capace di aumentare la nostra conoscenza ma non dotato di quella necessità che appartiene solo alle categorie, il fondamento della conoscenza razionale. Il passaggio alla conoscenza razionale avviene attraverso la dianoia la conoscenza discorsivo-razionale che Platone identifica soprattutto nella matematica e Kant svolge analogamente nei giudizi sintetici a priori che assieme all'Io penso, il principio dell'unità del sapere e dell'identità dell'io, rappresenta la struttura razionale mediante la quale conosciamo.
La differenza su questo punto è comunque già significativa. Per Kant le categorie sono strutture definitive razionali mentre in Platone la conoscenza dianoetica ha una funzione mediatrice con le idee trascendenti che stanno oltre di noi. In Kant l'a priori delle categorie si definisce trascendentale perché risulta alla radice razionale dell'io in modo immutabile. Una prospettiva che non appartiene alla mentalità di Platone che vede nella ragione umana, e nel complesso di relazioni che instaura per comprendere la realtà, un riflesso della vera realtà superiore, del mondo divino e prefetto delle idee che non possiamo conoscere direttamente in questa vita. Solo l'anima risalendo nell'iperuranio senza il corpo può contemplare la verità assoluta delle idee.
Questa differenza di prospettiva aiuta a meglio inquadrare la polemica kantiana contro la metafisica.
Per Kant la razionalità è nel singolo individuo e non a oltre. Non c'è alcun mondo superiore dal quale la razionalità umana tragga giustificazione e realtà. Per Platone l'esistenza stessa della razionalità individuale ci spinge ad approfondire le domande che riguardano l'origine di questo mistero della conoscenza e della nostra stessa realtà: chi siamo da dove veniamo e dove andiamo.
Per comprendere pienamente la differenza dobbiamo rivolgerci ai problemi comuni che scaturiscono da una visione della realtà nella quale il rapporto tra ragione ed esperienza, tra episteme e doxa, deve essere giustificato. Sappiamo che questo è uno dei problemi sui quali si concentra la meditazione dei dialoghi dialettici di Platone.
Ma questo stesso problema dei rappprti tra ragione ed esperienza esiste anche in Kant che la sviluppa nella dottrina dello schematismo trascendentale. Questa dottrina risulta parallela al rapporto tra mondo delle idee e mondo sensibile in Platone e si trova ad avere la stessa funzione di collegamento.
In un certo senso meriterebbe un approfondimento qual è la soluzione kantiana ai problemi del rapporto idee-cose: imitazione, partecipazione o presenza? Se è vero che in Kant la struttura della ragione è interna all'individuo che conosce, la conoscenza si trova nella difficoltà, tipicamente platonica, di legare insieme ragione ed esperienza, cioè universale (categorie) e individuale (spazio-tempo). Non affronteremo questo problema in questa sede perché la sua soluzione richiederebbe un'analisi molto approfondita dei testi di riferimento.
Si potrebbe dire che Platone, in tal senso, ha un qualche vantaggio perché esiste una simmetria tra la conoscenza razionale e quella sensibile dell'esperienza e si tratta di saper analizzare i caratteri propri della realtà per ottenere attraverso il metodo diairetico una conoscenza corrispondente alla realtà stessa delle cose.
In Kant l'inconoscibilità di fondo della realtà in sé degli oggetti dell'esperienza, che sono ricostruiti attraverso ciò che ci appare nello spazio tempo della nostra sensibilità (estetica trascendentale), rende molto più problematica la realtà.
Questa apparente digressione ci avvicina ulteriormente al problema che stiamo cercando di comprendere. Il collegamento tra ragione ed esperienza in Kant, rispetto a Platone, non può avere a disposizione la realtà di un mondo superiore oggettivo come punto di appoggio. Per questo motivo Platone può costruire la doxa vera, cioè l'immagine vera della realtà, grazie alla diairesis dialettica che può cercare di comprendere la struttura della realtà (la metafora del macellaio che sa dove e come tagliare le parti è molto eloquente), struttura del cosmo che è analoga al mondo superiore in virtù di quanto afferma il Timeo che affida al Demiurgo la produzione del cosmo come immagine bella del mondo divino.
Kant, invece, può solo affidarsi alle immagini, meglio, ai modelli o schemi trascendentali mediante i quali possiamo decifrare l'insieme dell'esperienza. Se in Platone l'imitazione del mondo vero mette il Demiurgo al riparo dall'ipotesi che quanto afferma sia legato al puro arbitrio (e dunque a un'ipotesi vicina al relativismo dei Sofisti), in Kant la vera figura che si staglia sullo sfondo è quella dello scienziato. La sua unica garanzia di oggettività, per paradossale che possa sembrare, è affidata alla razionalità presente in ciascun uomo. Razionalità che, peraltro, non è garantita da nessuna ipotesi in grado di giustificarne la reale esistenza: chi garantisce che davvero universalmente gli uomini siano dotati di quelle caratteristiche razionali che Kant sostiene essere in ciascun uomo? Chi o cosa garantisce questa realtà? Il dubbio porterebbe alla posizione di Hume, molto vicina ai Sofisti.
Rispetto al momento della nascita della scienza moderna in Galilei, Kant sembra aver rovesciato quella fiducia dello scienziato italiano nel valore delle conoscenze scientifiche che poggiava, in modo originale, su alcuni spunti del Timeo di Platone. Galilei è convinto di avere una metafisica che spieghi e giustifichi il valore assoluto e definitivo delle leggi scientifiche da lui sviluppate, attraverso i suoi esperimenti e le sue osservazioni. Proprio perché le leggi scientifiche sono le stesse con cui Dio ha creato il mondo. Ma Kant ha rinunciato, proprio nella dialettica trascendentale, a qualunque possibilità di spiegare e sondare i problemi metafisici. Come abbiamo letto in precedenza, «l'assoluta (incondizionata) unità del soggetto pensante, la seconda l'assoluta unità della serie delle condizioni del fenomeno, la terza l'assoluta unità della condizione di tutti gli oggetti del pensiero in generale» sono solo illusioni. Dunque non sono in grado di fornire elementi per comprendere il valore del nostro pensiero e della stessa realtà.
E proprio questa rinuncia al sapere metafisico, cioè a quel sapere che va al di là delle apparenze per cogliere il significato profondo della realtà, rappresenta il punto di maggior distanza tra le due prospettive.
Nello schema da cui siamo partiti, che rappresenta i quattro gradi della conoscenza della Repubblica (integrato col sapere dalla scienza media dove l'opinione vera di Platone ha un ruolo analogo a quello dello schematismo trascendentale di Kant come, abbiamo appena mostrato) abbiamo posto sotto la noesis platonica, che rappresenta appunto il sapere dialettico inteso come momento intuitivo della conoscenza, un punto interrogativo a indicare l'impossibilità presunta da parte di Kant di parlare dei temi metafisici per eccellenza l'immortalità dell'anima, la libertà dell'uomo e l'esistenza di Dio.
La ragione è data dal fatto che per Kant l'unica forma di conoscenza attendibile è quella che si lega strettamente all'esperienza applicando le categorie, cioè la scienza sperimentale, dove all'oggettività delle qualità primarie delle cose di cui parlava Galilei si assommano le caratteristiche razionali della nostra ragione che afferra e concettualizza l'esperienza attraverso lo schematismo trascendentale, cioè attraverso i suoi modelli concettuali (=le struttura dello schematismo che servono per comprendere l'esperienza in modo adeguato alla nostra razionalità, cioè alle categorie).
Alla luce di quanto Kant stesso afferma, possiamo completare la trattazione sin qui svolta ricordando come,
il mondo sensibile (fenomenico), naturale-empirico, è conoscibile mediante l'applicazione delle categorie della facoltà intellettiva ai fenomeni con la conseguente svalutazione della dialettica che non avrebbe alcuna possibiltà di fornire conoscenze adeguate del mondo superiore, di quel mondo metafisico che sta al di là dell'esperienza e che Kant considera proprio per questo noumeno, puro pensiero non verificabile sperimentalmente. Ma questa che sembrerebbe l'ultima parola d Kant trova una soluzione differente quando il discorso si sposta dall'ambito scientifico all'ambito etico.
In questo secondo caso il mondo intelligibile (noumenico), sovrannaturale, è oggetto possibile di un'esperienza morale quando il soggetto agisce conformando i propri desideri all'idea di libertà e alla legge morale presenti a priori nella facoltà razionale. Fatto questo che merita un approfondimento per verificare se questo apparente spostamento di ambito che, secondo Kant, nulla ha a che fare con la metafisica non sia, in realtà, anche un recupero di quella dialettica svalutata nella Critica della ragion pura, attraverso una riflessione morale come quella della Critica della Ragion pratica.
L'aspetto che occorre verificare riguarda la possibilità che Kant abbia di fato introdotto la dialettica nella Critica della ragion pratica quasi negli stessi termini nei quali la introduce Platone nei suoi scritti come metodo noetico, cioè come strumento per afferrare quel mondo superiore che in questa vita non è mai perfettamente conoscibile ma si può solo scorgere e ipotizzare nei suoi elementi portanti anche atttraverso l'ausilio del mito. Il metodo noetico partendo da ipotesi si eleva sino agli archetipi fondamentali della realtà, cioè alle idee. Con questa ultima verifica delle caratteristiche dialettiche della Critica della ragion pratica si conclude la ricerca che stiamo faticosamente portando avanti.