Nasce il 16 aprile 1452 ad Anchiano, presso Vinci, nel contado fiorentino, figlio naturale di quel ser Piero notaio che gli assicura un’adolescenza confortevole, facendogli studiare grammatica e calcolo. Trasferitosi il padre a Firenze nel 1469, Leonardo lo segue e ivi prende a frequentare la bottega del Verrocchio, una delle più celebri di Firenze, dove apprende i rudimenti di pittura, scultura e decorazione; alla sua mano si deve l’angelo di sinistra del Battesimo di Cristo (1475) del maestro.
Lasciata la bottega del Verrocchio nel 1479, restando ai margini della cerchia medicea, ottiene le prime, tardive commesse; del 1481-82 è l’Adorazione dei Magi, incompiuta anche a causa del trasferimento a Milano. Nel periodo fiorentino, oltre alla pittura e alla scultura, Leonardo apprende le tecniche di costruzione di armi di offesa e difesa, nozioni di idraulica, ingegneria e architettura civile e militare: questo almeno è quanto afferma nel presentarsi a Lodovico il Moro, il figlio di Francesco Sforza che si è appena impadronito del ducato di Milano, al quale Lorenzo il Magnifico l’ha raccomandato in qualità di suonatore di lira.
Per il Moro Leonardo diviene un vero e proprio factotum; ne ritrae le amanti (il celeberrimo Ritratto di dama con l’ermellino, del 1485-90), disegna costumi e insegne per feste e tornei, crea scenografie di spettacoli, giochi e scherzi per intrattenere la corte.
Si dedica anche a elaborare progetti di urbanistica, idraulica e geologia e tecnica mai tradotti in realizzazioni concrete. Inoltre il duca di Milano, intenzionato a realizzare un colossale monumento equestre al padre Francesco, vuol mettere a frutto l’esperienza di bronzista che Leonardo ha accumulato nell’apprendistato presso il Verrocchio, autore del celebre monumento veneziano al Colleoni; ma, com’è noto, il monumento, ribattezzato "Il Cavallo", resta allo stato di progetto.
Il gigantesco modello in argilla, effimero come il potere degli Sforza, è distrutto dai francesi all’atto della loro occupazione di Milano nel 1499.
Il primo soggiorno milanese di Leonardo, protrattosi dal 1482 al 1499, apparentemente sotto il segno dell’effimero, è ricco in realtà di importanti realizzazioni. Ad esso risalgono capolavori come la Vergine delle rocce del Louvre (1483) e l’Ultima Cena del Cenacolo di Santa Maria delle Grazie (1495-97).
Oltre agli studi architettonici per il tiburio della cattedrale di Milano, Leonardo conduce lunghi e approfonditi studi sulle materie più disparate (anatomia, fisiologia, meteorologia, geologia, idraulica, urbanistica, arte muraria e tessile, meccanica, dedicando grande attenzione all’osservazione della dinamica del volo degli uccelli) e ha l’occasione di approfondire gli studi matematici grazie anche allo stimolo di Luca Pacioli, giunto a Milano nel 1496.
Della sua assidua ricerca recano traccia i suoi taccuini, pieni di note, schizzi e appunti tracciati in grafia mancina da destra verso sinistra; raramente questa "prima nota" della sua attività quotidiana è trascritta in modo sistematico e ordinato. Molti sono gli scritti perduti; i cosiddetti codici leonardeschi, spesso raggruppati arbitrariamente e simili a feticci, sono sparsi un po’ per tutto il mondo.
Alla caduta del Moro, nell’ottobre del 1499, Leonardo deve lasciare Milano e peregrina per l’Italia, soggiornando a Mantova, dove ritrae Isabella d’Este, Venezia, Firenze e Roma, dove nel 1502 è al servizio di Cesare Borgia, creando altre opere insigni come il cartone della Sant’Anna con la Vergine, il Bambino e san Giovannino (1498-1500), la Gioconda (1503 ca.), la perduta Leda, l’incompiuto e perduto affresco della Battaglia d’Anghiari, destinato a fronteggiare quello, mai eseguito, con la Battaglia di Cascina di Michelangelo nella sala del Maggior Consiglio in Palazzo Vecchio. Perduto anche il cartone leonardesco, il dipinto è noto solo grazie ai drammatici disegni preparatori (1503-1504).
Frattanto Leonardo si dedica anche a studi di bonifiche e canalizzazioni in Valdarno e a Piombino, lavorando al Trattato di pittura iniziato fra il 1487 e il 1492, cui attenderà sin verso il 1513. Stanco di contrarietà, fa ritorno nella Milano francese al servizio di Charles d’Amboise, realizzando una seconda versione della Vergine delle rocce, la versione definitiva della Sant’Anna (1510) e proseguendo nei suoi studi. Scacciato da Milano dal prevalere della coalizione antifrancese, nel 1513 soggiorna brevemente a Roma, frequentando la cerchia del cardinal Giuliano de’ Medici, fratello di Leone X.
Infastidito dalle ingombranti ombre di Raffaello e Michelangelo, nel 1516 accetta l’invito di Francesco I, re di Francia, e si trasferisce nel castello di Cloux, presso Amboise, con l’incarico di "premier peintre, ingénieur et architecte du roi". Qui, ormai anziano e fiaccato nel corpo, ma non nello spirito, persevera nei prediletti studi, confortato dall’allievo e fedele compagno Francesco Melzi. Muore il 2 maggio del 1519.
Ecco una piccola antologia leonardesca, tratta dai suoi taccuini e dagli scritti destinati al Trattato di pittura, pubblicato postumo. Oltre al nesso vinciano tra arte e scienza, spicca in queste pagine l’esaltazione della libertà creativa del pittore. Di particolare interesse l’affermazione del primato della pittura sulla poesia, che smentisce l’equazione dell’estetica oraziana, "ut pictura poesis", proprio in nome del privilegio "scientifico" della vista sugli altri sensi.
"L’acqua che tocchi de’ fiumi,è l’ultima di quella che andò e la prima di quella che viene: così è il tempo presente".
"[...] li pittori che studiano, li giorni delle feste, nelle cose appartenenti alla vera cognizione di tutte le figure c’hanno le opere di Natura, e, con sollecitudine, s’ingegnano d’acquistare la cognizione di quelle, quanto a loro sia possibile [...] che 'nvero il grande amore nasce dalla gran cognizione della cosa che si ama: e se tu non la conoscerai, poco o nulla la potrai amare [...]"
"Noi diremo tanto più valere la Pittura che la Poesia, quanto la Pittura serve a miglior senso e più nobile che la Poesia; la qual nobiltà è provata esser tripla alla nobiltà di tre altri sensi, perché è stato eletto di volere piuttosto perdere l’audito e odorato e tatto, che 'l senso del vedere.
Perché chi perde il vedere perde la veduta e la bellezza dell’universo, e resta a similitudine di un che sia chiuso in vita in una sepoltura nella quale abbia moto e vita.
Or non vedi tu che l’occhio abbraccia la bellezza di tutto il mondo? Egli è a capo dell’Astrologia; egli fa la Cosmografia; esso tutte le arti umane consiglia e corregge; move l’omo a diverse parti del mondo; questo è principe delle Matematiche; le sue scienze sono certissime; questo ha misurato l’altezze e le grandezze delle stelle; questo ha trovato gli elementi e loro siti; questo ha fatto predire le cose future, mediante il corso delle stelle; questo l’Architettura e Prospettiva, questo la divina Pittura ha generata.
O eccellentissimo sopra tutte l’altre cose create da Dio! quali laudi fien ch’esprimere possino la tua nobiltà? quali popoli, quali lingue saranno quelle che appieno possino descrivere la tua vera operazione?
Questa è finestra dell’umano corpo, per la quale l’anima specula e fruisce la bellezza del mondo; per questo l’anima si contenta della umana carcere e, sanza questo, esso umano carcere è suo tormento; e per questo l’industria umana ha trovato il fuoco, mediante il quale l’occhio riacquista quello che prima li tolsero le tenebre. Questo ha ornato la natura coll’agricoltura e dilettevoli giardini.
Ma che bisogna ch’io m’estenda in sì alto e lungo discorso? qual è quella cosa che per lui non si faccia? Ei move li omini dall’Oriente all’Occidente; questo ha trovato la navigazione; e in questo supera la natura, che li semplici naturali sono finiti, e l’opere che l’occhio comanda alle mani son infinite, come dimostra il pittore nelle finzioni d’infinite forme d’animali e erbe, piante e siti".
"Se 'l pittore vuole vedere bellezze che lo innamorino, egli è signore di generarle; e se vuole vedere cose mostruose che spaventino, o che sieno buffonesche e risibili, o veramente compassionevoli, e n’è signore e creatore".
"Il pittore, che ritrae per pratica e giudizio d’ochio senza ragione, è come lo specchio, che in sé imita tutte le a ssé contraposte cose, senza cognizione d’esse".
"La deità ch’ha la scienzia del pittore fa che la mente del pittore si trasmutta in una similitudine di mente divina; imperoché con libera potestà discorre alla generazione di diverse essenzie di varii animali, piante, frutti, paesi, campagne, ruine di monti, loghi paurosi e spaventevoli, che dano terrore alli loro riguardatori, et ancora lochi piaccevoli, suavi e dilettevoli di fioriti prati con varii colori, piegati da suavi onde da suavi moti di venti [...]".
"Sempre il pittore che vole avere onore delle sue opere, debbe cercare la prontitudine de’ sua atti nelli atti naturali fatti dalli omini improviso e nati da potente affezzione de’ loro effetti; e di quelli fare brevi ricordi in su suoi libretti, e poi alli suoi propositi adopperarli, col far stare uno omo in quello medesimo atto, per vedere la qualità e aspetto delle membra che in tale atto s’adopra".
La vicenda pittorica di Leonardo è caratterizzata da un’incessante sperimentazione artistica e tecnica, legata all’osservazione della natura e allo studio approfondito dei fenomeni ottici. L’indagine fisiognomica documentata dai suoi taccuini è messa a frutto per esprimere i "moti dell’animo", come testimoniano i disegni preparatori della Battaglia d’Anghiari.
Se l’andamento geometrico della composizione tende a dare ai dipinti compostezza ed equilibrio, la straordinaria atmosfera che li domina è dovuta alla tecnica dello sfumato, ossia del graduarsi delle ombre grazie a sottilissimi strati di colore (un procedimento reso possibile dalla tecnica a olio), che alleggerisce i contorni delle figure e li intride dell’atmosfera circostante, annegando i corpi nel vapore dell’aria invece di farli spiccare netti e duri sullo sfondo come nella cosiddetta "maniera secca" quattrocentesca (la definizione è del Vasari).
A differenza del chiaroscuro, una tecnica che dà tridimensionalità ai corpi entro i confini del tracciato che li definisce, lo sfumato leonardesco li tratta come variabili della luce che pervade uno spazio fluido e ininterrotto. La figura umana, come testimonia la celeberrima Gioconda, si integra così vieppiù nel paesaggio; le tonalità della variopinta tavolozza rinascimentale, ricca di colori saturi, si attenuano sin quasi alla soglia del monocromo.
La tecnica dello sfumato segna un’evoluzione stilistica e concettuale che avrà grande influenza sugli artisti contemporanei, a partire da Raffaello, come testimonia la dolcezza dei suoi dipinti romani.
Oltre alla composizione e allo stile, Leonardo cerca di rinnovare i materiali pittorici, studiando colori a base di olio e di patine che consentono velature leggerissime, ma che non sempre rispondono alle sue attese. Anche in questo ambito la sperimentazione è incessante, e talvolta ha esiti distruttivi sui dipinti.
Le ricette dei colori usate per l’Ultima Cena di Santa Maria delle Grazie, basate anche su alcune formule antiche note attraverso Plinio, sono esiziali per l’opera, immediatamente deterioratasi dopo l’esecuzione; ancora peggiore è il destino del perduto affresco della Battaglia d’Anghiari, che non si asciuga al momento desiderato.