Elea, colonia greca situata sulla costa della Campania (la Velio latina), fu sede di una delle scuole più importanti e decisive dell'età presocratica.
La tradizione ci ha lasciato notizie contraddittorie circa l'origine di questa scuola. Essa risalirebbe a Senofane, di cui Parmenide sarebbe stato discepolo; secondo altri Parmenide ne sarebbe invece il fondatore. La scuola fu continuata dal suo allievo Zenone e poi seguita anche da Melisso.
La cosa che più sembra evidente è che la scuola subì comunque l'influenza dei pitagorici.
Nato a Colofone intorno al 580 e fuggito dalla patria dopo l'occupazione persiana, Senofane viaggiò moltissimo. Fu in Sicilia e forse anche a Elea, dove avrebbe avuto appunto Parmenide come discepolo (sebbene altre fonti dicano esattamente il contrario). È anche possibile che Senofane e Parmenide siano stati collegati successivamente dai logografi o dossografi per una certa somiglianza di dottrina.
Senofane fu però soprattutto un poeta girovago, autore di elegie e di silli (o giambi) di originale contenuto morale e religioso. Per primo infatti Senofane criticò apertamente la religione olimpica dei greci, il suo politeismo, il suo antropomorfismo, le sue componenti licenziose e fantastiche.
Secondo Senofane è colpa di Omero e di Esiodo - i padri della cultura arcaica dei greci fondata sulla tradizione orale - aver diffuso tante superstizioni e la falsa idea che gli dèi abbiano voce, corpo, passioni simili agli uomini. Essi hanno inoltre empiamente attribuito agli dèi ogni sorta di delitti, di infamie e di violenze: furti, stupri, adulteri, violenze di ogni genere.
D'altronde ogni popolo è preda, nei suoi miti, di analoghe superstizioni. «Gli Etiopi - dice Senofane - raffigurano i loro dèi neri e camusi; i Traci con occhi azzurri e capelli rossi. Se anche i buoi, i cavalli e i leoni avessero mani, farebbero gli dèi a loro somiglianza».
A tutto ciò Senofane oppone una nuova intuizione religiosa, che è segno eloquente della grande trasformazione razionale introdotta dall'epoca presocratica; egli inaugura cioè un nuovo concetto del divino.
Unico è per lui il dio che governa ogni cosa; ed egli governa con la forza del pensiero, senza bisogno di mani o di altri strumenti materiali. Questo dio eterno e immobile si identifica in sostanza con l'intero universo: egli è un uno-tutto che ordina e muove ogni cosa con la mente.
Analogamente Senofane capovolge i comuni valori stimati dai greci: non l'atleta vincitore delle gare di Olimpia merita gli onori supremi, ma coloro che superano la moltitudine con le opere del loro ingegno e della loro mente.
Senofane, cui la tradizione attribuisce una vita lunghissima, diffuse per tutte le genti greche queste sue rivoluzionarie concezioni, affidate ai suoi versi di poeta.
Parmenide nacque ad Elea. Secondo la testimonianza di Platone intorno al 515, ma più probabilmente una ventina di anni prima. Forse fu allievo dei pitagorici, ma in seguito elaborò una dottrina personale che espose in un grande poema in esametri, cui la tradizione attribuisce il solito titolo: Sulla natura.
Di esso ci restano ampi frammenti, per esempio del proemio e della prima parte; della seconda possediamo invece solo scarsi cenni. Quanto basta nondimeno per sollevare numerosi problemi agli interpreti circa la continuità tra queste due parti, che sembrano per certi aspetti contraddirsi.
Nel proemio l'autore si rappresenta come un giovane desideroso di essere iniziato alla sapienza. Qui, con versi molto coloriti e immagini mitiche, l'aspirante al sapere viene sollevato al di sopra delle città dei mortali da un cocchio di cavalle guidato dalle vergini figlie del Sole. Esse conducono il giovane oltre i sentieri del giorno e della notte, di fronte alla grande porta che apre la dimora della Dea. Essa accoglie il giovane con benevoli parole e, lasciata ogni immagine mitologica, lo introduce a una nuova forma di sapienza razionalmente fondata.
La prima parte del poema espone così la verità (alétheia) delle cose e del loro modo di essere; nella seconda la Dea dice di voler invece esporre la comune opinione (doxa) dei mortali, in cui tutto è illusione ed errore: il giovane dovrà apprendere anche questa. E in effetti i contenuti che traspaiono dagli scarsi frammenti della seconda parte del poema, che disegna una sorta di cosmologia della luce e delle tenebre, muovono in direzione esattamente contraria alla prima. Quale sia il senso e l'utilità di questa seconda parte resta poco comprensibile.
L'insegnamento che Parmenide mette in bocca alla Dea si può così sintetizzare. Due sono le strade della ricerca. L'una mette capo alla verità, l'altra all'incerta opinione. La prima via si fonda sul pensiero, la seconda sul sentire. Parmenide introduce così una distinzione che resterà costante in tutta la filosofia greca e anche in seguito.
Parmenide sostiene la superiorità del pensiero perché solo il pensiero può conoscere «ciò che è», vale a dire ciò che resta immutabile e costante. La sensazione invece è sempre mutevole e vaga; essa dice e si contraddice e presenta un miscuglio incomprensibile di essere e non essere. Seguendo, come sono soliti fare, le opinioni dei sensi, i comuni mortali assomigliano a uomini dalla «doppia testa»: con una dicono sì, con l'altra subito si contraddicono e dicono no. (Che in tal modo Parmenide intendesse riferirsi al divenire di Eraclito è opinione antica di molti interpreti, in realtà del tutto infondata o quanto meno indimostrabile.)
Se invece seguiamo il pensiero, «un solo cammino resta dunque al discorso: che l'essere è e che non può non essere». Parmenide pone così il problema dell'essere e del suo rapporto con il pensare; problema che diverrà il principio e il fondamento stesso della filosofia e di tutta la sua storia, antica e moderna.
Sollevando il problema dell' essere, di fatto Parmenide sbarra il passo a tutta la precedente ricerca sull' arché. Infatti, prima di stabilire quale sia l'arché (se essa sia acqua, aria, numero o altro ancora), bisogna ammettere che il principio non può mai venir meno, né mutare, né derivare da altro; altrimenti non sarebbe in alcun modo il principio dal quale ogni altra cosa deriva.
Quindi il principio deve anzitutto "essere" ed è in base a tale carattere che deve essere coerentemente pensato. Infatti, dice Parmenide, «è impossibile forzare il non essere a essere e l'essere a non essere: da tale via tieni lontana la ricerca»
Ora, solo il pensiero, consapevole di quanto abbiamo appena detto, può cogliere adeguatamente l'essere e tenere fermo ad esso; al contrario, tutto ciò che i sensi percepiscono, prima o poi si trasforma e svanisce. Tra l'essere e il pensiero si stabilisce dunque una relazione indissolubile. Con una frase divenuta famosa Parmenide asserisce: «L'essere e il pensare sono la stessa cosa». E il pensiero, per essere tale, cioè un pensare veritiero e consistente, deve anzitutto riconoscere che «l'essere assolutamente è, ed è pensabile, mentre il non essere assolutamente non è, e non è pensabile».
Se così non fosse, l'essere proverrebbe dal non essere o finirebbe nel non essere; ma il non essere semplicemente non è e non è pensabile, non è niente di vero e di esistente. «O è o non è», dice Parmenide; niente altro è in primo luogo pensabile e tra i due non esiste un'altra alternativa Ma da queste affermazioni irrefutabili derivano allora, per conseguenza, alcuni caratteri dell'essere altrettanto necessari che si impongono a loro volta al pensiero. Gli si impongono per coerenza con ciò che si sta affermando. Noi diremmo per coerenza "logica" e in effetti Parmenide è il primo maestro che fa della coerenza del dire e del pensare il fondamento della verità razionale, senza timore che questa possa trovarsi in un' opposizione anche totale rispetto alle testimonianze dei sensi e alla comune esperienza. Dovremo ammettere dunque che l'essere è ingenerato e imperituro, cioè eterno. Se così non fosse, l'essere proverrebbe dal non essere o finirebbe nel non essere; ma il non essere semplicemente non è e non è pensabile, non è niente di vero e di esistente. «O è o non è», dice Parmenide; niente altro è in primo luogo pensabile e tra i due non esiste un'altra alternativa
Inoltre l'essere è uno, cioè unico. Se infatti fosse due, il non essere dovrebbe separare e distinguere i due supposti esseri. Ma il non essere, come sappiamo, non è. Poi l'essere deve concepirsi immobile e compatto. Se si muovesse, dovrebbe andare dal non essere all' essere o dall' essere al non essere. Se avesse parti, di nuovo il non essere dovrebbe distinguerle. L'essere dunque è ben delimitato e compiuto péras), simile alla massa di un perfetto sfero, di eguale forza al centro e in tutte le direzioni: figura geometrica perfetta ed esemplare.
Con questa dottrina dell'essere Parmenide si poneva in palese contrasto rispetto a ogni testimonianza sensibile e ad ogni convinzione del senso comune. Esso è certo infatti che le cose si muovano, che siano molte, che siano composte di parti ecc.
Ma questa certezza, esaminata dal pensiero, si rivela insostenibile, inspiegabile e alla fine fallace: la ragione non può accoglierla né giustificarla. Parmenide ebbe il coraggio di aprire questa nuova via alla ricerca della verità, preparando la forza razionale del ragionamento filosofico, che non teme di contrastare le più comuni e radicate ovvietà in nome della coerenza e della consistenza logica di ciò che si dice e si crede. È facile immaginare lo scalpore che la novità e l'audacia delle tesi di Parmenide sollevarono presso i contemporanei e le continue polemiche che esse suscitarono.
È appunto in risposta a queste polemiche che Zenone, nato ad Elea venticinque anni dopo Parmenide, scrisse il suo libro di Discorsi, in dichiarato appoggio alle tesi del maestro. Uomo coraggioso e risoluto, Zenone si oppose alla tirannide instaurata si ad Elea. Imprigionato e sottoposto a tortura, non smise per ciò di rimproverare al tiranno le sue atrocità. Si dice che alla fine, mozzatasi la lingua con i denti, la sputò in faccia al suo nemico.
Nel suo libro Zenone usò per primo la dimostrazione per assurdo. Zenone assumeva infatti come base le tesi che gli avversari opponevano a Parmenide, come se fossero vere; ma dimostrava che esse conducono in realtà a conseguenze assurde; dunque non sono vere. Ciò conferma allora la verità degli assunti eleatici relativi all'essere. Questo procedimento prese il nome di "dialettica", della quale appunto Zenone sarebbe l'inventore. La parola "dialettica" ebbe però in seguito ulteriori e importanti sviluppi, come vedremo a suo tempo.
Zenone si occupò degli argomenti relativi alla negazione del movimento e della molteplicità, che erano i due temi eleatici che contraddicevano più scandalosamente le certezze del senso comune. I primi, quelli cioè rivolti al movimento, sono di gran lunga più importanti. Essi hanno mantenuto una validità e un interesse logico che li rende ancora in parte attuali.
Zenone assumeva dunque la tesi dell'avversario, secondo la quale il movimento, testimoniato ci dai sensi, è qualcosa di reale e non di illusorio come vuole Parmenide. Prendiamo come esempio il moto di una freccia. La freccia, muovendosi, compie il tragitto da A a B; ma allora bisogna anche ammettere che essa deve anzitutto compiere la metà di tale tragitto, e prima ancora la metà di questa metà e così via. Siccome ogni frazione di spazio è composta da un numero infinito di punti, non è possibile sostenere coerentemente che la freccia abbia compiuto un tragitto qualsiasi; prima infatti dovrebbe aver compiuto la metà di tale tragitto, per quanto piccolo esso sia. In conclusione: vediamo sì che la freccia si muove, ma come pensare tale movimento solleva difficoltà irresolubili.
Supponiamo tuttavia che la freccia abbia effettivamente compiuto il tragitto da A a B, come testimoniano i sensi. Allora essa è passata per gli infiniti punti di questo tragitto. Ciò significa che, almeno per un istante, essa si è trovata ad essere, cioè ad essere immobile, in ognuno di questi punti. Ne deriva che il supposto movimento del tragitto risulterebbe dalla somma di infiniti momenti di immobilità, il che è assurdo.
Molto famoso divenne l'argomento detto di Achille e la tartaruga, il cui principio è peraltro affine ai precedenti. Il piè veloce Achille e la tartaruga si sfidano alla corsa. Achille, magnanimo e sicuro del fatto suo, concede alla tartaruga un certo vantaggio; ma allora Achille non raggiungerà mai la tartaruga. Infatti, mentre egli colma il vantaggio concesso, la tartaruga si è mossa; egli deve allora colmare anche questa distanza; ma di nuovo gli resta un ulteriore tratto che intanto la tartaruga ha percorso. In conclusione, Achille si avvicina sempre più alla tartaruga, senza poterla però raggiungere mai.
Notevole modernità conserva l'argomento detto dei tre carri o cocchi. Di essi uno resta immobile, mentre gli altri due, tirati dai cavalli, muovono in direzione opposta alla medesima velocità.
Risulterà allora che i due cocchi in movimento procedono a una velocità che è, al tempo stesso, doppia rispetto a loro e la metà rispetto al cocchio che resta fermo, il che è assurdo. Vi è chi ha ravvisato in questo argomento un'intuizione anticipatrice di ciò che, nella scienza fisica moderna, prenderà il nome di relatività del movimento. In effetti il matematico e filosofo contemporaneo Bertrand Russell (pronuncia: Rassell) riconoscerà agli argomenti di Zenone una perdurante attualità logica.
Restando alla mentalità greca, è un fatto che gli argomenti di Zenone denunciavano la difficoltà che incontrarono i greci ad affrontare i concetti di infinito e di movimento, presi com' erano tra le componenti logiche di tali problemi e le loro componenti empiriche o fisiche.
Più in generale si deve dire che Zenone ribadiva soprattutto le difficoltà logiche della comune esperienza, basata sulle opinioni ricavate dai sensi. I suoi argomenti non intendevano infatti negare ciò che vediamo, per esempio il movimento e il molteplice: certo, li vediamo, ma il punto è che la nostra ragione, il nostro pensiero, non è in grado di spiegare e di giustificare razionalmente ciò che vediamo. Questo è anzitutto un tipico problema filosofico generale, precedente ogni altra considerazione fisica o scientifica.
Nato a Samo una ventina d'anni dopo Zenone, Melisso, che fu anche uomo politico e brillante ammiraglio, compose a sua volta uno scritto intitolato Sulla natura o sull' essere. In esso intendeva ribadire la validità delle tesi di Parmenide, probabilmente in polemica con le scuole sorte nel frattempo di Empedocle e di Leucippo.
Nella sua difesa di Parmenide, Melisso modificò però la tesi eleatica dell'essere "ben determinato" e simile a uno sfero compatto. Se l'essere è ben definito, diceva Melisso, ciò che lo può definire o delimitare è solo il non essere, che però non è.
Quindi bisogna ammettere che l'essere è indefinito, o infinito, e anche che esso non è nulla di materiale, come uno sfero o altro ancora. Se infatti fosse materiale avrebbe delle parti, non sarebbe unico e compatto ecc.
Questo sviluppo è in realtà molto pericoloso e problematico per la dottrina parmenidea. Esso introduce l'infinito in seno all'essere, con tutte le difficoltà e le contraddizioni che ne derivano e che Zenone aveva sfruttato contro i detrattori di Parmenide. Inoltre l'immaterialità asserita rende l'essere qualcosa di inconcepibile. Insomma, Melisso apre la via ai successivi sviluppi paradossali che, come vedremo, i sofisti trassero dalla dottrina dell' essere sostenuta dalla scuola eleatica.