Galilei fu anzitutto un matematico, avendo appreso questa scienza direttamente dai più grandi matematici del suo tempo, oltre che dai testi originali dei matematici greci (Euclide, Archimedee Pappo).
Da qui ha maturato la convinzione del valore assoluto della matematica, giungendo a scrivere, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, che nell'ambito di questa scienza l'intelletto umano uguaglia quello divino, non quanto a estensione (extensive), cioè nel senso che l'uomo sappia tutte le proposizioni che Dio conosce (perché questi ne sa infinite di più, in quanto le sa tutte), ma quanto a intensità (intensive), nel senso che, nelle poche proposizioni che sa, l'uomo raggiunge la stessa certezza assoluta che è propria di Dio, perché ne conosce la necessità.
Ciò risulta dal famoso brano del Saggiatore, in cui si afferma che la natura è come un libro scritto in lingua matematica, in una lingua cioè i cui caratteri «sono triangoli, cerchi, e altre figure geometriche», e chi non intende questa lingua non è assolutamente in grado di conoscere la natura.
La matematica rappresenta la conoscenza umana la più rigorosa e sicura, essendo le proposizioni delle matematiche conosciute con necessità, necessità oltre la quale, osserva Galilei, non sembra esserci certezza maggiore.
Ogni corpo, ogni processo fisico, è bensì pensabile in termini matematici, anche in ragione del fatto che - Galilei, in questo platonico, ne è profondamente convinto - la stessa struttura della realtà è matematica.
Ma per l'intelligenza umana la comprensione matematica del reale, e quindi la possibilità di accedere col pensiero a tale struttura, incontra un ostacolo nei limiti delle nostre conoscenze matematiche.
Per tradurre in linguaggio matematico la varietà infinita della natura, l'uomo dovrebbe conoscere la matematica "infinita" di Dio: dovrebbe disporre cioè della conoscenza da cui procedono le leggi della natura e l'ordine del mondo, creato da un Dio "geometrizzante".
Siamo di fronte, come si vede, ad un'autentica filosofia, secondo cui la struttura dell'intera realtà è essenzialmente di tipo matematico e pertanto le uniche vere scienze sono la matematica e le sue applicazioni. Si tratta certamente di una interpretazione del platonismo, poiché nel Timeo Platone afferma che alla base della natura ci sono delle figure geometriche, ma non bisogna dimenticare che la fisica del Timeo per Platone non era vera scienza, bensì soltanto discorso verosimile.
Il nome più adatto a questa filosofia è «matematismo» e i suoi precedenti sono da ravvisarsi piuttosto in quell'aspetto del neoplatonismo matematizzante che aveva ripreso la dottrina platonica delle idee-numeri.
Partendo da questa visione platonizzante Galilei giunge a una fondamentale distinzione tra qualità primarie (misura peso, estensione ecc. e qualità secondarie (date dalle percezioni sensibili) che è alla base della filosofia moderna e della fisica.
In altre parole: ciò che appartiene oggettivamente alla natura sono i rapporti matematici, da cui i fenomeni sono regolati.
Noi cogliamo vagamente tali rapporti quantitativi sotto forma di sensazioni (colori, suoni. odori, ecc.); ma le sensazioni non appartengono alle cose: non sono altro che modi di sentire nostri, stati d'animo soggettivi che, se fossero tolti "i nasi, gli occhi, le orecchie" sparirebbero del tutto. In tal caso rimarrebbe solo la materia, con i suoi valori quantitativi di estensione, figura, peso, movimento, ecc.
Per accertare la realtà oggettiva, indipendente dal nostro modo soggettivo di sentirla, occorre verificare, anche in un solo caso, se il fenomeno studiato si svolga secondo la legge con cui abbiamo cercato di interpretarlo.
Per far questo occorre eliminare dall'esperimento tutte le perturbazioni che possono nascere da cause estranee a quella che abbiamo ipotizzato; o, almeno, se eliminarle è impossibile, tenerne conto e fare astrazione della loro influenza.
Quindi, le componenti a cui è stato in tal modo ridotto il fenomeno vengono, attraverso appositi strumenti o dispositivi, per la verità spesso ancora poco affidabili, sottoposte a misura, cioè tradotte in quantità e numero.
Galilei non voleva essere soltanto matematico, bensì anche «filosofo» (tale si fece nominare infatti dal Granduca di Toscana), intendendo con questa espressione «filosofo naturale», cioè quello che noi oggi chiameremmo un fisico.
Applicando le dimostrazioni matematiche alla fisica costruì, per la prima volta, una fisica matematica, perfezionando il metodo del regressus («regredire»), teorizzato dagli aristotelici padovani, in particolare da Zabarella, il quale permette di risalire (cioè appunto regressus) dai fenomeni oggetto di esperienza a principi che possono darne la spiegazione e di ridiscendere da questi agli effetti che ne derivano.
Il punto di partenza della teoria della dimostrazione sviluppata da Zabarella (ed insegnata dai gesuiti del Collegio Romano, dai quali Galilei l'aveva appresa) era la distinzione dei due metodi fondamentali insegnati dalla logica: il metodo compositivo (in greco «sintesi»), che consiste nel dedurre dalla conoscenza della causa la conoscenza dell'effetto, usato dalle scienze matematiche, e il metodo risolutivo (in greco «analisi»), che consiste nel risalire dalla conoscenza dell'effetto (già noto per esperienza) alla conoscenza della causa (che è ignota, e perciò è oggetto di ricerca), usato dalle scienze fisiche.
La combinazione di questi due metodi costituisce il processo del regressus: se gli effetti dedotti nella seconda operazione corrispondono esattamente ai fenomeni da cui si era partiti, non c'è dubbio che i principi individuati mediante la prima operazione sono la spiegazione vera che si cercava.
In tal modo Zabarella ritiene di poter assicurare alla fisica un metodo altrettanto rigoroso e necessario di quello della matematica.
Galileo perfeziona questo procedimento supponendo che un certo fenomeno abbia una determinata causa e mettendo alla prova questa ipotesi (suppositio, termine corrispondente al greco hypòthesis) attraverso l'esperimento (periculum, termine derivante dal greco pèira, che significa esame, messa alla prova). L'esperimento è un'operazione che consiste nel riprodurre, a partire dalla causa supposta, il fenomeno che si vuole spiegare, ma in condizioni di maggiore osservabilità, per esempio eliminando eventuali interferenze, o fattori di disturbo, che possano alterarne l'andamento.
Se, attraverso questo procedimento, si ottiene il fenomeno da cui si è partiti, la causa ipotizzata risulterà essere la sua vera causa, e allora si potrà passare al procedimento compositivo, o sintesi, che, come in Zabarella, è la dimostrazione dell'effetto a partire dalla causa, e concludere il regressus; in caso contrario, bisognerà supporre una causa diversa e sottoporla a esperimento, fino a quando si otterrà l'effetto desiderato.
Ma ciò che gli permette di affermare l'esistenza di implicazioni reciproche, ossia di connessioni necessarie, tra le cause e gli effetti è precisamente la misurazione di entrambi, la quale può essere effettuata solo in condizioni di perfetta osservabilità, per esempio in laboratorio, o mediante l'uso di strumenti di osservazione.
Solo la misurazione, infatti, permette di cogliere un collegamento preciso tra la variazione di intensità dell'effetto e quella della sua supposta causa.
Questo è il famoso metodo sperimentale inventato da Galileo, che determinò la nascita della scienza moderna.
Gli strumenti osservativi furono un punto fermo nell'attività di Galilei.
A Padova, negli anni del suo insegnamento, organizzò con i suoi studenti un’officina di strumenti di precisione (compassi, quadrati, bussole, squadre) ed inventò il compasso geometrico e militare (si trattava di un perfezionamento di uno strumento analogo ideato da Ubaldo dal Monte).
Si trattava di un regolo per accelerare i calcoli, illustrato nel 1606 in un'operetta. Inoltre si interessava di calamite, di idraulica e costruì un termo-baroscopio da cui in seguito sarebbe derivato il termometro (che tuttavia non può dirsi una sua invenzione).
Ma la sua principale innovazione tecnologico-scientifica fu data dalle applicazioni ottenute puntando il cannocchiale al cielo e osservando per mezzo di questo strumento (da lui così chiamato perché era come un occhiale fatto a canna) l'aspetto e i movimenti dei pianeti e degli astri.
Già nella seconda metà del Cinquecento circolavano in Italia degli strumenti costituiti da lenti variamente combinate.
Uno dei primi scopritori (se non il primo in assoluto) pare sia stato il napoletano Giambattista Della Porta, ritenuto anche l'inventore della camera oscura e il precursore della scoperta della forza propulsiva del vapore acqueo.
Certo nel 1609 Della Porta rivendicava a se stesso l'invenzione del telescopio (Keplero l'attribuiva proprio a lui). L'olandese Jsaac Beeckman afferma che nel 1604 Zacharias Jansenn di Middleburg (seguito poi da un suo concittadino, Hans Lippershey) avrebbe costruito il primo cannocchiale, imitandone uno costruito da un italiano (forse proprio Della Porta).
Nel 1608 la notizia dall'Olanda giungeva in Italia e pare che nei primi mesi del 1609 cannocchiali fossero in vendita in varie città italiane e a Parigi.
Galilei - o avendo a disposizione un modello, o costruendolo personalmente - combinò una lente convessa con una concava (obiettivo e oculare), lavorando con grande cura le lenti, ottenne ben presto uno strumento più potente degli altri.
In seguito, su proposta di Federico Cesi - il fondatore dell' Accademia Lincea (1603) oggi Accademia dei Lincei, botanico ed amico e protettore di Galilei - il cannocchiale venne chiamato telescopio.
Pare che sia stato lo stesso Galilei, disponendo le lenti per ottenere anche la visione delle cose piccolissime, ad inventare il microscopio.
Ma la sua attenzione era attratta dal cielo. Agli ultimi mesi del 1609 risale la scoperta che la Via Lattea e varie nebulose altro non erano che moltitudini di stelle (che egli continuava a considerare fisse).
Scoprì anche i monti e i mari della Luna e subito ne dedusse l'identità della sua struttura materiale con quella della Terra. Nel 1610 scoprì i primi quattro satelliti di Giove, e determinò il periodo di rivoluzione del più lento. Chiamò i satelliti "medicei" in onore di Cosimo I de' Medici e diede l'annuncio delle sue scoperte col Sidereus Nuncius (12 marzo 1610).
Dopo poco, nel luglio dello stesso anno, individuò le prime macchie sulla superficie del Sole. Si scatenarono critiche ma anche entusiastiche adesioni.
Tali scoperte suscitarono scalpore, perché l'esistenza di pianeti che ruotavano intorno ad un centro diverso dalla Terra scalzava il sistema del mondo aristotelico.
Per di più le macchie solari smentivano la pretesa incorruttibilità dei cieli.
Gli aristotelici contestarono queste ed altre scoperte attribuendole a difetti del cannocchiale.
Ma lo sviluppo degli esperimenti e l’esigenza di dati misurabili spinse Galilei a inventare nuovi strumenti sperimentali per la fisica.
Galilei giunse a scoprire quelle che poi furono chiamate le due prime leggi della dinamica, cioè il principio di inerzia e la legge sulla caduta dei gravi.
Il fenomeno della «caduta dei gravi» fu il primo ad attirare la sua attenzione: osservando la caduta verticale di un «grave», per esempio di una pietra, Galilei suppose che la velocità di caduta aumentasse in proporzione allo spazio percorso.
Per verificare questa ipotesi, egli costruì il famoso piano inclinato, facendo scorrere una pallina di bronzo di forma il più possibile sferica lungo una scanalatura il più possibile liscia e lievemente inclinata, in modo da ridurre al minimo l'attrito e misurare esattamente gli spazi percorsi e i tempi di percorrenza.
In tal modo ebbe la conferma che la velocità di caduta dei gravi aumenta in modo costante con l'aumentare dello spazio (in seguito si corresse, individuando come termine del rapporto proporzionale il tempo), cioè che esiste un rapporto proporzionale non tra la velocità e la massa, o quantità di materia, come credeva Aristotele, bensì tra la velocità e lo spazio (o il tempo), mentre rimane costante l'accelerazione.
Ciò significa che la forza di gravità è causa non della velocità di caduta, bensì del suo aumento costante, ossia della sua «accelerazione».
Questa prima scoperta portò Galilei a intuire, sia pure in forma ancora imperfetta, il principio di inerzia (che sarebbe stato formulato esattamente solo da Cartesio): osservando, infatti, il movimento di una sfera di bronzo su di un piano perfettamente orizzontale, dove la forza di gravità non può influire, egli notò che la sfera tende a restare in moto, sempre con la stessa velocità, tanto più a lungo quanto minori sono le resistenze che incontra, sì da far supporre che, in mancanza di qualsiasi resistenza (attrito, scabrosità, ecc.), essa proseguirebbe indefinitamente nel suo movimento.
Ciò significa che il movimento rettilineo uniforme, per conservarsi, non ha bisogno di alcuna forza, cioè è uno stato di inerzia esattamente come lo è la quiete.
Si noti come entrambe queste scoperte furono rese possibili dall'applicazione del metodo sperimentale mediante il piano inclinato che permise a Galilei di misurare in condizioni di quasi perfetta osservabilità i vari elementi dei fenomeni osservati, cioè i tempi di percorrenza, gli spazi percorsi, la velocità, l'accelerazione, ecc. In tal modo egli poté verificare la validità, anche se in condizioni ideali, delle ipotesi da lui formulate, cioè che il moto uniforme fosse prodotto dalla cosiddetta forza di inerzia (ossia dal semplice stato di movimento) e il moto accelerato dalla forza di gravità.
Tutto ciò, ossia la nascita della nuova fisica, era dovuto all'applicazione dell'analisi matematica ai diversi aspetti del fenomeno fisico, applicazione resa possibile dalla misurazione perfetta di questi ultimi grazie agli strumenti innovativi.
Ma ciò comportava anche un nuovo modo di guardare alla realtà, concentrando l'attenzione soltanto sui suoi aspetti quantitativi e prescindendo da tutti gli altri.
Nella lettera a Madama Cristina di Lorena, Galileo scrive: «Mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie».
E ancora: «Pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverso sembiante».
In queste frasi è racchiuso il nocciolo essenziale del metodo scientifico «sensate esperienze»e «necessarie dimostrazioni».
Da una parte il richiamo all'osservazione, ai fatti, e dall'altra l'accentuazione del ruolo delle «ipotesi matematiche» e della forza logica che da esse estrae le conseguenze.
Ma qual è il rapporto che esiste tra le «sensate esperienze» e le «necessarie dimostrazioni»? Galileo fonda la scienza sull'esperienza. Tuttavia, nonostante queste limpide dichiarazioni, non sono rari i casi in cui Galileo pare accentuare l'importanza delle "suppositioni" (ipotesi matematiche) contro le osservazioni.
Così, per esempio, in una lettera del 7 gennaio 1639 a Giovanni Battista Baliani egli dice: «Ma tornando al mio trattato del moto, argomento ex suppositione sopra il moto, in quella maniera diffinito; sicché quando bene le conseguenze non rispondessero alli accidenti del moto naturale, poco a me importerebbe, siccome nulla deroga alle dimostrazioni di Archimede, il non trovarsi in natura alcun mobile che si muova per linee spirali».
Nonostante le titubanze dello stesso Galilei, pare legittimo sostenere che le «sensate esperienze» e le «necessarie dimostrazioni» che si sviluppano a partire da “supposizioni”, sono due ingredienti reciprocamente implicantisi e insieme costituenti l'esperienza scientifica.
Questa non è pura e semplice osservazione ordinaria. Le osservazioni ordinarie, tra l'altro, possono pur essere sbagliate.
E Galileo questo ben lo sapeva; egli, infatti, dovette combattere per tutta la vita contro i fatti e le osservazioni effettuate alla luce di quello che oramai era senso comune.
Galilei mostra in più occasioni di considerare il ricorso all'esperienza come un fondamentale criterio di convalida delle teorie esplicative: se l'osservazione ci permetterà di accertare che il fenomeno si verifica nei termini anticipati dalla teoria, quest'ultima ne risulterà convalidata.
L'evidente esperienza e l'osservazione dunque non costituiscono solo l'ambito dal quale la scienza deriva i fatti che devono essere spiegati, ma anche il terreno precipuo ove ricercare la convalida delle ipotesi esplicative assunte.
Spesso, tuttavia, la convalida sperimentale delle ipotesi esplicative non si risolve nella semplice osservazione di quanto avviene in natura, ma implica un'interrogazione attiva della natura stessa, per trame la conferma di ipotesi teoriche che - in ragione del loro specifico contenuto - mai potrebbero esser convalidate osservativamente. Si pensi alla legge di caduta dei gravi.
Se l'ideale di una compiuta traduzione in concetti matematici del mondo fisico non appare raggiungibile, ciò non significa che l'uomo non possa conseguire una conoscenza stabile e verace del mondo.
Come viene espressamente chiarito in un passo dei Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze, si tratterà in primo luogo di produrre descrizioni matematiche dei fatti fisici e di costruire teorie esplicative dei medesimi che siano nella misura del possibile approssimati alla effettiva struttura matematica del fenomeno fisico studiato.
In secondo luogo, nello studio della natura, si dovrà astrarre dalle interferenze che si esercitano nello svolgimento concreto dei fenomeni: cioè da quei fattori (quali per esempio l'attrito dell'aria nel movimento dei proiettili) il cui impatto è complessivamente modesto e la cui infinita variabilità impedisce una quantificazione e una modellizzazione matematica adeguata.
Ciò comporterà tra l'altro una più marcata autonomia delle teorie scientifiche dalle specifiche condizioni in cui i fenomeni si svolgono in ambiente terrestre.
Per esempio: nello studio della caduta dei gravi e del moto dei proiettili, la necessità di fare astrazione dalle interferenze e dagli impedimenti indotti dalla densità dell'aria costringe a immaginare che quei fenomeni si svolgano non nelle concrete condizioni dell'atmosfera terrestre ma nel vuoto, cioè in un mondo ideale.
Le leggi scientifiche derivano una più universale validità dal fatto di non essere troppo strettamente vincolate a condizioni particolari.
A questa esigenza si ricollega il ripetuto ricorso da parte di Galilei a quelli che gli storici della scienza hanno definito "esperimenti mentali": per mezzo di questi ultimi, lo svolgimento del fenomeno studiato non viene riprodotto in concreto e osservato, ma concepito «con gli occhi della mente», immaginato astraendo da interferenze e condizionamenti legati al particolare contesto terrestre.
L'esperienza scientifica è, dunque esperimento scientifico.
E nell'esperimento la mente non è affatto passiva. La mente è attiva: fa delle supposizioni, ne estrae con rigore le conseguenze e poi va a vedere se queste si danno o meno nella realtà.
La mente non subisce un'esperienza scientifica, la fa, la progetta. E l’effettua per vedere se una sua supposizione sia vera, oppure falsa.
Dunque: l'esperienza scientifica è fatta da teorie che istituiscono fatti e da fatti che controllano teorie. C'è una reciproca integrazione ed una reciproca correzione e perfezionamento.
Aristotele, ad avviso di Galileo, avrebbe cambiato opinione se avesse visto fatti contrari alle proprie idee. E d'altronde le teorie (o supposizioni) possono ben servire a mutare o a correggere teorie incallite, che nessuno osa mettere in discussione, ma che hanno incapsulato l’osservazione in interpretazioni inadeguate ed han creato così molti "fatti" ostinati ma falsi.
È il caso del sistema aristotelico-tolemaico: prima di Copernico tutti vedevano all'alba il Sole che sorgeva; dopo Copernico, la teoria eliocentrica ci fa vedere, all'alba, la Terra che si abbassa.
Di fronte alle accuse di eresia mossegli dai domenicani, i quali si appellavano al fatto che la Bibbia racconta come Giosuè ingiunse al Sole di fermarsi, il che sembra supporre che per la Bibbia il Sole si muova, Galileo rispose nelle famose lettere «teologiche» (tra cui la più famosa è quella rivolta a madama Cristina di Lorena) che la Bibbia è un'opera di fede, non di scienza, cioè serve a farci conoscere «come si vada in cielo», non «come vada il cielo».
In altre parole, argomenta Galilei, la Sacra Scrittura non ha alcuna competenza nelle questioni scientifiche, le quali devono essere risolte solo per mezzo di «sensate esperienze», cioè esperimenti volti a mettere alla prova un'ipotesi, e «necessarie dimostrazioni», cioè dimostrazioni di tipo matematico.
Gli argomenti di Galilei, che riprendono motivi presenti anche nella tradizione esegetica della Chiesa, puntano sulla necessità che l'interpretazione della Scrittura non si limiti alla lettera del testo, ma si sforzi di coglierne i significati più profondi analizzando il carattere metaforico del linguaggio della Scrittura, che si giustifica con la necessità da parte dell'autore sacro di esser compreso dai "popoli rozzi e indisciplinati" per spiegare l'apparente contrasto tra proposizioni scientifiche e versetti biblici con l'erronea interpretazione della parola di Dio che ha soltanto lo scopo di rivelare agli uomini le verità utili alla salvezza dell'anima, perciò non deve essere utilizzata per dirimere le questioni di scienza.
Secondo Galilei, dunque, non c'è e non ci può essere alcun contrasto tra scienza e fede, le quali sono reciprocamente autonome.
Se non c'è dubbio che sulla questione particolare Galilei aveva ragione anche dal punto di vista teologico, come la stessa Chiesa cattolica ha dovuto riconoscere, sia pure con molto ritardo (praticamente col Concilio Vaticano II, cioè 350 anni dopo), è anche vero che in questa netta separazione tra scienza e fede Galilei non riconosceva alcuno spazio alla filosofia, in particolare ad una filosofia capace di dirimere gli eventuali apparenti contrasti tra scienza e fede mentre la filosofia che, più o meno consapevolmente, egli professava, cioè il matematismo, non era certamente la più adatta a questo scopo.
Proprio questa filosofia, del resto, gli impedì di ammettere il carattere soltanto ipotetico della teoria copernicana, come gli aveva suggerito il cardinale Bellarmino e come egli stesso aveva dichiarato nella prefazione al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, allo scopo di ottenere dalla Santa Sede il nulla-osta alla pubblicazione dell'opera.
In questa, infatti, egli sembra chiaramente convinto di avere trovato la «dimostrazione necessaria» di tale teoria, riproponendo l'argomento delle maree, il quale invece non dimostra affatto il moto della Terra.
La parte più valida del Dialogo, scritto in lingua italiana per essere comprensibile da tutti e dotato di notevole forza dialettica, è la distruzione della concezione antica della separazione fra terra e cielo, e soprattutto la confutazione degli argomenti addotti dagli aristotelici (messi alla satira nel personaggio di Simplicio) a favore dell’immobilità della Terra.
Il più noto di questi era quello per cui, se la Terra si muovesse, noi dovremmo accorgercene, come chi sta sulla tolda di una nave in movimento si accorge di quest'ultimo a causa del vento, degli oggetti che volano via, ecc.
A ciò Galilei rispose che, in mancanza di punti di riferimento esterni alla Terra, noi non possiamo accorgerci del suo movimento, come chi sta sotto il ponte di una nave, cioè all'interno di una cabina senza oblò, non può vedere se essa è in movimento o ferma, ed anzi vede gli oggetti comportarsi come se fosse ferma.
Con ciò egli scoprì la relatività del movimento, ossia il fatto che il movimento e la quiete di un corpo sono percepibili solo in relazione a un altro corpo che si trovi in uno stato diverso, perché sono entrambi due stati perfettamente naturali (come del resto insegna anche il principio di inerzia).
Alla luce di questo concetto sia la teoria copernicana sia quella tolemaica perdono entrambe il loro valore assoluto, anche se, come vedremo tra poco, Newton darà ragione a Galilei, trovando l'argomento che rende la teoria copernicana più valida di quella tolemaica.
Pare che il motivo per cui il papa Urbano VIII, già amico di Galilei e per nulla seguace della filosofia aristotelica, volle la condanna del Dialogo e del suo autore (quando ormai Bellarmino era morto da 12 anni), fosse il fatto che esso mette in bocca al personaggio dell'aristotelico Simplicio, senza quindi accettarla, l'osservazione che il papa stesso, nel corso di un colloquio con Galilei, gli aveva fatto presente, ossia che l'argomento delle maree, se fosse stato valido, avrebbe comportato una limitazione dell'onnipotenza divina, cioè avrebbe dimostrato che l'universo doveva necessariamente essere stato creato in un certo modo.
Non è chiaro se con questa osservazione Urbano VIII si rendesse conto del carattere matematistico della filosofia galileiana, mentre si può essere certi che Galilei era assolutamente in buona fede, cioè non intendeva negare nessuna proposizione della fede cristiana.
Pare inoltre che, dal punto di vista giuridico, il processo si sia svolto in modo irregolare, poiché nel 1616 a Galilei non era stato proibito di occuparsi della teoria copernicana, ma solo di difenderla, come lo stesso Bellarmino ammise prima di morire in un certificato da lui rilasciato a Galilei.
È innegabile, tuttavia, che il matematismo, attribuendo alla realtà una necessità di tipo matematico, è incompatibile con l'onnipotenza, ossia con la libertà di Dio, così come è innegabile che la Chiesa, condannando Galilei, commise una colpa gravissima contro la libertà di pensiero e di ricerca.