Presentiamo un nutrito numero di pagine del saggio dedicato da K. Loewith a Nietzsche in "Dio uomo e mondo. Da Cartesio a Nietzsche". In esso l'autore concentra sopratutto la sua attenzione sull'opera principale di Nietzsche, "Così parlò Zarathustra" e sulle principali implicazioni teoretiche delle dottrine della maturità.
Le dottrine di Nietzsche della «morte di Dio», del « nichilismo» da essa derivante, un nichilismo che esige il superamento dell'uomo cristiano nel «superuomo», e infine la dottrina del «mondo», che in quanto natura rappresenta una «volontà di potenza» che vuole se stessa e un «eterno ritorno delle medesime cose », non costituiscono dei frammenti dottrinali nel senso tradizionale, bensì rientrano nell'unico tentativo di «ri-fidanzamento» col mondo, dal quale avevamo divorziato in seguito alla lotta vittoriosa del cristianesimo contro la venerazione pagana del cosmo. L'intima connessione tra morte di Dio, superuomo e mondo che vuole se stesso non viene come tale fatta oggetto di riflessione particolare da Nietzsche, ma solo frammentariamente enunciata e per parabole.
Per riconquistare il mondo, perdutosi col cristianesimo, è necessario una metamorfosi dello spirito. Di questa tratta il primo discorso di Zarathustra; essa costituisce chiave del sistema di pensiero di Nietzsche. Cammello, leone e fanciullo sono figurazioni rispettivamente dello spirito del Tu devi, dell'Io voglio e dell' Io sono. La prima metamorfosi dello spirito nello spirito docile del «Tu devi » non fa appello a un terminus a quo; essa ha le sue radici nello spirito del cristianesimo e nell'«ideale ascetico» dei quali parla la terza trattazione della Genealogia della morale. Lo spirito obbediente, che non vuole la volontà propria, bensì la volontà di Dio, venera ciò che viene dall'esterno e sopporta pazientemente quanto vi è di più pesante. Addossarsi il carico più pesante significa umiliarsi per ferire il proprio orgoglio, e lasciar rilucere la propria stoltezza per gabbarsi della propria sapienza. Oppresso da questo carico si affretta il cammello verso il deserto, dove lo spirito si trasforma nel leone che divora ogni rispetto di Dio e di un padrone estraneo, per catturare nel proprio deserto la sua preda, cioè la libertà di essere se stesso. Il leone trasforma il «Tu devi», imposto dall'esterno e proprio della fede e della venerazione insita in essa, nell'«lo voglio» ch'esso stesso pronuncia, e diventa in tal modo padrone di sé in quanto comanda a se stesso ciò che vuole. Ma di creare nuovi .valori non è in grado neppure il leone. Esso può soltanto conquistare la libertà in vista di nuove creazioni, opponendo il suo «No» a Dio e al dovere, che gli dicono: «Tu devi». L'ultima e la più difficile metamorfosi, quella dall'«Io voglio» nell'«lo sono» del fanciullo cosmico, è un «ricominciare», un «primo movimento» senza inizio e senza fine alcuno, una «ruota che gira da sé» 2 e, nei rispetti del volere che si propone degli scopi, un «giuoco», al quale il fanciullo ride stato dice il suo «santo Si», laddove soltanto in un «santo No» consisteva la mera volontà nel proprio deserto. È vero che il volere libera, ma libera con ciò stesso da tutto per il nulla, «poiché l'uomo preferisce volere il nulla piuttosto che non volere», come dice l'ultima frase della Genealogia della morale. Propriamente il fanciullo non vuole nulla; non ha né volontà né avversioni: vive nella libertà del «giuoco della creazione ». «Affinché il creatore stesso sia il bimbo che rinasce, occorre ch'egli voglia essere anche la partoriente e il dolore della partoriente » 3. Come un bimbo in tal modo rinato «colui che ha perduto il mondo» si è riconquistato il suo proprio mondo. Il «fanciullo» dell'ultima metamorfosi si rapporta polemicamente al messaggio cristiano del regno di Dio, in cui pervengono solo coloro che sono fiduciosi e pronti a credere come fanciulli e si rifà in senso positivo al fanciullo cosmico eracliteo, che creando e distruggendo gioca innocente sulla spiaggia del mare. Il fanciullo è «oblio», perché vive in ogni momento completamente nel presente, senza ricordarsi e senza pentirsi di ciò che non può ritornare, senza attendere quel che accadrà in futuro e senza sperarvi. Non è disgiunto in sé o è nuovamente giunto alla pienezza del suo essere, nell'innocenza cosmica dell'essere perennemente diveniente.
Poiché la suprema istanza di ogni «Tu devi» relativo agli imperativi morali è costituita dal Dio cristiano,.il quale una volta ordinò all'uomo che cosa debba fare, la morte di Dio è insieme il principio della volontà, che vuole sé stessa nell'uomo. Nel deserto della sua libertà l'uomo preferisce volere il nulla piuttosto che non volere; infatti è «uomo» - liberato si da Dio - solo in quanto vuole se stesso. Morte di Dio significa risurrezione dell'uomo rimesso alla propria responsabilità, dell'uomo che comanda a se stesso, e la cui suprema libertà consiste nella «libertà di fronte alla morte». Ma al limite estremo di tale libertà la volontà del nulla si rovescia nella volontà dell'eterno ritorno dell'identico. Il morto Dio cristiano, l'uomo posto di fronte al nulla e la volontà dell'eterno ritorno, che vuole liberamente il fatum, contraddistinguono il sistema di Nietzsche nel suo complesso come un movimento, dapprima dal «Tu devi» alla nascita dell'«Io voglio» e quindi alla rinascita dell'«Io sono», in quanto «primo movimento» di un'esistenza eternamente ritornante entro il mondo naturale di tutto ciò che è. Una «doppia volontà», che si libera dalla raggiunta libertà per il nulla verso l'amor fati, rovescia l'estremo nichilismo di un'esistenza decisa al nulla nella necessità di volere l'eterno ritorno delle medesime cose.
Tre figure contraddistinguono il cammino che procede dallo spirito libero nel senso della negazione al maestro dell’'eterno ritorno. Il viandante accompagnato dalla sua ombra raffigura il procedere fino ai limiti del nulla. Il viandante accompagna il sovrumano Zarathustra, anche questi ancora per via come ombra del primo, e al posto di Zarathustra subentra alla fine il dio Dionysos, di cui Nietzsche, al termine del suo cammino, pensa di essere l'ultimo discepolo. La posizione dionisiaca di fronte all'esistenza accetta una volta per tutte la totalità dell'essere e del tempo, e con essa si raggiunge l'ultima e «suprema» posizione di fronte all'esistenza, al di là del bene e del male, ma non al di là del, nobile e del meschino. In conformità di tale interpretazione dionisiaca del mondo, lo stesso Dionysos philosophos rappresenta la « forma suprema dell'essere ». In tal modo nell'amor fati l'auto affermazione dell'essere eternamente ritornante si congiunge all'eterno « Sì », che l'esistenza propria pronuncia di fronte al tutto dell'essere.
O scudo della necessità!
Costellazione suprema dell'essere!
- che nessun desiderio raggiunge,
che nessun No deturpa,
eterno Sì dell'essere,
eternamente io sono il tuo Sì: perché ti amo, o eternità!
L'« eternità» di cui parla Nietzsche e nel ricordo della quale si conclude il «canto del Sì e dell'Amen », alla fine della terza parte dello Zarathustra, ripreso poi alla fine della quarta parte, non corrisponde all'eternità del Dio biblico, eternità senza tempo (aeternitas) in quanto anteriore alla creazione, ma significa invece tempo eterno (sempiternitas), tempo cosmico perenne, ciclo eterno del nascere e del perire, in cui si identificano l'immutabilità dell'«essere» e il continuo mutamento del «divenire ». Ciò che «sempre» è non è atemporale, e ciò che rimane sempre identico non è temporale nel senso di un mutamento progressivo. Sotto lo scudo della suprema necessità, il «caso» dell'esistenza umana divenuta eccentrica si ritrova nuovamente nella totalità dell'essere vivente, cioè nel mondo. Il tentativo nietzschiano di «ri-fidanzare» l'uomo col mondo è una ripresa, al limite estremo della modernità, della certezza antica del mondo.
Tale tentativo risulta chiaro se si considera la differenza significativa tra il primo discorso di Zarathustra e le prime frasi dei Principia di Descartes, il quale dubitò tanto radicalmente della certezza del mondo, oggetto dell'esperienza sensibile, da ritenere che l'esistenza di esso potesse essere provata solo sulla base di una dimostrazione dell'esistenza di Dio. «Poiché noi venimmo al mondo bambini, e pronunziammo tanti giudizi diversi sugli oggetti sensibili, - prima di pervenire al pieno uso della nostra ragione, molti pregiudizi ci impediscono di conoscere il vero. Sembra che noi non possiamo liberarci altrimenti da questo se non decidendoci una volta nella vita a dubitare -di tutto ciò, della cui incertezza possa nascere in noi anche il minimo sospetto». Nietzsche mette in dubbio la validità di quésta via verso la certezza; e fonda la sua nuova certezza proprio nel fatto che Zarathustra, percorrendo la sua via verso la verità, si «risveglia» in ultimo fanciullo-cosmico, il quale è «oblio», è un «ricominciare», ma non «una volta» per sempre e per mezzo del dubbio, bensì sempre di nuovo e col giuoco della creazione. Risvegliatosi fanciullo Zarathustra è divenuto libero non solo dall'autorità del «Tu devi» - da cui Descartes ci aveva già liberato -, ma anche da quella dell'«Io voglio» dubitare di tutto ciò che finora mi ha tenuto legato.
Questa nuova certezza del mondo, la quale permette a Zarathustra di « precipitarsi con gioia nel caso », viene conquistata da Nietzsche proprio perché - al termine estremo della modernità, ove non v'è più nulla di vero - egli rimette in dubbio il dubbio moderno di Descartes. È vero che Descartes dubita di essere nella verità, perché Dio potrebbe anche essere un ingannatore, però si assicura del fatto che l'inganno è inconciliabile colla perfezione divina. Contro questo il «nuovo illuminismo» nietzschiano, per il quale non si tratta più di dubitare dell'esistenza di Dio, bensì di riconoscerne la morte, assume come «punto di partenza» 1'«ironia contro Descartes» e contro la sua «faciloneria» nel dubbio. Infatti il principio cartesiano: «non voglio essere ingannato» potrebbe rappresentare pur sempre il mezzo di cui una volontà più profonda e più sottile sì -serve per ingannare se stessa, ove l'inganno consiste nel fatto che volere la verità per Descartes non significa voler accettare per vere anche le sembianze, sotto le quali la verità dell'essere appare. La sua ragione razionale costruisce un mondo retrostante a quello che appare alla vista, per potere, in un mondo così predisposto, essere certo di esso.
Il punto di partenza cartesiano, cioè la certezza immediata di sé, del proprio Io sono, è condizionato dal cristianesimo, non è l'originaria certezza del mondo. Vi è in sostanza certezza possibile nel sapere o è la certezza radicata soltanto nell'essere? E che cos'è il sapere della conoscenza in confronto all'essere?
«Per colui che può rispondere a tutte queste questioni con articoli di fede già pronti, la prudenza cartesiana non ha più alcun senso: essa arriva troppo tardi. Prima della questione dell'essere, dev'essere decisa la questione del valore della logica».
L'« essere» - per Descartes - è già predeterminato come essere-conoscibile, poiché egli crede nel sapere scientifico, ma non vede il vero volto, senza veli, della forma suprema dell'essere vivente come tale . La distinzione cartesiana tra un mondo vero (matematicamente concepito) e uno apparente (sensibile) non riguarda soltanto la fisica e la metafisica dell'età moderna. La vera origine di tale distinzione risale al tempo in cui il cosmo visibile fu privato del carattere divino, attribuito invece a un Dio invisibile il cui regno non è di questo mondo, mentre quest'ultimo viene inteso come creazione mancante di autonomia, creazione che in quanto tale, ove Dio avesse voluto altrimenti, sarebbe potuta anche non essere o almeno essere diversa.
Ma se il mondo non viene più inteso come creazione di Dio né l'uomo come immagine di Dio, muta necessariamente il senso del mondo e dell'uomo, insieme col loro rapporto. Un abbozzo giovanile sul tema «Verità e menzogna in senso extra-morale» (X 189; cfr. XVI p. 3 e sgg.) stabilisce in tale rapporto il primato assoluto del mondo. La «condition de l'homme» è, per dirla con Pascal, caratterizzata dalla «disproportion», consiste cioè in una sproporzione tra uomo e mondo che, per Nietzsche, non rinvia più ad una soluzione trascendente in Dio, ma conduce a un'aporia senza soluzione, poiché non esiste un passaggio dal senso extra-morale, cioè cosmico, della verità a un senso morale-umano di essa. «In un qualsiasi cantuccio sperduto dell'universo, il quale si distende in innumerevoli sistemi solari col tremolio delle loro luci, c'era una volta un astro sul quale degli animali intelligenti inventarono la conoscenza. Fu il minuto più superbo e più menzognero della "storia universale": ma pure solo un minuto. Dopo pochi respiri della natura l'astro si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero morire. Così qualcuno potrebbe inventare una favola, eppure con essa non avrebbe sufficientemente illustrato in che forma pietosa, vaga, fuggevole inutile e arbitraria l'intelletto umano compare entro la natura. C'erano eternità in cui esso non era; quando esso scomparirà nuovamente, non sarà successo nulla. Infatti per quell'intelletto non esiste una missione che si estenda al di là della vita umana».
Il mondo naturale è « in sé », in esso soltanto l'uomo è «per sé» e la totalità del vero sembra essere inaccessibile allo sguardo dell'uomo gettato nel mondo. Non si comprende: «Donde diavolo venga, in tale stato di cose, l'istinto della verità!» L'uomo vive racchiuso nella «stanza della sua coscienza» e in pari tempo gettato nel mondo naturale, ma «la natura gettò via la chiave», con cui si potrebbero aprire le porte per accedere ad essa, e «guai alla fatale curiosità, che dalla stanza della sua coscienza potesse una volta guardar fuori e sotto», per poi presagire che l'uomo viva sospeso ai «sogni» come sul «dorso di una tigre».
(pp103-110)
Nietzsche congiunge nel suo pensiero cristianesimo e platonismo, e. vede iniziare con Platone il processo di decadenza del mondo «vero », dato che la fede cristiana, per i suoi sviluppi teologici, si appropriò della filosofia greca e soprattutto del neoplatonismo. Platone divenne «compartecipe» della rivelazione cristiana - un topos sempre ritornante dell'apologia cristiana. Il cristianesimo interpreta retrospettivamente la dottrina platonica delle idee, cioè in senso analogo al regno di Dio, come una dottrina del mondo sopra sensibile, del mondo vero, superiore e retrostante a quello sensibile, apparente.
Di questa storia del retro-mondo meta-fisico occorre spiegare solo l'ultimo paragrafo, il quale contiene più di quanto vi si dice testualmente. Infatti se con Zarathustra si conclude la storia del più lungo errore, cioè la «menzogna di due millenni », com'egli chiama il cristianesimo, ne consegue che col suo «preludio ad una filosofia del futuro» Nietzsche si rifà agli inizi, anteriori alla tradizione cristiano-platonica, cioè ritorna nell'ambito della «filosofia nell'epoca tragica dei greci», filosofia che costituiva già l'ar-gomento di uno dei suoi primi scritti. Abolire il mondo vero e con ciò stesso quello apparente, nei rispetti della sopraesposta aporia, risultante dall'antitesi tra un mondo che noi veneriamo e un altro che siamo, significa rendere superfluo il sopprimere noi stessi, poiché non possiamo né ritrovare né realizzare quel mondo ideale in questo reale. Nell'ultimo paragrafo si fa soltanto accenno alla continuazione, che dovrebbe essere condotta così: lo, Nietzsche-Zarathustra, sono la verità del mondo, poiché io per primo, al di là dell'intera storia del più lungo errore, ho riscoperto il mondo quale era anteriormente a Platone. lo non voglio null'altro che questo mondo eternamente ritornante, non più estraniato da me, e che è insieme mio Ego e mio Fatum; poiché io stesso mi voglio sempre di nuovo, come un anello nel grande anello del mondo-che-vuole-se-stesso.
Se il «culmine dell'umanità », il suo «mezzogiorno», che è un istante dell'eternità («Mezzogiorno ed eternità» era un titolo previsto per lo Zarathustra) coincide con l'abolizione del mondo vero e di quello apparente, ne consegue che l'essenza dell'uomo, che si è superato, viene a identificarsi coll'essenza del mondo. Di questo mondo che tutto abbraccia e che non è solo al di. qua del vero e di ciò che è apparente, ma anche al di là del bene e del' male, tratta un frammento della Volontà di potenza, della quale lo Zarathustra rappresenta 1'«atrio». Egli è dunque l'accesso alla Volontà di potenza, opera rimasta incompiuta, poiché già il superuomo, che si è liberato da Dio, non è un'estrema soggettività, bensì proprio «la forma suprema dell'essere», così che nella sua anima «tutte le cose» trovano «la loro corrente e la loro controcorrente, il loro flusso e riflusso». La Volontà di potenza rappresenta il tentativo di dare una nuova «interpretazione del mondo» e quindi un'«interpretazione di tutto ciò che accade »; ma in quanto interpretazione di tutto ciò che accade essa è insieme un'interpretazione dell'essere umano - sotto il nome di Volontà di potenza, designante l'essenza vitale di tutto l'essere. Il mondo vivente. e l'uomo in carne ed ossa rivelano entrambi la natura di tutto l'essere in quanto processo e accadimento. Questo mondo naturale che tutto abbraccia, «l'anello degli anelli», non è creato né da un Dio né dall'uomo. Esiste semplicemente, come fatto supremo, da tempo immemorabile. «Il mondo sussiste; non è nulla di diveniente, nulla di perituro. O piuttosto: esso diviene, perisce, ma non ha mai cominciato a divenire né ha mai cessato di perire esso si conserva in entrambi i processi ... Vive di se stesso: i suoi escrementi sono la sua nutrizione» In quanto tale mondo sussiste perennemente, cioè nasce-perisce, il suo sussistere non ha un fine né una meta trascendenti, e quindi non ha neppure un «a-cui», inteso come «senso». La sua più antica nobiltà è quella di essere «del Puro Caso», un caso tanto comprensivo però, da assorbire in sé anche il caso «uomo». (pp.112-114)
Per quanto Nietzsche, però, abbia l’intenzione di dare un significato mondano alla «volontà di potenza»e di non ridurla alla volontà umana, pure non si può misconoscere il fatto che la sua concezione del «carattere complessivo della vita» come «volontà di potenza» sorge da un'esperienza storicamente determinata, al modo stesso in cui la dottrina dell'eterno ritorno presenta, accanto all'aspetto cosmologico, un aspetto antropologico e morale, tenendo conto del quale non si può comprendere tale dottrina in senso unitario e continuo. Che l'idea di una volontà, che pone a se stessa dei fini e preferisce volere il nulla piuttosto che non volere, non sia atta a designare il moto cosmico, circolare e senza un fine, risulta già dal fatto che Nietzsche stesso in entrambe le versioni ritira in parte, con quel «se non ...», la definizione del moto cosmico mediante la parola «volontà», dato che solo impropriamente si può dire che un moto circolare abbia una «meta» e che un anello possieda la buona volontà di raggiungere se stesso. La parola volontà non può venir impiegata in modo appropriato, perché il fine, la meta e gli scopi del volere umano puntano su un futuro e non sulla presenza eterna del cosmo.
L'intera metafisica del volere, però, è improntata secondo il modello della teologia cristiana e della sua escatologia, per le quali il mondo presuppone una volontà divina, che lo creò in funzione dell'uomo e in vista di un fine ultimo. Il rapporto decisivo per tutto il pensiero biblico non è quello dell'uomo mortale con un mondo eternamente presente, bensì quello tra Dio e l'uomo sulla base della loro volontà. L'uomo è al mondo per seguire la volontà di Dio, mentre il peccato consiste nel seguire la volontà propria. La volontà, insieme coll'appetitio della vita beata e con l'amore naturale per la vita, costituisce la struttura fondamentale dell'essere-uomo. La concezione agostiniana dell'uomo comprende appetitio, velle e amare in senso uno e trino.
Tale teologia del volere che «desidera ed ama» permane, mutando di forma, fino alla metafisica della volontà di Schelling, Schopenhauer e Nietzsche, il quale, pur compiendo il suo esperimento in un mondo liberatosi da Dio, si attiene tuttavia ad una caratterizzazione dell'uomo e del mondo fondata sulla volontà. Questi però non può più porre la questione del mondo in quanto tale, come la posero i greci, ossia prescindendo dal ripiegamento su se stesso e semplicemente dal punto di vista del mondo. Tra i tanti scritti greci «Sul mondo» quale avrebbe mai posto, insieme a Nietzsche, la questione anticristiana: «Sapete voi anche cos'è" il mondo" per me?», per riconquistare il mondo come il «suo» proprio mondo, e quale avrebbe aggiunto a questa questione egocentrica l'altra complementare: «E che cosa voglio io, se questo mondo - voglio?»a tal segno Nietzsche pensa dal punto di vista di un volere che si è liberato da Dio, e conseguentemente poi egli contesta al mondo, che vuole sempre di nuovo se stesso, meta e fine, scopo, valore e senso.
Conquista dello spirito scientifico su quello religioso che crea gli dèi, è l'essere giunto a riconoscere che il mondo, in quanto uno e tutto, consistente in una determinata quantità di forza e di energia, non ha alcuna meta, alcun fine, e quindi neppure «senso» alcuno 8. Ma se il mondo, in quanto continuo divenire, non ha una meta in cui consista il suo senso, esso ha allora in ogni istante «il medesimo valore », o in altre parole: non ha alcun valore, mancandogli un termine al quale possa essere commisurato e secondo il quale lo si possa valutare. «Il valore complessivo del mondo non può essere misurato» 9. Non gli si può quindi attribuire una «coscienza universale». Per il fenomeno universale della forza vitale la consapevolezza rappresenta solo un mezzo in più nel dispiegamento e nel potenziamento della vita. Sarebbe ingenuo voler spiegare la totalità del mondo vivente movendo da concetti particolari quali coscienza, spirito, ragione, eticità, morale e cosi via. Pure se si abbandona l'ipotesi di una coscienza universale che pone il fine e il mezzo, si abbandona insieme l'idea di un Dio superiore al mondo, un Dio che ha creato il mondo in funzione dell'uomo, e si abbandona a maggior ragione l'idea secolarizzata di un «ordine morale dell'universo» (VII 389).
Con l'abbandono dell'idea dl un volere divino cosciente, di intenzioni divine e di 1m ordine morale dell'universo, il mondo riappare com'è in origine: al di là del bene e del male, «innocenza del divenire» inclusiva dell'uomo, del quale nessuno, né un Dio né l'uomo medesimo, ha colpa. Il fatto che l'uomo esista in quanto tale e che sia cosi come è rientra nella fatalità di tutto ciò che esiste. Ma se si riconosce che l'uomo appartiene al tutto del mondo ed è, essenzialmente, solo in questo tutto, e se all'infuori di questo tutto non può esistere nulla a cui ciò possa venir commisurato e secondo il quale possa essere valutato, si è raggiunta una «grande liberazione », tanto dalla colpa quanto dal fine. L'uomo, prodotto casuale del mondo della natura, non ha colpa alcuna al cospetto di un Dio, causa prima di tutte le cose. « Solo con tale liberazione da Dio redimiamo il mondo », lo riscattiamo cioè a se stesso, in senso inverso quindi a quello che intendeva Agostino dicendo che Cristo ha liberato il mondo dal mondo stesso. «L'ateismo si accompagna necessariamente a una seconda forma di innocenza». L'a-teismo del diciannovesimo secolo trova il suo compimento in Nietzsche, il quale torna a riconoscere il mondo come mondo. Esso cessa quindi di essere a-teismo. (pp.117-120)
Il Così parlò Zarathustra doveva essere, secondo l'intenzione del suo autore, 1'«atrio» della costruzione incompiuta della Volontà di potenza che - come tutti gli scritti posteriori allo Zarathustra - rappresenta il tentativo di compiere un «rovesciamento» di tutti i valori tradizionali, cioè cristiani, mediante il progetto di una nuova «interpretazione del mondo», liberatosi da Dio. La «morte di Dio» richiede in primo luogo un superamento dell'uomo tradizionale, cristiano, verso il «superuomo», e rende possibile la riconquista del mondo. Nella prefazione dello Zarathustra si racconta come questi incontri un santo vecchio, che canta inni di lode a Dio, senza sapere che il suo padrone non vive più. Nell'ultima parte dello Zarathustra questi incontra un altro santo, l'ultimo papa, il quale sa già che Dio è morto e perciò si trova «a riposo ». Nel corso del dialogo il pio papa chiama Zarathustra, che si è liberato da Dio, «il più pio di tutti i senzadio». Zarathustra, che senza ambagi chiama s'e stesso «colui che si è' liberato da Dio», sorge contemporaneamente alla discesa e al tramonto di Dio. E dato che questo Dio costituì per due millenni il senso e il fine dell'uomo e del mondo, la prima conseguenza della sua morte è il «nichilismo », ossia il riconoscimento che mondo e uomo non hanno né un senso né un fine. Non si può più dare alcuna risposta alla questione: «A che in sostanza l'uomo? ». Per poter continuare a vivere dopo la morte di Dio occorre una trasformazione, un superamento dell'uomo cristiano verso il superuomo. La seconda proposizione fondamentale cui Nietzsche dà particolare rilievo nella prefazione, dopo la prima affermante la morte di Dio, dice: «lo insegno a voi il superuomo» e significa che ora si è fatto necessario un superamento dell'uomo. La dottrina di Nietzsche del superuomo rovescia la dottrina di Cristo uomo-Dio, il superuomo tradizionale. Il quinto vangelo di Zarathustra vuole redimere dal «redentore» tradizionale, onde al posto dell'imitatio Christi subentra il tentativo di assimilare l'uomo al carattere complessivo della vita del mondo. L'uomo si deve superare per non finire nella nullità del nichilismo, sorto dalla morte di Dio, ovvero per non abbassarsi all'«ultimo» uomo, il più spregevole tra gli uomini. Deve vincere «Dio» e il «nulla». «Quest'uomo del futuro, che deve essere redento tanto dall'ideale tradizionale, quanto da ciò che da questo doveva derivare: la grande nausea, la volontà del nulla, il nichilismo, questo tocco della campana del mezzogiorno e della grande decisione, il quale libera novamente la volontà, restituendo alla terra la sua meta e all'uomo la sua speranza, questo Anticristo e Antinichilista, questo vincitore di Dio e del nulla - verrà necessariamente un giorno ...»(VII 396).
Il superuomo è il senso della terra. Come tale egli può rinunciare a tutti i retro-mondi meta-fisici e alle speranze soprannaturali in un regno di Dio. «Rimanete fedeli alla terra», dice la terza proposizione fondamentale della prefazione. Essa rappresenta la conseguenza tratta dalla morte di Dio e dal superamento dell'uomo verso il superuomo, conseguenza consistente cioè in un'esistenza soltanto terrena, senza trascendenza. Tale uomo terreno in carne ed ossa e mondanizzato nel vero senso della parola, il quale ora si accinge ad assumere il dominio del mondo - i padroni della terra sostituiranno Dio (XII 418) - deve restituire a se stesso la propria volontà e deve poter comandare a se stesso, poiché nessun Dio gli ordina più che cosa debba fare. L'aquila e il serpente avvolto intorno al suo collo, l'orgoglio e l'intelligenza, sono gli animali di Zarathustra. La superbia dell'orgoglio e la grandezza d'animo lottano contro l'umiltà di sottomettersi alla volontà di Dio, umiltà simboleggiata nel cristianesimo dall'agnello che si sacrifica volontariamente. Zarathustra, che si è liberato da Dio, cerca i suoi simili. «E sono miei simili tutti coloro che restituicono a se stessi la loro propria volontà e allontanano da sé ogni sottomissione» (VI 250). Una forma di sottomissione, però, è anche quella di pensare: «La cosa si aggiusterà ». Contro questo laissez faire e contro ogni mezzo volere Zarathustra dice: «Fate comunque ciò che volete ma siate innanzitutto in grado di poter volere ». Tuttavia, per quanto il principio dell'« lo voglio» subentri al posto dello spirito obbediente del «Tu devi », pure non si può misconoscere che anche la fede nella volontà di Dio' è determinata dalla volontà propria. È vero che il proprio « lo voglio» rappresenta quanto «rimaneva» della fede cristiana dopo il declino di essa, ma quel .che apparentemente è soltanto un residuo ne costituisce già anche il punto centrale. La volontà è già il principio della fede, perché il credente non vuole se stesso. Il nichilismo europeo, che si domanda: «se vuole», sorse, è vero, colla scomparsa della fede cristiana, ma già la fede cristiana stessa era sorta nell'ultimo periodo della civiltà antica, quando la volontà si era indebolita. Chi non riesce a perseverare nel dominare e nel volere, basandosi su se stesso, cerca appoggio e sostegno nella fede estrinseca che esista già un'altra volontà, la quale gli dice che cosa debba fare. Il significato del grande avvenimento della morte di Dio è la scomparsa dell'intero orizzonte, rispetto al quale l'uomo europeo si è spiegato da due millenni la propria esistenza.
La morte di Dio, però, in quanto origine del nichilismo, costituisce anche una via verso la serenità filosofica; infatti, nonostante l'offuscamento, derivante dapprima da tale nichilismo, ci si sente alleggeriti se nessun «Tu devi»aggrava più la volontà dell'uomo, dopo che la morte di Dio ha liberato l'uomo dalla coscienza della colpa e dal dovere di esistere, restituendogli la «Libertà di fronte alla morte». (pp.121-124)
Per comprendere rettamente il suo essersi-liberato-da-Dio occorre tener conto di quattro punti: 1) che in Nietzsche stesso, talvolta intempestivamente rivisse l'istinto religioso, che crea delle- divinità (XVI 380); 2) che movendo dal mondo che noi conosciamo non è dimostrabile l'esistenza del Dio umanitario del cristianesimo; 3) che Nietzsche rigettò definitivamente il Dio dell'Antico Testamento, rivolto innanzitutto verso l'uomo e giudice morale, come rigettò l'uomo-Dio, crocifìsso e redentore, del Nuovo Testamento, e che nella «festa dell'asino» dello Zarathustra parlò dell'uomo-Dio in tono oltremodo blasfemo, e 4) che l'unico Dio, nel nome del quale Nietzsche parlò, era il Dio greco Dionysos, perché per lui simboleggiava « l'accettazione del mondo e la trasfigurazione dell'esistenza più alte che finora si siano mai potute raggiungere sulla terra», mentre il Dio cristiano rappresentava per lui «la più grande obiezione contro l'esistenza». «Il Dio in croce è una bestemmia contro la vita, e fa accenno alla redenzione da questa; Dionysos, tagliato in pezzi, è una promessa di vita: rinasce eternamente e ritorna a sé dalla distruzione» (1052). I misteri dionisiaci festeggiano l'eterno ritorno nella volontà sessuale di generare. «Che cosa si garantiva agli Elleni con questi misteri? La vita eterna, l'eterno ritorno della vita; il futuro promesso e consacrato nel passato: il trionfante «Si» detto alla vita, al di là della morte e dei mutamenti; la vera vita come totale proseguimento della vita mediante la generazione, mediante i misteri della sessualità. Per questo il simbolo sessuale era per i greci il simbolo solenne in sé, l'autentica profondità di tutta la pietà antica. Tutti i particolari dell'atto della generazione, della gravidanza, del parto, suscitano i sentimenti più alti e più solenni ... non conosco simbolica superiore a quella greca, a quella dei misteri dionisiaci. Vi è in essi il più profondo istinto della vita, l'istinto, sentito religiosamente, dell'avvenire della vita, dell'eternità della vita, - il cammino stesso verso la vita, la generazione quale cammino santo ... Solo il cristianesimo, basato sul risentimento contro la vita, fece della sessualità qualcosa di impuro: gettò sterco sull'inizio, sul presupposto della nostra vita...». (Gotzendammerung 4). L'amore del Dio cristiano per l'uomo è l'« idea licenziosa di un uomo con una vita asessuata » (XI 313). È vero che l'unico Dio che Nietzsche accetta nel suo pensiero filosofico è, quanto al nome, un dio della mitologia greca; ma ciò che egli vuole con tal nome indicare è il mondo dionisiaco della vita eternamente ritornante, di una vita, cioè, che rappresenta la volontà mondana di autoconservazione e di auto-potenziamento. «Eliminiamo la somma bontà dal concetto di Dio: - essa non è degna di un Dio. Eliminiamo del pari la somma sapienza: - è la vanità dei filosofi l'origine...di tale stoltezza...Dio somma potenza - questo basta! Tutto deriva da questa, da questa trae origine - "il mondo"!» (1037). Dio si identifica col mondo, il quale è una volontà di potenza che vuole sempre di nuovo se stessa. A ciò corrisponde l'aforisma (150) contenuto in Al di là del bene e del male, nel quale si dice che «intorno a Dio» tutto diventa mondo. (pp.127-128)
Dato che Nietzsche non combatteva solo contro il Dio-Redentore, contro la morale cristiana e gli ideali, secolarizzati già da Saint Simon in senso sociale, di un cristianesimo «latente», ma anche per il mondo amorale, col ristabilimento del quale l'ateismo giungeva alla sua fine, egli poteva ritenere che «espressioni più antiche», quali atei, miscredenti, immoralisti fossero «ben lontane» dal riuscire a definirlo. L'«ateo» diventa un anacronismo quando non si crede più veramente nel Dio dell'Antico e del Nuovo Testamento, o anche solo in una religione della ragione pratica. Ma d'altro canto chi crede ancora, come Nietzsche desidererebbe, al carattere divino di un mondo compreso come nella concezione greca? Questa è la questione di fronte alla quale ci pone 1'«ateismo» di Nietzsche. Gli atei del diciassettesimo e del diciottesimo secolo, i «libres penseurs », contro i quali lottava Bossuet, dovettero ancora di· fendersi appassionatamente contro la fede ecclesiastica dominante e liberarsi da essa, e professarono la loro incredulità. Per, i critici della religione del diciannovesimo secolo questo distacco dal cristianesimo della chiesa era già divenuto facile, anche se legato a svantaggi mondani in campo sociale e politico, come risulta evidente dal destino di B. Bauer, di D. F. Strauss e di Feuerbach. Tuttavia nel diciannovesimo secolo l'ateismo divenne in generale l'ovvio presupposto del pensiero scientifico. Esso è, per dirlo con Nietzsche, «un avvenimento universalmente europeo» e il risultato del modo di pensare scientifico divulgato. Nietzsche parla perciò della vittoria dell'« ateismo scientifico ». Esso costituisce l'elemento vitale di ogni retto pensare. -« Ovunque oggi lo spirito operi con rigore e profondità e senza falsificare le monete, esso rinuncia all'ideale in quanto tale - l'espressione popolare designante tale astensione è « ateismo» -: se si prescinde dalla sua volontà di verità. Ma questa volontà, questo residuo di un ideale è '" quello stesso ideale nella sua formulazione più rigorosa e spirituale, assolutamente esoterico, privato di ogni costruzione esterna, e quindi non tanto un residuo di esso, quanto il suo nucleo. Di conseguenza l'ateismo assoluto e integro ... non si contrappone a quell'ideale, contrariamente a quanto parrebbe; l'ateismo è piuttosto soltanto una delle ultime fasi dello sviluppo di tale ideale, una delle sue forme conclusive, una sua conseguenza interna, - esso rappresenta la veneranda catastrofe di una bimillenaria disciplina mirante alla verità, disciplina che alla fine si vieta la menzogna imita nella fede in Dio ». (VII 480). La coscienza cristiana si è tradotta e sublimata nella coscienza scientifica, la quale si rivolta contro la propria origine, ponendo in questione l'eticità della morale vigente. Ponendo tale questione e attaccando il cristianesimo latente all'interno della morale, Nietzsche per primo ridestò a nuova vita quell'ateismo divenuto soddisfatto di sé, proprio della critica della religione del diciannovesimo secolo. Nietzsche non negò più, contrariamente a Feuerbach, soltanto il «soggetto» dei «predicati» cristiani, cioè Dio, ma negò anche e soprattutto i predicati stessi: bontà, amore, carità e cosi via. Egli osò trasmutare il valore delle virtù, contrapponendo alle virtù cristiane dell'amore di Dio, dell'obbedienza umile e dell'amore del prossimo, che esige l'oblio di sé, la «voluttà», 1'«avidità di dominio» e 1'«egoismo», inteso come ricerca di se stesso - «al di là del bene e del male», ma non al di là del nobile e 'del meschino (VI 274), in riferimento al «carattere complessivo» della vita, carattere che egli interpretò sulla base del principio universale dell'appropriazione, dell'incorporazione e del potenzia mento come volontà di potenza.. Infatti: «Che cos'è la vanità dell'uomo più vano rispetto alla vanità che possiede il più modesto, per il fatto che nella natura e nel mondo si sente "uomo"». Questa vanità troppo umana, la cui origine storica risale alla fede che l'uomo, essendo l'unica creatura fatta a immagine di Dio, occupi una posizione assolutamente privilegiata nella totalità del mondo della natura, non ha permesso di riconoscere il «testo originale» della natura umana, cioè di riconoscere l'uomo come una natura. Importa perciò «ritradurre» l'uomo nella natura di tutte le cose e «superare le numerose ... interpretazioni vane e i significati derivanti, che sono stati finora scarabocchiati e dipinti su quell'eterno testo originale che è l'homo natura; importa far si che l'uomo in avvenire stia di fronte all'uomo, come fa già oggi, indurito nella disciplina della scienza, stia di fronte all' altra natura, muto ai richiami dei vecchi uccellatori metafisici, che troppo a lungo gli hanno suonato col flauto: “tu sei di più! Tu sei superiore! Tu hai un'altra origine!”. - questo può essere uno strano compito, ma è un compito - chi potrebbe negarlo? » (VII 190).
La più vicina via d'accesso alla natura umana per l'uomo moderno, post-cristiano, non è più data immediatamente dalla vista e dall'indagine del mondo, bensì ancora soltanto dall’esperienza del proprio io in quanto esistenza greve del corpo. Una filosofia che afferma l'essere «per sé» dell'«esistenza» vede la natura soltanto negli impulsi, nei desideri, nella sensibilità dell'esistenza corporea, mentre 1'«altra» natura fuori di noi e in sé genera soltanto nausea, come in La nausée di Sartre.
Ma anche l'esperienza del corpo è divenuta per noi contraffatta, da quando - come abbiamo visto - col cristianesimo la filosofia ha cominciato a porre l'autentica essenza dell'uomo nello scio me vivere (Agostino), nel cogito me cogitare (Descartes), nell'«Io» che accompagna tutte le mie idee (di qualcosa d'altro) (Kant), nell'« autocoscienza» dello Spirito essente per sé (Hegel), nell'esistenza come essere «per sé» (Sartre) e nell'«Esserci» per il quale nel suo essere ne va di questo stesso essere (Heidegger), cioè nella ri-f1essione dal mondo su noi stessi, da quando, infine, la filosofia ha contrapposto questo alla natura intesa come essente fuori di noi, come estraneità, alterità ed esteriorità, poiché essa, a differenza dell'uomo, non è autocosciente. Dal tentativo nietzschiano di ritradurre o, per dirla con Schelling, di « depotenziare» l'uomo nella natura, consegue il fatto che Nietzsche distingua 1'«Io» autocosciente dall'«ipse» corporeo e ponga la questione dell'origine e dell'essenza della coscienza. Nell'«ipse», inteso come la dimensione più originaria, agisce e predomina «la grande ragione del corpo (Leib)». «Gli sprezzatori del corpo» non sono i ponti che guidano al superuomo, bensì uomini storpi, che interpretano moralmente come peccato il loro malessere fisiologico. Alludendo alla terza metamorfosi del primo discorso, cioè la metamorfosi del fanciullo ridestato, il discorso «Degli sprezzatori del corpo» dice: «Corpo io sono e anima - così parla il fanciullo. E perché non dovremmo parlare come i fanciulli? Ma l'uomo desto e sapiente dice: io sono tutto corpo e non sono null'altro all'infuori di esso; e l'anima non è che una parola per indicare un quid che si trova nel corpo. Il corpo è una grande ragione, una cosa molteplice con un senso solo: è guerra e pace, gregge e pastore; strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione ... che tu chiami « spirito »: un piccolo strumento e un trastullo della tua grande ragione. «Io», dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma più grande - e tu non vuoi credere in esso - è il tuo corpo con la sua grande ragione: essa non dice: «Io», ma fa da Io. Ciò che percepisce il senso, ciò che lo spirito conosce non ha mai fine in se stesso. Ma senso e spirito vorrebbero persuaderti che essi sono la fine di ogni cosa, tanto sono vani. Il senso e lo spirito sono strumenti e trastulli: dietro a loro vi è ancora 1'«ipse». L'«ipse» cerca cogli occhi dei sensi, e ascolta con gli orecchi dello spirito. E sempre sta in ascolto e cerca: confronta, soggioga, conquista, distrugge. Domina ed è anche il dominatore dell'Io».
Le numerose osservazioni concrete e le analisi della realtà incosciente- e della sua efficacia, osservazioni ricorrenti in tutti gli scritti di Nietzsche, non costituiscono soltanto una testimonianza del fatto che egli fosse psicologo e moralista; esse rappresentano momenti essenziali del fondamentale tentativo di ritradurre l'uomo nella natura e quindi nella vita del mondo. Nietzsche dunque riconobbe anche il significato sostanziale della dottrina di Leibniz delle «petites perceptions », molto tempo prima che con la scoperta freudiana dell'inconscio ne risultasse chiara la portata. «Ricordo la visione incomparabile di Leibniz con la quale ebbe ragione non solo rispetto a Descartes, ma anche rispetto a tutti quelli che avevano filosofato prima di lui la visione, cioè, secondo la quale la consapevolezza è soltanto un accidente della rappresentazione, non il suo attributo necessario ed essenziale, e quindi ciò che chiamiamo coscienza costituisce soltanto uno stato del nostro mondo spirituale e psichico (forse uno stato morboso) e assolutamente non questo mondo stesso», «Il problema della coscienza (più esattamente: del divenire-cosciente di-sé) ci si presenta soltanto quando cominciamo a concepire fino a che punto potremmo fare a meno di essa: e a tale inizio del concepire ci conducono ora la fisiologia e la storia degli animali (alle quali dunque sono occorsi due secoli per raggiungere il sospetto preveggente di Leibniz), Potremmo, cioè, pensare, sentire, volere, ricordarci, potremmo del pari «agire» in ogni senso della parola: e nondimeno non occorrerebbe che il tutto ci «entrasse nella coscienza» (come si dice metaforicamente). Tutta la vita sarebbe possibile, senza che essa si veda per cosi dire nello specchio: come realmente ancora oggi in noi la parte di gran lunga preponderante di questa vita si svolge senza questo rispecchiamento - e invero anche la parte preponderante della nostra vita pensante, senziente, volente».
Ma allora in fondo a che giova la coscienza, se in sostanza è soltanto un lusso? Nietzsche spiega la sua formazione sulla base del bisogno di comunicazione. L'uomo, a differenza dell'animale, dipende tanto dal suo simile ed è tanto costitutivamente sociale, da aver bisogno del linguaggio con la sua funzione mediatrice tra l'uno e l'altro. L'uomo è tale solo in quanto si esprime e partecipa la propria vita con gli altri. Il linguaggio non è monologo, bensì comunicazione dialogica, e Nietzsche avanza la supposizione che la coscienza si sia sviluppata, mossa dal bisogno di comunicazione. (pp.130-136)