Il Fedro, scritto da Platone probabilmente nel 370 a.C., è un dialogo tra due personaggi, Socrate e Fedro. Il dialogo è composto da tre discorsi sul tema dell'amore che servono come metafora per la discussione del corretto uso della retorica. Esse comprendono discussioni sull'anima, la follia, l'ispirazione divina e l'arte.
Il dialogo riguarda l'uso e il valore della retorica in connessione con l'educazione e la filosofia: sullo sfondo, a fornire il fondamentale inquadramento concettuale, permane il sistema delle idee e il metodo corretto per pervenire alla conoscenza della verità e per comunicarla. Fedro, un giovane ateniese appassionato dell'arte del discorso, incontra Socrate e con lui inizia a discorrere di retorica, mentre i due si recano fuori di Atene, nella valle dell'Ilisso, a est della città. Il luogo offre a Platone lo spunto per produrre una delle descrizioni ambientali più belle di tutta la letteratura greca.
In questo scenario di grande tranquillità e bellezza, Fedro racconta a Socrate di aver appena ascoltato un discorso, di cui ha la copia con sé, che l'oratore Lisia ha composto sull'amore, in particolare sull'opportunità di concedere i propri favori a chi non è innamorato, piuttosto che a chi lo sia. Socrate ascolta il discorso lisiano che Fedro legge e lo trova apprezzabile dal punto di vista della tecnica oratoria, ma scorretto nei presupposti metodologici e la tecnica perde di valore se non è sorretta dalla saggezza del pensiero.
Socrate, a capo coperto, compone quindi un suo discorso su eros, assumendo lo stesso punto di vista di Lisia, ossia su quanto sia preferibile concedersi a chi non è innamorato, ma partendo da una base filosofica che a Lisia mancava, consistente nella preliminare distinzione tra ciò che è bene e ciò che procura piacere. I tipi di rapporti presi in considerazione sono in gran parte quelli tra un giovane e un uomo dell'alta società, che fungeva da suo precettore e lo avviava alla vita sociale. Si tratta di relazioni comunemente approvate all'epoca, nell'ambito dei codici taciti della Pederastia.
L'amore di cui Socrate tratta in questo discorso sul modello lisiano costituisce solo uno degli aspetti di eros, la mania umana tendente al piacere. L'intento del filosofo, tuttavia, non è quello di contrapporsi a Lisia sul suo stesso piano: egli ha composto il discorso sull'amore umano, che tende al piacere e che trova maggior soddisfazione e interesse nel concedersi a chi non è innamorato, solo per dimostrare come, dal punto di vista tecnico, si possa elaborare una forma retorica migliore, corretta per deduzione di principi e densa di significato.
Ma non è questo aspetto di eros che può interessare chi tenda alla vera conoscenza. È necessaria, dunque, una palinodia, ossia un nuovo canto in onore di eros, che ne sviluppi ed esponga la vera essenza.
Il dialogo presenta, a questo punto, un terzo discorso, che costituisce il nucleo filosofico dell'opera e si iscrive nella metafisica delle idee che Platone andava disegnando nelle sue opere, ma che soprattutto esponeva e approfondiva nelle lezioni orali all'interno dell'Accademia.
Accanto all'amore quale mania umana, che ricerca il piacere fine a sé stesso e l'interesse contingente, esiste l'amore quale mania divina, su cui si incentra anche il discorso della sacerdotessa di Mantinea, Diotima, nel Simposio, che è tensione verso la conoscenza dell'essere.
Per comprendere pienamente la natura di questa forma di eros, è necessario esporre quale sia la natura della vita al di là dell'esistenza terrena.
L'anima degli uomini è tripartita in una parte razionale, una passionale e una volitiva: per analogia, può essere rappresentata come una biga dotata di ali, retta da un auriga che rappresenta la ragione e da due cavalli, uno nero ribelle e difficilmente governabile, che si identifica con l'anima concupiscibile, cioè con i desideri intensi, come quelli dovuti alla sessualità o alla gola, e uno bianco, che rappresenta l'anima irascibile, che sostanzializza la volontà e il coraggio. L'aggressività positiva o "grinta" o determinazione è rappresentata dal cavallo bianco, più obbediente alla ragione.
Le bighe alate costituiscono diverse schiere, guidate dall'anima di una divinità: tutte le schiere si muovono incessantemente e cercano di innalzarsi al di sopra del livello nel quale si trovano, per riuscire a gettare uno sguardo al di là verso ciò che esiste oltre il cielo, nell'iperuranio dove si estende la pianura della verità. Questa è la sede delle idee, la cui contemplazione è concessa solo agli dei e a chi, conducendo una vita retta secondo i principi del bene, è in grado di sollevarsi al di sopra della condizione media dell'uomo.
L'insegnamento del mito della biga alata è duplice: da un lato le passioni (i sentimenti e le emozioni) devono essere guidati dalla ragione (è l'auriga che decide dove deve andare il carro, non i cavalli) dall'altro le passioni non possono essere eliminate (senza i cavalli il carro si ferma) contro la posizione di alcuni socratici minori, che sarà poi la convinzione degli stoici, secondo la quale le passioni derivano da errori di giudizio e pertanto l'uomo saggio le deve estirpare, cancellare.
Ogni anima è soggetta a un ciclo di reincarnazione di diecimila anni: ogni mille anni vive un secolo sulla terra e nove secoli nell'aldilà. Solamente le anime dei filosofi riescono ad abbreviare questo ciclo a tremila anni, perché, usufruendo del metodo della conoscenza, riescono a contemplare più a lungo la pianura della verità, di cui le altre anime riescono a cogliere solamente una fugace impressione.
E tuttavia questo brevissimo istante di conoscenza risulta fondamentale perché lascia nell'anima il ricordo delle idee, una traccia della verità che può essere recuperata pienamente, attraverso l'anamnesi e la sollecitazione del ricordo, se l'uomo indirizza la propria conoscenza verso l'essere.
Tramite verso le idee e l'uno è eros, la divina mania, che spinge l'anima verso ciò che è bello, perché la bellezza è concatenata all'uno. La tensione verso un corpo bello aiuta a recuperare, nel profondo dell'anima, il ricordo dell'idea del bello: quando eros è libero di manifestarsi nell'incontro tra due amanti, la sua potenza esplode, pervade il corpo e l'anima di chi è innamorato, rende viva e splendente l'immagine della bellezza che rigenera a sua volta il ricordo, breve ma intenso, delle idee eterne e immutabili nella pianura della verità.
"Il filosofo è colui che conosce il vero significato e la vera funzione di eros, perché è consapevole del legame esistente tra eros, bellezza e verità.
Forte di questa conoscenza, il filosofo sa anche che la vera arte retorica è quella che si esplica a partire dalla conoscenza della verità: altre forme di discorsi, come quelli di cui Lisia fornisce un esempio, non sono altro che distorsioni della conoscenza, adatte solo per il piacere temporaneo e vuoto.
Ma Platone dice molto di più: non solo individua quale debba essere la vera sostanza del discorso, definisce anche quale sia l'unica tecnica corretta della retorica, che procede per unificazioni e progressive dissezioni, fino a recuperare l'unità originaria del concetto. Così come Socrate aveva iniziato il discorso individuando nel termine unico di eros una compresenza di motivi e lo aveva sezionato in una mania umana e una divina, procedendo poi per ulteriori separazioni, fino a ricomporre l'analisi in una complessiva visione di insieme, così il vero discorso è quello che procede per diairesis, separazione, e synopsis, visione unitaria, separando ogni elemento nelle sue parti costitutive, individuando, tramite l'analisi, quali siano le idee connesse con la materia, ripercorrendo infine le relazioni fra le idee fino a concepire la struttura dell'Uno.
Platone dichiara quale debba essere dunque la vera retorica, opponendosi consapevolmente a Isocrate, che viene espressamente citato nel Fedro quale giovane che non ha mantenuto le brillanti promesse, e alla sua scuola, dove si insegnava che alla base del bravo oratore dovesse esservi una buona conoscenza della storia: la composizione del discorso non vale nulla, invece, se non è sostenuta da quella forma di dialettica che, muovendo per disgiunzioni e unificazioni, pone come proprio fine la conoscenza del mondo delle idee.
La vera retorica è dunque quell'arte che si esplica nel quadro della conoscenza filosofica.
Ma Platone va molto oltre, giungendo a negare piena validità a qualunque discorso scritto, attraverso l'aneddoto, costruito artificiosamente, di Theuth e Thamus, narrato a Fedro da Socrate, verso la fine del dialogo.
Theuth, dio egizio delle arti e dei mestieri, dalla brillante intelligenza, corrispondente al greco Ermes, si presenta al faraone Thamus, magnificandogli l'utilità prodigiosa della sua ultima invenzione, la scrittura, capace di fissare in eterno le conoscenze umane: Thamus, tuttavia, rifiuta il dono, sostenendo che la forma scritta è in realtà nemica della vera conoscenza, perché il discorso vero è quello comunicato oralmente, capace di incidersi nell'anima di chi ascolta, mentre la parola scritta rimane fissata in una perenne e muta immobilità.
Al di là dell'aneddoto, Platone afferma, attraverso Socrate, che solo la comunicazione diretta tra maestro e allievo è capace di innalzare l'anima dello studente verso la vera conoscenza e, nel sostenere il valore della parola orale quale unico mezzo in grado di penetrare nell'anima di chi ascolta, di riflesso nega validità a tutti i suoi stessi scritti, quasi che tutti i dialoghi a noi pervenuti non siano altro che un semplice supporto mnemonico e una pallida copia dell'essenza del pensiero filosofico, cui avevano accesso solo gli studenti al più alto grado all'interno dell'Accademia.
Dopo la celebrazione dell'oralità, alla quale il sapiente affida la sua conoscenza, il dialogo si chiude con la preghiera che Socrate rivolge a Pan e alle altre divinità del luogo in cui si trovano lui e Fedro che sempre la bellezza alberghi in lui e lo faccia agire in accordo con la sua essenza.
Qual è dunque la caratterizzazione filosofica della retorica a cui il dialogo costantemente fa riferimento? Riportiamo per esteso un testo di uno dei più grandi filosofi del '900, Hans Georg Gadamer, che ha studiato in maniera profonda ed efficace Platone e la sua dialettica. Il testo non sempre è semplicissimo da seguire, anche per effetto di una traduzione troppo aderente alla costruzione della frase tedesca. Ma le lezioni serviranno a rendere più intelligibile la densissima pagina di Gadamer.
È nella critica della retorica, proposta da Platone nel Fedro, che il motivo dell'intesa (omologhìa) emerge, nella maniera più evidente, come la radice della teoria dialettica. Qui si trova anche la descrizione più chiara della dialettica. Qui, infatti, la sua struttura come la sua funzione vengono sviluppate adducendo esempi di discorso. In questa applicazione concreta la dialettica viene, per così dire, osservata in atto e non soltanto illustrata da esempi che potrebbero essere sempre condizionati dall'anticipazione della teoria. Qui non ci soffermiamo sulla dottrina dell'anima, contenuta nel mito del terzo discorso del Fedro. Il nostro interesse va unicamente al metodo del discorso, messo concretamente in atto, e alla sua spiegazione concettuale, sviluppata nella seconda parte del dialogo.
Che la teoria della dialettica trovi espressione, nel suo motivo originario dell'intesa (omologhìa), proprio nella critica della retorica, non è certamente un caso. Nella situazione del discorrere viene escluso il modo originario di attuazione dell'intesa, l'interrogare e rispondere. È appunto così che la situazione del parlare acquista un significato esemplare per la possibilità di rendere il linguaggio in se stesso un mezzo sufficiente d'intesa. Infatti il parlante, che vuole esprimere ad altri un'opinione su qualcosa, quando non possa accertarsi, con domande, del consenso degli uditori, deve presentare, nel suo discorso, la cosa così come vuole che essa venga compresa. Procedendo, in maniera apparentemente obbligata, da qualcosa, su cui l'oratore si sa anticipatamente in accordo con i suoi uditori circa l'oggetto in questione, il discorso deve determinare quest'ultimo, sul quale verte, nel suo essere in modo tale che ciò che, mediante esso, l'oratore vuole giustificare, derivi necessariamente da questa determinazione. Analogamente la dialettica è volta a comprendere la cosa nel suo essere in base a presupposti che, in quanto tali, hanno valore per tutti. Benché non miri a una vera intesa, ma alla persuasione, in quanto apparenza di vera intesa, la retorica a regola d'arte è un riflesso delle sue strutture.
Platone dimostra, anzi, come pure il dominio a regola d'arte di questa apparenza presupponga un'intelligenza dialettica. L'oratore non può certo far vedere come la cosa sia realmente, ma deve rappresentarla così come vuole sia compresa dagli uditori, tenendo cioè conto di quello che essi sono e di quella che è la loro opinione. In quanto però, attraverso tali idee previe, egli mira a far sì che la cosa venga compresa così come egli stesso la vede, questo itinerario di una presentazione della cosa, apparentemente obbligata, ma in realtà fondata su finzioni, deve essere guidato dalla comprensione del suo vero essere e dei suoi veri principi. L'inganno riesce soltanto se si spaccia per la cosa stessa qualcosa, che le sembra simile. Per poter ingannare si deve, quindi, sapere che cosa sia realmente la cosa, in modo da essere sempre in grado di spacciare per essa ciò che più le assomiglia e raggiungere così, gradualmente, il risultato propostosi (262 a b). Là dove la cosa è già conosciuta da tutti per quello che è, non ci sarà bisogno di una tale preparazione, ma l'oratore, in base alla comune comprensione della cosa, potrà sviluppare direttamente da quest'ultima quello che deve essere fatto nei suoi confronti. Là dove, invece, la cosa è discussa egli deve percorrere questo cammino: far vedere all'uditore, mediante il discorso, la cosa così come egli stesso la vede, per poi derivare dalla comune comprensione ciò che egli vuole che ne sia di essa (263 a ss.). Ciò però, se deve realmente derivare dal dominio dell'arte del discorso e non da una routine cieca e, quindi, mai certa del successo, richiede l'intelligenza dialettica di ciò che realmente la cosa è e nella cui luce va messo in chiaro questo suo essere.
Questa, pertanto, è la prima esigenza: assicurarsi che ciò di cui si parla venga necessariamente compreso allo stesso modo anche dagli altri. Secondo l'esempio del Fedro (237 ss.): se si vuole convincere qualcuno, che è meglio abbandonarsi a un non innamorato, gli si deve far credere che l'amore è qualcosa di cattivo. Ma un tale risultato può essere raggiunto con sicurezza solo quando si è certi che l'altro considera l'amore alla stessa stregua di colui che lo dichiara cattivo. Ma questa concordanza sulla natura dell'amore - che è in sé controversa - può essere raggiunta soltanto se fin dall'inizio lo si definisce sotto l'aspetto per il quale è già da sempre compreso anche dall'altro. Che esso sia un desiderio, è ovvio a tutti, come pure è evidente che questa definizione non è esclusiva dell'amore. È, quindi, necessario specificare che tipo di desiderio esso sia. Solo se si è certi che l'altro per amore intende la stessa cosa che noi, si può dedurre da questa comprensione del suo essere quale utilità o quale danno esso rappresenti per la persona amata. Ora, nel suo primo discorso, Socrate definisce l'amore del proprio simile come un desiderio irrazionale, quindi come una specie di follia. In quanto contrapposizione al desiderio razionale (alla sophrosyne) esso è, perciò, cattivo. Il danno, che esso minaccia di arrecare al ragazzo, viene ricavato da questa definizione. Nondimeno, più avanti, Socrate definisce questo discorso un logos inautentico, in quanto si pone in contrasto con il fatto riconosciuto, che l'eros è un dio. La riflessione su questo punto rende manifesto l'inganno implicito nella dimostrazione del primo discorso socratico: esso aveva premesso che, quanto a nocività, tutte le forme di follia sono simili (244 a). Ora però c'è anche la follia inviata dagli dei, e tale può essere pure la follia d'amore. Il discorso, che avesse voluto raggiungere il risultato propostosi con un ragionamento obiettivo autentico, avrebbe dovuto dimostrare che essa è inviata all'uomo per danneggiarlo (245 b); soltanto allora la dimostrazione della sua nocività sarebbe stata, non soltanto retoricamente cogente, ma anche obiettivamente vincolante, e cioè valida per tutto ciò che si chiama eros. Nella sua palinodia Socrate dimostra che, al contrario, questa follia divina dell'amore è data agli uomini come una benedizione.
Con questi due discorsi Socrate mette in luce i momenti strutturali della dialettica, i quali soltanto, dominati a regola d'arte, potrebbero rendere la retorica una vera scienza (265 c). Il primo di questi momenti è la sintesi della molteplicità dell'esperienza nell'unità di una visione. L'accordo su ciò che deve essere compreso come l'oggetto del discorso è la prima esigenza avanzata a quest'ultimo. Soltanto così esso ottiene il consenso; chi cioè vuole impartire un consiglio o un'istruzione su qualcosa, deve prima garantire una comprensione unitaria di ciò su cui si parla, alla cui luce potrà poi venire compreso tutto il resto (263 e). Se si trascura questa definizione di ciò che l'ente è nel suo essere, non si è sicuri, nello svolgimento del discorso, di rimanere in sintonia con se stessi o con gli uditori, in quanto si diranno cose che sembrano giuste rispetto a qualcosa d'altro che noi stessi o gli altri, all'improvviso, comprendiamo come denotato dalla cosa, ma non sono conciliabili con ciò che in precedenza si riteneva da essa denotato (265 d 3-7; da intendere in base a 237 c1-5). Soltanto nella prospettiva dell'essere unitario di ciò che ogni volta viene visto come eros, e eroe nella prospettiva dell'eidos dell'amore in sé, si può dire sull'«amore» qualcosa che non sia condizionato e, quindi, reso confutabile da esperienze casuali, ma gli competa necessariamente in virtù della sua essenza. La scoperta e l'acquisizione di questa prospettiva unitaria del logos è analogamente la condizione di possibilità dell'intesa.
Ora però i due discorsi socratici e, in particolare, la loro obiettiva contrapposizione (il passaggio dal biasimo alla lode, 265 c5) insegnano che un accordo generale sulla natura unitaria dell'amore non è ancora in grado di soddisfare sufficientemente l'esigenza di unità, posta con l'intenzione dell'intesa. Con l'espressione «desiderio irrazionale» non viene ancora colto in maniera soddisfacente l'essere specifico dell'amore. Esiste anche un altro desiderio irrazionale, diverso dall'amore. Questa definizione deve, quindi, venire divisa in specie se si vuole cogliere l'essenza specifica dell'amore.
La divisione viene compiuta tenendo conto della cosa da definire. Essa divide l'eidos in questione, non ciecamente o arbitrariamente, ma seguendone le articolazioni (265 e1 ), vale a dire le parti pure in esso presenti. Anche la singola parte deve avere un eidos, è detto nel Politico (262 b), essa cioè non può essere un semplice pezzo di qualcosa, che solo unito ad altri pezzi formerebbe un'unità, ma, in quanto parte, pure essa deve costituire positivamente, per sé, un'unità, deve cioè, al di là di tutto quello che ha in comune con tutte le altre parti della cosa, distinguersi da esse e, in virtù di questa distinzione, rappresentare a sua volta un'unità e una totalità per quanto è compreso sotto di essa, e soltanto sotto di essa, e non sotto una delle altre parti. Così, all'interno del desiderio irrazionale, il primo discorso socratico ha distinto la gozzoviglia, l'ubriachezza e, in terzo luogo, l'amore; a ciò corrispondono le quattro specie di follia divina, elencate nel secondo discorso. Soltanto mediante una tale divisione dell'unità in tante unità particolari si perviene all'adeguata definizione della cosa, all'oikeĩos lógos (logos consueto, cioè comune) del suo essere, nel quale trova espressione soltanto la cosa in sé, tenuta sempre presente, e nient'altro che non sia implicito in essa. Questo è l'eidos indivisibile della cosa, della quale solo con esso si ottiene la comprensione unitaria, richiesta dall'intesa: un logos che definisce in modo da escludere che, con quanto viene detto, uno pensi una cosa e l'altro un'altra.
Ora, in questa divisione, il primo discorso socratico ha commesso un errore, che dovrebbe venire attentamente evitato da un oratore, che (stando all'esempio) abbia l'intenzione di conquistare un giovane al piacere dell'amore, senza presentarsi come un innamorato, e che quindi, per uno scopo prestabilito, debba fargli credere che l'amore è qualcosa di cattivo. Quel discorso voleva far credere che il desiderio irrazionale (che solo più avanti Socrate chiamerà follia: 244 a, cfr. 265 a) si contrappone come il male alla riflessività in tutte le sue forme. Esso taceva sul fatto che la follia non è qualcosa di cattivo in senso assoluto, ed è appunto in virtù di questo silenzio sulla follia inviata dagli dei, e quindi per la messa in ombra delle distinzioni obiettive, che il discorso conseguiva il proprio scopo di denigrare l'amore.
La dialettica si rivela cosi come una condizione previa del perfetto dominio del discorso. Essa è la capacità di ricondurre la molteplicità dell'esperienza a una medesima unità e, in base a questa comune unità dell'óros (della definizione), di rendere disponibile nel logos lo specifico eidos della cosa in questione. Ma è soltanto in base a tale scienza del vero essere della cosa che la retorica può sostituire il logos vero con uno falso, che sia però simile al primo. Anzi, soltanto se si tiene presente la cosa in sé si può vedere che cosa, per quanto diverso, le assomigli al punto di poterlo spacciare per essa.
Ma anche all'interno dello specifico compito della retorica si può individuare una importante funzione della dialettica (266 c ss.). La dialettica non si presenta soltanto come un presupposto necessario per l'attingimento del vero contenuto, ma si rivela indispensabile anche all'interno di ciò che rappresenta l'autentica tecnica retorica. Essa infatti è data con la struttura della techne in generale. Ogni techne richiede una conoscenza della natura di ciò con cui essa ha a che fare. Oltre, quindi, alla familiarità con i normali strumenti tecnici della retorica, la tecnica del discorso richiede una conoscenza della natura di ciò su cui deve vertere il discorso condotto a regola d'arte della psiche umana, e questa presa di conoscenza è precisamente diretta a vedere da che cosa la natura dell'anima sia influenzabile e, viceversa, quali influenze essa, a sua volta, sia in grado di esercitare. Ma per poter individuare con sicurezza questa capacità di agire o di subire, intrinseca alla natura di qualcosa, si deve prima sapere se, in generale, questa cosa sia in sé unitaria o consti di elementi diversi. Nel secondo caso, infatti, per ogni sua singola specie si deve stabilire per sé da che cosa essa sia influenzabile e su che cosa, a sua volta, possa agire in virtù della propria natura. La pretesa, avanzata da ogni techne, di disporre, in maniera previa e certa, di ciò che si vuole produrre, richiede, quindi, che ciò, con cui essa ha a che fare - sia ciò su cui vuole agire (producendolo) che ciò con cui vuole operare -, non sia conosciuto soltanto nell'universale determinatezza del suo genere, ma anche nelle sue differenze specifiche.
La retorica deve, quindi, conoscere, anzitutto, nella loro natura, e cioè nella loro possibilità d'influenza, i diversi tipi di mezzi tecnici del discorso - e ciò è quanto viene insegnato nella normale techne retorica -, ma poi anche le singole forme dell'anima, sulle quali si deve agire, nelle loro singole, tra loro diverse, possibilità di venire influenzate e di influenzare. L'anima, infatti, che venga influenzata dal discorso, non soltanto cade preda di un «pathos», ma si lascia anche indurre, a sua volta, ad agire in base ad esso (270 d). Soltanto dal dominio di questi due elementi di attuazione del discorso deriva un reale dominio di quest'ultimo in quanto possibilità di persuasione, dominio che consiste nell'adattarlo, nella sua forma, alla particolare natura dell'anima in questione. Unicamente in base alla conoscenza delle diverse forme sia del discorso che dell'anima, oltre che della loro natura, si può sapere per quali motivi il primo debba venire sempre adattato in questo modo alla seconda (271 b). Il raggiungimento di unità ultime, di differenze specifiche ultime, è la condizione di possibilità, in ogni techne, di un atteggiamento e di un'attività realmente certi e intelligenti, e non ciechi. (Oltre a ciò occorre anche, naturalmente, l'esercizio pratico della techne [ad es. il persuadere], della capacità di sapere, nei singoli casi che si presentano, con quale natura universale dell'anima si abbia a che fare e, quindi, quali occasioni si offrano per un tale tipo di discorso. Questa capacità è una questione di percezione (271 c ss.), vale a dire di prassi.
In generale, dal Fedro si può desumere quale sia il contributo della dialettica alla possibilità della scienza e della techne: essa è il presupposto affinché, in generale, nella molteplicità della percezione, venga visto e si renda disponibile l'identico in quanto essenza unitaria del mutevole. Soltanto il logos fa sì che quanto in esso viene compreso nel proprio essere, in funzione dei rapporti pratici, si manifesti anticipatamente nelle possibilità del suo accordarsi con altri (del poter-essere con altri). Questa possibilità di accordo può verificarsi tanto tra specie del medesimo genere, quanto tra specie di generi diversi, che entrano in reciproco rapporto soltanto nell'azione. Essa può inoltre venire tanto prodotta (techne) quanto soltanto messa a disposizione (nel logos).
È ciò, dunque, a rendere la dialettica l'anima di ogni vera techne. Infatti, soltanto in quanto compreso nelle unità ultime del molteplice, l'ente diventa disponibile, alla stessa maniera che con un altro ente, inserito in altre prospettive di unità ultime, può stare in un rapporto di coesistenza o di esclusione reciproca. Ma la pretesa del sapere è questa: dimostrare come qualcosa di necessario l'effettiva compresenza di due enti, metterla cioè in luce in base alla coesistenza dell'essere dell'uno con l'essere dell'altro" (Hans Georg Gadamer).
Che tipo di insegnamento filosofico possiamo far emergere dalle potenti raffigurazioni platoniche, anche in vista di un affinamento del ruolo della retorica e della dialettica? Il primo elemento che va preso in considerazione è il significato dei tre discorsi attorno ai quali si snoda tuto il procedimento dialogico. Nel primo discorso, a detta di Socrate, Lisia mostra una certa debolezza argomentativa. Come ci ha mostrato anche la riflessione di Gadamer, per poter ben condurre il gioco della seduzione, che è qui in primo piano, è comunque necessario sviluppare attentamente i presupposti comuni tra gli interlocutori e questo percorso appare necessario se si vuole che l'argomentazione messa in campo risulti efficace. Per questo Socrate, accettando il punto di vista di Lisia, mostra come il suo argomentare sia fragile, a causa della mancanza di un adeguato processo dialettico che possa condurre a una chiarificazione fondamentale delle definizioni proposte. La ragione di questa attenzione può sembrare a prima vista strana, se si considera che la seduzione è in fondo una sorta di inganno nel quale si vuole attirare il giovane desiderato. Ma Platone precisa come anche chi vuole ingannare deve avere ben chiare quali sono le definizioni corrette per poterle manipolare e perpetrare così l'inganno. Dunque la tecnica retorica deve essere precisa e attenta, supportata dalla dialettica delle divisioni concettuali diairetiche. Ma queste definizioni non possono essere giustificate adeguatamente se si perde di vista l'intero al quale la parte fa riferimento. Si tratta della dimensione sinottica che deve accompagnare ogni definizione concettuale: solo chi vede l'insieme è in grado di indicare un ruolo adatto e coerente a ogni singola parte. Dunque dopo il secondo discorso emerge la superiorità della dialettica sulla retorica, ma non sarebbe ancora sufficiente per colmare l'aporia di partenza. Non a caso la palinodia sposta definitivamente il peso del dialogo dalla tecnica retorico-dialettica al significato ultimo del percorso. Se eros è mania divina essa non può definirsi nell'ambito della seduzione umana ma deve definire il significato delle passioni nella natura umana. Così emerge la necessità chiarificatrice che il mito della biga alata assolve. Il senso del mito è cosi inquadrato nella complessa realtà interiore della natura umana. L'auriga deve poter governare i due cavalli facendo in modo che il cavallo bianco, quello dello slancio generoso e determinato verso l'alto, possa spingersi verso il bello al di là della ricerca immediata del piacere e dei bei corpi. Cos'ha a che fare col problema dialettico l'analisi delle passioni umane? Se il cavallo nero spingendo verso il basso mettesse in primo piano gli aspetti più oscuri della ricerca del piacere, la retorica e la dialettica dovrebbero indirizzarsi alla seduzione e, inevitabilmente, all'inganno. Ma quando il cavallo bianco prende il sopravvento allora la passione sa dare il colpo d'ala che conduce l'anima a contatto con la pianura della verità e, pertanto, con lo splendore che da essa promana. Qui la dialettica può applicarsi alle definizioni che scaturiscono dalle distinzioni concettuali e portare verso una retorica che ponga alla sua base la bellezza in sé. L'appagamento superiore della bellezza cambia i termini e impone un rigoroso procedimento dialettico spinto dalla sete di bellezza che motiva il cavallo bianco. Non si può arrivare per davvero alla bellezza se non si rispettano tutti gli elementi concettuali che le appartengono. E solo dalla loro definizione può scaturire il premio stesso al desiderio di felicità che anima il cavallo bianco.
Perciò la retorica e la dialettica si allontanano o si avvicinano alla verità non perché strumenti (techne) favorevoli o contrari a una delle due possibilità, ma perché differente è l'auriga che governa i due cavalli. L'auriga, cioè la parte razionale dell'anima, rappresenta un incremento significativo rispetto alla tripartizione dell'anima che Platone aveva mostrato nella Repubblica. Quella tripartizione tendeva a sottolineare un aspetto particolare in rapporto al buon governo dello stato. Ma anche in quel contesto Platone non smetteva di sottolineare l'abnegazione che i custodi, cioè i filosofi e i guerrieri, dovevano avere per mantenere il loro ruolo a vantaggio dello stato. Qui il discorso si sposta verso la tensione profonda dell'animo umano. Mentre nella Repubblica la ragione deve guidare i filosofi verso le idee per legiferare, qui è lo sforzo per governare se stessi e le proprie passioni che chiede un'esaltazione radicale di tutta l'anima. È il suo stringersi nella mania divina per giungere a contemplare la felicità. L'auriga ha un ruolo non solo contemplativo come nella Repubblica, ma di guida della passione. Qui custodisce le passioni per ben condurle. Quasi come in una consumata rappresentazione teatrale, l'auriga implica l'azione drammatica: essa è il frutto dell'attività dell'anima pressata dai due cavalli, senza i quali anche il carro starebbe fermo e non potrebbe risalire verso la bellezza in sé. In questo contesto Platone esprime un giudizio di condanna della scrittura, spesso associato al problema delle dottrine non scritte, ma che potrebbe essere interpretato proficuamente anche all'interno dell'economia del dialogo stesso. Infatti, il punto di partenza del primo discorso di Fedro è lo scritto di Lisia. Uno scritto adatto a circuire e pertanto di per sé indifferente all'interlocutore. Ciò che conta in quel contesto è la seduzione. Il fatto che il dialogo dia in conclusione un giudizio negativo così netto sulla scrittura, sottolineando l'importanza del rapporto tra maestro e allievo sul piano personale, suona anche come un monito a non ridurre mai la scrittura a mera tecnica. Solo nell'incontro personale la parola diventa alata in quanto riconosce la verità delle definizioni, stabilisce l'omologia e può andare incontro al fulgore delle idee nella pianura della verità.