Il pensiero di Martin Heidegger (1889-1976), certamente tra i più grandi filosofi del Novecento, si presenta come il massimo tentativo di riproporre, nell'età della tecnica, i grandi problemi della filosofia, primo fra tutti il problema dell'essere.
Nato il 26 settembre 1889 a Meßkirch, nel Baden meridionale, Heidegger fu avviato dal padre, che era sacrestano del paese e che pensava a una vocazione del figlio, prima agli studi liceali e quindi a quelli di teologia cattolica nell'università di Friburgo.
Dopo due anni cambiò però facoltà, per dedicarsi alla filosofia.
Decisive furono per lui le letture giovanili delle Ricerche logiche di Husserl, della tesi di Brentano Del molteplice significato dell'ente secondo Aristotele (1862) e del trattato di Carl Braig Dell'essere. Compendio di ontologia.
Nel 1913 conseguì il dottorato con la tesi Die Lehre vom Urteil im Psychologismus (La dottrina del giudizio nello psicologismo), nella quale mostrava di aderire ampiamente alle critiche contro la concezione psicologistica della logica, che si andavano affermando nella filosofia tedesca di quegli anni specialmente per voce dell'imperante neokantismo e dell'incipiente fenomenologia.
Nel 1915 otteneva la libera docenza con un lavoro su Die Kategorien und Bedeutungslehre des Duns Scotus (La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto), presentato da Rickert, ma largamente influenzato dal pensiero di Lask e di Husserl.
L'incontro filosoficamente decisivo fu senza dubbio quello con Husserl.
Nelle Ricerche logiche di quest'ultimo, Heidegger si affannò a cercare la soluzione dei problemi che gli si presentavano dinanzi nel lavoro filosofico.
Ma il confronto con Husserl, a cui era rimandato anche dall'insoddisfazione nei confronti del neokantismo di Rickert, anziché risolvere, contribuì ad acutizzare i problemi e le difficoltà che il giovane Heidegger incontrava nella comprensione del senso della fenomenologia e nella sua traduzione in un proprio programma di ricerca.
Decisivo fu allora il fatto che nell'aprile del 1916 Husserl venne chiamato nell'università di Friburgo a succedere a Rickert, anche se dovette trascorrere qualche tempo prima che fra Husserl e Heidegger si potesse instaurare un rapporto.
Heidegger era stato infatti chiamato nel 1915 al servizio militare, e vi rimase fino alla fine del 1918.
Soltanto al suo ritorno a Friburgo, essendo divenuto nel 1919 assistente presso il Seminario di Filosofia dell'università di Friburgo, poté effettivamente iniziare il rapporto di collaborazione con Husserl.
Questi credette ben presto di vedere in Heidegger il proprio migliore collaboratore e intese avviarlo all'esercizio del metodo fenomenologico.
Mentre però Husserl andava trasformando la fenomenologia delle Ricerche logiche in un vero e proprio idealismo trascendentale, Heidegger - con un certo imbarazzo di Husserl, che in quell'opera non poteva più riconoscersi appieno - riscopriva l'interesse giovanile per le Ricerche logiche, in particolare per la sesta Ricerca, della quale lo interessava soprattutto la distinzione tra l'intuizione sensibile e l'«intuizione categoriale», che, assieme alla determinazione dell'intenzionalità e alla tematizzazione della funzione dell'apriori, gli appariva come una delle scoperte fondamentali della fenomenologia, che egli intendeva fare proprie.
Seguendo e radicalizzando la dinamica stessa dei problemi colti da Husserl, Heidegger imboccava la via verso la maturazione di un proprio pensiero originale.
A dispetto del disinteresse di Husserl per la tradizione filosofica, egli recuperava a quest'ultima la dimensione della storia e della tradizione e la declinava in un senso esplicitamente storico-ontologico.
Su questa linea si pongono già i primi corsi tenuti da Heidegger dopo la prima guerra mondiale, nei quali prorompe un'inconfondibile autonomia di pensiero: al centro di essi sta il problema della storicità e della fatticità della vita, che Heidegger tenta di cogliere a prescindere dalle categorie teoretico-metafisiche tradizionali, dichiarate incapaci di attingere ai caratteri originari della vita stessa.
Nel perseguire il filo conduttore di tale ricerca, l'intenzione di Heidegger non era quella di contrapporre alla metafisica tradizionale un nuovo irrazionalismo che si facesse portavoce e difensore dei diritti della vita e della storia contro gli esiti razionalistici della metafisica, ma piuttosto quella di arrivare a cogliere la vita stessa nei suoi caratteri più propri e originari, vale a dire nella sua storicità e fatticità, evitando i fraintendimenti insorgenti da un privilegiamento, più o meno inconsapevole, dell'atteggiamento constatativo e descrittivo della theoria.
Era questo il programma di una «ermeneutica della fatticità» sviluppato nei primi corsi di Friburgo, nei quali i riferimenti storici privilegiati erano pensatori come Paolo, Agostino, Lutero, Kierkegaard, Dilthey.
Ed era soprattutto Aristotele, del quale Heidegger andava allora tentando una nuova lettura «fenomenologica», intendendo oramai per «fenomenologia» qualcosa di ben diverso da Husserl.
L'originalità e la forza speculativa con cui egli urgeva in questa nuova direzione sono testimoniate dallo straordinario successo che contrassegnò il suo insegnamento e che procurò assai presto al giovane Heidegger, benché in quegli anni egli non pubblicasse nulla, una fama rapidamente diffusasi negli ambienti filosofici della Germania d'allora.
Fu grazie a questa fama precoce e soprattutto a un lavoro su Aristotele, rimasto inedito, che nel 1923, per interessamento di Natorp, Heidegger fu nominato professore a Marburgo.
Qui egli rimase fino al 1928, mantenendo tuttavia uno stretto legame con Friburgo, nei pressi della quale, a Todtnauberg, nella Foresta Nera, egli si era costruito verso la fine del 1922 una baita in cui era solito soggiornare nei mesi liberi dagli impegni universitari.
Il periodo di Marburgo fu per Heidegger estremamente fecondo.
Non solo per gli stimolanti rapporti che egli intrattenne con i colleghi della Facoltà, in particolare con Natorp, con Hartmann e col filologo classico Paul Friedländer.
Non solo per il formarsi intorno a lui di una schiera di allievi di rango, quali Karl Löwith, Hans-Georg Gadamer, Hannah Arendt, Hans Jonas e altri ancora.
Feconda fu soprattutto l'amicizia col teologo protestante Rudolf Bultmann, che lasciò un solco profondo nel pensiero di entrambi.
Gli anni di Marburgo spiccano nella biografia intellettuale di Heidegger soprattutto per la straordinaria fecondità di pensiero di cui egli diede prova, e che la serie di corsi di lezioni ora in gran parte pubblicati testimonia.
Essa culmina nell'opera che, pur essendo rimasta incompleta, va considerata il suo capolavoro: Sein und Zeit (Essere e tempo, 1927).
Proprio i corsi di Marburgo consentono di rendersi pienamente conto dell'ampiezza del lavoro che sta alla base di quest'opera e della radicalità del confronto con la tradizione che essa presuppone - confronto diretto in particolare ai grandi momenti fondativi della filosofia classica: Platone e Aristotele, Tommaso e Suárez, Descartes e Leibniz, Kant e Hegel.
In questo periodo Heidegger designa ancora il proprio lavoro filosofico come fenomenologia, ma il termine ha ormai acquisito un senso nuovo, definito in Essere e tempo (§ 7) come un «lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso».
Nell'accogliere dunque il principio husserliano dell'andare «alle cose stesse», Heidegger non intende seguire pedissequamente la fenomenologia nella sua «realtà» di movimento filosofico determinato, ma la sollecita piuttosto nelle sue possibilità, nel senso che la sviluppa secondo la dinamica speculativa da essa stessa innescata, ma non perseguita in maniera sufficientemente radicale.
La trasformazione che ne deriva può essere considerata come un radicale ripensamento del carattere segnatamente soggettivistico-trascendentale della fenomenologia husserliana in direzione di quella che Heidegger chiama ontologia fondamentale.
Il concetto chiave intorno al quale ruota tale trasformazione è il concetto di «riduzione».
Se per Husserl l'atteggiamento metodologico della riduzione era inteso in senso soggettivistico-trascendentale come una «riconduzione dello sguardo fenomenologico dall'atteggiamento naturale dell'uomo che vive nel mondo delle cose e delle persone alla vita trascendentale della coscienza e ai suoi vissuti noetico-noematici», Heidegger intende invece il termine in un senso dichiaratamente ontologico come una «riconduzione dello sguardo fenomenologico dall'ente alla comprensione dell'essere di questo ente».
Ma oltre a questa «torsione» ontologica, Heidegger produce uno scarto ulteriore rispetto a Husserl, esigendo un'«articolazione» del metodo fenomenologico che integri la riduzione, cioè la conversione dello sguardo dall'atteggiamento naturale a quello specificamente filosofico, con due momenti che ad essa si connettono strettamente e che sono la distruzione e la costruzione.
Il momento della distruzione implica il confronto con gli elaborati teorici e concettuali della tradizione, che, inevitabilmente presupposti, non vanno tuttavia assunti in un'accettazione passiva e acritica, ma sono invece da sottoporre a un vaglio e a una decostruzione radicali.
La connessione dichiarata col momento della costruzione significa infine che la riduzione e la costruzione non vanno prese come atteggiamenti solamente negativi, come una pars destruens fine a se stessa, ma sono praticati in vista di una pars construens.
Il filo conduttore dell'indagine è poi desunto, come in Husserl, da un ente privilegiato che si distingue da ogni altro ente per la capacità di sviluppare quella peculiare ricerca delle cose stesse che è la filosofia.
Ma mentre in Husserl l'essere della soggettività trascendentale è distinto dall'essere di ogni altro ente in virtù del suo carattere costituente, cioè in virtù di un suo primato nella scala del conoscere, in Heidegger l'essere dell'esistenza umana è assunto come filo conduttore privilegiato non nella dimensione unilaterale della theorìa, bensì nell'insieme dei suoi possibili atteggiamenti fondamentali, che sono, oltre la theorìa, anche la pòiesis e la pràxis, e che vanno pensati nella loro radice unitaria di fondo.
Con Essere e tempo si ha dunque l'esplicita formulazione del problema essenziale che travaglia tutto il pensiero di Heidegger, dalle origini sino alla fine, vale a dire la questione dell'essere.
In riferimento alle diverse prospettive secondo le quali essa viene affrontata, si è affermata la consuetudine di distinguere due fasi nel pensiero heideggeriano: la prima coincide con Essere e tempo, ma comprende anche gli scritti del 1929; la seconda, successiva alla cosiddetta «svolta» (Kehre), cioè a quel mutamento di prospettiva avvenuto tra la fine degli anni Venti e l'inizio degli anni Trenta, è testimoniata da due scritti del 1930, pubblicati però solo agli inizi degli anni Quaranta: Platons Lehre von der Wahrheit (La dottrina platonica della verità, 1942) e Vom Wesen der Wahrheit (Dell'essenza della verità, 1943).
Particolarmente indicativo per il nuovo approccio al problema dell'essere è il corso del 1935 - ma pubblicato solo nel 1953 - Einführung in die Metaphysik (Introduzione alla metafisica).
Sulla «svolta» e sulla sua datazione, quindi sulla differenza tra queste due fasi del pensiero heideggeriano, vi sono state in passato numerose discussioni.
La pubblicazione delle opere complete, se per un verso conferma l'esistenza di differenti prospettive, nello stesso tempo rende sostanzialmente obsoleto parlare di una «svolta».
Seguendo l'andamento dei corsi universitari tenuti da Heidegger si ricava infatti l'immagine di uno sviluppo assai più complesso e differenziato di quanto non suggerisca l'immagine di un «primo» e di un «secondo» Heidegger.
Già nella prima fase, che arriva fino al 1929, bisognerebbe distinguere (1) un primo momento che coincide con gli scritti giovanili fino alla tesi di libera docenza, (2) una breve fase immediatamente successiva che si situa agli inizi del primo insegnamento di Friburgo e che è caratterizzata dal confronto critico col neokantismo e dall'appropriazione della fenomenologia, (3) il periodo che comprende gli anni dal 1919 al 1923 in cui Heidegger abbozza il programma di un'ermeneutica della fatticità, (4) il periodo di Marburgo (1923-28) in cui viene elaborata l'ontologia fondamentale di Essere e tempo attraverso l'analitica dell'esistenza e la «distruzione» fenomenologica della storia dell'ontologia.
Anche il pensiero successivo alla svolta, che comprende quattro decenni e mezzo (1930-76), andrebbe comunque articolato e differenziato seguendo le diverse modalità e accentuazioni secondo le quali Heidegger riflette sulla questione dell'essere.
I primi anni Trenta vedono il tentativo di pensare l'essere seguendo le tracce che il suo accadere lascia nella storia della metafisica.
L'Introduzione alla metafisica (1935) è il primo testo organico che espone questo tentativo.
Ma è soprattutto in un voluminoso manoscritto steso tra il 1936 e il 1938, rimasto inedito, che Heidegger mette a fuoco in maniera complessiva la mutata prospettiva dalla quale egli guarda ora al problema dell'essere pensato d'ora in poi come «evento» (Ereignis): si tratta dei Beiträge zur Philosophie (Contributi alla filosofia), pubblicati solo nel 1989 in occasione del centenario della nascita del filosofo.
La fine degli anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta sono occupate dal confronto con Nietzsche, la cui metafisica della volontà di potenza rappresenta per Heidegger il compimento della storia della metafisica, e con figure di pensiero alternative a tale storia, vale a dire il pensiero aurorale dei presocratici (specialmente Anassimandro, Parmenide ed Eraclito), che precede il destino metafisico, e il pensiero poetante di Hölderlin, che preconizza l'«altro inizio», l'alternativa alla metafisica e al pensiero calcolante.
Per capire l'evolversi del pensiero heideggeriano in questo periodo sono importanti le quattro raccolte di saggi: Holzwege (Sentieri interrotti, 1950), Vorträge und Aufsätze (Discorsi e saggi, 1954), Unterwegs zur Sprache (In cammino verso il linguaggio, 1959), Wegmarken (Segnavia, 1967).
Inoltre i testi di alcuni corsi e conferenze, tra i quali spiccano Was heißt denken? (Che cosa significa pensare?, 1954), Der Satz vom Grund (La tesi del fondamento, 1957), Identität und Differenz (Identità e differenza, 1957), Gelassenheit (Abbandono, 1959) e la conferenza Zeit und Sein (Tempo ed essere, 1962), pubblicata in Zur Sache des Denkens (Per la cosa del pensiero, 1969).
Nella fase che culmina con la pubblicazione di Essere e tempo, la questione dell'essere viene impostata muovendo da una critica della tradizione metafisica e ricercando nell'esistenza umana il filo conduttore per trovare un accesso radicale e originario al problema.
L'apparente elementarità degli interrogativi che Heidegger risolleva - «che cosa intendiamo propriamente con l'espressione 'essere'?», «che cos'è l'essere?» -, attingendoli dal Sofista di Platone e dalla Metafisica di Aristotele, ci pone di fronte al fatto che non solo manca tuttora una risposta a questi interrogativi, ma che il loro stesso senso ormai ci sfugge, ci appare estraneo e lontano.
Se noi siamo oggi senza risposte, afferma Heidegger, è perché nell'epoca attuale, assorbita dai problemi settoriali del sapere e dai successi della tecnica, non avvertiamo neppure il bisogno di porre tali domande.
Occorre dunque ridestare anzitutto la stessa comprensione della domanda sull'essere, sottraendola al lungo oblio che coincide con la storia della metafisica dopo i suoi esordi in Grecia.
Occorre riscoprirla appunto come "domanda", mentre oggi siamo portati a considerare l'essere come il concetto più semplice e più ovvio, tanto semplice e ovvio che non costituisce neppure un problema.
Non comprendiamo forse, seppure implicitamente, il significato della parola "essere" nei suoi molteplici e vari impieghi linguistici, quando per esempio diciamo: "questa cosa è", "la sedia è nella stanza", "il cielo è azzurro", "ora è mattino"?
Alle origini del problema ontologico Aristotele, ponendo nella Metafisica la domanda "che cos'è l'ente?", aveva fatto valere il principio che "l'ente si dice in molteplici maniere».
Con ciò Aristotele intendeva riferirsi all'ente in quanto ente, vale a dire all'essere dell'ente.
Attraverso la lettura della dissertazione di Franz Brentano, il maestro di Husserl, Del significato molteplice dell'ente secondo Aristotele (1862) Heidegger scopre, negli anni della sua prima formazione filosofica, che per Aristotele l'essere dell'ente può dirsi:
a) nel senso dell'accidente,
b) nel senso del vero,
c) secondo la potenza e l'atto,
d) nel senso della sostanza e delle altre categorie.
La domanda cui Heidegger viene ricondotto dalla lettura del libro di Brentano può formularsi così: dati i molteplici significati dell'essere (lo stesso "è" della copula non è infatti univoco), qual è il senso unitario che è sotteso a questa molteplicità di significati?
Che cosa significa "essere"? Si tratta cioè di porre la domanda relativa al senso dell'essere in generale: una domanda che, per la sua ampiezza e radicalità, oltrepassa i confini tipici dell'ontologia aristotelica e di ogni altra ontologia del passato.
Con l'espressione "senso dell'essere", è bene chiarirlo subito, Heidegger non intende interrogare l'essere in una prospettiva simile a quella per cui ci poniamo talvolta domande intorno al "senso della vita", riferendoci a uno scopo ultimo della vita umana o ai suoi valori costitutivi.
Sollevare la questione del senso dell'essere significa invece affrontare il problema della comprensione dell'essere - significa chiedersi in riferimento a che cosa l'uomo comprende l'essere dell'ente, vale a dire l'essere di tutto ciò di cui noi diciamo che è.
Nella sua opera maggiore, Essere e tempo (1927), Heidegger indicherà, come orizzonte ultimo della comprensione dell'essere, il tempo.
Non svolge infatti il tempo una funzione implicita di "selettore di senso", in base a cui tradizionalmente si distinguono le diverse regioni dell'ente, si separa l'ente che è "temporalmente" (i processi naturali e gli eventi storici) da ciò che è "non-temporalmente" (le relazioni spaziali e numeriche) e lo si contrappone all'ente eterno “sovratemporale" (Dio)?
Questa funzione del tempo come criterio ontologico si mostrava già alle origini della filosofia nella concezione greca dell'essere dell'ente come ousia, termine che abitualmente viene tradotto con "essenza" o con "sostanza", ma che secondo Heidegger vuol dire anzitutto presenzialità, cioè "presenza costante".
La filosofia ha sempre concepito, da allora in poi, l'essere sulla base di una certa determinazione del tempo, quella relativa al presente, orientandosi sul modello di quell'ente che è sotto-mano (da cui il termine tedesco Vorhandenes che Heidegger usa per contraddistinguerlo), ossia che sta di fronte a noi come semplice oggetto o cosa e che si può incontrare nel presente.
Riproporre il problema dell'essere come problema del senso dell'essere significa ora per Heidegger rimettere in discussione l'"ovvietà" di questo modello, fondato sul privilegio della presenza cosale, il quale si è proiettato sul concetto dell'essere e ha operato in modo occulto nel corso di una tradizione millenaria di pensiero.
L'operazione teorica di Heidegger consiste nel ritrovare alla base dell'interrogativo ontologico quella problematica della temporalità, che era venuta sempre più in primo piano nelle filosofie di Nietzsche, di Dilthey e di Husserl, e in generale nel pensiero tra Otto e Novecento.
La riproposizione del problema dell'essere assume così, nel pensiero di Heidegger, la forma di una critica radicale della tradizione metafisica occidentale, condotta alla luce dei nuovi orientamenti filosofici maturati in un'età che è segnata dalla "rinascita kierkegaardiana", dall'influsso della critica storica diltheyana della ragione, dall'interesse per il pensiero di Nietzsche, oltre che per la psicoanalisi di Freud.
Più in generale, la riproposizione di tale problema avviene inizialmente in Heidegger attraverso una riscoperta di quel fenomeno, l'essere dell'uomo in quanto essere-nel-mondo, in cui trovano esecuzione le istanze più radicali e innovatrici del pensiero contemporaneo - dal tema dell'esistenza (Kierkegaard), a quello della vita (Nietzsche, Dilthey, Simmel) e a quello della correlazione intenzionale (Husserl) - e che impone un superamento tanto dell'oggettivismo metafisico tradizionale, quanto delle teorie soggettivistiche della conoscenza.
Secondo Heidegger, infatti, la tradizione della metafisica occidentale ha mancato di riflettere sul problema dell'essere non perché in essa tale termine non compaia, ma perché, quando compare, esso non viene pensato nel suo rapporto col tempo nella sua piena articolazione di passato, presente e futuro.
In generale nella metafisica l'essere viene ridotto a ente e viene tematizzato in relazione alla sola dimensione della presenza.
Tale equazione tra essere e presenza viene messa in atto per Heidegger a partire dalla decisione metafisica avvenuta con Platone e Aristotele, e ciò spiegherebbe il primato conferito dai Greci alla theorìa, all'atteggiamento che osserva e contempla ciò che è presente.
Ma - come Heidegger in seguito si affannerà a dimostrare - tale presupposto vale anche per tutto il pensiero metafisico che dipende dalle decisioni filosofiche fondamentali accadute con i Greci, e che porta fino all'essenza della tecnica moderna.
La metafisica della presenza, nella quale l'essere è essenzialmente ridotto all'ente-presente, è l'orizzonte nel quale può attecchire il progetto di padroneggiamento conoscitivo ed operativo dell'intera realtà, che comincia con i Greci e va fino all'essenza della tecnica moderna.
Ora, essendo la presenza, il presente, solamente una delle dimensioni del tempo, si tratta per Heidegger di ritornare a pensare l'essere in relazione alla totalità delle articolazioni temporali, in modo che esso non venga più inteso unicamente come presenza e non venga più catturato in una dimensione in cui, per il suo carattere di presenza stabile, non può sfuggire al controllo e al dominio del soggetto.
In questa prospettiva la «categoria» del tempo, la temporalità, diventa principio e orizzonte per la riproposizione della questione dell'essere e del suo senso.
Di qui il titolo dell'opera del 1927, la quale avrebbe dovuto essere articolata in due parti, ciascuna divisa in tre sezioni.
Il testo pubblicato, in realtà, non va oltre la seconda sezione della prima parte, e in esso il tentativo di riproporre la questione dell'essere segue il filo conduttore fornito dall'analisi di quell'ente privilegiato che è l'esserci (Dasein).
Quest'ultimo è il modo d'essere proprio dell'uomo, ed è privilegiato perché ha la possibilità di porsi la questione dell'essere.
È il modo d'essere dell'esistenza, che è un avere-da-essere (Zu-sein), nel senso che l'esserci deve sempre e comunque rapportarsi al proprio essere, deve deciderne possibilità e realizzazioni, anche quando tale rapportarsi è attuato nella modalità del sottrarsi all'avere-da-essere.
Ciò di cui nell'esserci ne va, è sempre quell'esistente «che noi stessi sempre siamo»; l'essere di cui decido è sempre il mio essere (Jemeinigkeit).
Non solo: in quanto il rapportarsi al proprio essere si attua nella progettazione e nelle possibili realizzazioni di tale essere, tale rapportarsi ha un carattere eminentemente pratico (nel senso della praxis aristotelica) ed è proiettato sempre nella dimensione del futuro (considerata prioritaria).
Esso ha costitutivamente un carattere di apertura (Erschlossenheit), è un originario esporsi al mondo, al mondo-ambiente (Umwelt), al mondo degli altri (Mitwelt) e al mondo del sé (Selbstwelt).
L'esserci è un essere-nel-mondo (ln-der-Welt-sein).
L'apertura è primariamente diretta al mondo-ambiente della vita quotidiana, nel quale l'esserci si muove «innanzitutto e per lo più» in un atteggiamento di tipo pratico-poietico, che Heidegger definisce come un prendersi cura (Besorgen).
Il mondo-ambiente è dunque inteso nel senso del mondo delle cose come strumenti, come utensìli, arnesi (Zeug), le quali, in quanto adoperabili, stanno nel modo d'essere che Heidegger chiama un «essere alla mano», un «essere-utilizzabile» (Zuhandenheit).
Le cose sono dunque per lo più prese come cose-arnesi e in quanto tali rientrano in un contesto di utilizzabilità, nel quale, secondo un rimando di mezzo a fine, rinviano ognora oltre se stesse a un qualcosa d'altro che rappresenta il loro «a-che» (Wozu).
Si genera così un insieme di rinvii (Verweisungsganzheit) che mette capo a un principio e a un filo conduttore, a un «in vista-di cui» (Worumwillen), che non è in ragione di altro ma in ragione di se stesso.
Tale principio è l'esserci (Dasein).
È l'esserci che, rapportandosi alle cose nell'atteggiamento del «prendersi cura» secondo un proprio modo di vedere (Sicht), le «incontra» anzitutto e per lo più come cose utilizzabili (Zuhandenes) legate in un insieme di rinvii, entro il quale egli si orienta secondo una propria «circospezione» (Umsicht).
L'atteggiamento tradizionalmente privilegiato della constatazione e dell'osservazione «disinteressate», ossia della theorìa, viene da Heidegger considerato come un modo derivato del prendersi cura, come un atteggiamento secondario che scaturisce da una modificazione di quello primario di tipo pratico-poietico.
È infatti per l'interrompersi della catena dei rinvii del prendersi cura quotidiano che l'esserci passa dall'atteggiamento primario di tipo pratico-poietico a un atteggiamento derivato di mera osservazione e constatazione «neutrale».
Quando l'esserci si rapporta alle cose in questo secondo modo, esse si presentano nel modo d'essere che viene definito come un semplice sussistere, come una «semplice presenza sottomano» (Vorhandenheit).
L'intento di Heidegger è quindi quello di costruire un'ontologia fondamentale che, sulle orme dell'ultimo Husserl, ricerchi la natura costitutiva degli oggetti del mondo a partire dal soggetto e dalla coscienza trascendentale che in qualche modo li rende possibili.
Husserl aveva bensì evidenziato l'esigenza di indagare la soggettività in maniera non astratta e generica, ma in relazione agli oggetti del mondo e della storia.
In tal senso egli aveva dato avvio all'esplorazione delle cosiddette "ontologie regionali", ossia di quelle scienze rivolte allo studio di particolari aspetti o regioni della realtà, come la logica o la matematica, da un punto di vista a priori, cioè sulla base delle loro essenze ideali.
Il tentativo di Husserl di dare concretezza al soggetto trascendentale, però, secondo Heidegger non è bastato, poiché occorre tener conto anche della sua finitezza e della drammaticità della sua esistenza storica.
Nel costruire la sua ontologia, ossia la scienza che descrive l'essere e le sue strutture fondamentali, Heidegger ritiene si debba partire dal soggetto che pone la domanda su che cosa sia l'essere, cioè l'uomo.
L'uomo ha avuto un rapporto problematico con la definizione di essere, finendo per concepirlo come "oggettività", come semplice presenza, come la qualità per cui diversi oggetti o entità sono posti davanti a me (ob-jecta in latino).
Questa definizione non tiene conto dell'uomo stesso, al quale gli oggetti sono bensì presenti, ma che non è una semplice presenza nel mondo, bensì un prendersi «cura» di esso, un agire rivolto al futuro continuamente operando in vista di uno scopo.
Recependo infatti l'insegnamento fenomenologico, secondo Heidegger l'esistenza umana significa essenzialmente trascendenza, protesa però allo stesso tempo verso il mondo, al fine di modellarlo e progettarlo.
L'uomo quindi non è presenza ma progetto, o alternativamente esser-ci (Dasein), essere nel mondo, in quanto nodo inestricabile di situazioni nel quale si trova calato.
Se si intende l'essere come progettare, si modifica anche la concezione dell'essere degli oggetti, o degli «enti intramondani»: questi non sono più presenze che sussistono in maniera indipendente da noi, come induce a credere il metodo scientifico, ma vengono visti come strumenti in funzione del nostro progetto.
Un progetto che consiste appunto nel «preoccuparsi» di tali strumenti, averne cura nel senso latino del termine, un compito che l'uomo, per sua natura, ha nei confronti di essi.
Del resto, anche la presunta oggettività con cui la tecnica dice di guardare loro, è in realtà in funzione della loro strumentalità o utilizzabilità.
Poiché ogni strumento coopera con altri strumenti in vista di un orizzonte più vasto che è il fine ultimo a cui devono servire, essi vanno compresi entro una totalità, alla luce del mondo complessivo creato e unificato dall'uomo che persegue i suoi progetti.
Ciò significa che l'essere di questi enti intramondani è dato dal fatto che c'è l'uomo: è l'uomo che li fa venire all'essere.
Tale risultato, che per certi aspetti avvicina Heidegger all'idealismo trascendentale e alla coscienza fenomenologica, per i quali appunto era il soggetto a creare l'oggetto, viene a questo punto ricondotto da Heidegger all'esigenza sua propria di connetterlo alla concretezza dell'esistenza.
L'esserci, infatti, che progettando il mondo lo fa venire all'essere in quanto coscienza trascendentale, si trova ad essere a sua volta "progettato": egli stesso è progetto gettato (Geworfenheit); nasce e muore senza averlo deciso, e si ritrova limitato dalla sua finitezza.
Il Dasein, pertanto, da un lato denota libertà (in quanto trascendenza), dall'altro però questa stessa libertà comporta di accettare le condizioni in cui essa si va ad esplicare (immanenza).
Su questa auto-limitazione della libertà si inserisce la riflessione di Heidegger sulla morte, che non viene affrontata con intento moraleggiante, ma viene studiata per la sua funzione di dare senso e struttura al progetto dell'esserci.
Mentre per le metafisiche passate, come ad esempio quella hegeliana, la morte aveva per lo più rappresentato un intoppo, un ostacolo al procedere della ragione assoluta di cui l'uomo era ritenuto portatore, la filosofia heideggeriana vuole mostrare che solo attraverso la morte l'uomo si costituisce come coscienza trascendentale, che "aprendo al mondo" lo fa venire all'essere.
La morte, infatti, si differenzia da ogni altra possibilità di scelta che l'uomo può trovarsi ad avere nella sua esistenza, perché non solo è una possibilità permanente con cui dovrà misurarsi comunque, ma è l'unica che, quando si realizzi, annulla e rende impossibili tutte le altre: morendo si perde infatti ogni altra possibilità di scelta.
Solo la morte, però, è costitutiva dell'esserci come tale, cioè come Dasein, mentre le altre possibilità non realizzano la sua vera essenza.
Scegliendo di vivere una possibilità particolare come fondamentale e ineludibile (ad esempio dedicandosi totalmente alla famiglia, o al guadagno, o ad un mestiere specifico), l'uomo sviluppa un'esistenza inautentica.
Questa è connotata da un'uniformità di tipo circolare, per la quale egli tende a ricadere in futuro nei modi di essere del passato, o in situazioni già vissute, conducendo un'esistenza quotidiana sostanzialmente insignificante e anonima, dove prevale l'adeguamento a modelli impersonali dettati dal termine «si» (man) ossia alle convenzioni dei vari «si dice» o «si fa».
Per ritrovare l'autenticità dell'esistenza, termine ripreso da Kierkegaard ma in un senso nuovo, occorre fare della morte il cardine delle proprie possibilità di scelta, non in un'ottica pessimistica, ma anzi per trascendere le situazioni particolari in cui di volta in volta ci si viene a trovare: per evitare cioè l'irrigidimento in esse, salvaguardando la propria trascendenza e la propria libertà, la cui essenza è proprio la possibilità di scelta.
La tonalità emotiva che mantiene aperta sull'uomo la minaccia della morte è l'angoscia, che non è da intendere come timore, altrimenti foriero di debolezza e di desiderio di fuga dal proprio destino, ma va vista come il momento di comprensione emotiva della propria nullità.
Di fronte all'angoscia, infatti, «l'uomo si sente in presenza del niente, dell'impossibilità possibile della sua esistenza».
Solo l'angoscia, mostrando ogni situazione alla luce della morte, gli consente di realizzare la storicità dell'esistenza, evitando di cristallizzarla su possibilità già verificatesi; e d'altro lato, vivendo per la morte, l'uomo riesce ad accettare più liberamente anche quelle circostanze che tendono a ripetersi, per poter restare fedele al destino suo e della comunità cui appartiene.
L'essere-per-la-morte (Sein-zum-Tode), facendogli prendere coscienza del significato profondo della storia, costituisce quindi il progetto dell'esserci in quanto tale.
Se all'inizio della prima sezione della prima parte di Essere e tempo Heidegger sviluppa l'analisi del mondo-ambiente individuando nella Zuhandenheit (presenza sottomano) e nella Vorhandenheit (essere sotto-mano) i due modi d'essere fondamentali degli enti che non sono esserci, successivamente al centro dell'analitica dell'esistenza subentra la descrizione degli «esistenziali» e della loro connessione unitaria.
Gli esistenziali sono le determinazioni essenziali dell'esistenza, che Heidegger distingue dalle categorie, ossia dalle forme concettuali che descrivono le cose nei modi oggettivanti dell'osservazione constatativa.
I due esistenziali fondamentali sono il sentirsi situato (Befindlichkeit) e il comprendere (Verstehen), che indicano rispettivamente l'uno la passività e la ricettività, l'altro la produttività e la spontaneità dell'esserci, e che sono cooriginariamente determinati secondo quell'articolazione che Heidegger chiama discorso (Rede).
Alla fine della prima parte dell'analitica dell'esistenza, Heidegger perviene a determinare l'unità degli esistenziali come cura (Sorge).
Nella seconda sezione della prima parte viene messo in luce il senso unitario della cura in quanto struttura fondamentale dell'esistenza, facendo riferimento a quel carattere proprio dell'esistere che è l'essere per la morte (Sein zum Tode), cioè l'essenziale anticipazione dell'estrema possibilità dell'esserci, attraverso la quale quest'ultimo è in grado di riferirsi in modo autentico al proprio poter essere come totalità di futuro, passato e presente, comprendendosi come temporalità originaria (Zeitlichkeit).
Poiché ogni progetto è limitato dalla morte, esso si ritrova calato in una dimensione temporale, crocevia di passato, presente e futuro.
E dal momento che, come si è visto, gli oggetti intramondani vengono all'essere attraverso quel progetto storico-temporale che è l'uomo, si può dire che l'essere si dà nel tempo; un concetto, questo, già di derivazione neoplatonica e agostiniana, per il quale l'Essere non solo «è», ma appunto «si dà», «avviene», rivelandosi entro l'orizzonte della storia, dove ciò che sarà è destinato a cadere in ciò che è stato, e al cui destino l'uomo è chiamato a prestare fedeltà.
Heidegger dirà più tardi:
L'avvenire è l'origine della storia. [...] L'inizio è ancora. Non è alle nostre spalle, come un evento da lungo tempo passato, ma ci sta di fronte, davanti a noi. L'inizio, in quanto è ciò che vi è di più grande, precede tutto ciò che è sul punto di accadere e così è già passato oltre di noi, al di sopra di noi.
Vi è una stretta connessione tra la cura e la temporalità, giacché questa è il senso e la radice di quella; e l'esserci è temporalità in quanto non si esplica in un'attualità perfetta, sempre piena e presente a se stessa, ma è essenzialmente un poter-essere.
Questo poter-essere si può esplicare in due modalità fondamentali: nell'autenticità, quando l'esserci, ascoltando la chiamata della «coscienza» (Gewissen) che lo richiama a se stesso e alla responsabilità del proprio essere, anticipa nell'essere-per-la-morte la propria possibilità estrema e ritorna, con questa anticipazione, al proprio passato; oppure nell'inautenticità, allorquando l'esserci si perde nell'impersonalità del «Si» (Man), che lo solleva dall'insostenibile leggerezza del suo essere, e rimane perduto presso l'ente in cui di volta in volta è affaccendato.
Le ulteriori riflessioni di Heidegger sulle consonanze tra Essere e tempo sono incompiute per l'impossibilità di disporre di una terminologia linguistica adeguata, che non fosse ereditata dalla metafisica tradizionale.
Per quanto Essere e tempo sia legato all'insegnamento fenomenologico di Husserl, quest'opera impresse alla fenomenologia un senso e uno sviluppo ben diversi da quelli intesi da Husserl.
Così, con la pubblicazione di essa, vennero in luce e si acutizzarono le discrepanze tra i due.
Tuttavia, con generosa apertura intellettuale, Husserl si adoperò affinché Heidegger, col quale credeva ancora di poter intrattenere un rapporto di cooperazione scientifica (tanto che gli propose di collaborare alla stesura dell'articolo sulla fenomenologia per l'Enciclopedia Britannica), fosse chiamato nell'università di Friburgo quale suo successore.
Nel semestre invernale del 1928-29 Heidegger fece ritorno a Friburgo per tenervi il proprio insegnamento (mantenuto fino al 1944 e interdettogli dopo la guerra).
Ma Heidegger non tornò in realtà come successore di Husserl.
A questo momento risale anzi il distacco definitivo tra i due, avvenuto, al più tardi, nell'autunno del 1930. La Postilla (1930) alle Idee e la conferenza berlinese del 10 giugno 1931 Fenomenologia e antropologia, testi nei quali Husserl giungeva alla resa dei conti con gli sviluppi «antropologistici» della fenomenologia in Scheler e in Heidegger, sono una testimonianza della già avvenuta rottura.
Dal canto suo, negli scritti pubblicati a ridosso di Essere e tempo, Heidegger proseguiva la propria strada, accentuando il distacco da Husserl.
Come critica indiretta alla concezione husserliana della fenomenologia può essere letta la prolusione inaugurale Was ist Metaphysik? (Che cos'è la metafisica?, 1929).
In essa si tratta dell'angoscia (Angst) come di quello stato d'animo fondamentale nel quale, esperendo il Niente, l'uomo è motivato a convertirsi da un atteggiamento naturale a un atteggiamento filosofico - conversione che Husserl spiegava invece come una «finzione» attuata dal filosofo di professione, secondo una motivazione che è prodotta da atti intellettivi superiori.
Il trattato Vom Wesen des Grundes (Dell'essenza del fondamento, 1929) approfondiva l'analitica dell'esistenza specialmente in relazione al problema della trascendenza e della differenza ontologica.
Anche il libro su Kant und das Problem der Metaphysik (Kant e il problema della metafisica, 1929) va nella stessa direzione.
L'interpretazione di Kant fu il contenzioso di una celebre disputa con Cassirer nella primavera del 1929 ai corsi universitari di Davos, dove Heidegger difese la propria lettura contro quella neokantiana allora predominante in Germania.
Quest'ultima vedeva nella Critica della ragione pura una teoria della conoscenza, anzi, una teoria della conoscenza scientifica.
Per Heidegger invece, l'opera di Kant non è da intendere né come una teoria della conoscenza né tanto meno come una teoria della scienza, ma come una radicale analisi della struttura ontologica fondamentale della soggettività del soggetto (cioè dell'uomo) e come un tentativo di fondare su tale analisi una metafisica della finitudine.
Heidegger, insomma, vede nell'opera kantiana qualcosa di analogo alla propria analitica dell'esistenza.
Proprio in quegli anni avveniva la cosiddetta «svolta» nell'impostazione del problema dell'essere.
Sul fatto che il profondo mutamento che stava in lui maturando non fosse immediatamente reso pubblico, ebbe non poco influsso la circostanza che proprio allora Heidegger fu confrontato direttamente con gli eventi politici della Germania.
Il 21 aprile 1933 egli fu eletto, pressoché all'unanimità, rettore dell'università di Friburgo.
Aderì al partito nazionalsocialista, condizione questa prevista per l'assunzione ufficiale del rettorato, che avvenne il 27 maggio 1933.
In quella occasione pronunciò il famoso discorso Die Selbstbehauptung der deutschen Universitat (L'autoaffermazione dell'università tedesca), nel quale egli elaborava il programma per l'allineamento dell'università alla politica culturale nazionalsocialista e teorizzava un triplice compito: il «servizio del lavoro», il «servizio di difesa» e il «servizio del sapere», assegnando comunque a quest'ultimo il primato.
Heidegger rimase in carica per poco meno di un anno, durante il quale intervenne attivamente nella campagna di propaganda in favore del nazionalsocialismo, prospettandosi per lui addirittura la possibilità di assumere la leadership intellettuale del movimento; ma egli non esitò nemmeno, in alcuni casi, a opporsi all'autorità nazionalsocialista, ad esempio in occasione del rogo dei libri di autori ebrei.
Le vere ragioni per le quali Heidegger rassegnò le proprie dimissioni non sono chiare, e rimangono a tutt'oggi controverse.
Egli stesso ha dichiarato che esse furono motivate da interferenze politiche miranti a ottenere da lui la sostituzione dei presidi delle facoltà di medicina e di giurisprudenza con persone gradite al partito.
Recenti ricerche d'archivio sembrano invece portare alla luce un'altra verità, cioè che le dimissioni furono, sì, motivate da divergenze col partito, ma che tali divergenze riguardavano la pretesa di Heidegger di far passare un proprio progetto di riforma dell'università e di assumere quindi una funzione di guida nella politica culturale del nazionalsocialismo, progetto che incontrò invece l'opposizione dei gerarchi del partito, in prima fila di Alfred Bäumler e di Ernst Krieck.
Comunque stiano le cose, sta di fatto che dopo le dimissioni, costretto nell'isolamento, Heidegger si dedicò interamente alla propria attività didattica e di ricerca.
E se ancora nell'Introduzione alla metafisica del 1935 egli parlava di «un'intima verità e grandezza del movimento», già i Contributi alla filosofia (1936-1938) contengono una chiara critica del nazionalsocialismo.
Anche nelle lezioni su Nietzsche, tenute tra il 1936 e il 1940, Heidegger non esitò a criticare duramente i grossolani fraintendimenti delle interpretazioni nazionalsocialistiche della volontà di potenza e del superuomo.
Nonostante la presa di distanza e il ritiro nell'esilio della Foresta Nera, alla fine del conflitto mondiale Heidegger fu chiamato a pagare per il suo intermezzo politico.
Fu costretto a subire una serie di umiliazioni e di sventure: il sequestro della propria casa di Friburgo e l'arruolamento forzato nelle squadre per lo sgombero delle macerie, l'incertezza sulla sorte della propria biblioteca e l'impossibilità di lavorare, quindi l'interdizione dall'insegnamento sancita definitivamente il 28 dicembre 1946 dal Governo Militare Francese.
Nell'inverno del 1945-46 Heidegger cadde in una crisi profonda, da cui si risollevò grazie alle cure di Viktor von Gebsattel nel sanatorio di Badenweiler e gettandosi con impegno in nuovi progetti (tra i quali, oltre alla stesura della Lettera sull'umanismo, conclusa nell'autunno del 1946, va menzionata la traduzione di Lao-Tzù a cui egli lavorò con Paul Shih-Yi Hsiao nell'estate del 1946 e in quella del 1947).
Fu probabilmente anche per l'isolamento nel quale si venne a trovare dalla seconda metà degli anni Trenta in poi, che Heidegger non pubblicò quasi nessuno degli scritti nei quali aveva continuato a lavorare alla questione dell'essere.
E fu probabilmente per questo isolamento, oltre che per il tumultuoso succedersi degli eventi bellici, che gli unici scritti pubblicati rimasero allora quasi ignorati.
Si tratta dei due testi già citati Dell'essenza della verità (pubblicato nel 1943, ma risalente al 1930) e La dottrina platonica della verità (pubblicata nel 1942, ma risalente al 1930-31), ai quali vanno aggiunte le Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung (Dilucidazioni sulla poesia di Hölderlin, 1944).
Il primo di essi è la documentazione in atto della svolta, se è vero, come Heidegger scrive in una annotazione marginale, che qui avviene «il salto nella svolta».
In effetti, il problema della verità non è più affrontato primariamente a partire dall'esserci e non è più associato al carattere «aperturale» proprio dell'esistenza.
Nel corso della conferenza Heidegger amplierà tuttavia le sue riflessioni sul tempo, sostenendo l'impossibilità di darne una definizione oggettiva, ma assimilandolo al linguaggio che è analogamente un orizzonte entro il quale ci troviamo ad operare: il linguaggio per lui non è uno strumento manipolabile arbitrariamente, così come non lo sono il tempo e gli enti intramondani, ma sono "quadri", aperture, nel quale ci troviamo gettati e da cui veniamo condizionati, noi con i nostri progetti e le nostre esperienze.
Quella tra linguaggio ed essere è per Heidegger più che un'analogia: con il linguaggio, ad esempio, abbiamo la libertà di esprimerci nei modi che vogliamo, usando parole e costrutti in vista di quel che più ci preme affermare, ma restando pur sempre vincolati dalle regole del discorso, della grammatica, dei vocaboli disponibili: la nostra libertà di linguaggio ha quindi un limite in quella libertà più basilare dell'Essere, che attraverso il linguaggio si rivela.
Non possiamo usare dell'essere a piacimento, perché non è un oggetto: con un'immagine ripresa dalla teologia neoplatonica, l'Essere lo si può pensare piuttosto come la "luce" grazie a cui è possibile vedere gli oggetti.
Luogo della verità intesa come svelatezza non è più tanto l'esserci, ma è l'apertura, la radura (Lichtung) dell'essere stesso in cui di volta in volta l'esserci si viene a trovare.
Ne La dottrina platonica della verità è documentato il diverso atteggiamento che la «svolta» produce nei confronti del pensiero tradizionale: Heidegger non persegue più il fine di una fondazione veramente radicale della metafisica sulla base di un'analitica dell'esserci.
Nel riflettere sul mutamento essenziale nell'essenza della verità che avviene con Platone, egli intende qui ripensare il destino metafisico come un'«erranza» che appartiene alla storia dell'essere, e in tale ripensamento si prepara a un oltrepassamento (Uberwindung) della metafisica.
Il mutamento che con Platone accade nell'essenza della verità, originariamente intesa come svelatezza (alètheia, Unverborgenheit), cioè come carattere coestensivo dell'essere, e a cui l'etimo della parola greca rettamente esperita rinvia, conduce al predominio dell'idea che la verità non è tanto un carattere dell'essere stesso, ma è invece la correttezza (orthòtes) dello sguardo che coglie l'essere nel suo essere presente.
Questo mutamento annuncia la nascita della metafisica e l'emergere di quel suo tratto determinante che Heidegger chiama «soggettità» (Subjektität), e che indica la condizione dell'imporsi del primato dell'uomo nel mezzo dell'ente nella contemporanea dimenticanza dell'essere (Seinsvergessenheit).
Il tentativo più organico di interpretare l'intera storia della metafisica come storia della dimenticanza dell'essere e della «soggettità», e in fondo come storia del platonismo, è compiuto da Heidegger in una serie di lezioni tenute tra il 1936 e il 1940 e in trattati composti tra il 1940 e il 1946, che furono pubblicati solo nel 1961 in due volumi intitolati Nietzsche.
Heidegger tenta di cogliere il succedersi delle epoche della storia del mondo nell'orizzonte dell'«epocalità» dell'essere, intesa come il suo sottrarsi e il suo darsi.
La grecità, il mondo romano, il pensiero medievale, la modernità sono epoche storiche il cui accadere va compreso nell'orizzonte della storia dell'essere, e ad esse corrispondono altrettante interpretazioni e determinazioni fondamentali dell'essente: idea (Platone), enèrgeia (Aristotele), ens creatum (cristianesimo), soggetto (Descartes), monade (Leibniz), spirito (Hegel), volontà di potenza (Nietzsche), Gestell (tecnica).
Ora, all'inizio della storia occidentale e prima della decisione metafisica, l'essere domina, secondo Heidegger, nella pienezza e nell'unità delle sue determinazioni; ma, col mutamento essenziale che il mito della caverna di Platone testimonia, esso si ritrae, e nella radura che tale ritrarsi apre si instaura il primato dell'essente.
La storia della metafisica è allora storia della dimenticanza dell'essere in favore dell'essente e in questo senso essa è nichilismo, giacché «l'essenza del nichilismo è la storia nella quale dell'essere non ne è più niente».
Il compimento della dimenticanza dell'essere si manifesta nelle tre figure essenziali della fine della metafisica: in Hegel, che è per Heidegger l'ultimo greco, nel senso che nella metafisica hegeliana della soggettività assoluta si invera e si compie la metafisica greca della sostanza.
In Nietzsche, che è per Heidegger il platonico più sfrenato, nel senso che egli rovescia la dottrina platonica dei due mondi e, concependo tutto l'essente come volontà di potenza, fa emergere pienamente i tratti fondamentali della metafisica come «soggettività» e come «nichilismo».
Infine nell'essenza della tecnica moderna, nella quale la metafisica come dominio conoscitivo e operativo dell'essente trova il suo compimento definitivo.
La presa di coscienza da parte del pubblico filosofico dello sviluppo che Heidegger aveva dato alla questione dell'essere si fece strada solo lentamente ed emerse definitivamente solo con la pubblicazione della Lettera sull'umanismo, in cui Heidegger si pronunciava sul «fallimento» di Essere e tempo e sulle nuove prospettive che egli stava saggiando.
Nella Lettera sull'umanismo Heidegger rese note le tematiche dell'evoluzione del suo pensiero, rispondendo anche alla pressante richiesta di un'etica che completasse la sua ontologia.
Risalendo al detto di Eraclito, secondo cui «Ethos anthròpo daimon» («il carattere proprio dell'uomo è il suo destino»), Heidegger lo analizza interpretando etimologicamente la parola ethos come soggiorno, dimora: ed il linguaggio viene ad essere considerato appunto come il luogo aperto, la finestra, attraverso cui l'Essere si può manifestare all'uomo nella sua verità. In un celebre passaggio della lettera, Heidegger afferma che:
«... im Denken das Sein zur Sprache kommt. Die Sprache ist das Haus des Seins. In ihrer Behausung wohnt der Mensch. Die Denkenden und Dichtenden sind die Wächter dieser Behausung.»
«... nel pensiero l'essere perviene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell'essere. Nella sua dimora abita l'uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora.»
(Heidegger, Über den »Humanismus« (1947), in GA 9, p. 313; trad. di F. Volpi, Lettera sull'umanismo, Milano, Adelphi, 1995, pag. 31)
L'uomo, quindi, non può imporre all'essere la sua verità, ma si deve piuttosto comportare, nei confronti di ciò che è, come nei confronti dell'ospite atteso: custodire e preparare la dimora, rammemorando un incontro passato, e predisponendosi consapevolmente alla possibilità di un incontro futuro.
Il suo umano essere-nel-mondo, connotato dalla ricerca del senso dell'essere quale fondamento della sua possibilità di scelta, viene ora interpretato come un soggiornare e-statico (ossia fuori di sé) nella verità dell'Essere, concetto dal resto già presente in Essere e tempo dove, come sottolinea Heidegger, il Dasein «esperisce l'esistenza estatica come cura».
L'uomo diventa così il «pastore dell'Essere», «la cui dignità consiste nell'esser chiamato dall'Essere stesso a custodia della sua verità» e «la cui essenza, in quanto e-sistenza, consiste nell'abitare nella vicinanza dell'essere».
Ciò a cui danno voce i poeti ed i pensatori, ossia innanzitutto il «pensiero poetante», in quanto maggiormente dedito alla cura del linguaggio, meglio saprà, secondo Heidegger, predisporre all'ascolto della parola e dell'avvento dell'essere.
Ancora nella Lettera sull'umanismo Heidegger dice del pensiero dell'essere:
Il pensiero, detto semplicemente, è il pensiero dell'essere. Il genitivo vuol dire due cose. Il pensiero è dell'essere in quanto, fatto avvenire (ereignet) dall'essere, all'essere appartiene. Il pensiero è nello stesso tempo pensiero dell'essere, in quanto, appartenendo all'essere, è all'ascolto dell'essere.
Nella stessa "lettera" Heidegger respinge pertanto ogni forma umanistica di etica, cioè che riconduca l'etica alla volontà e soggettività di «un'umanità che, come subiectum, è a fondamento di tutto l'ente», facendone qualcosa di intrinsecamente nichilista.
L'unica etica possibile è quella che viene prima di ogni etica, che tenga conto di quella differenza ontologica che consente all'uomo di esperire la trascendenza dell'essere rispetto all'ente, e quindi di abbandonare la pretesa di impossessarsi dell'ente e di manipolarlo riducendolo a mero strumento della propria tecnica.
Si può dire, anzi, che con la pubblicazione di questa lettera, nella quale Heidegger si pronunciava, fra l'altro, nei confronti di due filosofie allora in voga come l'esistenzialismo e il marxismo, vi fu occasione perché il pensiero heideggeriano ritornasse al centro della discussione filosofica internazionale, ove rimase saldamente fino alla metà circa degli anni Sessanta.
I punti focali della ricerca che in essi si sviluppa possono essere indicati (1) nel tentativo di pensare l'essere come «evento», (2) nella tematizzazione del problema del linguaggio, (3) nelle riflessioni sul problema della tecnica (con la conseguente diagnosi dell'epoca contemporanea).
Si è già accennato al fatto che, già negli anni successivi alla pubblicazione di Essere e tempo, Heidegger trasformò il proprio approccio alla questione dell'essere, lasciando cadere la via precedentemente privilegiata dell'analitica dell'esistenza.
Ora, egli tenta di pensare l'essere non più come essere dell'ente, ma in se stesso e nella sua radicale differenza dall'ente.
Ciò implica anzitutto la ricerca di una modalità di pensiero in grado di corrispondere al carattere che Heidegger riconosce nell'essere, ossia la sua natura di evento (Ereignis) dell'essere, il suo darsi e sottrarsi secondo un insieme di destinazioni storico-epocali, nelle quali l'umanità di volta in volta si viene a trovare.
Esso diventa dal 1936 in poi il carattere cruciale della sua ricerca.
Il tema della differenza ontologica tra enti ed Essere, ossia tra la dimensione ontica dei primi e quella ontologica del secondo, è stato affrontato da Heidegger negli ultimi anni in relazione alla domanda, già posta in Essere e tempo, sul perché l'Essere sia stato via via identificato con l'oggettività e la semplice-presenza.
L'Essere infatti non è un oggetto, cosa che comporta l'impossibilità di definirlo; ma poiché l'uomo non sceglie arbitrariamente il linguaggio in cui si esprime, essendogli dato dal modo in cui l'Essere liberamente si rivela, non si può attribuire ai filosofi che via via si sono succeduti la responsabilità dell'argomentare metafisico che ha determinato l'«oblio» dell'Essere.
Una tale questione deve avere a che fare piuttosto con il destino stesso dell'Essere (Seins Geschick).
Ripercorrendo le tappe della storia della filosofia, Heidegger qualifica come "metafisica" tutto il pensiero che si è sviluppato dopo Parmenide.
Quest'ultimo ancora parlava di Essere senza attribuirgli un predicato, e quindi senza farne un oggetto, ma dopo di lui l'Essere è stato progressivamente confuso con gli enti e reso dialettico.
Già con Platone ha avuto inizio il tentativo di oggettivarlo, sebbene lo identificasse con l'Ente sommo situato al di sopra della dialettica.
In seguito, dopo che le dieci categorie di Aristotele da leggi della mente furono divenute leggi dell'ente, Kant con lo schematismo trascendentale fornirà un equivalente spazio-temporale per ognuna di esse, collocandole nello spazio e nel tempo.
Lo strumento del pensiero filosofico sono diventate così le categorie aristoteliche, e un essere concepito in filosofia è via via divenuto un essere categoriale, che per la teoria di Kant è anche un essere spazio-temporale, non trascendente, ma ente anch'esso.
Con Hegel infine si è avuto il culmine di quel modo di pensare che di fatto ha estromesso l'ontologia dalla filosofia, sancendo il primato definitivo della metafisica e del "sistema".
Di fronte all'occultamento dell'Essere operato dalla dialettica hegeliana non rimane che tentare un superamento di quest'ultima e del suo presunto «sapere assoluto», consapevoli però degli esiti irreversibili cui è approdato il pensiero occidentale.
Paradossalmente, l'ultimo esponente della metafisica è stato colui che più di tutti ne ha tentato il superamento, cioè Nietzsche, il quale, pur mostrando l'illusorietà e il nichilismo di fondo celato dietro ai valori della tradizione filosofica occidentale, ne è rimasto imprigionato opponendovi la volontà di potenza, che di quelli rappresenta la radice per via del suo carattere oggettivante e quindi nichilistico:
«La metafisica di Platone non è meno nichilistica di quella di Nietzsche. In quella l'essenza del nichilismo resta solo celata, in questa giunge interamente alla comparsa».
La fine della metafisica porta adesso a ripensare il ruolo della filosofia, per accordarlo ad una verità il cui disvelamento non è affatto progressivo e crescente: Heidegger infatti legge la storia della filosofia alla luce della filosofia della storia, secondo una visione per cui l'essere si dis-vela e ritorna a «nascondersi» nelle varie epoche: questo processo è da lui chiarito attraverso un'indagine linguistica ed etimologica sul vocabolo greco indicante la verità, cioè a-létheia («non-nascosto»).
Si tratta di un termine composto da "alfa privativo" che indica appunto la negazione, e dalla radice della parola léthe (oblio), presente anche nel verbo lantháno significante «nascondersi».
In quanto alétheia, quindi, l'essere si ri-vela (termine che contiene in sé una contraddizione interna: manifestarsi, celandosi) come un uscir fuori dall'oblio e dall'essere nascosto; e tuttavia il termine primo di questa dialettica resta pur sempre l'oblio, il ritrarsi dell'Essere ad ogni sua rappresentazione nell'ente.
In questo aspetto si avvertono echi della teologia negativa: come nell'immagine neoplatonica citata in precedenza, l'Essere è come la luce che non vediamo direttamente, ma solo in quanto rende visibili gli oggetti.
Così l'Essere rimane nascosto dietro quel che fa apparire: e ciò che appare è la storia con le sue epoche.
Anche qui l'analisi della temporalità dell'essere si fonda su un'indagine linguistica, in questo caso della parola greca epoché, «sospensione».
L'epoca è la forma propria della temporalizzazione, ed ogni epoca indica una particolare modalità di sospensione dell'essere, il quale, in quanto alétheia, se per un verso «si dà» e si disvela, per l'altro rimane sempre in qualche misura in sé stesso, appunto, in sospensione, ossia nascosto.
Alla verità dell'essere, dunque, appartiene originariamente, etimologicamente, la possibilità del suo nascondimento, e quindi la sua non-verità: a partire da questo aspetto è possibile comprendere meglio il senso dell'inautenticità della condizione umana, centrale già in Essere e tempo, che non è una connotazione morale, ma la modalità in cui innanzitutto e per lo più l'uomo esperisce il suo riferimento all'essere.
Il nichilismo stesso della nostra epoca non può essere considerato una degenerazione del pensiero filosofico, ma un evento dell'essere, un suo destino.
Con il sempre più caparbio concentrarsi su questo problema, Heidegger moltiplica i tentativi di trovare una dizione e una terminologia adatte a corrispondere all'essere e al suo peculiare modo di darsi; le diverse soluzioni adottate testimoniano del carattere «sperimentale» dei tentativi da lui compiuti e della difficoltà dell'impresa con la quale egli si cimenta.
Significativo è l'espediente adottato nel saggio del 1955 Uber «Die Linie» (Su «La linea»), in cui egli scrive la parola tedesca per «essere» con una barratura a croce, spiegando che tale barratura allude non solo all'opportunità di cancellare ogni rappresentazione metafisica dell'essere, ma anche al tentativo di pensare il darsi nella radura dell'essere di quello che è chiamato l'insieme dei Quattro (Geviert), cioè il rapporto tra Terra e Cielo, Divini e Mortali.
Un altro testo molto significativo per la tematizzazione dell'essere come evento, è Identità e differenza del 1957.
L'evento (Ereignis) è qui accostato a due parole fondamentali come Logos e Tao, ed è pensato come quell'evento appropriante in cui l'essere si dà all'uomo in un rapporto di fruizione (Brauch); è l'evento del reciproco diventare proprio dell'essere e dell'uomo.
Nel contempo è mantenuta ferma la «differenza ontologica» di essere ed ente, in modo che nell'evento dell'essere si dà al tempo stesso la differenza (Unter-Schied) e la composizione della differenza (Austrag).
Ma è soprattutto nella conferenza del 1962 Tempo ed essere, la quale riprende la tematica che avrebbe dovuto essere trattata nella parte non pubblicata di Essere e tempo, che Heidegger presenta un tentativo di riflessione complessiva sull'essere come evento e sul suo enigmatico darsi (Es gibt) assieme al tempo.
L'essere viene pensato come la dimensione che per principio è sottratta alle macchinazioni dell'uomo, ma al tempo stesso come ciò che sta in un rapporto essenziale con l'essere umano, giacché è nell'apertura formata dalla radura dell'essere che si apre lo spazio-tempo in cui si colloca l'esser-ci (Da-sein) dell'uomo.
E la radura dell'essere non è poi sempre identica, ma muta a seconda dell'accadere e del succedersi delle epoche della storia, le quali corrispondono ai diversi modi in cui l'essere si dà e al tempo stesso si sottrae.
A questo pensiero dell'essere corrisponde una ulteriore modificazione dell'atteggiamento assunto da Heidegger nei confronti della metafisica.
Non si tratta naturalmente più di «decostruirla» in vista di una ricostruzione fondata in modo veramente radicale, come all'epoca dell'ontologia fondamentale, ma nemmeno più soltanto di oltrepassarla (Uberwindung), mostrandone i presupposti, andandone al fondamento e riportandola alla storia dell'essere.
Heidegger radicalizza da ultimo il suo atteggiamento e pretende un vero e proprio superamento (Verwindung) della metafisica, cioè un atteggiamento che la lasci al suo destino senza pretendere di cambiare più niente di essa.
Solo allora essa è effettivamente superata e «mandata giù» - secondo il significato che il termine Verwindung ha anche nel linguaggio comune - come può essere superata una malattia o come si «mandano giù» travagli e patimenti.
La possibilità del superamento della metafisica è strettamente connessa in Heidegger alla diagnosi dell'epoca contemporanea.
La concentrazione su un problema in apparenza così astratto come quello dell'essere non impedisce a Heidegger di essere sensibile al destino e ai problemi che caratterizzano l'epoca presente.
Ora, il fenomeno fondamentale che caratterizza in tutti i suoi aspetti il nostro tempo è per Heidegger la tecnica, fenomeno che egli comincia a vedere nella sua realtà epocale, a partire dagli inizi degli anni Trenta, specialmente in seguito alla lettura degli scritti di Jünger La mobilitazione totale (1930) e Il lavoratore (1932), e al quale egli dedica numerose riflessioni, tra le quali spiccano le quattro conferenze Das Ding (La cosa), Das Gestell (L'impianto), Die Gefahr (Il pericolo), Die Kehre (La svolta), tenute a Brema nel 1949 col titolo complessivo Einblick in das, was ist (Sguardo in ciò che è).
La peculiarità del modo in cui Heidegger affronta la questione della tecnica sta nel fatto che egli non interviene sul piano della descrizione e della individuazione di cause ed effetti alla superficie dell'accadere storico, ma mira a cogliere la radice filosofica più profonda che sta alla base della tecnica quale fenomeno della nostra epoca.
Per questo egli non parla della tecnica nelle sue manifestazioni concrete, ma dell'essenza della tecnica, ed è a livello di questa figura epocale fondamentale che egli tenta di individuare la connessione che la lega alla storia della metafisica come storia della dimenticanza dell'essere.
La configurazione epocale della tecnica è indicata col termine Ge-Stell.
Lo si può tradurre con «impianto», e sta a significare l'insieme di quegli atteggiamenti che caratterizzano la tecnica, e che sono modi del «porre» (Stellen): in tedesco essi risultano connessi anche a livello linguistico, e i fondamentali tra di essi sono il rappresentare (Vorstellen), il produrre (Herstellen), il disporre (Bestellen).
L'essenza della tecnica, con la quale si arriva alla realizzazione essenziale del padroneggiamento conoscitivo ed operativo dell'essente da parte dell'uomo, non è una «macchinazione umana», ma è il compimento del destino metafisico e come tale dipende dal modo di darsi e sottrarsi epocale dell'essere stesso.
Per questo Heidegger non sta contro la tecnica; non pensa all'utopia di un giardino terrestre senza «artefatti», né la «Natura» (Physis) è da lui evocata in uno struggimento nostalgico che guarda all'indietro.
Al contrario, nella tecnica sta la possibilità di un «altro inizio».
Se infatti con l'età della tecnica la metafisica giunge alla propria fine nel compimento e nell'esaurimento delle sue possibilità, con tale conclusione si apre pure la possibilità per il pensiero di ascoltare il richiamo dell'essere e di corrispondervi.
Come è detto in conclusione della conferenza La questione della tecnica: «Quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva, e tanto più noi domandiamo. Perché il domandare è la pietà del pensare».
Ora, proprio perché Heidegger considera la tecnica come una configurazione omogenea rispetto alla metafisica e alla filosofia tradizionali, egli esclude sin da principio la possibilità di ricercare una via di salvezza nelle forme classico-tradizionali dell'argomentazione filosofica, e privilegia piuttosto il rapporto con momenti alternativi ad esse, quali la riflessione sull'esperienza di verità a cui aprono l'arte o il linguaggio.
Questo atteggiamento viene in luce con forza per la prima volta nel saggio Der Ursprung des Kunstwerks (L'origine dell'opera d'arte, 1935), nel quale all'opera d'arte viene assegnato un valore ontologico, nel senso che essa produce un'apertura della verità dell'essere.
E se nel saggio sull'opera d'arte viene considerata l'apertura di verità delle arti figurative (Heidegger interpreta un quadro di Van Gogh), in realtà la forma d'arte privilegiata è per lui, già qui, la poesia (Dichtung).
Il poeta viene, di conseguenza, investito di una responsabilità particolare.
Nella vicinanza di pensiero e poesia, e nella teorizzazione del potenziale catartico di un pensiero fedele a tale vicinanza, Heidegger vede la possibilità di compiere un «passo indietro rispetto alla filosofia», di sottrarsi all'inerzia speculativa in cui il compimento della metafisica costringe e di assumere il contegno e la lucidità adeguati al vuoto degli dèi fuggiti e del dio nuovo di là da venire.
Si colloca qui l'avvicinamento alla poesia di Hölderlin che Heidegger compie a partire dalla metà degli anni Trenta, congiuntamente al tentativo di pensare il destino metafisico occidentale in vista di un'apertura postmetafisica.
Heidegger però non azzera la differenza tra il pensatore e il poeta, ma la mantiene tutta e la formula così: «Il pensatore dice l'essere. Il poeta nomina il sacro».
Con la funzione privilegiata accordata alla poesia va di pari passo la centralità del linguaggio.
Mentre in Essere e tempo esso era ancora concepito come articolazione strutturale dell'esserci, dopo la svolta esso è pensato come coevo all'apertura dell'essere in cui l'esserci sta.
Il linguaggio è la «casa dell'essere», come recita la Lettera sull'umanismo.
La meditazione sul linguaggio nella sua essenza manifestativa dell'essere, dunque in chiave fortemente «ontologica», viene sviluppata specialmente nei testi di In cammino verso il linguaggio (1959), la cui pubblicazione è caduta proprio in un periodo in cui andavano affermandosi nella linguistica e nella filosofia del linguaggio tendenze che agli occhi di Heidegger non potevano apparire che come fraintendimenti dell'essenza del linguaggio, come una sua riduzione a mero strumento e funzione, o a oggetto di tematizzazione logica e scientifica.
L'affermazione di tali tendenze, proprio quando Heidegger pronunciava con maggiore enfasi la sua polemica, contribuì a rendergli alieno e ostile il nuovo clima filosofico.
Nella seconda metà degli anni Sessanta l'interesse per il suo pensiero svaniva o comunque, dove rimaneva, era circoscritto alle cerchie esoteriche dei suoi ammiratori.
Dal canto suo, Heidegger accentuava sempre più l'isolamento scelto ormai da anni come stile di vita. In un colloquio con pochi amici, poco prima della morte, constatava: «Il dialogo si è interrotto».
Negli ultimi tempi della sua vita Heidegger sublimava così in maniera superba la solitudine e l'isolamento nei quali egli stesso si era costretto col volontario esilio nella Foresta Nera, la cui atmosfera alberga ormai accanto alla sua opera come un mito.
Un mito che Heidegger stesso aveva capito di essere e che aveva saputo amministrare con una vita che si potrebbe riassumere tutta in un «nacque, lavorò e morì».
Dopo la sua morte, avvenuta a Friburgo il 26 maggio 1976, la discussione improvvisamente si rianimava.
Anzitutto per la pubblicazione dell'intervista Ormai solo un dio ci può salvare, concessa nel 1966 al più diffuso settimanale tedesco con la condizione che essa fosse pubblicata dopo la morte, e nella quale egli intendeva chiarire il suo impegno nazionalsocialista nel 1933 (sul quale in vita aveva sempre mantenuto un assoluto silenzio).
Si sono così riaccese discussioni e polemiche, periodicamente ritornate dalla fine della guerra ad oggi, e che si sono estese poi alle implicazioni etiche e politiche della sua prospettiva filosofica.
L'avvenimento che ha fatto ritornare prepotentemente Heidegger alla ribalta è stato poi la pubblicazione dell'edizione delle sue opere complete, iniziata nel 1975.
Prevista in circa cento volumi essa rende pubblico un lavoro immenso di confronto storico-speculativo, di scavo teorico e di riflessione sui grandi problemi della tradizione filosofica.
Nell'esergo dell'edizione sta un motto che indica il carattere «viatico» proprio del pensiero heideggeriano, a cui già i titoli di alcune sue significative opere richiamano: un pensiero costantemente «in cammino» su «sentieri interrotti», che non pretende di attingere certezze assolute e sistematiche, ma si accontenta di semplici «segnavia». Il motto in esergo dice: «Itinerari - non opere» (Wege - nicht Werke).
Questo motto, che con la «viaticità» allude nel contempo al carattere provvisorio e preparatorio del suo pensiero, compendia il suo testamento spirituale e va letto alla luce di una citazione da Heinrich von Kleist con la quale Heidegger stesso ha inteso dare una collocazione alla propria opera:
«Mi ritiro al cospetto di uno che non è ancora qui, e m'inchino, un millennio prima della sua venuta, dinanzi al suo spirito».