Al termine del Teeteto (210d), Socrate rimanda la continuazione della discussione alla mattina successiva, dandosi appuntamento con Teodoro nello stesso posto. Nel Sofista, Socrate come da accordo si incontra con Teodoro e i suoi allievi per continuare la discussione del giorno addietro. Teodoro ha però portato con sé un ospite, uno Straniero originario di Elea che dimostra di avere tutte le doti del filosofo. Socrate acconsente a rendere partecipe l’ospite della discussione e lo “Straniero di Elea” diverrà il vero protagonista della discussione. Socrate infatti, dopo poche battute iniziali, scompare di scena, rimanendo silenzioso sino alla fine. Naturalmente questo espediente letterario scelto da Platone ha ragioni profonde. Da un lato si vuole forse avvertire che quanto il dialogo presenta non ha più nulla a che fare con il genuino pensiero di Socrate: ciò che viene esposto è interamente farina del sacco di Platone. Da un altro lato è evidente che Platone, dovendo confutare in questo dialogo la dottrina del grande e venerando Parmenide, per un segno di riguardo verso l'Eleate fa svolgere tale confutazione a un immaginario discepolo di Parmenide. Quale che sia la soluzione di questo piccolo enigma (i dialoghi di Platone ne presentano molti di enigmi, il che fornisce tuttora abbondante materia di riflessione per la critica), diamo anzitutto una visione d'insieme del dialogo, prima di leggere alcuni suoi passi capitali, a partire dai quali si è di fatto sviluppata tutta la filosofia nelle sue principali discipline (la logica o dottrina del giudizio, l'ontologia o dottrina dell' essere, l'epistemologia e la psicologia o dottrina della conoscenza e dell'anima).
Il problema che si pone all'inizio del dialogo è come definire il sofista e la sua attività. In realtà si tratta della ripresa del problema del Teeteto, chiusosi con la dichiarata impossibilità di chiarire come sia possibile l'errore. In tal caso, se veramente non fosse possibile stabilire un discrimine tra verità ed errore, tra il sofista e il filosofo non si porrebbe differenza alcuna: l'uno e l'altro direbbero sempre e comunque il vero e tutta la rivendicazione platonica della paidéia come scienza, in opposizione alla retorica sofistica, risulterebbe priva di fondamento e di valore. Ma sappiamo che per Platone è inammissibile accettare queste tesi e dunque, con tutta la forza del suo pensiero, cerca di trovare una soluzione razionale e fondata per uscire da questa impasse. Prima di provarsi a definire il sofista, che è una "bestia difficile", lo Straniero di Elea propone di applicarsi a qualche tema più semplice per saggiare il metodo di definizione. Egli propone perciò di definire la "pesca con la lenza", cosa semplice e a tutti nota. Ed ecco allora che Platone ci presenta, per bocca dello Straniero, il suo modello, divenuto poi famoso, di procedimento definitorio: esso può considerarsi ancora oggi un vero e proprio strumento di definizione scientifica. Come è stato osservato, nel costruire l'odierna logica binaria dei computer di fatto procediamo con un metodo che, in generale, non è dissimile da quello teorizzato nel Sofista. il procedimento è il seguente: si muove da un'idea generale e all'interno di essa si prosegue con divisioni per due (diairesis, da cui "diairetica"), sino a trovare il concetto che è tema della ricerca.
Nel nostro caso si parte dall'idea di "arte" (téchne), in quanto chi pesca con la lenza non lo fa a casaccio, ma mostra di possedere una certa tecnica o arte. Si osserva poi che vi possono essere due tipi di arte: l'arte del produrre o realizzare qualcosa e l'arte dell'acquisire o procacciarsi qualcosa. Ecco la divisione per due: "arte di produzione" (scriviamola a sinistra), "arte di acquisizione" (scriviamola a destra).
La pesca con la lenza sta evidentemente nella seconda, che viene a sua volta divisa per due: arte di acquisizione mediante "consenso" e mediante "costrizione". È evidente che i pesci non consentono affatto a venire "acquisiti"; quindi si divide l'idea di costrizione: essa può avvenire per "cattura" o per "caccia". Nel nostro caso "caccia di esseri animati" (non di cose), "di esseri animati che vivono nell' acqua o nell' aria" (non deambulanti), "di pesci" (non di uccelli), "mediante una percussione" (non con reti), "con una percussione dal basso verso l'alto, cioè con la lenza" (non dall'alto verso il basso, cioè con la fiocina). Ecco che abbiamo finalmente trovato il termine che volevamo definire. Ora, non resta che ripercorrere i termini di destra e raccoglierli insieme in un discorso (il logos definitorio, che dice l'essenza, l'ousia, della cosa). La pesca con la lenza sarà dunque da definirsi in sintesi come segue: «Arte di acquisizione mediante caccia, esercitata su esseri animati che vivono nell'acqua, operando una percussione dal basso verso l'alto».
Saggiato lo strumento logico della definizione, se ne tenta ora l'applicazione al sofista e si ottengono varie, e invero molto ironiche, definizioni. Per esempio: anche il sofista possiede un'arte e va a caccia, ma non di pesci, bensì di animali deambulanti, anzi di uomini, mediante persuasione, esercitata in privato per mercede, al fine di un insegnamento mercenario della virtù. E così via, con altre spassose sottigliezze.
Ma l'ultima definizione, secondo la quale il sofista si definisce sapiente in ogni scienza, il che è manifestamente impossibile, ripropone il paradosso del Teeteto; bisogna dunque pensare che il sofista possegga solo un'apparenza di scienza, fatta di meri discorsi e di vuote parole.
Il sofista è insomma un produttore di immagini illusorie del sapere, cioè un creatore di immagini verbali che pretendono di mostrare il vero mentre sono false e il vero non lo dicono. Ma, e torniamo ancora al tema del Teeteto, come è possibile dire il falso, cioè dire "ciò che non è"? Il non essere non è, perciò non puoi né dirlo né pensarlo, insegnava Parmenide. E così il sofista, questa fiera ambigua e difficile da catturare, si è ora nascosto in un luogo ombroso e impenetrabile (il luogo "dell'immagine", si potrebbe dire), dal quale non c'è rete, sembra, che lo possa snidare. Non è facile cioè, razionalmente, mostrare la differenza tra vera scienza e mera opinione.
A questo punto lo Straniero di Elea prende la grave decisione di confutare Parmenide: «Bisognerà saggiare l'affermazione di Parmenide, il nostro padre, e sforzare il non essere a essere in qualche modo e l'essere per contrario in qualche modo a non essere»; ciò anche a costo di apparire "parricidi" verso Parmenide. Anzitutto lo Straniero mostra le contraddizioni che derivano anche all'essere quando lo si opponga rigidamente al non essere. Poi propone la soluzione del paradosso: opponendo l’essere al non essere Parmenide ha preso quest’ultimo secondo un unico significato quello per cui “non essere” sarebbe uguale a “nulla”. Ma come “non bianco” contrapposto a bianco non significa necessariamente “nero”, ma più semplicemente “ciò che è diverso dal bianco, e che perciò potrebbe anche essere “rosso” “giallo” “verde” ecc., così “non essere” significa «ciò che è diverso dall’essere» come il “moto” la “quiete”, l’”uno” e il “molteplice”. Anche il non essere dunque è in quanto designa il diverso, ciò che è altro, cioè l’alterità alla quale si accompagna l’identità.
Svolgiamo ora alcune considerazioni su questo capitale passaggio per intenderne bene la portata, di certo straordinaria e gravida di molte conseguenze. La logica parmenidea, poi ereditata dalla sofistica e dai socratici minori, era una logica della pura identità: "A=A". La logica che Platone istituisce invece nel Sofista è una logica della relazione: vero non è l'essere in sé considerato, ma la relazione che collega gli esseri. Anche il mondo delle idee esce, da tale logica, completamente trasformato. Le idee non sono più unità assolute e irrelate, ma si collegano l'una all'altra secondo rapporti di dipendenza che inseriscono ogni singola idea in idee più ampie, sino a quei" generi sommi" che nel Sofista sono così indicati: l'essere, il moto, la quiete, l'identico, il diverso. L"'identico" esprime l'essere se stessa di ciascuna idea. Ma un'idea è se stessa appunto perché "non è" tutte le altre, perché è "diversa" da tutte le altre. L’essere della pesca con la lenza, per esempio, si specifica solo in relazione al suo "altro", a ciò che essa espressamente "non è", cioè "pesca con la fiocina". Entrambe però si trovano riunite sotto la specie più ampia di "pesca mediante percussione" (e in questa specie più ampia sono tautòn, cioè la stessa cosa), la quale è "altro" dalla "pesca con le reti". A loro volta queste due specie o generi sono parti componenti di un genere più ampio che è la "caccia", e così via. L’identico e il diverso, l'essere e il non essere si propagano così all'intero mondo delle idee, rendendone possibili le relazioni e dando insieme fondamento alla possibilità del giudizio, che è infatti una relazione tra soggetto e predicato tramite la copula "è" ("A è B").
Ora non sarà più contraddittorio dire che "la neve è bianca" ("A è B"), come ritenevano megarici e cinici, perché con ciò non si vuol dire, né si sta dicendo, che la neve e il bianco siano la stessa cosa (il che sarebbe appunto assurdo), ma solo porre tra essi una relazione che è al tempo stesso di identità e di differenza. La neve e il bianco sono identici in quanto si possa mostrare che essi rientrano come parti componenti in un genere più ampio che li comprende; ma appunto perciò sono anche diversi: sono simili e insieme non lo sono. Ed è di fatto in questo modo che il pensiero umano procede nell'esprimersi in giudizi, e non in quella maniera rigida e astratta sostenuta da Parmenide, che considerava ogni termine o concetto come identico a se stesso e nulla più. Infatti un concetto, preso in se stesso, non ha alcun significato: che significa "essere" se non lo pongo in relazione a qualcos'altro? Che significa bianco se non lo confronto con altri colori? Un concetto si specifica per una serie di relazioni di identità e di differenza con tutti gli altri, rispetto ai quali è tutti gli altri (ha bisogna degli altri per definirsi) e insieme non è nessuno di essi (si definisce per differenza da loro).
A questo punto si risolve anche il problema dell'errore. Dire il falso non significa dire ciò che non è nel senso di asserire ciò che non esiste o non è nulla, ma significa dire che due cose sono tra loro identiche quando sono diverse e viceversa. Così se il sofista, con i suoi giochetti di parole, asserisce che Teeteto vola, ciò significa solo che egli ha confuso le relazioni, ponendo Teeteto, che è un uomo, in rapporto di identità con i volatili, che invece gli sono specificamente diversi (sebbene siano entrambi esseri animati). In realtà Teeteto non vola, non è un uccello (anche se quando salta si libra nell'aria), cioè non appartiene alla specie dei volatili, pur differenziandosi, con i volatili, da ciò che è loro comunemente "altro", per esempio gli alberi o i vegetali ecc.
Il sofista ora è in trappola: egli è infine caduto nella rete dei discorsi definitori o dialettici. E così è chiarita la differenza tra scienza e apparenza, tra verità e immagine illusoria del sapere. Il filosofo infatti è il dialettico: come il grammatico sa quali lettere debbono accordarsi per formare le parole, e il musico quali suoni per formare le armonie, così il dialettico sa vedere quali generi sono fra loro identici e diversi, e come si intreccino a fornire il modello e la base di tutte le relazioni, che poi ritroviamo nella realtà delle cose sensibili e che conseguentemente esprimiamo con verità nei giudizi. La dialettica, cioè la filosofia, è così l'arte sovrana, la regina delle scienze, in quanto essa sola insegna a conoscere e a dire ciò che è vero e ciò che non lo è: essa insegna a vedere (in realtà a scrivere, si dovrebbe dire) i nessi ideali e l'essenza stessa di tutte le relazioni.
L’arte dei discorsi, considerata dialetticamente, è così un genere comune: essa comprende i discorsi sulla natura delle cose, sul bene e sulla giustizia, sulle virtù politiche e private, e così via. Ma all'interno di questo genere si distinguono due specie opposte: quella dei discorsi che propongono solo immagini illusorie della verità e quella dei discorsi dialettici, che la verità sanno mostrare e definire. In altre parole, la specie del sofista e la specie del filosofo. Essi sono congeneri, "hanno lo stesso sangue", come il lupo e il cane. L’uno però è selvaggio e pericoloso; l'altro mansueto e utile. Il primo è un illusionista, che inganna e seduce; l'altro è un "mimo" della verità, poiché la verità fedelmente raffigura "nelle azioni e nei discorsi".
Dopo queste indicazioni possiamo leggere senza difficoltà il passo nel quale lo Straniero di Elea illustra il metodo definitorio con l'esempio della pesca con la lenza.
«LO STRANIERO. Avanti dunque, cominciamo a trattarne da questo punto. Tu dimmi: dobbiamo considerare chi è pescatore con la lenza come un artefice o piuttosto come un uomo sprovveduto d'arte ed invece dotato di qualche altra capacità? TEETETO. Non è per nulla sprovveduto d'arte. LO STR. Ma il complesso di tutte le arti, direi, si suddivide in due specie. TEET. Come? LO STR. L'agricoltura ed ogni altra simile cura che viene dedicata ad ogni tipo di corpo mortale, e d'altra parte ogni arte che si riferisce a quanto viene composto e modellato, e noi denominiamo" oggetto" e l'arte della imitazione finalmente, tutto questo potrebbe essere corretta-~ mente indicato con una sola denominazione. TEET. Perché e con quale? LO STR. A proposito di quanto non sussiste in un momento antecedente e qualcuno conduce all'essere in un momento susseguente, noi diciamo che chi ciò conduce all'essere “fa" e ciò che viene condotto all'essere "vien fatto". TEET. È giusto. LO STR. Tutte le arti che noi or ora finimmo di enumerare, tutte hanno in questo la loro potenza. TEET. Sicuro. LO STR. E allora riassumendo chiamiamole tutte insieme" arte del fare". TEET. Sia. LO STR. D'altra parte c'è, poi, tutta la specie dell'arte dell'istruzione, e poi quella della conoscenza, quella del guadagno e quella della lotta e ancora quella della caccia; e poiché nessuna di tali arti produce qualche cosa, ma le une coi discorsi e le azioni si impossessano delle cose che sono in natura o che sono state fatte dall'uomo, le altre oppongono un impedimento a chi se ne vuole impossessare, io direi che meglio che in ogni altro modo converrebbe tutte insieme denominarle "arte, in certo senso, dell'acquisie". TEET. Sì, sarebbe giusto. LO STR. E allora, Teeteto, se tutte le arti si compendiano nell'arte dell'acquisire e nell'arte del fare, in quale delle due noi porremo l'arte del pescare con la lenza?TEET. È chiaro, nell'arte dell'acquisire. LO STR. Ma non sono forse due le specie di quest'arte? L'una è l'arte degli scambi che avvengono fra due parti per volontà di ambedue per mezzo di donazioni, per mezzo del pagamento di salario e per mezzo della compravendita; l'altra che in complesso riguarda l'impadronirsi di qualche cosa sia con l'azione che con il discorso, è quella appunto dell'impadronirsi. Non ti pare? TEET. Risulta almeno chiarissimo da quanto è stato detto. LO STR. E allora? Non si deve suddividere in due anche l'arte dell'impadronirsi? TEET. E come? LO STR. Ponendo, da una parte, come lotta, tutto ciò che di essa si fa allo scoperto, e dall'altra, come caccia, tutto ciò che, invece, avviene di nascosto. TEET. Sì. LO STR. È certo che sarebbe stoltezza il non suddividere in due anche l'arte della caccia. TEET. Di' come. LO STR. Distinguendo la caccia agli esseri inanimati da quella agli esseri animati. TEET. Certamente, se almeno ci sono ambedue questi tipi di caccia. LO STR. Come fanno a non esserci? Ora poi è fuori di dubbio che noi dobbiamo lasciare da parte la caccia agli esseri inanimati, la quale non ha nomi distintivi all'infuori di alcuni che riguardano certe parti dell' arte del tuffarsi e poche altre cose simili, ma la caccia agli esseri animati chiamiamo la "caccia agli animali". TEET. Sia pure. LO STR: Della caccia agli animali non è giusto affermare l'esistenza di due specie, una relativa al genere degli animali che vivono sulla terra ferma, specie la quale a sua volta si distingue secondo molte altre specie e nomi, e la diremo" caccia agli animali terrestri", una seconda che si riferisce agli animali che nuotano, e la diremo complessivamente "caccia acquatica"? TEET. Senza dubbio. LO STR. Del genere dei nuotatori noi vediamo che c'è una specie che è dotata di ali, un'altra che sta sempre sott'acqua. TEET. Come no? LO STR. E ogni tipo di caccia agli animali alati noi la indichiamo col nome di una determinata caccia agli uccelli. TEET. È vero. LO STR. Ed io direi pure che tutto il complesso della caccia agli animali che stanno sempre sott'acqua si dice pesca. TEET. Sì. LO STR. Ebbene? Non dovremmo forse suddividere anche questo tipo di caccia in due grandi parti? TEET. E quali? LO STR. Queste: l'una si fa automaticamente per mezzo di chiusure; l'altra colpendo direttamente la preda. TEET. Come dici e come dividi l'una dall'altra? LO STR. In questo modo: tutto ciò che chiude all'intorno qualche cosa per essere a questa di impedimento mi par giusto chiamarlo "chiusura". TEET. È giusto. LO STR. Forse che diremo altrimenti che" chiusure" le nasse, le reti, i calappi, le trappole da pesca e simili? TEET. Per nulla. LO STR. Con questi mezzi avviene dunque quella parte della caccia ai pesci che noi chiameremo" caccia per chiusura" o in qualche altro modo che vi si avvicini. TEET. Sì. LO STR. Ma quella che si fa dando colpi d'amo e di tridente è cosa diversa, e noi ora dobbiamo denominarla, con una sola espressione, "caccia in certo senso a percussione"; oppure, Teeteto, come si può dir meglio? TEET. Tralasciamo di discutere il nome, anche quanto si è detto può bastare allo scopo. LO STR. La parte della caccia a percussione fatta di notte io penso sia accaduto ai pescatori stessi di chiamarla "pesca col fuoco", perché appunto fatta alla luce del fuoco. TEET. Senza dubbio alcuno. LO STR. Ma invece quella fatta di giorno, dato che anche i tridenti portano all' estremità gli ami, la si è chiamata complessivamente "pesca con l'amo". TEET. Si dice così, infatti. LO STR. La caccia a percussione con l'amo, che si mette in atto colpendo dall'alto in basso, perché ciò si fa per lo più col tridente, qualcuno la chiama, credo, "pesca col tridente". TEET. Sì, alcuni la chiamano così. LO STR. E così è una sola la specie che ci resta da enunciare. TEET. Quale? LO STR. La specie relativa alla percussione opposta a quella già vista, e cioè la percussione che si fa con l'amo e non in un qualsiasi punto del corpo dei pesci, dove càpita che qualcuno colpisca, come col tridente, ma ogni volta avviene colpendo il capo e la bocca della preda e tirando col bastone o con la canna dal basso verso l'opposto, verso l'alto; con quale denominazione si deve indicare ciò, Teeteto? TEET. lo penso che quella cosa che prima noi ci proponemmo di ritrovare, proprio quella ora noi siamo giunti a scoprire. LO STR. E così ora tu ed io per quanto riguarda la pesca con la lenza non solo siamo concordi nella denominazione, ma anche abbiamo acquisito in maniera soddisfacente il discorso che rende ragione della cosa. Di tutta l'arte infatti una metà abbiamo visto essere l'arte dell'acquisire, e, di questa, una metà quella dell'impadronirsi, e, di questa, una metà la caccia, e, di questa, una metà la caccia agli animali, e, di questa, una metà la caccia agli animali acquatici, e, di questa, la metà che sta in basso abbiamo visto essere la pesca nel suo complesso, e, di questa, una metà la caccia ai pesci mediante percussione, e, di questa, una metà la pesca con l'amo; di questa, quella metà che si fa dando il colpo dal basso in alto e tirando, con una denominazione assunta da quella all'azione stessa e così ad essa assimilata, è stata chiamata "pesca con la lenza", l'oggetto della nostra ricerca. TEET. Questo è stato del tutto chiarito in maniera soddisfacente.»
Veniamo ora al passo del Sofista in cui lo Straniero di Elea, dopo aver compiuto il "parricidio" relativo alla dottrina eleatica dell'essere, illustra il metodo dialettico che è proprio del filosofo: metodo che lo distingue dal sofista. Si delinea così quella "comunanza dei generi" (koinonìa ton ghenòn) che caratterizza la nuova visione platonica del mondo delle idee: le idee, i "generi" appunto, sono tra loro in connessione secondo relazioni determinate. Non basta dunque asserire, come faceva Parmenide, che tutto ciò che è, è "essere". Un essere siffatto, che non si collega con niente altro, né con l'uno né col molteplice, né con la quiete né col moto (e che quindi non è né in quiete né in moto, né uno né molti), equivale al puro niente. Ogni idea, invece, è una unità di essere che si mescola con molte altre. Non con nessuna, ma nemmeno con tutte: si tratta di stabilire volta per volta, mediante la dialettica e le sue definizioni, quali relazioni di identità e di differenza siano in gioco per ogni idea. E così lo Straniero elenca anche quei quattro generi sommi, o idee generali, che, accanto all' essere, rendono possibile la comunanza delle idee nel loro complesso. I cinque generi sommi, già ricordati (essere, quiete, moto, identico, diverso), costituiranno il punto di partenza, come vedremo più avanti nel corso della storia della filosofia, delle "categorie" di Aristotele.
«LO STRANIERO. Ora, una di queste ipotesi è necessariamente vera: o tutto si mescola, o nulla si mescola, oppure alcune cose ammettono la mescolanza fra loro, altre no. TEETETO. Senza dubbio. LO STR. E due di queste noi abbiamo già trovato che sono impossibili. TEET. Sì. LO STR. Chiunque allora vorrà rispondere correttamente dovrà ammettere la rimanente delle tre ipotesi. TEET. Perfettamente. LO STR. Io dico che se alcune cose ammettono la mescolanza, e altre no, avverrà presso a poco come per le lettere dell'alfabeto. Infatti alcune di queste, comunque ciò avvenga, non si accordano fra loro, altre sì, invece, si accordano. TEET. Come no? LO STR. Le vocali, differentemente dalle altre lettere, scorrono attraverso tutte le altre come un legame, in modo che senza qualcuna di esse è impossibile anche combinare due delle altre fra loro. TEET. È proprio così. LO STR. Dobbiamo dire allora che ognuno conosce quali lettere possono essere unite ad altre determinate, oppure v'ha bisogno di un' arte a chi si appresta a far ciò e vuole farlo bene? TEET. Di un'arte. LO STR. Di quale? TEET. Della grammatica. LO STR. Ebbene? Non è lo stesso per l'accordo dei suoni acuti e gravi? Non è il musicista colui che possiede l'arte di riconoscere quali si accordano e quali no? E chi non ha questa conoscenza non è forse privo del dono delle Muse? TEET. Certo. LO STR. Noi po-tremo trovare anche altri esempi di ciò sulla base della presenza o della assenza di altre arti. TEET. Come no? LO STR. E allora? Poiché noi abbiamo convenuto sul fatto che anche i generi si mescolano fra loro secondo lo stesso principio, non è forse ora necessario che svolga il suo discorso sulla via segnata da una qualche scienza chi vuole dimostrare con precisione e correttamente quali sono i generi che si accordano con altri determinati e quali invece fra loro non ammettono di collegarsi? E così vedere se ce ne sono alcuni che mantengono la loro continuità attraverso tutti gli altri, in modo che questi possano mescolarsi e poi invece, dove vi è separazione, vedere se ci sono altri generi cause della suddivisione fra complesso e omplesso appunto di generi? TEET. E come non v'è bisogno infatti di una scienza, e direi, forse, della scienza più importante? LO STR. Come dunque denomineremo quest'altra scienza, Teeteto? Forse che, per Zeus, noi inavvertitamente siamo venuti a cadere nella scienza degli uomini liberi e v'ha probabilità che ora, mentre stiamo cercando il sofista, prima del sofista abbiamo già scoperto il filosofo? TEET. Come dici? LO STR. Il suddividere per generi e non credere che una specie che è identica sia invece diversa, né pensarla identica se invece è diversa, non diremo che appartiene alla scienza della dialettica? TEET. Sì, lo diremo. LO STR. Dunque chi è capace di fare quanto sopra è in grado di distinguere con esattezza una determinata ed unica nota caratteristica del reale fra molte altre di cui ciascuna sta come una unità separata dalle altre, una nota dico appartenente a tutte queste, e così molte, diverse fra loro, tutte circondate dal di fuori da una sola, e poi una sola di queste che inerisce con continuità a molte totalità di esse ed è in se stessa una unità continua, e ancora molte, distinte, e assolutamente non collegate fra loro. Questo è in fin dei conti il saper distinguere per generi, vedendo dove ciascuno di essi può e dove non può entrare in comunicazione. TEET. È assolutamente questo. LO STR. E allora tu non attribuisci, io penso, questa arte dialettica a nessun altro che non sia il puro e il vero filosofo. TEET. E si potrebbe attribuirla ad altri? LO STR. Noi quindi troveremo il filosofo in questo luogo, ora e in futuro, se lo vorremo cercare, ed è cosa difficile vedere con chiarezza anche quest'uomo; ma è una difficoltà diversa da quella che presenta il sofista, questa che presenta il filosofo. TEET. Come? LO STR. Quello sfugge nella oscurità di ciò che non è, e vi si attacca con l'abilità che gli viene dall'esercizio, è pertanto difficile coglierlo ed individuarlo per l'oscurità del luogo. Non è vero? TEET. Sembra di sì. LO STR. Il filosofo invece, il quale costantemente mediante i suoi ragionamenti si stringe alla natura propria di ciò che è, a sua volta non è per nulla agevole da osservarsi a causa della luce di questa regione; infatti gli occhi dell'anima della moltitudine non possono sopportare la vista del divino. TEET. Anche questo non è meno verosimile di quanto prima dicevi. LO STR. Il filosofo allora noi lo esamineremo con maggiore precisione fra poco, se ne avremo voglia ancora; quanto al sofista è chiaro, direi, che non bisogna lasciarlo andare prima di averlo studiato fino in fondo. TEET. Hai ragione. LO STR. Poiché dunque abbiamo convenuto che alcuni generi ammettono di entrare in comunicazione fra loro, altri no, e alcuni in bravi limiti, altri in una molteplicità di relazioni, e ancora ce ne sono alcuni che nulla impedisce a che si colleghino a tutti gli altri in tutte le cose, noi, tutti insieme, tiriamo a noi col nostro discorso ciò che ne segue e vediamo, non certo per tutti i generi, per non essere noi tutti messi in confusione dalla loro moltitudine, ma scegliendo alcuni fra quelli che sono detti i più importanti, vediamo prima di tutto che cosa è ciascuno di questi che sceglieremo, e poi vediamo quale potenza di comunicazione reciproca essi hanno, affinché, anche se non possiamo cogliere con perfetta chiarezza" ciò che è" e" ciò che non è", almeno non lasciamo in nulla incompleto su di essi il nostro discorso, per quanto è possibile fare ciò seguendo il metodo della nostra presente ricerca, sempre che in qualche modo sia permesso a noi che affermiamo che" ciò che non è" è realmente ciò che non è, di uscirne senza gravi danni. TEET. Bisogna far così. LO STR. Tra i generi dunque, i più importanti sono quelli di cui noi abbiamo trattato poco fa,"ciò che è", in quanto tale, la quiete e il moto. TEET. Certo. LO STR. E noi affermiamo che due di questi non si possono mescolare fra loro. TEET. Sicuramente. LO STR. E "ciò che è" è mescolabile ad ambedue; ambedue infatti sono. TEET. Come no? LO STR. Quindi vengono ad essere tre. TEET. Certo. LO STR. Ciascuno di essi, allora, è diverso dagli altri due, e identico a se stesso. TEET. Appunto. LO STR. Ma che cosa abbiamo noi mai inteso dire ora, dicendo "identico" e "diverso"? Sono questi forse due generi, altri dai tre di prima, sempre necessariamente misti a quelli? Dobbiamo così ricercare su cinque e non su tre, per essere essi appunto cinque, oppure invece noi ci inganniamo chiamando coi nomi "identico" e" diverso" qualcuno di quei tre generi? TEET. Forse. LO STR. Ma il moto e la quiete non sono per niente né il diverso né l'identico. TEET. Perché? LO STR. Perché qualsiasi termine noi attribuiamo insieme sia alla quiete che al moto, questo termine non può indicare né l'uno né l'altro di essi due, quiete e moto. TEET. E perché? LO STR. Perché il moto starebbe e la quiete si muoverebbe. Uno dei due infatti, quale si sia, nell'un caso e nell'altro, sopravvenendo ad essi due, costringerà l'altro a mutarsi nell'opposto, in quanto esso sarà venuto a partecipare del suo opposto. TEET. Proprio così. LO STR. Partecipano quindi ambedue dell'identico e del diverso. TEET. Sì. LO STR. Non diciamo dunque che il moto è l'identico o il diverso e neppure, d'altra parte, diciamo così della quiete. TEET. No. LO STR. Ma forse dobbiamo pensare come una cosa sola "ciò che è" e l'identico? TEET. Forse. LO STR. Ma se non significano nulla di diverso" ciò che è" e "identico", allora dicendo che sia il moto che la quiete, ambedue, sono, di nuovo noi verremo così a dire che ambedue sono la stessa cosa. TEET. Questo è certamente impossibile. LO STR. È quindi impossibile che l'identico e"ciò che è" siano una cosa sola. TEET. Direi di sì. LO STR. Poniamo quindi come quarto genere oltre ai primi tre, l'identico? TEET. Certamente. LO STR. Ebbene? Dobbiamo dire che quinto è il diverso? O dobbiamo pensare che questo e"ciò che è" sono due denominazioni applicate ad un solo genere? TEET. Forse. LO STR. Ma io credo che tu mi conceda che delle cose che sono si danno due generi, alcune si dicono essere quello che sono sempre in relazione a se stesse, altre sempre in relazione ad altro. TEET. E come no? LO STR. Il diverso è sempre in relazione al diverso. Non è vero? TEET. Certo. LO STR. Ciò non avverrebbe se"ciò che è" e il diverso non differissero totalmente; se però il diverso partecipasse di ambedue questi generi, come"ciò che è", si potrebbe dare il caso di un diverso che non sarebbe diverso rispetto ad un' altra cosa, ma invece ora ci risulta certissimamente che ciò che è diverso, è questo che è necessariamente in relazione ad altro. TEET. È proprio così come dici. LO STR. Dobbiamo dunque porre la natura del diverso come quinto fra i generi da noi prescelti. TEET. Sì. LO STR. Ed essa è diffusa attraverso tutti gli altri, dobbiamo affermare; infatti ciascuno di essi è diverso dagli altri, non per sé, ma per il fatto che partecipa al carattere proprio del diverso. TEET. Perfettamente.»
Come le idee si collegano tra loro, riflettendo poi negli individui materiali le loro connessioni formali, così si collegano i segni del discorso o "segni fonici". Questi segni, dice Platone, sono di due specie: i verbi, che indicano l'azione, e i nomi, che indicano coloro che compiono le azioni. Essi si devono combinare (una successione di soli nomi, come "leone", "cervo", "cavallo", non costituisce un discorso, e neppure una connessione di soli verbi come "cammina", "corre", "dorme") e devono combinarsi in modo da riflettere la reale connessione delle corrispondenti idee. L'errore, dunque, come abbiamo già notato, consiste non nell'affermare ciò che in assoluto non è, ma nello stabilire connessioni errate, non rispondenti al vero, cioè non corrispondenti alle reali connessioni che legano le idee. A questo punto Platone è in grado di definire, in modo esatto e coerente, che cosa si debba intendere con le parole "pensiero", "sensazione" e "opinione". È un passo che si può considerare in ogni senso decisivo, in forza del quale possiamo intendere la nascita della filosofia come vera e propria scienza. Anche i presocratici avevano parlato di pensiero e gli avevano attribuito il compito di intendere la verità (per esempio Eraclito, Parmenide e Anassagora). Nessuno di loro aveva però inteso la natura "dialettica" del pensare; e così il pensiero si era configurato come una intuizione privilegiata della verità o dell' essere, una intuizione di tipo diretto e immediato. In tal modo, però, il pensare non si caratterizzava in modo diverso da quella immediata intuizione delle cose che è fornita dalla sensazione: come allora distinguerli? Pensare o sentire non fanno differenza, e così si comprende che Protagora potesse ridurre il primo al secondo. Ne consegue che tutto si risolve in mere opinioni, relative e mutevoli.
Le tre attività dell'anima
Ora invece Platone è in grado di porre distinzioni essenziali tra pensare, sentire e opinare. Egli delinea in tal modo, per la prima volta, una compiuta descrizione dell' anima, distinta nelle sue tre principali attività. Ai suoi estremi stanno il sentire (che è la pura ricettività del corpo) e il pensare (che è l'attivo ragionare, il dialogare muto dell'anima con se stessa). Ma come mediatore si pone l'immaginare: attività mista che, muovendo dalle sensazioni, perviene a conclusioni verosimili (a opinioni, appunto), le quali tuttavia possono essere sia vere sia false. Ed è appunto il ricorso all'immagine la mossa vincente e risolutiva di Platone: posta a mezza via tra il vero e il falso, tra le ombre del sensibile e la luce dei concetti veridici, l'immagine rende possibile la spiegazione dell'errore e la collocazione del sofista tra coloro che producono opinioni illusorie, cioè appunto discorsi che, pur essendo in loro stessi "qualcosa" (e non nulla), tuttavia non corrispondono ad alcuna cosa reale. Nasce in tal modo, dobbiamo aggiungere, una nozione di anima come mondo interiore e soggettivo, capace di immagini, contrapposto al mondo esteriore delle "cose stesse", nozione che da allora resterà canonica e sostanzialmente immutata in tutta la tradizione dell'Occidente. In altre parole, nelle righe che seguono dobbiamo leggere il battesimo dell'uomo occidentale; esso d'ora in poi si caratterizzerà come uomo dell'interiorità soggettiva che, tramite la ricerca razionale condotta dal pensiero, si volge alla definizione e alla scoperta "scientifica" del mondo oggettivo, inteso come mondo universalmente vero per tutti gli uomini, sia che essi lo sappiano, sia che non lo sappiano ancora. Ogni rapporto con l'umanità del mondo sacrale e con la parola del mito è in tal modo spezzato. L’Occidente si considererà, da allora, la terra della verità e il luogo della sua storica manifestazione, cui tutte le altre umanità e culture dovranno un po' alla volta uniformarsi.
«LO STRANIERO. E allora? Il pensiero e l'opinione e l'apparenza [= l'immagine] non è ormai evidente che sono tutte cose, queste, che si producono nella nostra anima ora false, ora vere? TEETETO. Come? LO STR. Lo capirai più facilmente se prima tu comprenderai che cosa esse sono e in che cosa ciascuna differisce dalle altre. TEET. Non hai che da dirmelo tu. LO STR. Il pensiero, dunque, e il discorso sono la stessa cosa, con la sola differenza che quel discorso che avviene all'interno dell'anima, fatto dall'anima con se stessa, senza voce, proprio questo fu denominato da noi "pensiero".Va bene?TEET. Benissimo. LO STR. Non si è chiamato "discorso" invece il flusso che dall'anima esce attraverso la bocca e si accompagna al suono della voce? TEET. È vero. LO STR. E d'altra parte, noi per certo sappiamo che nei discorsi c'è ... TEET. Che cosa? LO STR. L'affermazione e la negazione. TEET. Lo sappiamo. LO STR. E quando ciò si realizza nell'anima, come pensiero, in silenzio, sai tu come chiamare questo fatto altrimenti che opinione? TEET. E come se non così? LO STR. E quando tale affermazione si verifica, in qualcuno, non più per sé ma sulla base della sensazione, è possibile chiamarla senza errore altrimenti che "apparenza" [= immagine]?TEET. Non è possibile. LO STR. Poiché dunque abbiamo visto che il discorso è vero e falso, e poiché, fra i discorsi, il pensiero noi vedemmo che è una conversazione che l'anima fa con se stessa, e poi l'opinione è la conclusione del pensiero, e vedemmo pure che quando diciamo la parola "appare" [= io immagino] v'è una mescolanza di sensazione e di opinione, è certo necessario anche ammettere che essendo le apparenze [= le immagini] congeneri al discorso, alcune di esse e qualche volta siano false. TEET. Come no? LO STR, Ti rendi conto allora che abbiamo trovato l'opinione falsa e il discorso falso prima di quanto poco fa prevedevamo, tanto da temere, poco fa, di compiere un'opera completamente vana conducendo questa ricerca? TEET. Me ne rendo conto perfettamente.»
Platone, dunque, fa dire allo Straniero che nella nostra anima si producono tre cose, ora false e ora vere. Esse sono il pensiero (diànoia), l'opinione (dòxa), e (io tradurrei) l'immaginazione (fantasìa). il nostro brano usa invece la parola" apparenza", che è a sua volta corretta (la radice fan di fantasìa indica ciò che appare, che viene alla luce, che si mostra), ma forse non idonea a rendere bene ciò che qui si sta dicendo. Platone infatti pone le seguenti distinzioni: c'è il pensiero che, scaturendo dall'anima, si esprime nei suoni della voce; c'è il pensiero silenzioso che l'anima produce in se stessa e che mette capo a opinioni. In entrambi si procede per affermazioni o negazioni (si afferma o si nega qualcosa relativamente a qualcosa; per esempio si dice: "La neve è bianca" o "La neve non è bianca"). Quando invece l'opinione si produce sulla base della sensazione, allora essa mette capo a una fantasìa, a un'immagine o immaginazione. In tal modo la capacità dell'anima di immaginare viene da un lato collegata al discorso (poiché mette capo a un'opinione), dall'altro alla sensazione. Questa attività mista dell'anima è così passibile di errore: alcune immagini che l'anima si fa, mossa dalle sensazioni, producono opinioni che sono meramente illusorie, mere "apparenze", appunto; altre invece saranno opinioni vere.
Si noti che in tal modo il" sensismo" protagoreo viene superato. Infatti è vero che quello che uno sente lo sente così come lo sente (io sento caldo, tu senti freddo e per ognuno dei due questa è una "verità" inconfutabile). Ma ciò che la sensazione mostra all'anima, provocando in essa una corrispondente opinione ("Oggi fa caldo", "Oggi fa freddo"), non è per questo equivalente a come la "cosa" è in sé ("Oggi è caldo", "Oggi è freddo"). La sensazione, si potrebbe dire, è un fatto fisico, materiale. Ma le immagini che ne derivano all'anima sono, diremmo oggi, un fatto "psichico", un immaginare interiore. Il quale corrisponde sì allo stato del corpo che sente, ma non è detto che corrisponda allo stato oggettivo della cosa di cui opina ("Oggi è caldo" ecc.). A questa "oggettività" della cosa non perveniamo mediante sensazioni e opinioni soggettive, ma con un pensare razionale (dialettico) che è fondato per tutti su come la cosa "è" (su come sono e sono definibili le idee o forme di essa), e non per come io la sento o me la immagino.
In conclusione, dobbiamo scorgere in questi passi platonici la nascita e la costituzione della "realtà psichica" dell'anima, distinta dalla "realtà fisica" dei corpi. Non stiamo dicendo, si badi, che Platone ha "scoperto" che le cose stanno così (realtà psichiche interiori più realtà materiali e oggettive esteriori). Stiamo dicendo che egli ha inaugurato questo straordinario modo di vedere le cose e di spiegarle "razionalmente": gesto le cui conseguenze camminano ancora con noi, con le nostre opinioni di uomini moderni e con le nostre scienze della natura e dello spirito. Di fatto Platone, costruendo, "inventando", si potrebbe dire, l'anima logica e razionale (riflesso "epistemico", cioè scientifico, della voce interiore di cui Socrate fu lo scopritore e il modello), ha nel contempo imposto a tutta l'umanità occidentale l'idea di una realtà esteriore "in sé" del mondo e delle cose del mondo.
La "cosa in sé" è così pensata come il corrispettivo "oggettivo" delle sensazioni, delle immagini e dei pensieri dell'anima e su questa idea si basa la possibilità di una conoscenza certa e veritiera, cioè "razionalmente" condivisibile da chiunque ragioni "dialetticamente". Questa idea di un mondo universale e oggettivo posto di contro all'uomo, alla sua mente razionale, è il fondamento filosofico di tutta la ricerca scientifica europea dall' antichità ai nostri giorni. In altre parole, tutta la nostra scienza o tutte le nostre scienze non esisterebbero, non sarebbero immaginabili o concepibili, senza questo preliminare gesto della filosofia: esse ne sono la prosecuzione e la realizzazione storica.
Riassumiamo ora, in sintesi, la conclusione del Sofista. Il sofista, si era detto al!'inizio, non possiede vera sapienza, ma solo immagini illusorie di essa. Egli "imita" il sapere e in questo senso è un mimo della verità. La sua arte mimetica è la retorica, che esercita in privato, in cambio di mercede, o in pubblico, come oratore politico. Anche il filosofo può definirsi un mimo: anche lui imita la verità producendone l'immagine "nelle azioni e nelle parole". Sofista e filosofo hanno lo stesso sangue, sono congeneri, e infatti si occupano delle stesse cose: la verità delle cose umane e sovrumane, la politica e la scienza dell'universo. Ma sono congeneri come il lupo e il cane: il primo, il sofista, è selvaggio e distrugge il gregge; il secondo, il filosofo, è mansueto e lo protegge.