La filosofia è quel sapere che si distingue da tutte le altre scienze e arti perché anzitutto non si limita a coltivare un sapere particolare, ma considera il sapere complessivo in quelli che sono i suoi fondamenti universali di verità. Essa chiede non cosa sia questo o quel sapere, ma in che consista il sapere in generale e cosa esso propriamente sappia con garanzia di verità non controvertibile.
In secondo luogo la filosofia accompagna ogni sapere e il suo saper "come fare", cioè con la comprensione del "retto uso" di ciò che si sa. In altri termini, la filosofia è un fare sapiente che coincide con il sapersi servire di ciò che si fa. La filosofia, infatti, tiene di mira il bene ultimo e complessivo delle nostre azioni sia pratiche sia teoriche. Essa è così un sapere rivolto al fine delle umane operazioni e dei saperi particolari, e non soltanto al modo della loro esecuzione. In questo senso Platone ribadisce a più riprese che la filosofia, la sua scienza, coincide infine con la politica.
Non con la semplice azione politica dei politici di professione, ma con quella più alta politica che si offre come criterio e come modello per il governo della vita sociale e come luogo di assicurazione dei valori essenziali. Il filosofo, sostiene Platone contro i sofisti, contro Protagora, Gorgia o Trasimaco, è il vero politico, proprio perché non è un mero specialista della politica, un tecnico dei discorsi retorici preoccupato unicamente di prevalere nelle assemblee e di ottenere l'effimero consenso popolare, ma ignaro poi di come costruire un discorso che sia "vero" in sé e che si faccia carico di un "bene" effettivo e appropriato a tutti gli esseri umani. Come costruire però un discorso "vero"? Come pervenire alla verità? Protagora per primo e poi tutta la sofistica avevano efficacemente mostrato la controvertibilità di ogni tesi e l'inesistenza di una verità assoluta. Non esiste qualcosa come «la verità"; esistono solo opinioni molteplici e multiformi, espresse in contraddittori discorsi da parte degli esseri umani, mossi da emozioni e credenze, interessi e passioni contingenti e mutevoli.
A tutto ciò Socrate opponeva la "ricerca" della verità, dopo che la sua ironia aveva fatto piazza pulita di ogni opinione. All'opinione egli opponeva l'esigenza di "definire" ciò che si cercava. Per esempio chiedeva di definire la "virtù", rifiutando opinioni soggettive e infondate o semplici esemplificazioni di azioni o personaggi supposti virtuosi.
Con questo suo domandare egli metteva fuori gioco sia la tradizione oralistica fondata sulla esemplificazione mitica, sia la tecnica sofistica della mera dimostrazione per assurdo o della dimostrazione eristica di qualsivoglia tesi. Egli chiedeva: «che cosa è (ti esti) virtù?». Secondo l'interpretazione di Platone, sollevando la domanda «che cosa è?» egli intendeva sollecitare la ricerca di quali siano i caratteri che definiscono la virtù e che ne mostrano l'essenza, ciò che la virtù è "in sé". In altri termini, quel qualcosa di comune che rende virtuosi gli atti e gli esempi che riteniamo tali, posto che davvero lo siano.
Come però procedere su questa via di ricerca? È quanto meno dubbio che Socrate abbia davvero percorso sino in fondo questa via. Forse egli si arrestò alla confutazione ironica delle opinioni infondate. Pare che il cinico Antistene opponesse a Platone, che pretendeva di interpretare il dialogare socratico come un avvio al sapere e alla scienza, la seguente obiezione di sapore eristico: se dobbiamo cercare qualcosa che non conosciamo (per esempio cosa sia "virtù"), come e dove potremo mai trovarlo? Come riconoscerlo, anche ammesso che ci imbattessimo in ciò che cerchiamo? D'altra parte, se lo conosciamo già, se siamo in grado di riconoscerlo (il che vuol dire che già lo si conosce), perché mai o a che scopo cercarlo? La risposta di Platone si potrebbe così riassumere: Antistene ha in certo modo ragione, sebbene ignori di che ragione si tratta. Sì, è vero, quel che cerchiamo lo conosciamo già, salvo che ignoriamo di conoscerlo. E così ci aggiriamo tra incerte opinioni e presunzioni infondate di sapere. L'opinione, la doxa, è infatti come una conoscenza offuscata, piena di ombre e di abbagli. Scopo della ricerca è la sua purificazione, che dissolve le nebbie dell' opinione con la luce della verità.
Si potrebbe dire che in tal modo Platone capovolga il motto socratico, il «sapere di non sapere». In verità noi non sappiamo di sapere ed è di questa "ignoranza" che la ricerca della verità deve farsi carico. Questo rovesciamento apre la via alla tesi tipica del platonismo (sebbene Platone, nei suoi Dialoghi, la metta in bocca, quasi di certo arbitrariamente, a Socrate): la teoria delle idee.
La domanda socratica chiede di definire il "che cosa", il tratto essenziale e tipico del ricercato. Vi è dunque qualcosa che accomuna tutti i casi simili, per esempio tutti gli esempi di virtù. È questo qualcosa, sebbene oscuramente inteso, che dà senso alla parola "virtù" e che la rende comprensibile ogni volta che la usiamo. Ma lo stesso è poi da dirsi di ogni cosa e di ogni parola che la esprime. Come tutti sappiamo, le piante, gli animali, gli uomini, le cose in genere posseggono caratteri tipici che consentono di riconoscerle e di nominarle; esse hanno una forma comune, una struttura caratteristica.
Naturalmente ogni cosa individuale, ogni individuo, proprio in quanto tale, presenta anche aspetti particolari o accidentali. Un uomo può essere greco o persiano, alto o basso, giovane o vecchio, desto o addormentato ecc. Ma oltre a questi aspetti particolari e accidentali è innanzi tutto un "uomo"; possiede cioè l'"umanità" come carattere tipico, paradigmatico ed essenziale, carattere che lo accomuna a tutti gli uomini e che lo distingue da un cavallo, da un albero e insomma da qualsiasi altro "essere". Ora, questo carattere comune, questa forma universale sempre identica, è ciò che Platone chiama idea, o anche essenza (ousia). È sulla base di questa intuizione che Platone può superare il relativismo scettico dei sofisti. L'esperienza sensibile è vaga e mutevole e le nostre opinioni lo sono altrettanto; tuttavia non viviamo immersi in un divenire privo di ogni regola e di ogni forma. Gli individui sono tutti diversi e contingenti, nascono e muoiono, mutano di continuo. Ma questo regno del divenire è anche compenetrato da qualcosa di stabile, da un essere permanente, da strutture costanti e paradigmatiche.
Per questa via Platone giunge allora a concepire una duplice dimensione della realtà: c'è un mondo degli individui, transeunti e mutevoli, e c'è un mondo di pure forme che fungono da modelli, da paradigmi appunto, di ciò che negli individui mutevoli resta nondimeno costante: il mondo delle idee. In questo senso gli individui materiali non sono che "copie" plasmate a imitazione delle pure idee, cioè delle forme essenziali o modelli eterni di tutto ciò che sulla terra nasce, si sviluppa e muore.
In quanto eterne e incorruttibili, le idee sono allora considerate da Platone più reali degli individui. Esse costituiscono un regno a parte, un mondo ultraterreno, iperuranio, ovvero posto al di là del cielo e della terra materialmente percepibili. Le idee sono il modello, la forma eterna di tutte le cose materiali. Le cose materiali sono immerse nel divenire e, come tali, sono solo copie contingenti e imperfette del mondo dell'essere, cioè del mondo delle idee. In certo modo Platone accoglie le due grandi intuizioni di Eraclito e di Parmenide e le rende compatibili distinguendole in due mondi separati e insieme comunicanti.
Ma le idee non sono solo un semplice modello. Esse organizzano il divenire delle cose del mondo secondo un ordine e un'armonia che tende a un fine buono. Qui, si potrebbe dire, si innesta l'ispirazione socratica, la sua tipica ricerca del bene. Tutte le cose tendono infatti alla realizzazione della loro forma, per quanto consente l'accidentale materia di cui sono fatte. Ogni uomo, per esempio, tende a realizzare in sé l'essenza dell'umanità o dell'umano, l'idea perenne di uomo, sebbene possa farlo sempre e solo in parte, affetto com'è dalla sua accidentale natura materiale e dal suo destino limitato e mortale.
Ora, questa tendenza alla forma è resa possibile dall'idea del Bene. Essa costituisce il culmine del mondo ideale, il suo ultimo fine e scopo. Come tale l'idea del Bene è più che una pura essenza e sopravanza pertanto ogni umano concetto e ogni possibile conoscenza. Essa è il senso ultimo dell' essere e di ogni cosa che è. In che modo però le idee impongono la loro forma alla materia, modellando in concreto gli individui a loro somiglianza o come loro copia sia pure imperfetta e contingente? Una volta separati i due mondi degli individui materiali e delle idee, come però ricongiungerli in modo che l'idea del Bene, unità ultima e culmine del mondo delle forme eterne, possa agire come causa finale e principio armonizzatore dell'universo? Ecco i tipici e ricorrenti problemi del platonismo, problemi che Platone tentò in vario modo di risolvere, senza pervenire a una soluzione soddisfacente.
Talvolta Platone ricorre al mito per adombrare una soluzione razionale ancora problematica. Il mito, in Platone, non è naturalmente un ritorno alla sapienza arcaica. Esso è piuttosto un racconto immaginifico e simbolico, un espediente letterario di grande bellezza e fantasia posto a significare i lati più profondi e oscuri dell'umana esperienza.
Sul piano più strettamente razionale, Platone tenta due soluzioni circa il rapporto tra idee e individui: l'imitazione (mìmesi) e la partecipazione (metessi). Gli individui materiali sono simili alle idee, assomigliano all'idea pur senza eguagliarla; oppure partecipano alla forma ideale, ne fanno concretamente parte. Entrambe le soluzioni proposte sono però problematiche. Se, per esempio, questo individuo umano è simile all'idea di uomo, non lo è però in quanto individuo, cioè per i tratti accidentali che lo caratterizzano. È necessaria allora una forma intermedia particolare che, da un lato, sia simile all'individuo e dall'altro all'universalità dell'idea. Ma lo stesso problema si ripropone per la forma particolare intermedia che esigerà, per essere simile all'universalità dell'idea, una quarta forma e così via. Questo argomento, detto "del terzo uomo" (terzo tra l'individuo e l'idea), verrà ripreso da Aristotele per sottolineare l'irrisolta spaccatura platonica tra mondo ideale e mondo materiale. Anche la partecipazione non risolve la questione. Se gli individui partecipano, ognuno a suo modo, della forma dell'idea, di fatto essi ne frantumano l'unità universale, vale a dire proprio ciò che, al di là delle loro differenze individuali, li rende uomini. Grazie alla teoria delle idee Platone risolve nondimeno il problema della conoscenza, cioè spiega l'origine di quell'oscuro sapere che si accompagna alle sensazioni e alle opinioni e che costituisce, come abbiamo detto, una sorta di «non sapere di sapere», sulla cui base avviare la ricerca del sapere vero, contro le obiezioni di Antistene.
Il sapere filosofico-dialettico non è però fine a se stesso. Come abbiamo accennato, esso è lo strumento che guida l'uomo a "vedere" le idee e così a comprendere il vero ed il bene che è nelle cose. Ma questa visione deve tradursi poi in una conforme organizzazione della società umana e dello Stato, basati sulla verità e sulla giustizia.
Il filosofo deve dunque tornare nella caverna e farsi politico e governatore. È questa una delle tesi centrali del pensiero di Platone: i mali che affliggono le città degli uomini, egli dice, non cesseranno sino a che i filosofi non si facciano governanti o i governanti filosofi.
Infatti, solo chi conosce il vero essere delle cose è anche in grado di comandare e di ispirare azioni giuste e sagge. Il male, dice Platone (probabilmente riprendendo una tesi socratica), è frutto di ignoranza. Nessuno vuole la propria infelicità e se vi incorre è perché ignora cosa sia il bene o il suo vero bene. Tesi che, riconducendo il male non alla volontà malvagia, ma all'errore del giudizio, è stata definita dai moderni come "intellettualismo morale".
L'uomo ignaro di filosofia, cioè di «scienza» del bene, sbaglia nel giudicare i beni della vita e ciò che egli crede sia la sua felicità. Influenzato dalle passioni del corpo, da avidità e paura, immagina che sia felice chi vive fra i piaceri dei sensi e le ricchezze, nonché colui che, come il tiranno, può dominare sugli altri uomini, usandoli a suo talento come schiavi o come strumenti e mezzi in vista dei suoi desideri. Un simile uomo è in realtà infelice, sempre affannato, ansioso e deluso, poiché affida la sua felicità a cose effimere, incerte e ingannevoli, il cui possesso è sempre minacciato e non dipende infine dalla sua volontà. Solo la pace interiore dell'anima è un possesso durevole ed essenziale per la felicità dell'uomo. Essa si raggiunge, come diceva Socrate, nel prendersi cura della propria anima, conoscendone a fondo il bene e astenendosi sempre dalla violenza e dall'ingiustizia.
Va anzitutto ricordato che, per questa soluzione, Platone ricorre alla teoria pitagorica della metempsicosi, cioè della trasmigrazione e reincarnazione dell'anima immortale in una vicenda di corpi mortali. L'anima dell'uomo, dunque, prima di incarnarsi nel corpo viveva nell'iperuranio, al cospetto delle idee. Essa poteva così contemplare le essenze di tutte le cose e conoscerle. Incarnatasi nel corpo, l'anima dimentica la sua visione, e cioè le idee ("idea" significa infatti "visione", dalla radice "vid", donde anche la parola latina video). Ma nella sua esperienza terrena l'uomo incontra, tramite la sensazione, le cose materiali, portatrici, sia pure imperfette, della loro forma ideale specifica. In tal modo l'anima viene stimolata a "ricordare" le idee. È questa "reminiscenza" la base del conoscere. «Conoscere è ricordare», dice Platone: "riconoscere" cioè nell'individuo la presenza dell'idea. In tal modo la sensazione fornisce all'anima l'occasione per recuperare la visione iperuranica delle idee.
Il momento della reminiscenza non è che il primo e ancora imperfetto stadio della conoscenza, che mette capo alle incerte e mutevoli opinioni. Per giungere alla conoscenza adeguata e alla vera e propria scienza, cioè al ricordo chiaro e compiuto delle idee, è necessaria una ricerca specifica. Essa supera il livello meramente sensibile tramite la visione intellettuale dell'anima. Platone distingue in proposito la vista materiale degli occhi, colpiti dalle sensazioni ma incapaci di sollevarsi da soli al sapere (e in questo senso ciechi alla verità) e la vista spirituale della mente, capace di pervenire al concetto, cioè a quella nozione universale (per esempio l'uomo) che è il riflesso "psicologico" della realtà "ontologica" dell'idea (l'uomo in sé). La psiche (l'anima) e le idee (l'essere, la realtà ultima e vera) sono così poste in relazione indissolubile a significare l'ambito della verità.
Questo passaggio dalla sensazione al concetto e alla verità è il compito appunto del sapere filosofico, cioè della scienza (epistéme). In tal modo Platone ha posto le basi di tutto il sapere razionale dell'Occidente, della filosofia e della scienza future.
Il modo di procedere della scienza filosofica per accedere alla verità e al concetto si precisa soprattutto nei dialoghi della maturità e della vecchiaia. Qui Platone mette a punto il procedimento dialettico della definizione, che è poi la risposta adeguata alla domanda socratica, al suo «tì esti»: «che cosa è» ciò su cui si indaga. Poiché le cose materiali, gli individui, riproducono in sé le strutture ideali, è nel mondo delle idee che il filosofo deve trovare la risposta circa la verità e l'essenza del reale incontrato nell' esperienza sensibile.
In proposito Platone distingue quattro gradi del conoscere. Il primo è caratterizzato dalla sensazione, che ci fornisce solo ombre di verità, oscure e incerte: per esempio colori, suoni ecc. Un secondo grado è caratterizzato dall'opinione, che coglie l'unità degli individui empirici; cioè non solo le sensazioni, ma i comuni oggetti dell'esperienza, le cose del "senso comune" come "questo uomo" e simili. Il terzo grado procede oltre il dominio empirico, aiutandosi con schemi e figure geometriche, cioè con una generalizzazione figurativa della forma delle cose. Il quarto grado, la dialettica, rivolge finalmente lo sguardo della mente alle idee, procedendo a definirle compiutamente.
La distinzione delle forme della conoscenza (e, corrispondentemente, della realtà) si articola (come porzioni della linea) in quattro gradi: congettura (eikasìa), credenza (pìstis), ragione (diànoia) e intelletto (nous). Essi individuano essenzialmente quattro livelli di certezza: i primi due riguardano l'esperienza non scientifica, ma distinta o meno da un ordine; gli altri due la conoscenza scientifica, distinta però dall'avere o meno una "ragione ultima". Con quest'ultima distinzione, Platone rivendica una superiorità di natura della filosofia sulla scienza, il cui senso egli ribadirà nel Fedone, ed ha naturalmente un fine politico.
Questo processo è raffigurato da Platone nel celebre mito della caverna, raccontato nella Repubblica. Si potrebbe dire: il mito fondatore di tutto il sapere dell'Occidente. Il mito narra di uomini che, dalla nascita, si trovano incatenati al fondo di una caverna. Impossibilitati a girare anche solo il capo verso l'apertura, essi possono unicamente guardare il fondo della caverna, che è illuminata da un fuoco acceso alla sua apertura. Di qui, su un muricciolo, passano simulacri di cose, come alberi, animali ecc. Gli uomini incatenati ne scorgono l'ombra riflessa sulla parete della caverna e, poiché non hanno mai visto altro in vita loro, immaginano che quelle ombre siano tutta la realtà e la verità esistenti. Ma se potessero girare la testa verso l'apertura della caverna, si accorgerebbero che più veri sono gli oggetti fittizi che generano le ombre.
Se poi uno di loro potesse liberarsi dalle catene e uscire dalla caverna, dapprima i suoi occhi resterebbero come accecati dalla luce del sole e non vedrebbero nulla. Allora tenterebbe di abituare i suoi occhi tenendoli abbassati e vedrebbe le immagini delle cose esistenti nel mondo osservandone l'immagine riflessa nelle acque dei fiumi e dei laghi. Poi, avvezzatosi alla luce, guarderebbe direttamente le cose reali esistenti alla luce del sole, scoprendole come modelli degli oggetti fittizi visti sul muretto della caverna. Infine, educata la sua vista, oserebbe fissare lo sguardo sulla luce stessa del sole, che ogni cosa illumina e alimenta.
Il mito è un'esemplificazione plastica dei quattro gradi del conoscere. Le ombre della caverna sono le sensazioni; gli oggetti sul muretto corrispondono alle opinioni; le immagini riflesse nelle acque sono quelle figure geometriche che preparano la vera scienza filosofica; le cose reali sono infine le idee e il sole è quell'idea del Bene che presiede all'ordine dell'universo.
Il mito continua dicendo che l'uomo, uscito dalla caverna ed estasiato dalla visione che ha conseguito, non vorrebbe più tornare indietro. Ma, preso da pietà per i suoi compagni, decide di ritornare presso di loro per liberarli dalle ombre e dalle catene, come ha fatto lui stesso. Impresa ardua e pericolosa, perché, non creduto dagli uomini cavernicoli, affezionati alle loro ombre e alle loro catene e timorosi di abbandonarle, potrebbe essere perseguitato e messo a morte da loro. Nondimeno l'uomo liberato non rinuncia e in ciò Platone adombra il compito politico che il filosofo ha il dovere di affrontare, tema fondamentale delle sue opere. Nel contempo è ancora la figura di Socrate che viene qui adombrata: colui che volle tentare di aprire gli occhi dei concittadini alla filosofia e che pagò la sua generosità e la sua audacia con la morte.
Per esprimere la natura dell'anima umana, Platone si è servito di splendidi racconti e miti, come quello della biga alata. L'anima dell'essere umano è qui raffigurata come un cocchio che gira nell'iperuranio intorno alle idee risplendenti. Il carro è trascinato da due corsieri alati, uno bianco e uno nero. Essi simboleggiano le opposte pulsioni e forze dell'anima, le une rivolte verso l'alto, alla contemplazione delle pure idee (il cavallo bianco), le altre rivolte invece verso terra, affascinate dai piaceri e dalle passioni del corpo (il cavallo nero). A governare il cocchio sta l'auriga, simbolo della ragione, che si studia di tenere in equilibrio e in armonia le opposte tensioni dei due cavalli. È quando il cavallo nero prende la mano all'auriga che l'anima cade dal cielo e si incarna nel corpo. Solo la purificazione filosofica ricondurrà l'anima alla sua sede d'origine.
Altrettanto famoso è il mito di Eros, che simboleggia la condizione dell' anima filosofica. Esso narra del demone Eros, figlio di Penia e di Poros, cioè di Povertà e di Espediente. Per la Povertà l'anima del filosofo è continuamente afflitta dal desiderio inesauribile di sapere, dall'amore per la verità che però essa non possiede e che gli si sottrae. La sua condizione è quella del bisogno e insieme della mancanza di sapere (l'ignoranza socratica). Nondimeno Poros aiuta l'amante della verità a trovare una via anche là dove sembra che essa sia impossibile (aporìa significa infatti "mancanza di cammino"). Poros è ricco di espedienti per uscire da tale mancanza, come lo è infatti ogni amante che, impedito nel suo amore, sa escogitare ogni astuzia e nuova invenzione pur di ricongiungersi con la persona amata. E così il filosofo è aiutato da Eros, una divinità intermedia o un demone, qualcosa meno di un dio e qualcosa più di un uomo. Tale è la filosofia, a metà strada fra il divino e l'umano: essa è amore e non possesso del sapere, è slancio verso la verità che trova ogni volta la via per avvicinarsi ad essa per quanto è possibile alla condizione umana.
Nel grande dialogo della Repubblica Platone ha descritto uno Stato immaginario e le sue audaci e originali teorie hanno per secoli influenzato il pensiero politico europeo. In tale Stato ideale, come si è già accennato, i filosofi divengono governanti, a garanzia della giustizia e del bene di tutti i cittadini. Questi ultimi vengono distinti in due classi, a seconda delle loro naturali disposizioni (simbolicamente raffigurate dalla presenza nelle loro anime di oro, argento, oppure di bronzo e ferro): la classe dei guardiani, distinta a sua volta in governanti e guerrieri, e la classe dei lavoratori. Ne deriva una subordinazione gerarchica della seconda classe alla prima, cioè una sorta di oligarchia aristocratica non fondata però sulla discendenza di sangue, ma sulle disposizioni dell'anima.
Alla classe dei guardiani vengono infatti avviati tutti quei fanciulli che manifestano desiderio di apprendere e capacità di agire con coraggio e secondo ragione. Al vertice stanno coloro che, attraverso un lungo esercizio, divengono filosofi: essi avranno il dovere e il diritto di governare. La classe dei guardiani (guerrieri e governanti) non deve possedere nulla. Essa trae il suo frugale sostentamento dal lavoro degli altri cittadini, alla difesa dei quali si vota interamente. Inoltre i guardiani dovranno vivere in case comuni e prendere in comune i loro pasti. A questa classe Platone rende interamente partecipi anche le donne spiritualmente idonee: caso pressoché unico nell'antichità. Infatti Platone sostiene che la donna è in tutto uguale all'uomo, salvo essergli inferiore nella forza fisica. Guardiani e guardiane, dunque, si esercitano insieme nella ginnastica, nelle arti belli che, nella musica, nelle scienze e nella filosofia.
Così come i guardiani non hanno né casa né averi, neppure hanno figli propri e famiglia. Gli uomini hanno tutte le donne in comune e viceversa, non però a loro talento e disordinatamente, a caso. I rapporti sessuali sono regolati dai governanti che stabiliscono particolari occasioni e feste di nozze ("nozze sante") al solo fine di ottenere, unendo secondo il loro giudizio i migliori maschi con le migliori femmine, figli sempre più selezionati. Una volta nati, i figli vengono allevati in pubblici orfanotrofi, sicché nessuno saprà di chi è padre o figlio, madre o figlia. Tutti i guardiani vivranno tra loro, a seconda dell'età, come padri e madri, fratelli e sorelle.
Questa forma di "comunismo aristocratico" non si applica invece alla classe dei lavoratori, le cui anime, incapaci di rivolgersi alla pura contemplazione delle idee, esigono soddisfazioni più terrene. I lavoratori possono avere proprietà private, una famiglia e dei figli, conformemente alle regole di armonia e di giustizia imposte loro dai governanti. Questi ultimi esamineranno ogni nuovo nato, lo osserveranno nella crescita e infine decideranno secondo verità e giustizia se esso debba essere accolto tra i lavoratori oppure tra i guardiani.
Famosa è divenuta la condanna che, nella Repubblica, Platone pronuncia contro l'arte. Condanna singolare, dal momento che egli stesso fu un grande scrittore e artista. Nondimeno l'arte è in gran parte bandita dalla città ideale, anzitutto per i suoi contenuti mitologici che, come già diceva Senofane, sono spesso osceni e immorali, raffigurando gli dèi in modo degenerato e corrotto. In secondo luogo l'arte è ingannevole, poiché essa imita gli individui, i quali sono a loro volta imitazione delle idee. E così l'arte, «copia di una copia«, è «due gradi lontana dal vero». Essa affascina e illude le anime, distogliendole dalla filosofia, il cui compito è, all' opposto, quello di oltrepassare gli individui per raggiungere la realtà vera dell'idea.
Nonostante ciò, l'arte non è bandita del tutto dalla città ideale. Di essa sono conservate quelle parti, quelle espressioni, poetiche e musicali, che hanno un contenuto educativo e che promuovono l'armonia interiore ed esteriore. Anche l'arte, insomma, è sottoposta alla superiore funzione politica dell' edificazione di uno Stato perfetto. Ma in particolare, nella condanna platonica dell'arte, è soprattutto da vedere l'intento di sostituire l'antica paidéia basata sulla sapienza poetica (Omero, Esiodo ecc.) - una sapienza, come già mostrava Socrate, che non è però in grado di conoscere davvero il suo senso di verità - con la nuova paidéia della filosofia. C'è un'antica contesa tra la poesia e la filosofia, dice Platone. Lo Stato ideale sancisce la vittoria dell'anima razionale filosofica sull'anima "passionale" del poeta e dell'artista.
Come si procede alla definizione dialettica, cioè come si perviene al concetto, Platone lo mostra in modo articolato nel Sofista. La dialettica stabilisce anzitutto e discrimina quelle idee che sono tra loro in connessione omogenea di parte e tutto (per esempio "uomo" è parte di "animale") da quelle idee che invece specificamente si escludono (per esempio "uomo" esclude "vegetale", sebbene vegetale e animale rientrino entrambi nella idea o specie di "essere vivente"). Il procedimento dialettico stabilisce quindi una gerarchia di idee che, muovendo da un'idea più generale, discende alle sue parti.
Nel nostro esempio, "essere vivente" è l'idea generale; di essa sono parti "animale" e "vegetale". Discendendo ulteriormente a specificarle si potrebbe dire, per esempio, che parti ulteriori di vegetale sono "alberi" e "fiori", mentre di animale "quadrupedi" e "bipedi"; e poi "abeti" e "rose" da un lato e "cavallo" e "uomo" dall'altro, e così via. A questo punto è possibile procedere alla definizione desiderata (per esempio di "uomo"), raccogliendo in essa tutte le idee che si implicano e non si escludono.
Per esempio, possiamo dire che l'uomo è un essere vivente animale bipede dotato di parola, che è la sua specifica differenza rispetto a tutte le altre specie animali. In tal modo la definizione fonda quella scienza che in seguito verrà chiamata "logica". La definizione logica è lo strumento che mette fuori gioco l'eristica dei sofisti. Essi infatti fondano i loro giochi di parole sulla confusione di ciò che è comune, o identico, con ciò che è diverso (tauton, "identico", ed éteron, "diverso", dice Platone).
Per esempio il sofista dice: «Teeteto vola». E così lo "dimostra": «Volare è muoversi nell'aria senza toccare terra; ma Teeteto, quando salta, si muove senza toccare terra; quindi Teeteto vola». Ora però noi sappiamo che Teeteto, in quanto uomo, ha sì in comune con gli uccelli che volano la specie animale, ma nella differenza specifica ulteriore troviamo il suo ambulare bipede e privo di ali: l'errore, o il trucco, è scoperto.
La dialettica traduce dunque, sul piano concettuale del giudizio ("a è b"), le connessioni essenziali delle idee. Sappiamo infatti che il concetto è il ricordo risvegliato nell'anima del mondo delle idee e delle sue strutture. E poiché le idee sono tra loro in relazione di parte e tutto, come ora vedremo, anche la relazione del giudizio si trova giustificata, contro le tesi paradossali dei socratici. Questi ultimi, come si sa, ritenevano veri solo i giudizi tautologici: cioè «A è A», «la neve è la neve», e falsi tutti gli altri, cioè i giudizi veri e propri sui quali si fonda ogni possibile sapere.
Ma la dialettica consente anche di superare il divieto di Parmenide e la sua rigida concezione della verità (che è poi il presupposto, come abbiamo visto, delle tesi sofistiche). Parmenide stabiliva che l'unica cosa pensabile e asseribile con verità fosse che «l'essere è» e «il non essere non è». In tal modo l'unica verità concepibile è che «l'essere è l'essere»: verità vuota che nega tutti i contenuti della comune esperienza (il movimento, il molteplice ecc.). Stabilendo invece che le idee costituiscono un mondo di relazioni, è possibile ora affermare che alle idee pertiene sia l'essere sia il non essere in relazione. ("Uomo" è in relazione con "animale", ma non è in relazione con "vegetale", sebbene entrambi siano in relazione con "essere vivente"). Si scopre così l'errore di Parmenide.
Egli aveva identificato non essere e nulla, osservando che del nulla non si può mai dire che è, né derivarne qualcosa o farvi finire qualcosa che è. Ma questa identificazione del non essere con il nulla è erronea. Sarebbe come dire che "non bianco" equivale a "nero". In verità il significato della negazione (non-essere) ha più in generale il senso del "diverso" (éteron). Non essere significa allora anzitutto ciò che è diverso dall'essere, così come "non bianco" significa ciò che è "diverso dal bianco": per esempio rosso, giallo, verde ecc.
Anche il regno dell'essere (concepito come regno o mondo delle idee) è concepibile dunque come un mondo di differenze tra loro in relazione di inclusione o di esclusione specifica: tutta la rigidità della dottrina parmenidea è superata. In particolare Platone dirà che l'essere è in relazione con le grandi idee del moto e della quiete, dell'identico e del diverso, che sono i "generi sommi" del mondo delle idee. E così l'essere reale di una cosa può essere in moto e in quiete, identico a sé e diverso dal suo contrario ecc., senza che ciò generi contraddizione, come riteneva Parmenide.
Non è per caso che nel Sofista (dove appunto l'eristica dei sofisti è sconfitta) Platone introduce come protagonista del dialogo lo Straniero di Elea: un personaggio immaginario chiamato a confutare il grande Parmenide, cioè indotto, per amore della verità, a compiere il "parricidio" nei confronti del padre degli eleati. Nel contempo, escludendo Socrate dall'abituale funzione di protagonista, sostituito dallo Straniero di Elea, Platone mostra chiaramente che la dottrina dialettica esposta nel Sofista è interamente farina del suo sacco.
A questi medesimi concetti si ispira la concezione del mondo esposta da Platone nel Timeo, opera destinata a influenzare tutto il pensiero cristiano del Medioevo, essendo stata per molti secoli l'unica conservatasi, prima della riscoperta degli altri dialoghi di Platone in età umanistica. L'universo è concepito da Platone come il prodotto di un divino artefice o Demiurgo, il quale plasma la materia originaria, cioè l'originario caos, assumendo come modello il mondo delle idee. Nascono così il cielo, il tempo (definito «immagine mobile dell' eternità», cioè delle idee: eternità imitata, incarnata e misurata dal giro eterno degli astri), i corpi celesti (che sono concepiti come anime divine), la terra, gli animali e gli uomini. L'intero universo è così un immenso animale, un immenso essere vivente compenetrato da un'anima che ne regola la vita ed il movimento ("anima del mondo").
Ancora nel Timeo e nel Crizia, continuazione del Timeo rimasta incompiuta, Platone descrive la nascita della società umana. Essa si articola secondo le tre età degli dèi, colonizzatori della terra e allevatori dei primi uomini; degli eroi, nati da Efesto e Atena, che insegnarono loro le arti civili; e infine degli uomini attuali, dimentichi delle loro origini divine. È per tornare a queste origini che Platone descrive la divina armonia del cosmo e, conforme a questa, l'ordinata società umana resa possibile dal sapere della filosofia. Essa, secondo la concezione ciclica del tempo che fu di Platone come degli antichi in genere, riporterà gli uomini all'età dell'oro. Nel Crizia le origini di Atene sono narrate con il ricorso al celebre mito di Atlantide: terra sterminata, un tempo situata oltre le colonne d'Ercole, che gli ateniesi antichi conquistarono con un'impresa leggendaria, finendo però inghiottiti, per un improvviso cataclisma, dal mare e dall'oblio.
Nell'ultima sua opera, le Leggi, Platone affrontò per l'ultima volta il problema politico, attenuando il carattere rivoluzionario delle tesi della Repubblica: abolendo per esempio il comunismo dei beni e delle donne e degli uomini tra loro e ristabilendo la proprietà privata per tutti i cittadini. È possibile vedere in ciò una conseguenza delle delusioni pratiche della sua lunga vita e del fallimento dell'impresa siracusana, come alcuni dicono. È più sensato però notare che il contenuto dell'ultimo dialogo platonico non ha per tema lo Stato ideale, ma come debba essere concepita una saggia ed efficace legislazione per le città di fatto esistenti. Nelle Leggi, Platone non affida più soltanto alla filosofia il compito di educare i cittadini; anche le leggi, con le relative punizioni, se bene immaginate, sono educative. Esse tuttavia non devono esercitarsi in modo vendicativo o persecutorio, ma devono aiutare il colpevole a liberarsi dall'ingiustizia che è nella sua anima. Concetto che appare di straordinaria modernità. Le leggi mirano perciò a realizzare l'ordine e l'armonia nell'individuo come nella città.