La nuova religiosità del Rinascimento, fondata su un rapporto più ravvicinato tra l'uomo e Dio, influenzò in modo determinante le moderne architetture che si venivano edificando.
Se infatti le chiese medievali erano ispirate ad una concezione che vedeva l’uomo occupare un posto immensamente piccolo in confronto all'infinita grandiosità del divino, e per rappresentarla concretamente privilegiavano nella costruzione l'andamento verticale e l'ampiezza delle dimensioni, gli edifici rinascimentali erano rivolti invece a configurare uno spazio a misura d'uomo, praticabile e razionale, in cui trionfasse l'armonia dell'insieme.
Negli edifici progettati e realizzati da Filippo Brunelleschi possiamo infatti sempre rintracciare l'applicazione architettonica di principi geometrici quali la simmetria e l'equilibrio compositivo, ottenuto mediante la ripetizione ritmica di moduli costruttivi o decorativi.
Sul semplice intonaco bianco a vista delle pareti, acquista maggior risalto il reticolato prospettico dell'architettura, realizzato con partiture di diversi materiali tra cui la pietra serena.
Nell’architettura rinascimentale vengono introdotti elementi architettonici derivati dagli edifici romani, tra i quali la pianta centrale (nel tempietto di San Pietro in Montorio di Bramante), l'arco a botte (nella cappella dei Pazzi del Brunelleschi), la cupola a lacunari del Pantheon (nell'interno di Sant'Andrea a Mantova dell'Alberti), le colonne nei vari stili (in San Lorenzo del Brunelleschi e nelle chiese veneziane realizzate dal Coducci).
Gli sviluppi dell’architettura civile nel corso del Rinascimento si legano strettamente all’ascesa della borghesia o al consolidamento di alcune casate di nobili origini.
A Firenze dal 1440 prende avvio un periodo di grande vivacità per l’edilizia privata (tra il 1450 e il 1478 furono realizzati almeno trenta nuovi palazzi per le famiglie altolocate fiorentine); questo fermento porta anche all’elaborazione di una nuova tipologia della residenza signorile, che rimane pressappoco inalterata per tutto il Cinquecento.
I caratteri di novità si affermano nelle ampie stesure delle superfici movimentate dai graffiti o dal severo bugnato e nell’ostentata orizzontalità della struttura architettonica, sottolineata dalle cornici marcapiano e dal ritmo modulato dalla regolare scansione delle finestre.
Gli esempi più significativi di tale stile sono il Palazzo Medici di Michelozzo (1396-1472), il Palazzo Rucellai di Leon Battista Alberti e il Palazzo Strozzi di Benedetto da Maiano (1442-1497).
Sul modello fiorentino si costruiscono residenze in altre città, come il Palazzo d’Este di Ferrara, opera di Biagio Rossetti (1447 ca.-1516), detto "dei Diamanti" per il caratteristico rivestimento dalla sfaccettatura regolare (questa particolarità riscosse una tale successo da essere esportata fino a Mosca, dove infatti esiste una analogo "palazzo dei diamanti" realizzato nel 1491 all’interno della cinta di mura del Cremlino).
A Venezia l’architettura civile rinascimentale, di stretta osservanza albertiana, riceve impulso ad opera di Mauro Coducci (1440 ca.-1504), mentre l’espansione edilizia di Milano a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento è dominata dall’estro di Bramante.
"In comperare cura, in condurre paura, in serbare pericolo, in vendere sollicitudine, in credere sospetto, in ritrarre fatica, nel commutare inganno, e così sempre negli altri essercizi ti premono infiniti afanni e agonie di mente". Non è amena, sostiene Leon Battista Alberti nel trattato Della famiglia, la vita cittadina: e dunque, sull’esempio di Senofonte e Cicerone, è d’uopo ritemprarsi in villa.
Il tipo architettonico del castello turrito prevale nel primo Rinascimento: ne è un esempio la villa di Cafaggiolo, approntata da Michelozzo per Cosimo il Vecchio, dove il patriarca dei Medici innesta gli alberi da frutto e sorveglia che la tenuta renda il necessario per la casa cittadina, salvo vendere l’eccedente nella loggia sottostante.
Di tutt’altro genere è la tipologia che si impone nel Rinascimento maturo, a partire dalla villa medicea di Poggio a Caiano, commissionata da Lorenzo il Magnifico a Giuliano da Sangallo: l’edificio classicheggiante adotta nella facciata timpano e colonne, riprese nelle ville del Palladio, mentre l’interno si abbellisce d’affreschi, come quelli che Raffaello eseguirà nella Farnesina.
All’esterno si avvia una trasformazione scenografica della natura, a mezzo di viali, terrazzamenti, fontane e grotte, che produrrà nel Cinquecento le meraviglie di Pratolino e la fantasmagoria di Bomarzo.
La villa medicea di Poggio a Caiano, commissionata da Lorenzo il Magnifico all’architetto Giuliano da Sangallo (1445 ca.-1516), profondo conoscitore delle antichità romane, viene iniziata attorno al 1485 circa, e finita nel 1513 per volontà di Leone X, figlio del grande Lorenzo.
Con essa Giuliano da Sangallo crea il nuovo modello della villa rinascimentale. L’imponente edificio a pianta quadrata, d’aspetto gradevole benché sobrio e geometrico, sorge su un piccolo colle a pochi chilometri da Firenze; dalla villa, che una ripida scarpata separa dal fiume Ombrone, si gode un’ampia vista sulla pianura circostante.
La decorazione della parte esterna con elementi desunti dall'architettura antica, insieme alle soluzioni strutturali e planimetriche adottate, pongono le basi per l'evoluzione della villa cinquecentesca. Sarà Andrea della Gondola, meglio noto come Andrea Palladio (1508-1580), il protagonista assoluto dell’architettura veneta, l’ autore della Basilica (1550 ca.) e del celeberrimo Teatro Olimpico (1578-80) a Vicenza, nonché delle bellissime chiese di San Giorgio (1556 ca.) e del Redentore (1577 ca.) a Venezia, a fornire la più classica formulazione della villa rinascimentale, adattando audacemente il solenne timpano che caratterizza la facciata del tempio greco ad un edificio civile pensato per il diletto e lo svago.
Nelle sue creazioni, come la villa Barbaro (1555-59 circa) di Maser, affrescata dal Veronese e decorata dagli stucchi di Alessandro Vittoria, villa La Rotonda (1567 ca.) a Vicenza e la celeberrima villa Foscari alla Malcontenta, presso Mira, prevale sempre l’esigenza di creare un'armonia tra lo spazio naturale e la costruzione geometrica, con una grande libertà e creatività di schemi.
La nuova concezione dell'armonia dell'universo favorì nel Rinascimento una sensibilizzazione del rapporto tra edificio e spazio urbano. Gli interventi architettonici divennero sempre più completi, e spesso collegati fra di loro in modo da fornire una visione unitaria ed equilibrata dell'ambiente della città.
Nel portico dello Spedale degli Innocenti Brunelleschi sviluppò con esemplare chiarezza questo concetto di connessione di elementi per armonizzare l'arredo urbano e cittadino.
La loggia è infatti il luogo in cui si incontrano e si compenetrano il volume dell'ospedale e lo spazio della piazza.
La tradizione antica delle piazze porticate, e quella medievale delle logge con archi a tutto sesto, vengono dunque rinnovate dalla geometrica limpidezza dell'ariosa sequenza di archi e dalla sapiente mescolanza di elementi decorativi classici e moderni.
Altra realizzazione che può essere interpretata come il manifesto delle idee dell'Alberti in campo artistico è la piazza di Pienza, dove la forma trapezoidale sembra essere una trasposizione in pianta della "piramide visiva" della costruzione prospettica albertiana.
Il suolo scompartito geometricamente in grandi rettangoli di mattoni montati a spina di pesce ripropone nella realtà il pavimento della Flagellazione di Urbino di Piero della Francesca.
Un ulteriore sviluppo dello schema rinascimentale della piazza, in direzione di una maggiore varietà e complessità dello schema decorativo e, si ebbe con la cinquecentesca ristrutturazione della piazza del Campidoglio a Roma, opera di Michelangelo.
Folgorante carriera, quella di Enea Silvio Piccolomini (1405-1464), rampollo di una nobile famiglia senese decaduta, che, ordinato prete nel 1446, vescovo l’anno seguente, cardinale nel 1456, è eletto papa nel 1458 col nome di Pio II.
Il vulcanico pontefice umanista, oltre a regnare, trova il tempo di scrivere dotte opere di storia, in cui il suo spirito coltissimo e sensibile si riflette nelle vivaci narrazioni di eventi storici e contemporanei o nelle descrizioni di scene naturali, infiorate di perle di erudizione.
In più, Pio II lascia anche una delle più importanti testimonianze dello spirito umanistico in materia urbanistica; la ristrutturazione del centro della natia Corsignano, borgo medievale di crinale in Val d’Orcia ribattezzato in suo onore Pienza.
Per ordine del papa, l’architetto e scultore Bernardo Rossellino (1409-1464), a partire dal 1460 circa, imposta nel cuore dell’abitato una piazza trapezoidale e costruisce la cattedrale, due residenze signorili, palazzo Piccolomini e palazzo Borgia, e il palazzo pubblico.
Oltre a coordinare nel medesimo spazio edifici che competono a sfere diverse (ecclesiastica, pubblica e privata), posti sullo stesso piano, Rossellino armonizza il proprio intervento con le preesistenze medievali; ne è un chiaro esempio l’impiego, nei palazzi privati, ispirati al fiorentino palazzo Rucellai, del bugnato delle limitrofe facciate medievali. La città ideale e quella reale convivono senza attriti.
La scelta del disegno trapezoidale per la piazza, oltre ad assecondare la topografia dei luoghi, esalta la visione della facciata della cattedrale, che abbina il timpano e l’arco a tutto tondo; grazie al divergere degli edifici si ha l’impressione che questa sia più imponente.
Al contrario, dal lato della chiesa, il convergere dei lati fa sembrare la piazza più lunga e profonda; un effetto accentuato dal portico ricavato al piano terreno del palazzo pubblico antistante. Il selciato in cotto è spartito geometricamente da listoni di travertino, correggendo lo scorcio della piazza e impartendo al complesso ordine e regolarità.
L’intervento previsto dal Rossellino contempla anche la ristrutturazione dei più importanti edifici lungo il corso principale dell’abitato, adibiti a ospitare il seguito papale, e la costruzione di un lotto di case a schiera lungo le mura per i meno abbienti. Alla morte del papa i lavori si arrestano, dimostrando il limite utopistico dell’impresa, legata alla figura di Pio II ed al suo sogno umanistico.
"Io ho fatto un mio pensiero di volere hedificare et principiare una città"; così il Filarète, architetto fiorentino al servizio del duca di Milano, introduce l’utopia di Sforzinda, la cui eco è palese nelle intuizioni di Leonardo da Vinci.
Diversamente dai caotici agglomerati medievali, la città deve rispondere a un disegno razionale; il problema è affrontato da Leon Battista Alberti e Francesco di Giorgio Martini nei loro trattati.
Una dotta geometria presiede alla celebre piazza di Pienza, opera del Rossellino, e all’Addizione Erculea realizzata a Ferrara dal Rossetti; ma rispetto a questi episodi, in cui la città ideale convive con la città reale, il sogno di Sforzinda, embrione di pianificazione urbana su vasta scala, segna un passo ulteriore.
Il Filarete non si limita a dettare i caratteri di singoli edifici o quartieri, ma immagina un organismo vivente e integrato, assoggettato in ogni suo membro a un criterio logico, coerente a una precisa ipotesi di convivenza, e ne indica il sito, la forma, le modalità costruttive, la maglia viaria, la distribuzione delle funzioni pubbliche e private, prevedendo persino l’ubicazione dei mercati; "perché imprima", egli afferma, "si dèe tessere il panno et poi la vesta".
Vale a dire, in termini attuali, che l’organizzazione generale dello spazio determina la conformazione degli edifici, interagendo coi bisogni sociali. Sotto la stella di Sforzinda è nata l’urbanistica.
Molti architetti del Rinascimento si dedicarono, nel corso della loro attività, alla progettazione e alla realizzazione di opere militari.
Nonostante la notizia documentata che Leonardo fosse al servizio di Cesare Borgia come architetto e ingegnere militare, non esistono opere realizzate; ma i suoi vivi interessi in questo campo sono comunque testimoniati dai numerosi fogli con disegni di complicate macchine belliche e schizzi progettuali di fortificazioni.
Il senese Francesco di Giorgio Martini (1439-1502) scrisse un trattato di architettura civile e militare negli anni del suo soggiorno urbinate. In questo periodo lavorò incessantemente sul territorio, spesso restaurando, rinforzando o ingrandendo strutture medievali preesistenti, ma anche costruendo ex-novo fortezze e sistemi fortificati.
Un grosso sforzo per rimodernare e rinforzare le opere difensive lungo tutte le coste fu intrapreso dagli Aragonesi alla fine del Quattrocento.
Il nome più prestigioso fra gli architetti chiamati a progettare le fortificazioni aragonesi è quello di Francesco di Giorgio Martini; il suo intervento molto spesso si limitò a consulenze teoriche, ma nel caso dei castelli di Taranto e di Otranto si riconoscono i tratti caratteristici delle sue architetture militari.
Gli schemi delle fortezze cinquecentesche videro l’affermazione delle torri cilindriche e del sistema del fronte bastionato, progettato per meglio opporsi alle nuove tecniche dell’artiglieria; questo nuovo modello, adottato dall’architettura militare di tutta Europa, è da ascrivere alla famiglia dei Sangallo, grandi professionisti dell’edilizia che si occuparono prevalentemente di ingegneria bellica.
La nozione embrionale di urbanistica nasce nel Rinascimento, allorché le riflessioni di teorici come Leon Battista Alberti e Francesco di Giorgio Martini introducono l’idea rivoluzionaria che la città debba corrispondere a un progetto razionale, ispirato a criteri di ordine e simmetria sia nella distribuzione degli abitanti che nella proporzione delle piazze e nell’aspetto delle strade.
È un’idea che si esprime nelle rare realizzazioni concrete, forzatamente parziali, in cui la città ideale convive con la città reale, come Pienza e le addizioni di Ferrara, e che si trasforma in lucida e profetica utopia nella riflessione del Filarete, ideatore di Sforzinda e precursore delle intuizioni di Leonardo.
La pianta della sua città immaginaria - una stella a sedici lati circondata da un fossato circolare - è dominata dalle due figure razionali per eccellenza, il cerchio e il quadrato, canoni assoluti dell’architettura classica.
Dice il Filarete: "[…] le mura prima ottangulate saranno, grosse braccia sei; et alte voglio che siano quattro volte quanto sono grosse".
Negli otto vertici esterni sono disposte delle torri difensive; negli otto interni, le porte di accesso, dalle quali nascono sedici strade che dividono simmetricamente la città.
"Le porte saranno negli angholi retti; poi le strade si partiranno dalle porte, et andranno tutte al centro. E quivi farò la Piazza, la quale sarà per la lunghezza uno stadio, e pel largo sarà mezzo stadio. E in testa sarà la chiesa cathedrale con le sue appartenenze […]".
La forma stessa della città ideale la dichiara come utopia del principato, ruotante intorno a un nucleo saldo di potere dal quale si emanano linee di forza che rappresentano le direttrici di sviluppo, e al tempo stesso gli assi di convergenza e di coesione della comunità.
Sforzinda è l’immagine di una gerarchia radiale in un disegno di armonia, una ruota il cui mozzo è il principe. Col sogno di Sforzinda, il Filarete anticipa l’abbondantissima letteratura utopica del XVI secolo, della quale l’Utopia di Thomas More è forse l’espressione più nota.
E forse il ricorso all’utopia è proprio il segnale che la convivenza fra città reale e città ideale, sognata e attuata dall’Umanesimo, non è più possibile né attuabile; cambiati i tempi, occorre immaginare, fantasticare di un organismo del tutto nuovo.
Non abbiamo molte notizie sulla vita e l’attività del Filarete (in greco antico, amico della virtù), al secolo Antonio Averlino (o Averulino, Firenze 1400 ca. - Roma 1469 ca.), un architetto che ha grande influenza sui contemporanei.
Nella suo Trattato d’architettura (1465), dedicato a Francesco Sforza, condottiero e duca di Milano, il Filarete ricorda le sue opere principali: i rilievi delle porte bronzee di San Pietro in Roma sotto il pontificato di Eugenio IV, l’albergo dei poveri di Milano, ossia l’Ospedale maggiore, e il progetto della Chiesa maggiore di Bergamo.
Verosimilmente collaboratore del Ghiberti alle porte del battistero fiorentino, deve forse a questo la chiamata a Roma per realizzare quelle di San Pietro; ma il risultato è effettivamente deludente per quanto riguarda la realizzazione plastica dei personaggi, mentre la decorazione svela le sue qualità di orafo infatuato del repertorio antico di amorini, genietti e foglie d’acanto.
In seguito l’Averlino, abbandonata Roma nel 1447, peregrina tra Firenze, Rimini, Mantova e Venezia, sinché riceve nel 1451 la chiamata di Francesco Sforza a Milano, cittadella del Medioevo gotico, che il signore spera di ammodernare grazie al contributo del fiorentino.
Qui il Filarete erige la torre del Castello Sforzesco, distrutta nel 1521, che da un disegno che la documenta pare ispirarsi a un linguaggio ancora nordico, così come il suo poco noto contributo al Duomo.
Scomparsi l’arco trionfale di Cremona (1454) e il duomo di Bergamo, rifatto dal Fontana, solo l’Ospedale maggiore di Milano (oggi sede dell’Università degli Studi), iniziato nel 1456, resta a testimoniare l’opera di Filarete architetto. Un complesso monumentale, ispirato a una rigida razionalità distributiva, che al centro doveva avere una chiesa coronata da una cupola inquadrata da torri.
Il progetto prevedeva lunghi corridoi, ampi porticati, spaziosi cortili; il Filarete riesce a compiere solo la parte centrale del complesso, terminato nel Settecento, e il cortile della farmacia.
A causa di dissensi, nel 1465 è sostituito dal lombardo Guiniforte Solari che dà all’edificio una marcata impronta gotica, pur mantenendosi sostanzialmente fedele al progetto originario, così come gli architetti succedutisi nel completarlo.
Il piano originario è dettagliatamente descritto in uno dei libri del Trattato di architettura, (1460-65), scritto dal Filarete in italiano (a differenza di quanto fece l’Alberti) durante il soggiorno milanese e stampato integralmente solo nel 1965.
In esso compare il resoconto immaginario della costruzione della città ideale di Sforzinda. Ispirandosi alle teorie albertiane, il Filarete descrive una città dalla planimetria estremamente regolare, in forma di poligono regolare stellato di sedici lati.
Spesso il ragionamento prende la mano all’autore, che si dilunga in digressioni contro il gotico, sostenendo la causa degli antichi, oppure si sofferma sul nutrimento dagli operai eventualmente impiegati per la realizzazione dell’utopistica città.
Il trattato, oltre che da bei disegni architettonici, è ornato, in una seconda edizione, anche da pregevolissimi disegni di colossali architetture fantastiche che coniugano elementi classici a reminiscenze medievali.
"Una città in forma di palazzo", così Baldassar Castiglione, che vi ambienta Il cortegiano, definisce il palazzo ducale di Urbino, cuore della vita intellettuale e politica dello stato.
Il complesso, una delle costruzioni più originali del secondo Quattrocento, non è un compatto fortilizio né un cubo impeccabile come i palazzi dei ricchi fiorentini, ma una fuga di ambienti eterogenei per funzione e concezione, fra cui il famoso studiolo.
Un organismo autosufficiente, composto di membra apparentemente indipendenti e connesse senza un disegno logico, che coniuga armonia e dissonanza, unità e frammentazione, rigore progettuale ed empirismo edilizio.
I manuali lo assegnano ai nomi celebri di Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini, architetti capaci di coniugare classicismo e innovazione; ma non si può escludere che al concepimento di questa creatura così logica e stravagante al tempo stesso abbiano concorso i pareri dell’Alberti e di Piero della Francesca, entrambi familiari alla corte urbinate, e soprattutto le decisioni e i consigli del colto duca Federigo.
Ed è affascinante il pensiero che il complesso rifletta, nella sua indecifrabilità, proprio la personalità di un principe rinascimentale; imprevedibile come i suoi umori, labirintico come la sua diplomazia, incoercibile e positivo come la sua volontà, superbo come il suo orgoglio di signore ansioso di dimostrare il proprio amore per la bellezza e la cultura.
Nella prima fase costruttiva, dal 1455 al 1462, l’architetto fiorentino Maso di Bartolomeo erige un corpo di fabbrica rettilineo; la prosecuzione dell’opera avviene sotto la supervisione di Luciano Laurana (1464-1472). Questi è affiancato successivamente da Francesco di Giorgio Martini, che ingloba il primo corpo in una costruzione ben più complessa e diramata.
Il nucleo centrale del palazzo è un edificio quadrilatero a tre piani che racchiude un cortile porticato; un lato è prolungato per creare una quinta spettacolare dalla parte che affaccia sulla città.
Dalla parte opposta si sviluppa un corpo a forma di "L" prospiciente il nuovo Duomo urbinate progettato da Francesco di Giorgio Martini.
Dal lato posteriore il complesso si affaccia sulla valle; qui sorge la curiosa facciata diagonale a loggette sovrapposte, racchiusa fra due torri cilindriche coronate da cuspidi aguzze che danno al palazzo un certo qual aspetto fiabesco. Un torrione, staccato dal resto, contiene una scala elicoidale, percorribile a cavallo (come nel Castello di Praga) che collega il palazzo alle stalle sottostanti.
Il complesso, oltre a essere labirintico, è disposto su vari livelli altimetrici; è una somma di segmenti, ognuno dei quali è dominato da una logica propria, a seconda della disposizione. Non si sa con certezza se vi sia stato un progetto complessivo e, se sì, a chi lo si debba, o se si tratti di una sommatoria di piani dovuti a più persone.
La direzione dei lavori si deve a Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini, ma non si escludono altri interventi.
Luciano Laurana (da non confondersi con Francesco, scultore), nato attorno al 1420a Zara, in Dalmazia, muore a Urbino nel 1479, mentre attende alle opere commissionategli dai Montefeltro. Malgrado si tratti di uno degli architetti più importanti del Quattrocento, ignoriamo tutto della sua formazione, eccetto un probabile passaggio da Napoli e il soggiorno certo a Mantova, dove conosce verosimilmente l’opera dell’Alberti.
Nel 1465, o più probabilmente nel 1468, Federigo da Montefeltro, duca di Urbino, lo incarica di trasformare il vecchio palazzo che domina la sua città. Il Laurana si dedica a razionalizzare il complesso e soprattutto ad arricchirlo di ambienti dalle linee pure e armoniose; i lavori sono portati a termine da Francesco di Giorgio Martini. Fra le opere del Laurana in terra marchigiana vi sono anche la collaborazione al progetto del Duomo d’Urbino e la rocca Costanza di Pesaro.
Architetto, pittore e scultore, Francesco di Giorgio Martini nasce a Siena nel 1439 e muore nel 1502. Allievo del Vecchietta, apprende pittura e scultura, cui si dedica in gioventù, per poi passare all’architettura civile e militare. Sino al 1475, in società con Neroccio di Bartolomeo, è titolare di una bottega di pittura cui è affidato l’ampliamento della basilica di San Francesco.
Nel 1477 è a Urbino al servizio di Federigo da Montefeltro, affermandosi principalmente come ingegnere militare nella guerra di Toscana, all’assedio di Castellina in Chianti. Divenuto architetto del palazzo ducale di Urbino, realizza anche la bella chiesa di Santa Maria delle Grazie al Calcinaio, presso Cortona, che testimonia tutto il suo talento di innovatore, e il Palazzo della Signoria di Jesi (1486). Nel 1490 è chiamato a Milano per dare il proprio parere sui progetti della cupola della cattedrale, ma continua a occuparsi di cantieri militari nel territorio della repubblica di Siena.
Come rivelano i suoi taccuini, Francesco di Giorgio conosce a menadito Vitruvio e i monumenti antichi; le sue concezioni sono esposte nel Trattato d’architettura, scritto intorno al 1480 e riccamente illustrato. Vi si discutono la forma della città ideale e, con una casistica esaustiva, le varie tipologie degli edifici civili, militari ed ecclesiastici.
Innovatore anche in campo militare, il senese introduce nelle fortificazioni la pianta radiale, i bastioni triangolari e altre soluzioni originali, oltre ad accorgimenti tecnici nell’uso degli esplosivi e di dispositivi di attacco e di difesa. Federigo da Montefeltro gli affida la costruzione di castelli nel proprio ducato, dei quali sopravvivono San Leo, Mondavio e Sassocorvaro, dall’originalissima pianta a forma di tartaruga.
Meno innovatore è il Francesco di Giorgio pittore, legato a stilemi senesi, pur non essendo del tutto ignaro della lezione dei contemporanei fiorentini, come dimostrano l’Annunciazione e la Madonna col Bambino di Siena, dall’atmosfera incantata e sognante.
Il piglio vigoroso dello scultore si rivela nel San Giovanni battista ligneo (1464) e negli angeli portacandelabro in bronzo (1497), trasformandosi in sottile delicatezza nei bassorilievi bronzei della Flagellazione e della Deposizione (1464).
In sostanza, si può affermare che, mentre nei trattati Francesco di Giorgio si dedica all’esame delle strutture ideali più perfette, nella realtà mira al sodo, cercando di conciliare gli ideali con le esigenze pratiche e contribuendo in buona misura alla critica e al superamento delle enunciazioni dell’Umanesimo matematico
È da compatire, Michelozzo di Bartolomeo (1396-1472), schiacciato fra colossi come Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti? O la congiuntura di dover lavorare in presenza di cotanti innovatori rappresenta proprio la sua fortuna?
Fatto sta che Michelozzo, coniatore di medaglie e abile fonditore, collaboratore del Ghiberti nella realizzazione della porta settentrionale del battistero, nonché unito per qualche tempo in "compagnia" a Donatello, è famoso soprattutto per essere stato l’architetto prediletto di Cosimo de' Medici, signore occulto di Firenze e grande appassionato d’arte.
Dopo aver lavorato a Orsanmichele col Ghiberti, nel 1420 Michelozzo collabora con Donatello a una nicchia esterna della chiesa delle Arti cittadine (1423 ca.), al sepolcro dell'antipapa Giovanni XXIII nel battistero fiorentino e alla tomba Aragazzi a Montepulciano. L’opera più importante del periodo, sempre in collaborazione con Donatello, è il pulpito esterno del Duomo di Prato (1435-38).
Le sue capacità architettoniche si rivelano quando Cosimo il Vecchio, amante del linguaggio brunelleschiano, purché depurato delle punte più estreme e innovative, gli affida — memore forse del fatto che Michelozzo l’ha accompagnato nell’esilio veneziano — il rifacimento della chiesa e del convento di San Marco (1436-43) dell’ordine dei predicatori domenicani.
Nell’intervento di Michelozzo è palese la lezione del Brunelleschi e del suo linguaggio ispirato a razionale limpidezza compositiva nell’equilibrio dei volumi; ma sono farina del suo sacco alcune originali soluzioni formali, quali la lunga prospettiva di colonne della biblioteca, in cui l'uso del capitello ionico rivela l'ispirazione dell'architettura classica.
Nel 1444 Cosimo gli commissiona il proprio palazzo cittadino in via Larga (oggi Medici-Riccardi, dal nome dalla famiglia che lo acquistò nel XVII secolo); la nuova dimora non dovrà essere troppo ricca e sfarzosa, onde evitare di suscitare l'invidia dei concittadini. Qui Michelozzo combina motivi tradizionali col modello albertiano di palazzo Rucellai; il palazzo è infatti articolato su tre piani, ma invece di scandire i tre livelli mediante l’alternanza dei tre ordini classici dell’architettura, Michelozzo lo fa attraverso lo spessore decrescente del bugnato.
Per conto della consorteria medicea Michelozzo costruisce nel contado fiorentino una serie di ville e castelli, assecondando il nuovo gusto della borghesia per gli otia campagnoli. In questo tipo di attività non sfoggia grande inventiva, rinunciando a modificare la tipologia tradizionale del castello merlato e limitandosi a una razionale suddivisione degli spazi; si veda ad esempio la villa medicea di Cafaggiolo (1451 ca.), turrita, merlata e circondata da un robusto muro.
Il linguaggio architettonico di Michelozzo, elegante ma sobrio, riempie Firenze e ne fa un divulgatore delle problematiche brunelleschiane. Il suo influsso è avvertibile in Giuliano da Maiano e Giuliano da Sangallo, oltre che nell’architettura rinascimentale milanese, grazie ai progetti del banco mediceo e della cappella Portinari in Sant’Eustorgio.
Donato di Pascuccio d’Antonio, detto Bramante, pittore ma soprattutto architetto fra i massimi del Rinascimento, nasce nel 1444 a Monte Asdruvaldo, nell’odierno comune di Fermignano, nel territorio storico di Urbino.
Fra il 1476 e il 1477 vive nella fervida città dei Montefeltro, senza che si sappiano con certezza le vicende del suo apprendistato, quindi si trasferisce in Lombardia, prima a Bergamo e poi a Milano, soggiornando anche a Pavia e Vigevano, e compie numerosi viaggi. Dal 1500 è a Roma, al servizio di Giulio II, dove muore l’11 aprile del 1514.
L’attività milanese è all’insegna dell’illusionismo prospettico, sia in ambito architettonico, con la ricostruzione della chiesa di Santa Maria presso il sacello carolingio di San Satiro (dal 1480), che pittorico, col Cristo alla colonna (1480-1490) e gli Uomini d’arme, gigantesche figure in atteggiamenti solenni affrescate su soffitto della casa Panigarola.
Il suo principale contributo all’evoluzione dell’architettura rinascimentale è la riflessione sulla pianta centrale, che si nutre della meditazione dei canoni classici, oltre che delle teorie di Leon Battista Alberti e di Francesco di Giorgio Martini, nel tentativo di elaborare un linguaggio architettonico universale. La ricerca sulla pianta centrale inizia negli anni milanesi, quando Ludovico il Moro incarica il Bramante, fra il 1492 e il 1497, di costruire una nuova tribuna per la chiesa di Santa Maria delle Grazie, destinata a divenire, nei sogni del Moro, il mausoleo del proprio casato.
Lasciata Milano alla caduta del Moro, nel 1500 Bramante si porta a Roma, dove prosegue nella sua ricerca progettando il convento e il chiostro di Santa Maria della Pace, ma soprattutto realizzando il celebre tempietto circolare di San Pietro in Montorio, incastonato come un gioiello nel cortile quadrangolare della chiesa omonima, nel luogo in cui la tradizione colloca il martirio di san Pietro; progettata fra il 1502 e il 1505, l’opera è compiuta fra il 1506 e il 1510. In parallelo Bramante attende ai grandi cantieri della nuova basilica di San Pietro e del cortile del Belvedere.
Le sue idee grandiose paiono trovare un’eco nelle ambizioni di Giulio II, che ha deciso di demolire l'antica basilica di San Pietro per trasformare il tempio della cristianità nel simbolo della missione universale della chiesa trionfante e nel mausoleo dei pontefici, a cominciare da Pietro e da se stesso.
Ma il primo, arditissimo, progetto del Bramante (1505), che manifesta l’intento di porsi nella linea dell’architettura dell’Umanesimo nel concepire un edificio a pianta centrale di impianto organico e armonico, è scartato dallo stesso Giulio II.
Dell’originario progetto bramantesco rimane traccia nel cosiddetto "Piano di pergamena" e in una medaglia collocata nel primo pilastro della nuova basilica.
Dopo il Bramante, a sovrintendere alla fabbrica di San Pietro si alterneranno Raffaello, Baldassarre Peruzzi e Antonio da Sangallo, sino a Michelangelo che per incarico di Paolo III Farnese corona l’edificio con la celebre cupola (1547 ca.).
Al 1505 risale anche il piano del Belvedere vaticano, spettacolare collegamento scoperto fra l'antico palazzo pontificio e la villa di Innocenzo VIII, che il Bramante vuole attrezzare con giardini, fontane, statue classiche e un teatro all’aperto; parzialmente realizzato, è celebre per il colossale Nicchione della Pigna.